Solidarietà per obblighi previdenziali del Condominio rispetto al lavori di pulzia delle parti comuni? La SC rimedia a incertezze e precedenti errati

Cass. 19514 sez. lavoro del 10.07.2023, rel. Calafiore circa l’art. 29.2 del d. lgs. 273/2003 (<<  In caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro e’ obbligato in solido con l’appaltatore, nonche’ con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonche’ i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento.  Il committente che ha eseguito il pagamento e’ tenuto, ove previsto, ad assolvere gli obblighi del sostituto d’imposta ai sensi delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e puo’ esercitare l’azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali>>.) ;

<<nel caso di specie, la Corte d’appello ha rilevato che il Condominio committente e odierno ricorrente, seppure non impresa, fosse da ritenere “datore di lavoro” perché, in modo incontestato, le lavoratrici interessate dall’omissione contributiva ivi prestavano l’attività di pulizia oggetto d’appalto e lo stesso Condominio non aveva negato la “qualifica di datore di lavoro”;

tale affermazione non può essere condivisa, nonostante in tal senso si sia espressa, incidentalmente nell’ambito di un giudizio relativo agli obblighi dei contraenti in appalto conferito da un condominio ad una impresa di pulizie, anche la Seconda Sezione di questa Corte di cassazione con l’ordinanza n. 4079 del 2022;

il “datore di lavoro” che, in alternativa all’imprenditore, è responsabile solidale ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, non può identificarsi puramente e semplicemente con lo stesso committente presso cui l’attività oggetto dell’appalto viene eseguita; infatti, se così fosse sarebbe stato sufficiente prevedere l’obbligo di solidarietà riferendosi semplicemente al “committente” dell’appalto;

e’ evidente che il datore di lavoro diretto dei dipendenti per i quali si è verificato l’inadempimento contributivo, è l’appaltatore e non il committente e la garanzia della solidarietà aggiunge un debitore a quello principale; la disposizione in esame individua tale debitore solidale nel committente che svolge attività imprenditoriale o nel committente datore di lavoro, con ciò selezionando tali figure all’interno della intera categoria dei possibili committenti di appalti di opere o di servizi;

peraltro, ai sensi del comma 3 ter, sfugge al vincolo solidaristico imposto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, il committente persona fisica che non esercita attività di impresa o professionale;

dunque, è certamente attratto nell’orbita della solidarietà il committente che assume la veste di imprenditore, ai sensi dell’art. 2082 c.c., intesa in senso oggettivo, come attività economica organizzata atta a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi (Cass. n. 16612 del 19/06/2008);

ma lo e’, allo stesso modo, il committente che pur non essendo “imprenditore” è “datore di lavoro”, e cioè il committente che anche attraverso le prestazioni di lavoro rese dai dipendenti dell’appaltatore realizza l’oggetto della propria attività istituzionale, prendendo parte a quel processo di decentramento produttivo del servizio che costituisce il fenomeno economico a cui la norma si riferisce; come avviene, ad esempio, nell’ipotesi delle associazioni, degli enti no profit, etc.; in questi casi, infatti, si realizzano quelle ipotesi di commistione tra le figure del datore di lavoro (appaltatore) ed il committente, fruitore della prestazione lavorativa (potenziale datore di lavoro cd. indiretto) nei cui confronti il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29 ha inteso rafforzare le tutele dei lavoratori;

come è noto, (Cass. n. 2169 del 2022; Corte Cost. n. 254 del 2017) la ratio dell’introduzione della responsabilità solidale del committente è quella di evitare il rischio che i meccanismi di decentramento, e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione, vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell’esecuzione del contratto commerciale;

la solidarietà mira a disciplinare la responsabilità in tutte le ipotesi di dissociazione fra la titolarità del contratto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione, assicurando in tal modo tutela omogenea a tutti quelli che svolgono attività lavorativa indiretta, qualunque sia il livello di decentramento (Cass. n. 25172 del 2019);

il limite soggettivo positivo a tale estensione è dato dalla qualità di imprenditore o di datore di lavoro del committente, mentre quello negativo è integrato dalla esplicita esclusione, per effetto del comma 3 bis, dall’attrazione dell’orbita della solidarietà delle persone fisiche che non esercitano attività d’impresa o professionale;

e’ così esclusa dalla solidarietà tanto la persona fisica che appalta i lavori di ristrutturazione di un proprio immobile, quanto il condominio di immobili;

il condominio, infatti, non svolge attività d’impresa, non partecipa per propri scopi istituzionali al decentramento produttivo e non assume, soprattutto ai fini lavoristici, un rilievo giuridico diverso da quello dei singoli condomini (cfr. Cass., 11 gennaio 2012, n. 177; vd. Cass. SS.UU. n. 10934 del 2019) posto che si tratta di un ente di gestione dei beni comuni;>>

Insegnamento esatto anche se scontato alla luce del tenore della disposizione, sopra rirporta

E’ divisibile l’immobile abusivo se è stata presentata domanda di sanatoria e sono state pagare le rate? Si

Così per Cass.  sez. 2 n° 9255 del 04.04.2023, rel. Tedesco.

