Sull’interpretazione del regolamento condominiale

Cass.  sez. 6 8 aprile 2022, n. 11.502, rel. Scarpa:

<<Un regolamento condominiale può porre limitazioni ai poteri ed alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti comuni, purché tali limitazioni siano enunciate in modo chiaro ed esplicito. E l’interpretazione delle clausole di un regolamento contrattuale contenenti limiti nel godimento delle cose comuni è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale ovvero per l’omesso esame di un fatto storico, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.>>

E quindi (punto importante assai nelle realtà condominiali) <<La Corte d’appello di Torino ha spiegato che il divieto di “ingombrare il cortile comune” contenuto nel regolamento condominiale, art. 15, lett. c), non implica altresì un impedimento al diritto di parcheggio, tenuto altresì conto del comportamento complessivo dei condomini successivo alla redazione del medesimo regolamento, come risultante dalle dichiarazioni rese dai testimoni T. e N..

In tal modo, i giudici del merito, sulla base di apprezzamento di fatto della volontà contrattuale non sindacabile in questa sede, hanno fatto corretto uso dell’art. 1362 c.c., che nel comma 1, pur prescrivendo all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cass. Sez. 2, 22/08/2019, 21576).>>

Infatti <le prescrizioni del regolamento aventi natura solo organizzativa, come quelle che disciplinano le modalità d’uso delle parti comuni, possono essere interpretate, giusta l’art. 1362 c.c., comma 2, altresì alla luce della condotta tenuta dai comproprietari posteriormente alla relativa approvazione ed anche “per facta concludentia”, in virtù di comportamento univoco (arg. da Cass. Sez. 6 – 2, 18/05/2017, n. 12579). Il ricorso va perciò dichiarato inammissibile, senza doversi provvedere sulle spese del giudizio di cassazione, perché gli intimati non hanno svolto attività difensive.>

Sui rapporti tra fondi vicini (distanza verticale tra costruzioni e sopraelevazione ex art. 1127 c.c.)

Cass. 12.202 del 14.04.2022, sez. 2, rel. Carrato, in un caso di caso di costruzione sul lastrico solare da parte del proprietario di questo  ma avversata dal proprietario dell’appartamento sottostante, ricorda che:

– <<la giurisprudenza di questa Corte (v., ad es., Cass. n. 4797/1988 e Cass. n. 5618/1995) ha più volte precisato – e al relativo principio di diritto dovrà uniformarsi il giudice di rinvio – che la disposizione dell’art. 907 c.c., comma 3, secondo cui le nuove costruzioni in appoggio al muro devono rispettare la distanza di tre metri dalla soglia delle vedute preesistenti, deve essere intesa nel senso che tale distanza opera, anche in senso verticale, nei riguardi delle costruzioni sottostanti non solo le finestre ma anche i balconi con riguardo al loro piano di calpestio. Ed infatti, ai fini della disposizione anzidetta, il termine “costruzione” non va inteso in senso restrittivo di manufatto in calce o in mattoni o in conglomerato cementizio, ma in quello di qualsiasi opera che, qualunque ne sia la forma e destinazione, ostacoli l’esercizio di una veduta. Ed è altrettanto pacifico che la distanza di tre metri dalle vedute prescritta dall’art. 907 c.c., per le nuove costruzioni, al pari di ogni altra distanza prescritta dalla legge per disciplinare i rapporti di vicinato, ha carattere assoluto, essendo stata predeterminata dal legislatore in via generale ed astratta, senza che al giudice sia consentito alcun margine di discrezionalità sia nella valutazione della esistenza della violazione della distanza, sia nella valutazione relativa alla dannosità e pericolosità della posizione della nuova costruzione rispetto alla veduta del vicino (cfr., ex plurimis, Cass. n. 15376/2001, Cass. n. 213/2006 e Cass. n. 8691/2017).>>

