Lo scioglimento della comunione non può essere disposto su un immobile -anche parzialmente- abusivo

Cass.  Sez. II, Sent.  07/11/2024, n. 28.666, rel. Manna:

<<Com’è noto, con sentenza n. 25021/19 le S.U. hanno stabilito, mutando la pregressa giurisprudenza della Corte, che quando sia proposta domanda non endoesecutiva di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dall’art. 46 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dall’art. 40 , comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 , costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex art. 713 c.c., sotto il profilo della “possibilità giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale.

(…)

Né rilievo alcuno può essere attribuito alla circostanza che la parziale abusività dell’immobile possa – in via di pura ipotesi, ciò non ricavandosi dalla sentenza impugnata – integrare difformità parziali non ostative alla commerciabilità del bene, e regolate solo dall’art. 34 del D.P.R. n. 380/01.

In disparte che tale ultima disposizione esaurisce i suoi effetti nel rapporto di evidenza pubblica tra il comune e i responsabili dell’abuso, e dunque nulla può predicare sulla validità degli atti di diritto privato; ciò a parte, è dirimente quanto segue. In forza del noto arresto di S.U. n. 8230/19, la nullità comminata dall’art. 46 del D.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della L. n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile. Pertanto, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato.

Tale affermazione di diritto comporta che pure ai fini della divisione non endoesecutiva, che in virtù della sentenza delle S.U. n. 25021/19 sopra citata segue il regime di incommerciabilità del bene, non v’è spazio alcuno per reintrodurre la pregressa distinzione tra difformità totale (impediente) e difformità parziale (non impediente)>>.

Il rendiconto, per accertare debiti e crediti a fini divisori, può essere eseguito anche in corso di causa divisoria

Cass. sez. II, ord. 12/01/2024, n. 1.319 rel. Picaro:

<<Il rendiconto, ancorché per il disposto dell’art. 723 c.c. costituisca operazione contabile che deve necessariamente precedere la divisione, poiché preliminare alla determinazione della quota spettante a ciascun condividente, non si pone, tuttavia, in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale, ben potendosi richiedere tale divisione ex art. 1111 c.c. a prescindere dal rendiconto, a tanto potendosi e dovendosi provvedere nel corso del giudizio. Il giudice non può, peraltro, disporre il rendiconto senza istanza delle parti, le quali devono indicare i presupposti di fatto del relativo obbligo, con la conseguenza che la detta istanza non può non essere soggetta al regime di cui all’art. 345 c.p.c.>>

(massima di DeJure)

E’ divisibile l’immobile abusivo se è stata presentata domanda di sanatoria e sono state pagare le rate? Si

Così per Cass.  sez. 2 n° 9255 del 04.04.2023, rel. Tedesco.

<<La Corte d’appello motivava il diniego a causa del carattere abusivo dell’immobile, non superata dalla presentazione della istanza di condono, in assenza del provvedimento di concessione in sanatoria. (…)

In questo senso la Corte non ha tenuto conto che domanda di condono corredata della prova dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione costituisce documentazione alternativa rispetto alla concessione in sanatoria (Cass. n. 20258/2009), tale da comportare il venir meno dell’impedimento giuridico alla divisione (Cass. S.U., n. 25021/2019). L’ulteriore rilievo che si legge nella sentenza impugnata, desunto dalla relazione del consulente tecnico, che il Comune aveva richiesto documentazione integrativa che non era stata presentata, di per sé, non fornisce argomento per negare le implicazioni derivanti, sotto il profilo della commerciabilità del bene, dalla esistenza della domanda di condono e dal pagamento delle due rate. È circostanza pacifica nella causa che la quota indivisa dell’immobile, ritenuto non divisibile dalla Corte territoriale, era stata oggetto di atto notarile inter vivos>>.