<<La Corte d’appello motivava il diniego a causa del carattere abusivo dell’immobile, non superata dalla presentazione della istanza di condono, in assenza del provvedimento di concessione in sanatoria. (…)

In questo senso la Corte non ha tenuto conto che domanda di condono corredata della prova dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione costituisce documentazione alternativa rispetto alla concessione in sanatoria (Cass. n. 20258/2009), tale da comportare il venir meno dell’impedimento giuridico alla divisione (Cass. S.U., n. 25021/2019). L’ulteriore rilievo che si legge nella sentenza impugnata, desunto dalla relazione del consulente tecnico, che il Comune aveva richiesto documentazione integrativa che non era stata presentata, di per sé, non fornisce argomento per negare le implicazioni derivanti, sotto il profilo della commerciabilità del bene, dalla esistenza della domanda di condono e dal pagamento delle due rate. È circostanza pacifica nella causa che la quota indivisa dell’immobile, ritenuto non divisibile dalla Corte territoriale, era stata oggetto di atto notarile inter vivos>>.

Questo invece il passaggio nella sentenza di appello censurato dalla SC:

<<Invero, ritiene la Corte di condividere il principio espresso dalla Suprema Corte secondo cui, “quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46 e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex art. 713 c. c., sotto il profilo della ”possibilità giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale. La mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell’edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.» (Cass.Sez.Unite 7 ottobre 2019 n.25021).
Nel caso di specie è lo stesso appellante che da atto della mancanza di regolarità, avendo evidenziato di aver presentato domanda di sanatoria, non potendo, tuttavia, detta circostanza assumere rilievo dirimente, per come correttamente affermato dal Giudice di prime cure, in assenza del provvedimento di rilascio della concessione in sanatoria>>.

E’ ammissibile locare la quota ideale di una comunione? Si, come si desume dall’art. 1103 c.c.

Così Cass. sez. III n° 6338 del 02 marzo 2023, rel. Condello:

<<Con specifico riferimento al contratto del 25 febbraio 2009, e’, inoltre, incontestato in fatto che L.S.G., assumendo di essere proprietario pro indiviso dei fondi per cui è controversia, ha concesso in affitto all’odierno controricorrente soltanto la propria quota ideale, pari a 138/744 indivisi, come è consentito dall’art. 1103 c.c., che ammette la locazione della quota di bene comune.

Invero, anche se la giurisprudenza di legittimità in un suo risalente precedente ha espresso un iniziale giudizio di inammissibilità della locazione della quota (Cass., 11/03/1942 n. 652), l’orientamento prevalente è senz’altro orientato per l’ammissibilità della locazione di quota (Cass. 13/02/1951 n. 350; Cass. 29/05/1954 n. 1768; Cass. 09/05/1961, n. 1077; Cass. 22/05/1982, n. 3143; Cass., sez. 3, 20/07/1991, n. 8110; Cass., sez. 3, 28/09/2000, n. 12870). E’ stato chiarito (Cass., sez. 3, 05/01/2005, n. 165) che, quando il potere di disposizione sulla cosa appartiene a più soggetti nella forma della comunione in senso specifico ex art. 1100 c.c., tutti possono, rinunciando al godimento diretto, concederla in locazione a terzi ed anche a taluno soltanto dei contitolari; allo stesso modo, il comproprietario può concedere in locazione la cosa comune anche nei limiti della propria quota ideale. Con la precisazione che l’art. 1105 c.c., secondo il quale tutti i partecipanti alla comunione hanno diritto di concorrere all’amministrazione della cosa comune, non limita l’autonomo potere di disposizione di ciascun partecipante alla comunione sulla sua quota ideale della cosa comune (art. 1103 c.c.), per cui gli atti dispositivi della quota medesima e la amministrazione di essa riguardano solo il singolo titolare.

Il giudice di merito ha, quindi, fatto buon governo delle suddette disposizioni di legge, laddove ha affermato che il contratto di affitto del 25 febbraio 2009 legittima L.S.G. a detenere il fondo nei limiti della quota ideale ad esso concessa in godimento.