– << costituisce sopraelevazione, disciplinata dall’art. 1127 c.c., non solo la realizzazione di nuove opere, consistenti in nuovi piani o nuove fabbriche, bensì anche la trasformazione di locali preesistenti mediante l’incremento di volumi e superfici nell’area sovrastante il fabbricato da parte del proprietario dell’ultimo piano.>>. Per cui <<(e a questo ulteriore principio di diritto dovrà uniformarsi il giudice di rinvio), l’indennità di sopraelevazione è dovuta dal proprietario dell’ultimo piano di un edificio condominiale ai sensi dell’art. 1127 c.c., non solo in caso di realizzazione di nuovi piani o nuove fabbriche, ma anche per la trasformazione dei locali preesistenti mediante l’incremento delle superfici e delle volumetrie indipendentemente dall’aumento dell’altezza del fabbricato, traendo tale indennità fondamento dall’aumento proporzionale del diritto di comproprietà sulle parti comuni conseguente all’incremento della porzione di proprietà esclusiva e, in applicazione del principio di proporzionalità, si determina sulla base del maggior valore dell’area occupata ai sensi del citato art. 1127 c.c., comma 4.>>

Vessatorietà della clausola con cui il costruttore venditore si esenta dalle spese condominiali

Interessante il tema indagato da Cass. 21.06.2022 n. 20.007, rel. Scarpa: l’abusività ex art. 33 c. cons. della clausola (frequente nei condomini nuovi) con cui il venditore-costruttore viene esentato dal contribuire alle spese condominiali.

Mi limito a riprodurre il principio di diritto: “la clausola relativa al pagamento delle spese condominiali inserita nel regolamento di condominio predisposto dal costruttore o originario unico proprietario dell’edificio e richiamato nel contratto di vendita della unità immobiliare concluso tra il venditore professionista e il consumatore acquirente, può considerarsi vessatoria, ai sensi del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, art. 33, comma 1, ove sia fatta valere dal consumatore o rilevata d’ufficio dal giudice nell’ambito di un giudizio di cui siano parti i soggetti contraenti del rapporto di consumo e sempre che determini a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, e dunque se incida sulla prestazione traslativa del bene, che si estende alle parti comuni, dovuta dall’alienante, o sull’obbligo di pagamento del prezzo gravante sull’acquirente, restando di regola estraneo al programma negoziale sinallagmatico della compravendita del singolo appartamento l’obbligo del venditore di contribuire alle spese per le parti comuni in proporzione al valore delle restanti unità immobiliari che tuttora gli appartengano

Invalidità della delibera condominiale e riparto delle spese comuni

Cass. sez. un. 9.839 del 14.04.2021, rel. Lombardo Luigi G. ,  sull’oggetto così enuncia i principi di diritto, § 6.5 (erano state sollevate anche altre questioni):

<<– “In tema di condominio negli edifici, sono affette da nullità, deducibile in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse, le deliberazioni dell’assemblea dei condomini che mancano ab origine degli elementi costitutivi essenziali, quelle che hanno un oggetto impossibile in senso materiale o in senso giuridico – dando luogo, in questo secondo caso, ad un “difetto assoluto di attribuzioni” – e quelle che hanno un contenuto illecito, ossia contrario a “norme imperative” o all’ordine pubblico” o al “buon costume”; al di fuori di tali ipotesi, le deliberazioni assembleari adottate in violazione di norme di legge o del regolamento condominiale sono semplicemente annullabili e l’azione di annullamento deve essere esercitata nei modi e nel termine di cui all’art. 1137 c.c.”;

– “In tema di deliberazioni dell’assemblea condominiale, sono nulle le deliberazioni con le quali, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i generali criteri di ripartizione delle spese previsti dalle legge o dalla convenzione, da valere per il futuro, trattandosi di materia che esula dalle attribuzioni dell’assemblea previste dall’art. 1135 c.c., nn. 2) e 3), e che è sottratta al metodo maggioritario; sono, invece, meramente annullabili le deliberazioni aventi ad oggetto la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese relative alla gestione delle parti e dei servizi comuni adottate senza modificare i criteri generali previsti dalla legge o dalla convenzione, ma in violazione degli stessi, trattandosi di deliberazioni assunte nell’esercizio delle dette attribuzioni assembleari, che non sono contrarie a norme imperative, cosicchè la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza previsto dall’art. 1137 c.c., comma 2″>>.