Questo invece il passaggio nella sentenza di appello censurato dalla SC:

<<Invero, ritiene la Corte di condividere il principio espresso dalla Suprema Corte secondo cui, “quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46 e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex art. 713 c. c., sotto il profilo della ”possibilità giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale. La mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell’edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.» (Cass.Sez.Unite 7 ottobre 2019 n.25021).
Nel caso di specie è lo stesso appellante che da atto della mancanza di regolarità, avendo evidenziato di aver presentato domanda di sanatoria, non potendo, tuttavia, detta circostanza assumere rilievo dirimente, per come correttamente affermato dal Giudice di prime cure, in assenza del provvedimento di rilascio della concessione in sanatoria>>.

La prova del diritto di comproprietà nel giudizio divisionale è attenuato rispetto ad una domanda di rivendica

Per cui non è applicabile l’art. 567 c. 2 CPC e quindi non è necessaria la produzione documentale ivi menzionata.

così Cass. sez. 6 del 2 marzo 2023 n. 6228 rel. Tedesco.

Riporto due passaggi:

<<a) In primo luogo, la Suprema Corte (Cass. n. 10067-2020, ampiamente richiamata in ricorso e precedente alla sentenza impugnata), pur condividendo l’esigenza che, nel giudizio di divisione ereditaria, occorra offrire la dimostrazione dell’appartenenza dei beni al de cuius o più genericamente la prova della comproprietà (cfr. Cass. n. 1965-2022), ha precisato, sulla scorta di risalenti principi, che, pure in presenza di contestazioni dei coeredi, non grava a carico dell’attore l’onere di quella prova rigorosa richiesta nel caso di azione di rivendicazione o di quella di mero accertamento positivo della proprietà, “poiché non si tratta di accertare positivamente la proprietà dell’attore negando quella dei convenuti, ma di fare accertare un diritto comune a tutte le parti in causa, quali coeredi” (Cass. n. 1309-1966)>>

E quello sul rapporto tra l’art. 1113 cc e la trascrizione ex art. 2646 cc:

<<In sesto luogo, la Suprema Corte ha anche approfondito il rapporto fra l’art. 1113 e l’art. l’art. 2646 c.c., che preveda la trascrizione della divisione che ha per oggetto beni immobili, precisando innanzitutto che non è applicabile alla divisione il principio prior in tempore nella sua funzione tipica quale emerge dagli artt. 2644 e 2914, n. 1, c.c. Correlativamente la trascrizione della domanda di divisione va curata non per gli effetti previsti dagli artt. 2652 e 2653 c.c., ma per gli effetti enunciati nell’art. 1113 c.c., norma che in verità disciplina non solo gli effetti della trascrizione della domanda di divisione, ma anche quelli della trascrizione della stessa divisione (Cass. n. 26692/2020). Pertanto, colui che trascrive o iscrive contro uno dei comproprietari, prima della trascrizione della divisione (o della domanda di divisione giudiziale), non rafforza definitivamente il proprio acquisto secondo lo schema dell’art. 2644 c.c., ma, nel concorso delle condizioni previste dall’art. 1113 c.c., acquisisce il diritto di impugnare la divisione già eseguita alla quale non sia stato chiamato a partecipare, o di disconoscerne immediatamente l’efficacia, se l’omissione è incorsa in danno dei soggetti indicati nel comma 3 della norma. E’ stato opportunamente precisato che l’impugnativa è data a chi abbia interesse a una nuova divisione e abbia avuto un danno dalla vecchia.

L’inefficacia, perciò, non potrebbe essere fatta valere da chi non ha avuto pregiudizio dall’atto (in questo senso, con riferimento a un profilo specifico riguardante il processo esecutivo, Cass. 10653/2014).