E’ ben vero, come si sostiene in ricorso, che il contratto di affitto ha legittimato l’odierno controricorrente alla sola detenzione della quota di proprietà del concedente, ma non anche alla detenzione della quota di proprietà delle ricorrenti, nel cui compossesso queste sono state reimmesse, secondo la ricostruzione della vicenda fattuale operata dalla Corte d’appello, dall’ufficiale giudiziario in data 20 aprile 2009.     Va, tuttavia, considerato che le parti ricorrenti, con l’atto introduttivo del giudizio, hanno chiesto il risarcimento del danno da ritardata restituzione dei fondi, sul rilievo che l’affittuario si fosse reso inadempiente all’obbligo di rilascio derivante dal contratto di affitto, cosicché, invocando l’art. 1102 c.c., che regola i rapporti tra condomini ed i limiti all’uso della cosa comune, ed adducendo che l’attività di allevamento svolta dal L. impegna l’intero fondo, precludendo alle stesse qualsiasi utilizzo del bene, introducono questioni fondate su un diverso titolo, come tali inammissibili>>.

La prova del diritto di comproprietà nel giudizio divisionale è attenuato rispetto ad una domanda di rivendica

Per cui non è applicabile l’art. 567 c. 2 CPC e quindi non è necessaria la produzione documentale ivi menzionata.

così Cass. sez. 6 del 2 marzo 2023 n. 6228 rel. Tedesco.

Riporto due passaggi:

<<a) In primo luogo, la Suprema Corte (Cass. n. 10067-2020, ampiamente richiamata in ricorso e precedente alla sentenza impugnata), pur condividendo l’esigenza che, nel giudizio di divisione ereditaria, occorra offrire la dimostrazione dell’appartenenza dei beni al de cuius o più genericamente la prova della comproprietà (cfr. Cass. n. 1965-2022), ha precisato, sulla scorta di risalenti principi, che, pure in presenza di contestazioni dei coeredi, non grava a carico dell’attore l’onere di quella prova rigorosa richiesta nel caso di azione di rivendicazione o di quella di mero accertamento positivo della proprietà, “poiché non si tratta di accertare positivamente la proprietà dell’attore negando quella dei convenuti, ma di fare accertare un diritto comune a tutte le parti in causa, quali coeredi” (Cass. n. 1309-1966)>>

E quello sul rapporto tra l’art. 1113 cc e la trascrizione ex art. 2646 cc:

<<In sesto luogo, la Suprema Corte ha anche approfondito il rapporto fra l’art. 1113 e l’art. l’art. 2646 c.c., che preveda la trascrizione della divisione che ha per oggetto beni immobili, precisando innanzitutto che non è applicabile alla divisione il principio prior in tempore nella sua funzione tipica quale emerge dagli artt. 2644 e 2914, n. 1, c.c. Correlativamente la trascrizione della domanda di divisione va curata non per gli effetti previsti dagli artt. 2652 e 2653 c.c., ma per gli effetti enunciati nell’art. 1113 c.c., norma che in verità disciplina non solo gli effetti della trascrizione della domanda di divisione, ma anche quelli della trascrizione della stessa divisione (Cass. n. 26692/2020). Pertanto, colui che trascrive o iscrive contro uno dei comproprietari, prima della trascrizione della divisione (o della domanda di divisione giudiziale), non rafforza definitivamente il proprio acquisto secondo lo schema dell’art. 2644 c.c., ma, nel concorso delle condizioni previste dall’art. 1113 c.c., acquisisce il diritto di impugnare la divisione già eseguita alla quale non sia stato chiamato a partecipare, o di disconoscerne immediatamente l’efficacia, se l’omissione è incorsa in danno dei soggetti indicati nel comma 3 della norma. E’ stato opportunamente precisato che l’impugnativa è data a chi abbia interesse a una nuova divisione e abbia avuto un danno dalla vecchia.

L’inefficacia, perciò, non potrebbe essere fatta valere da chi non ha avuto pregiudizio dall’atto (in questo senso, con riferimento a un profilo specifico riguardante il processo esecutivo, Cass. 10653/2014).

E’ stato anche chiarito che la preventiva trascrizione della domanda giudiziale non mette fuori causa le conseguenze della retroattività dell’acquisto destinato a realizzarsi con la divisione con riferimento ai diritti reali, di godimento o di garanzia, costituiti dal comunista sulla propria quota: in forza della retroattività, questi diritti colpiscono di massima soltanto la cosa di cui egli risulti con la divisione proprietario. La regola è espressamente ribadita nel comma 1 dell’art. 2825 c.c. per l’ipoteca presa contro il singolo comproprietario, che produce effetto rispetto ai beni o a quella porzione di beni che a lui verranno assegnati nella divisione. Pertanto, l’ipoteca iscritta contro un solo condomino, seppure operata dopo la trascrizione della domanda di divisione, è ancora ipoteca su beni comuni. Si trasferirà perciò sul diverso bene assegnato o sui conguagli, solo che non beneficia dell’onere di chiamata (Cass. n. 19550/ 2009; n. 1270/1967).