Cappotto termico e qualificazione a fini condominiali della relativa realizzazione

Il c.d. cappotto termico non costiuisce innovazione gravosa o voluttuaria ex art. 1121 cc. Così aveva deciso la corte di appello e così decide ora la SC con sentenza n° 10.371 del 20.04.2021, rel. Scarpa.

<<L’argomentazione dei giudici di merito è conforme all’interpretazione che questa Corte presceglie della norma indicata: si intendono innovazioni voluttuarie, per le quali è consentito al singolo condomino, ai sensi dell’art. 1121 c.c., di sottrarsi alla relativa spesa, quelle nuove opere che incidono sull’entità sostanziale o sulla destinazione della cosa comune che sono tuttavia prive di oggettiva utilità, mentre sono innovazioni gravose quelle caratterizzate da una notevole onerosità rispetto alle particolari condizioni e all’importanza dell’edificio, e ciò sulla base di un accertamento di fatto devoluto al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua (Cass. Sez. 2, 18/01/1984, n. 428; Cass. Sez. 2, 23/04/1981, n. 2408). In particolare, le innovazioni voluttuarie, consentite dal primo comma e vietate dal secondo comma dell’art. 1121 c.c., a seconda che consistano, o meno, in opere suscettibili di utilizzazione separata, sono quelle che, per la loro natura, estensione e modalità di realizzazione, esorbitino apprezzabilmente dai limiti della conservazione, del ripristino o del miglior godimento della cosa comune, per entrare nel campo del mero abbellimento e/o del superfluo (Cass. Sez. 2, 08/06/1995, n. 6496).>

Il “cappotto termico” da realizzare sulle facciate dell’edificio condominiale, al fine di migliorarne l’efficienza energetica, <<non è opera destinata all’utilità o al servizio esclusivo dei condomini titolari di unità immobiliare site nella parte non interrata del fabbricato, come sostengono i ricorrenti (proprietari di locali interrati serviti da autonomo ingresso). Le opere, gli impianti o manufatti che, come il “cappotto” sovrapposto sui muri esterni dell’edificio, sono finalizzati alla coibentazione del fabbricato in funzione di protezione dagli agenti termici, vanno ricompresi tra quelli destinati al vantaggio comune e goduti dall’intera collettività condominiale (art. 1117, n. 3, c.c.), inclusi i proprietari dei locali terranei, e non sono perciò riconducibili fra quelle parti suscettibili di destinazione al servizio dei condomini in misura diversa, ovvero al godimento di alcuni condomini e non di altri, di cui all’art. 1123, commi 2 e 3, c.c. Ne consegue che, ove la realizzazione del cappotto termico sia deliberata dall’assemblea, trova applicazione l’art. 1123, comma 1, c.c., per il quale le spese sono sostenute da tutti i condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno (arg. da Cass. Sez. 2, 25/09/2018, n. 22720; Cass. Sez. 2, 15/02/2008, n. 3854; Cass. Sez. 2, 04/05/1999, n. 4403; Cass. Sez. 2, 17/03/1999, n. 2395; Cass. Sez. 2, 23/12/1992, n. 13655).>>

Spese condominiali e loro riparto tra venditore ed acquirente

Messa a punto sull’oggetto da parte di Cass. 11.199 del 28.04.2021, rel. Scarpa:

<<alla stregua dell’art. 63, comma 2, disp. att. c.c. (nella formulazione antecedente alla modificazione operata dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220), chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo, al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente. Come già ricordato, occorre a tal fine distinguere tra spese necessarie alla manutenzione ordinaria, alla conservazione, al godimento delle parti comuni dell’edificio o alla prestazione di servizi nell’interesse comune, ovvero ad impedire o riparare un deterioramento, e spese attinenti a lavori che consistano in un’innovazione o che comunque comportino, per la loro particolarità e consistenza, un onere rilevante, superiore a quello inerente alla manutenzione ordinaria dell’edificio e cagionate da un evento non evitabile con quest’ultima. Nella prima ipotesi, l’obbligazione si ritiene sorta non appena si compia l’intervento ritenuto necessario dall’amministratore, e quindi in coincidenza con il compimento effettivo dell’attività gestionale. Nel caso, invece, delle opere di manutenzione straordinaria e delle innovazioni, la deliberazione dell’assemblea, chiamata a determinare quantità, qualità e costi dell’intervento, assume valore costitutivo della relativa obbligazione in capo a ciascun condomino. Da ciò si fa derivare che, verificandosi l’alienazione di una porzione esclusiva posta nel condominio in seguito all’adozione di una delibera assembleare, antecedente alla stipula dell’atto traslativo, volta all’esecuzione di lavori consistenti in innovazioni, straordinaria manutenzione o ristrutturazione, ove non sia diversamente convenuto nei rapporti interni tra venditore e compratore, i relativi costi devono essere sopportati dal primo, anche se poi i lavori siano stati, in tutto o in parte, effettuati in epoca successiva, con conseguente diritto dell’acquirente a rivalersi nei confronti del proprio dante causa, per quanto pagato al condominio in forza del principio di solidarietà passiva ex art. 63 disp. att. c.c. Dunque, tale momento di insorgenza dell’obbligo di contribuzione condominiale rileva anche per imputare l’obbligo di partecipazione alla spesa nei rapporti interni tra venditore e compratore, ma sempre che gli stessi (come qui si assume avvenuto dalla ricorrente) non si fossero diversamente accordati, rimanendo, peraltro, inopponibili al condominio i patti eventualmente intercorsi tra costoro>>.

Sulla legittimazione passiva dell’amministratore condominiale

La domanda di risarcimento danni provnienti da negligente manutenzione delle cose comuini può essere rivolta verso l’amminstratore solamente? cioè costui ha legittimazione passiva (e dunque può eventualmente anche proporre impugnazione)?

La risposta è positiva per Cass. 29.01.2021 n. 2127, Finrami srl c. Cond. Monti Maggiò, est. Scarpa, visto che l’art. 1130 n. 4 gli attribuisce il compito di conservare le parti comuni .

<<Corretta è la statuizione della Corte d’appello secondo cui sussiste la legittimazione passiva dell’amministratore (e quindi anche quella a proporre impugnazione avverso la sentenza che abbia visto soccombente il condominio), senza necessità di autorizzazione dell’assemblea a costituirsi nel giudizio, rispetto alla controversia relativa alla domanda di risarcimento dei danni che siano derivati al singolo condomino o a terzi per difetto di manutenzione di un bene condominiale, essendo l’amministratore comunque tenuto a provvedere alla conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio ai sensi dell’art. 1130 c.c., n. 4>>.

Il Collegio intende, invero, dare seguito all’orientamento interpretativo secondo cui <<il potere – dovere di “compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio”, attribuito all’amministratore di condominio dall’art. 1130, n. 4, c.c., implica in capo allo stesso la correlata autonoma legittimazione processuale attiva e passiva, ex art. 1131 c.p.c., in ordine alle controversie in materia di risarcimento dei danni, qualora l’istanza appaia connessa o conseguenziale, appunto, alla conservazione delle cose comuni (Cass. Sez. 2, 22/10/1998, n. 10474; Cass. Sez. 2, 18/06/1996, n. 5613; Cass. Sez. 2, 23/03/1995, n. 3366; Cass. Sez. 2, 22/04/1974, n. 1154; cfr. anche Cass. Sez. 2, 15/07/2002, n. 10233; Cass. Sez. 3, 21/02/2006, n. 3676; Cass. Sez. 2, 21/12/2006, n. 27447; Cass. Sez. 3, 25/08/2014, n. 18168; Cass. Sez. U, 10/05/2016, n. 9449).>>.

Nulla da osservare: affermazione logica e persuasiva.

Di conseguenza la clausola difforme del regolamento condominiale, prosegue la SC, è inefficace.

Anche qui nulla da obiettare, se non che la SC poteva specificare il tipo di inefficacia: quella data dalla nullità per violazione di norma imperativa.