g) Ancora sul tema della trascrizione, è stato chiarito che vale anche nella divisione giudiziale la regola generale che l’obbligo della trascrizione di determinate domande giudiziali è posto a salvaguardia degli eventuali diritti dei terzi ed il suo mancato adempimento non è di ostacolo alla procedibilità delle relative azioni né alla decisione delle domande stesse, potendo soltanto dar luogo a sanzioni di carattere fiscale se ed in quanto applicabili (Cass. n. 1787/1976). Naturalmente, secondo le regole generali, il difetto di trascrizione della domanda giudiziale non impedisce la successiva trascrizione del provvedimento definitivo (sentenza o ordinanza) con il quale è attuato il riparto. Peraltro, non operando la prenotazione, gli effetti divisori non saranno opponibili ai creditori e aventi causa che avranno iscritto o trascritto l’acquisto anche dopo l’inizio del giudizio e fino alla trascrizione del provvedimento giudiziale. Costoro si troveranno nella stessa posizione di coloro che avevano acquistato e trascritto prima che la divisione giudiziale avesse inizio (art. ex art. 1113, comma 3, c.c.) (Cass. n. 10067/2020).

Si ritiene comunemente che la trascrizione della divisione, oltre che per gli effetti previsti dall’art. 1113 c.c., sia poi richiesta ai fini della continuità di cui all’art. 2650 c.c. (Cass. n. 2800/1985; Cass. n. 821/2000, che richiama il medesimo principio per la trascrizione della domanda giudiziale di divisione)>>

Prova della comproprietà nel giudizio di divisione ereditaria

Cass. ord. sezione sesta-2 del 2 marzo 2023 n. 6228, rel.  Tedesco, dà utili precisazioni circa la prova della titolarità (e altre questioni) nel giudizio di divisione dicomunione ereditaria, di significativa importanza per l’operatore.

Questa la massima tratta da www.ilcaso.it : <<Nei giudizi di scioglimento della comunione, la prova della comproprietà dei beni dividendi non è quella rigorosa richiesta in caso di azione di rivendicazione o di accertamento positivo della proprietà, atteso che la divisione, oltre a non operare alcun trasferimento di diritti dall’uno all’altro condividente, è volta a far accertare un diritto comune a tutte le parti in causa e non la proprietà dell’attore con negazione di quella dei convenuti, sicché, in caso di non contestazione sull’appartenenza dei beni, non può disconoscersi la possibilità di una prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico, siccome ridondanti a vantaggio della collettività dei condividenti>>.

Questi i passi per esteso:

<a) In primo luogo, la Suprema Corte (Cass. n. 10067/2020, ampiamente richiamata in ricorso e precedente alla sentenza impugnata), pur condividendo l’esigenza che, nel giudizio di divisione ereditaria, occorra offrire la dimostrazione dell’appartenenza dei beni al de cuius o più genericamente la prova della comproprietà (cfr. Cass. n. 1965/2022), ha precisato, sulla scorta di risalenti principi, che, pure in presenza di contestazioni dei coeredi, non grava a carico dell’attore l’onere di quella prova rigorosa richiesta nel caso di azione di rivendicazione o di quella di mero accertamento positivo della proprietà, “poiché non si tratta di accertare positivamente la proprietà dell’attore negando quella dei convenuti, ma di fare accertare un diritto comune a tutte le parti in causa, quali coeredi” (Cass. n. 1309/1966). Con la divisione, infatti, si opera la trasformazione dell’oggetto del diritto di ciascuno, da diritto sulla quota ideale a diritto su un bene determinato, senza che intervenga fra i condividenti alcun atto di cessione o di alienazione (Cass. n. 20645/2005). La divisione, in considerazione della sua efficacia retroattiva sancita dagli artt. 757 e 1116 c.c., non opera alcun trasferimento di diritti dall’uno all’altro dei condividenti (Cass. n. 17061/2011), ma lascia ciascuno di essi aventi causa dal de cuius (o più in generale, con riferimento a qualsiasi comunione, dal dante causa dei partecipanti alla comunione medesima). Si spiega con tale natura dell’atto divisionale la regola che divisione non integra titolo astrattamente idoneo all’acquisto della proprietà per gli effetti previsti dall’art. 1159 c.c. (Cass. n. 1976/1983). Inoltre, è principio consolidato nella giurisprudenza della Corte quello secondo cui, ai fini della prova della proprietà nel giudizio di rivendicazione non può essere sufficiente un atto di divisione, che, per il suo carattere dichiarativo e non costitutivo di diritti, non ha di per sé solo forza probante nei confronti dei terzi del diritto di proprietà attribuito ai condividenti, occorrendo dimostrare il titolo di acquisto della comunione, in base al quale il bene e stato attribuito in sede di divisione» (Cass. n. 1930/1966; n. 1511/1979; n. 3724/1987). Si ha cura di precisare che il principio opera quando l’atto è fatto valere fuori dalla cerchia dei condividenti o loro aventi causa, mentre non può essere applicato nella controversia sulla proprietà tra i condividenti o i loro aventi causa, perché la divisione, la divisione, accertando i diritti delle parti sul presupposto di una comunione dei beni divisi, presuppone l’appartenenza dei beni alla comunione (Cass. n. 4828/1994).
b) In secondo luogo, la Suprema Corte ha chiarito che non si può escludere a priori la rilevanza della non contestazione e, a fortiori, dell’esplicito o implicito riconoscimento dell’appartenenza dei beni ai coeredi (Cass. n. 40041/2021). Con questo, naturalmente, non si intende sostenere che la divisione immobiliare possa farsi “sulla parola”, ma più limitatamente che, in una situazione nella quale la comune proprietà dei beni dividendi, nel significato sopra chiarito, sia incontroversa, non si potrebbe disconoscere la possibilità della prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico (cfr. Cass. n. 21716/2020), tenuto conto, appunto, che non si fornisce la prova di un fatto costitutivo di una domanda che vede le parti in contrapposizione fra loro (Cass. n. 1065/2022). La domanda di divisione, infatti, anche quando sia proposta da uno solo, è sempre comune a tutti i condividenti (Cass. n. 6105/1987; n. 15504/2018), i quali sono tutti sul medesimo piano ed hanno tutti eguale diritto alla divisione (Cass.n.4353/1980). Pertanto, le verifiche condotte dall’ausiliario d’ufficio ridondano a vantaggio della collettività dei condividenti, così come andrebbe a svantaggio di tutti una acquisizione postuma, anche se operata d’ufficio dal consulente, dal quale emergesse che la proprietà comune, non contestata o desunta a livello indiziario, non trova conferma sul piano documentale (Cass. n. 40041/2021)>>.

Errato e probab. non pertinente è però il riferimento alla non traslatività della divisione, la quale va invece ritenuta esistente (irrilevante è l’appoggio alla retroattività disposta di imperio, mera fictio iuris).

Chi paga le spese condominiali per un appartamento di proprietà di un trust? Il trustee , dice la Cassazione

Cass.  n° 3.190 del 02.02.2023, sez. 2, rel. Scarpa:

<<l’unità immobiliare compresa nel Condominio di , alla quale si riferiscono i contributi oggetto del decreto ingiuntivo per cui è causa, è stata conferita in un “trust” traslativo, denominato “GP Trust”, sicché la “trustee” … s.r.l. è divenuta titolare della proprietà della stessa ed è tenuta, in quanto tale, a sostenerne le spese, non assumendo rilevanza, a tali fini, i limiti ai relativi poteri e doveri imposti dal disponente nell’atto istitutivo e l’effetto segregativo proprio dell’istituto, in vista del successivo ed eventuale trasferimento della titolarità dei beni vincolati ai soggetti beneficiari. Pur conferendo l’operazione al “trustee” una proprietà limitata nell’esercizio alla realizzazione del programma stabilito dal disponente nell’atto istitutivo a vantaggio del o dei beneficiari, i tre centri di imputazione della vicenda sono il disponente, il “trustee” e il beneficiario, mentre il “trust” non rileva quale soggetto giuridico dotato di una distinta individualità. A ciò consegue altresì che il “trustee” è il titolare dei diritti conferiti nel patrimonio vincolato ed è l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, operando non quale rappresentante del “trust” o del beneficiario, ma quale titolare della legittimazione dispositiva del diritto (ex multis, Cass. 26 maggio 2020, n. 9648; Cass. 20 giugno 2019, n. 16550; Cass. 30 maggio 2018, n. 13626; Cass. 19 maggio 2017, n. 12718; Cass. 27 gennaio 2017, n. 2043).
Questa interpretazione trae fondamento dall’art. 2 della Convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, adottata a L’Aja il 1° luglio 1985 e ratificata dalla legge 16 ottobre 1989, n. 364, secondo la quale “per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico. Il trust presenta le seguenti caratteristiche: a) i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee; b) i beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee; c) il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge (…)”.
Del tutto diversa dal trust, e dunque estranea alla fattispecie per cui è causa, per come in fatto ricostruita dai giudici del merito, è la disciplina posta dalla legge 23 novembre 1939, n. 1966, la quale riguarda la mera amministrazione di beni per conto di terzi, conferita a società fiduciarie mediante mandato, salva rimanendo la proprietà effettiva di questi in capo ai mandanti (cfr. Cass. Sez. Unite 27 aprile 2022, n. 13143)>>.

Il legame tra uomo e cane arriva in Cassazione

Interessanti questioni esaminate da Cass. sez. 3 del 24.03.2023 n. 8459, rel. Oliva.

Domanda originaria: <<Con atto di citazione ritualmente notificato F.C. evocava in giudizio B.A. innanzi il Tribunale di Padova, chiedendo che venisse accertata la sua qualità di comproprietaria di un cane, acquistato nel corso della precedente relazione affettiva stabile intercorsa tra le parti, nonché lo scioglimento della relativa comunione con affidamento dell’animale e risarcimento dei danni, emotivi e patrimoniali>>.

Diritto di comproprietà escluso dal giudice del marito, come confermato dalla SC

Negato pure il dirito di visita all’animale per assenza/insufficienza del rapporto di affezione: <<Con il secondo e terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione della L. n. 76 del 2016 e dell’art. 132, comma 2, c.p.c. per aver la Corte omesso di valutare, senza motivare sul punto, la sussistenza di un rapporto tra le parti qualificabile come coppia di fatto e, di conseguenza, per aver escluso l’esistenza di un legame affettivo stabile con l’animale.

Entrambi i motivi, suscettibili di trattazione congiunta, sono inammissibili.

Le censure, infatti, non si confrontano con la motivazione della sentenza, la quale -oltre ad aver effettivamente considerato la possibile sussistenza di una famiglia di fatto tra le parti, escludendola sulla base della carenza del minimo requisito della convivenza e della brevità della relazione- ha negato il diritto di visita della ricorrente sulla base non della insussistenza della coppia di fatto, bensì per la carenza di prova dell’instaurazione di un rapporto significativo tra la ricorrente e il cane, vista la breve relazione sentimentale che l’aveva legata al suo padrone (cfr. pagg. 21-22 della sentenza: “La coppia B.- F. non costituiva famiglia nemmeno di fatto, né era definibile quale nucleo familiare in cui l’animale si trovava inserito. Si trattava di una relazione sentimentale molto breve che non aveva condotto le parti nemmeno alla convivenza. (…) Al di là della circostanza pacifica che la frequentazione della sig.ra F. con il cane, nell’ambito della sua relazione sentimentale con il sig. B., si sia limitata a circa 4 mesi, l’appellata non ha provato che, nonostante il breve periodo, si sia instaurato con l’animale un rapporto tale da far presumere che le possa essere riconosciuto un diritto di visita nei confronti dell’animale”)>>.

Quindi, anche in assenza di famiglia di fatto, il rapporto di affezione con il cane, se significativo, fa nascere un diritto di visitarlo. Su che base normativa? “Ogni altro fatto idoneo a produrle” ex art. 1173 cc?

Ma solo con un cane o pure con altri animali? E con cose?

Irrilevante il conflitto di interessi nelle delibere condominali (e poi: precisiazioni sul concetto di “innovazione” ex art. 1120 cc)

Circa il conflitto di interessi , Cass. sez 2 n° 5642 del 23.02.2023, rel. Giannaccari, dice:

<3.12.Tutto ciò si riflette, anzitutto, sul conflitto di interessi, posto che per il sorgere del conflitto tra il condominio ed il singolo condomino è necessario che questi sia portatore, allo stesso tempo, di un duplice interesse: uno come condomino ed uno come estraneo al condominio e che i due interessi non possano soddisfarsi contemporaneamente, ma che il soddisfacimento dell’uno comporti il sacrificio dell’altro.

3.13.Inoltre, nel condominio degli edifici, il quorum deliberativo – come quello costitutivo – è determinato con riferimento sia all’elemento personale (i condomini partecipanti all’assemblea), sia all’elemento reale (il valore di ciascun piano o porzione di piano rispetto all’intero edificio, espresso in millesimi).

3.14.Da nessuna norma si prevede che, ai fini della costituzione dell’assemblea o delle deliberazioni, non si tenga conto di alcuni dei partecipanti al condominio e dei relativi millesimi.

3.15.In materia di società di capitali, oltre l’ipotesi disciplinata dall’art. 2373 cit., si prevedono altri casi nei quali il socio non può esercitare il diritto di voto (art. 2344 comma 4 c.c.); peraltro, si prevedono anche casi in cui le azioni, per le quali il diritto di voto è sospeso, sono computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea (art. 2357 ter comma 2 c.c.).

3.16. Per contro, in tema di condominio negli edifici – posto che, in caso di conflitto di interessi, al condomino sia vietato esercitare il diritto di voto – non si contempla nessuna ipotesi nelle quali, ai fini dei quorum costitutivo e deliberativo, non si debba tener conto di tutti i partecipanti e di tutte le quote e nelle quali le maggioranze possano modificarsi in meno.

3.17.Al contrario, avuto riguardo alla funzione strumentale del principio maggioritario, in ragione della tutela dei diritti dei singoli sulle parti comuni e della garanzia del godimento delle unità immobiliari in proprietà solitaria, non sembra corretto applicare i principi elaborato in tema di società di capitali.

3.18.Ne consegue che, alla stregua dei principi sopra enunciati, non è corretta l’affermazione della Corte di merito secondo cui il voto della delegata T. non andava computato, per essere stato espresso in una situazione di conflitto di interessi, né, conseguentemente, che fosse necessaria la prova di resistenza della delibera senza il calcolo di quel voto>.

Sul cocnetto di  innovazione:

<<2.2.In tema di condominio di edifici costituisce innovazione ai sensi dell’art. 1120 c.c. non qualsiasi modificazione della cosa comune, ma solamente quella che alteri l’entità’ materiale del bene operandone la trasformazione ovvero determini la trasformazione della sua destinazione, nel senso che detto bene presenti, a seguito delle opere eseguite, una diversa consistenza materiale ovvero sia utilizzato per fini diversi da quelli precedenti l’esecuzione delle opere (Cass. Civ., Sez. II, Sez. 2 -, 04/09/2017, n. 20712; Cass. Civ., Sez. II, 29.8.1998, n. 8622)

2.3.Le modificazioni che invece mirano a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune o ne lasciano immutate la consistenza e la destinazione non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto.

2.4.Secondo l’accertamento della corte di merito, non costituiva innovazione la sostituzione delle gronde consdominiali in cemento, demolite e sostituite con gronde in lamiera a sbalzo di identica dimensione ed il rifacimento del muro di confine>.

Sottosuolo condominiale presunto comune e potere/dovere dell’amministatore di compiere gli atti conservativi ex art. 1130 n. 4 cc

Sulle due questioni v. Cass . ord. 2.786 del 31.01.2023, rel. Trapuzzano.

sub 1 (potere/dovere dell’amministatore di compiere gli atti conservativi ex art. 1130 n. 4 cc) , tali atti non sono solo quelli urgenti. Punto importante.

<<E tanto perché ricadono nell’ambito degli atti conservativi che l’amministratore può compiere, ai sensi dell’art. 1130, n. 4, c.c., senza la previa delibera autorizzativa dell’assemblea (o la successiva ratifica), eventualmente attraverso la promozione di azioni processuali per la tutela delle parti comuni dell’edificio, anche le iniziative non connotate dal requisito dell’urgenza, purché volte a salvaguardare l’integrità di un bene comune.

Sussiste, infatti, la legitimatio ad causam e ad processum dell’amministratore del condominio, senza bisogno di alcuna autorizzazione, allorquando egli agisca a tutela di beni condominiali, giacché i poteri promanano direttamente dalla legge e precisamente dall’art. 1130, n. 4, c.c., che pone addirittura come dovere proprio del suo ufficio quello di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, potere-dovere da intendersi non limitato agli atti cautelativi ed urgenti, ma esteso a tutti gli atti miranti a mantenere l’esistenza e la pienezza o integrità di detti diritti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5772 del 23/03/2004; Sez. 2, Sentenza n. 6494 del 06/11/1986).

Siffatta conclusione è avvalorata dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte in ordine alla portata degli “atti conservativi” che il chiamato all’eredità può compiere prima di accettare, ai sensi dell’art. 460, comma 2, c.c.: essi si distinguono dalle azioni possessorie che possono essere intraprese ai sensi del comma 1 di tale disposizione e consistono in atti di gestione dei beni indirizzati ad assicurare il mantenimento dello stato di fatto quale esistente.

La natura conservativa dell’atto non e’, dunque, connotata dall’aspetto strumentale inerente all’indifferibilità del suo espletamento, bensì dal vincolo teleologico da cui è avvinto il suo compimento, essenzialmente indirizzato a preservare l’integrità fisica e giuridica nonché la consistenza materiale del bene comune (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6190 del 03/05/2001; Sez. 2, Sentenza n. 13611 del 12/10/2000; Sez. 2, Sentenza n. 6593 del 11/11/1986; Sez. 2, Sentenza n. 3510 del 28/05/1980).

Nella fattispecie, la rimessione in pristino dello stato del sottosuolo, di cui il condomino si è appropriato attraverso le opere di escavazione volte ad ingrandire il bene di sua proprietà esclusiva, costituisce azione propria diretta a far cessare la privazione di un bene comune, sicché il suo esperimento non era condizionato alla esclusiva formulazione di azioni possessorie o d’urgenza. Sono, infatti, atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, sia gli atti materiali (riparazioni di muri portanti, di tetti e lastrici) sia quelli giudiziali (azioni contro comportamenti illeciti posti in essere da terzi), necessari per la salvaguardia dell’integrità dell’immobile, indipendentemente dal momento in cui essi siano avviati rispetto all’epoca di realizzazione delle condotte lesive di beni comuni.

Ne’ la radicale privazione di tale bene può essere assimilata al mutamento della sua destinazione d’uso.

D’altronde, nessuna contraddizione è integrata per effetto della discriminazione tra tutela in forma specifica del bene comune mediante sua restitutio in integrum e azione risarcitoria connessa alla lesione di tale bene. Solo per quest’ultima è preclusa all’amministratore la proposizione, in difetto di mandato rappresentativo dei singoli condomini, delle azioni risarcitorie per i danni subiti dalle unità immobiliari di loro proprietà esclusiva (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 3846 del 17/02/2020; Sez. 2, Sentenza n. 217 del 12/01/2015; Sez. 2, Sentenza n. 22656 del 08/11/2010).>>

Sub 2), proprietà del sottosuolo:

<<Al riguardo, l’istante osserva che, nel caso di specie, l’edificio si sviluppava su muri, pilastri e altri manufatti d’appoggio, sicché il suolo avrebbe potuto essere considerato proprietà comune solo per la parte necessaria al suo sostentamento, né la proprietà condominiale avrebbe potuto estendersi sino alla porzione oggetto dello scavo posta ad una quota superiore rispetto al livello delle fondazioni.>>

Censura incomrpesibile. Puntualmente la SC risponde:

<<E tanto perché la zona esistente in profondità, al di sotto dell’area superficiaria che è alla base dell’edificio, in mancanza di un titolo che attribuisca ad alcuno di essi la proprietà esclusiva, rientra per presunzione in quella comune tra i condomini, anche ai sensi del disposto dell’art. 1117 c.c. all’esito della novella di cui alla L. n. 220 del 2012. Nessuno di costoro, pertanto, può, senza il consenso degli altri, procedere all’escavazione del sottosuolo per ricavarne nuovi locali o per ingrandire quelli preesistenti, in quanto, attraendo la cosa comune nell’orbita della sua disponibilità esclusiva, limiterebbe l’altrui uso e godimento ad essa pertinenti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 33163 del 16/12/2019; Sez. 6-2, Ordinanza n. 29925 del 18/11/2019; Sez. 2, Sentenza n. 6154 del 30/03/2016; Sez. 3, Sentenza n. 15383 del 13/07/2011).

E ciò a prescindere dalla funzione portante in concreto dell’edificio esercitata dal suolo.

Nella fattispecie, è pacifico che il condomino proprietario del piano seminterrato non vanti alcun titolo dominicale sul suolo sottostante il suo immobile, sicché – in base alla predetta presunzione – deve ritenersi che il bene rientri tra quelli condominiali.>>

La locazione agraria stipulata da uno solo dei comprorietari è efficace verso il conduttore

Cass. 21.11.2022 sez. III n° 34.131 , rel. Condello:

<<La sentenza impugnata si pone in linea con il principio pacifico della giurisprudenza di legittimità secondo cui il comproprietario può agire in giudizio per ottenere il rilascio dell’immobile per finita locazione o la risoluzione del contratto per inadempimento, trattandosi di un atto di ordinaria amministrazione della cosa comune per il quale si deve presumere che sussista il consenso degli altri comproprietari o quanto meno della maggioranza dei partecipanti alla comunione (tanto che si esclude la necessità della integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri partecipanti) (Cass., sez. 3, 13/07/1999, n. 7416; Cass., sez. 3, 04/06/2008, n. 14759).

Pertanto, qualora il contratto di locazione abbia ad oggetto un immobile in comproprietà indivisa, ciascuno dei comunisti ha, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori, rispondendo a regole di comune esperienza che uno o alcuni di essi gestiscano, con il consenso degli altri, gli interessi di tutti, sicché l’eventuale mancanza di poteri o di autorizzazione rileva nei soli rapporti interni fra i comproprietari e non può essere eccepita alla parte conduttrice (Cass., sez. 2, 02/02/2016, n. 1986).

Ciò impone di ritenere che il contratto di locazione, seppure concluso dal V. solo con C.M., come ritenuto dalla Corte d’appello, era valido ed opponibile anche agli altri comproprietari del fondo, anche se rimasti estranei alla stipula del contratto di affitto, e che l’ordine di rilascio del fondo, derivante dall’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto di affitto, sebbene proposta dal solo C.M., si estende anche agli altri comproprietari del bene>>.