E’ stato anche chiarito che la preventiva trascrizione della domanda giudiziale non mette fuori causa le conseguenze della retroattività dell’acquisto destinato a realizzarsi con la divisione con riferimento ai diritti reali, di godimento o di garanzia, costituiti dal comunista sulla propria quota: in forza della retroattività, questi diritti colpiscono di massima soltanto la cosa di cui egli risulti con la divisione proprietario. La regola è espressamente ribadita nel comma 1 dell’art. 2825 c.c. per l’ipoteca presa contro il singolo comproprietario, che produce effetto rispetto ai beni o a quella porzione di beni che a lui verranno assegnati nella divisione. Pertanto, l’ipoteca iscritta contro un solo condomino, seppure operata dopo la trascrizione della domanda di divisione, è ancora ipoteca su beni comuni. Si trasferirà perciò sul diverso bene assegnato o sui conguagli, solo che non beneficia dell’onere di chiamata (Cass. n. 19550/ 2009; n. 1270/1967).

g) Ancora sul tema della trascrizione, è stato chiarito che vale anche nella divisione giudiziale la regola generale che l’obbligo della trascrizione di determinate domande giudiziali è posto a salvaguardia degli eventuali diritti dei terzi ed il suo mancato adempimento non è di ostacolo alla procedibilità delle relative azioni né alla decisione delle domande stesse, potendo soltanto dar luogo a sanzioni di carattere fiscale se ed in quanto applicabili (Cass. n. 1787/1976). Naturalmente, secondo le regole generali, il difetto di trascrizione della domanda giudiziale non impedisce la successiva trascrizione del provvedimento definitivo (sentenza o ordinanza) con il quale è attuato il riparto. Peraltro, non operando la prenotazione, gli effetti divisori non saranno opponibili ai creditori e aventi causa che avranno iscritto o trascritto l’acquisto anche dopo l’inizio del giudizio e fino alla trascrizione del provvedimento giudiziale. Costoro si troveranno nella stessa posizione di coloro che avevano acquistato e trascritto prima che la divisione giudiziale avesse inizio (art. ex art. 1113, comma 3, c.c.) (Cass. n. 10067/2020).

Si ritiene comunemente che la trascrizione della divisione, oltre che per gli effetti previsti dall’art. 1113 c.c., sia poi richiesta ai fini della continuità di cui all’art. 2650 c.c. (Cass. n. 2800/1985; Cass. n. 821/2000, che richiama il medesimo principio per la trascrizione della domanda giudiziale di divisione)>>

Prova della comproprietà nel giudizio di divisione ereditaria

Cass. ord. sezione sesta-2 del 2 marzo 2023 n. 6228, rel.  Tedesco, dà utili precisazioni circa la prova della titolarità (e altre questioni) nel giudizio di divisione dicomunione ereditaria, di significativa importanza per l’operatore.

Questa la massima tratta da www.ilcaso.it : <<Nei giudizi di scioglimento della comunione, la prova della comproprietà dei beni dividendi non è quella rigorosa richiesta in caso di azione di rivendicazione o di accertamento positivo della proprietà, atteso che la divisione, oltre a non operare alcun trasferimento di diritti dall’uno all’altro condividente, è volta a far accertare un diritto comune a tutte le parti in causa e non la proprietà dell’attore con negazione di quella dei convenuti, sicché, in caso di non contestazione sull’appartenenza dei beni, non può disconoscersi la possibilità di una prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico, siccome ridondanti a vantaggio della collettività dei condividenti>>.

Questi i passi per esteso:

<a) In primo luogo, la Suprema Corte (Cass. n. 10067/2020, ampiamente richiamata in ricorso e precedente alla sentenza impugnata), pur condividendo l’esigenza che, nel giudizio di divisione ereditaria, occorra offrire la dimostrazione dell’appartenenza dei beni al de cuius o più genericamente la prova della comproprietà (cfr. Cass. n. 1965/2022), ha precisato, sulla scorta di risalenti principi, che, pure in presenza di contestazioni dei coeredi, non grava a carico dell’attore l’onere di quella prova rigorosa richiesta nel caso di azione di rivendicazione o di quella di mero accertamento positivo della proprietà, “poiché non si tratta di accertare positivamente la proprietà dell’attore negando quella dei convenuti, ma di fare accertare un diritto comune a tutte le parti in causa, quali coeredi” (Cass. n. 1309/1966). Con la divisione, infatti, si opera la trasformazione dell’oggetto del diritto di ciascuno, da diritto sulla quota ideale a diritto su un bene determinato, senza che intervenga fra i condividenti alcun atto di cessione o di alienazione (Cass. n. 20645/2005). La divisione, in considerazione della sua efficacia retroattiva sancita dagli artt. 757 e 1116 c.c., non opera alcun trasferimento di diritti dall’uno all’altro dei condividenti (Cass. n. 17061/2011), ma lascia ciascuno di essi aventi causa dal de cuius (o più in generale, con riferimento a qualsiasi comunione, dal dante causa dei partecipanti alla comunione medesima). Si spiega con tale natura dell’atto divisionale la regola che divisione non integra titolo astrattamente idoneo all’acquisto della proprietà per gli effetti previsti dall’art. 1159 c.c. (Cass. n. 1976/1983). Inoltre, è principio consolidato nella giurisprudenza della Corte quello secondo cui, ai fini della prova della proprietà nel giudizio di rivendicazione non può essere sufficiente un atto di divisione, che, per il suo carattere dichiarativo e non costitutivo di diritti, non ha di per sé solo forza probante nei confronti dei terzi del diritto di proprietà attribuito ai condividenti, occorrendo dimostrare il titolo di acquisto della comunione, in base al quale il bene e stato attribuito in sede di divisione» (Cass. n. 1930/1966; n. 1511/1979; n. 3724/1987). Si ha cura di precisare che il principio opera quando l’atto è fatto valere fuori dalla cerchia dei condividenti o loro aventi causa, mentre non può essere applicato nella controversia sulla proprietà tra i condividenti o i loro aventi causa, perché la divisione, la divisione, accertando i diritti delle parti sul presupposto di una comunione dei beni divisi, presuppone l’appartenenza dei beni alla comunione (Cass. n. 4828/1994).
b) In secondo luogo, la Suprema Corte ha chiarito che non si può escludere a priori la rilevanza della non contestazione e, a fortiori, dell’esplicito o implicito riconoscimento dell’appartenenza dei beni ai coeredi (Cass. n. 40041/2021). Con questo, naturalmente, non si intende sostenere che la divisione immobiliare possa farsi “sulla parola”, ma più limitatamente che, in una situazione nella quale la comune proprietà dei beni dividendi, nel significato sopra chiarito, sia incontroversa, non si potrebbe disconoscere la possibilità della prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico (cfr. Cass. n. 21716/2020), tenuto conto, appunto, che non si fornisce la prova di un fatto costitutivo di una domanda che vede le parti in contrapposizione fra loro (Cass. n. 1065/2022). La domanda di divisione, infatti, anche quando sia proposta da uno solo, è sempre comune a tutti i condividenti (Cass. n. 6105/1987; n. 15504/2018), i quali sono tutti sul medesimo piano ed hanno tutti eguale diritto alla divisione (Cass.n.4353/1980). Pertanto, le verifiche condotte dall’ausiliario d’ufficio ridondano a vantaggio della collettività dei condividenti, così come andrebbe a svantaggio di tutti una acquisizione postuma, anche se operata d’ufficio dal consulente, dal quale emergesse che la proprietà comune, non contestata o desunta a livello indiziario, non trova conferma sul piano documentale (Cass. n. 40041/2021)>>.

Errato e probab. non pertinente è però il riferimento alla non traslatività della divisione, la quale va invece ritenuta esistente (irrilevante è l’appoggio alla retroattività disposta di imperio, mera fictio iuris).

Il legame tra uomo e cane arriva in Cassazione

Interessanti questioni esaminate da Cass. sez. 3 del 24.03.2023 n. 8459, rel. Oliva.

Domanda originaria: <<Con atto di citazione ritualmente notificato F.C. evocava in giudizio B.A. innanzi il Tribunale di Padova, chiedendo che venisse accertata la sua qualità di comproprietaria di un cane, acquistato nel corso della precedente relazione affettiva stabile intercorsa tra le parti, nonché lo scioglimento della relativa comunione con affidamento dell’animale e risarcimento dei danni, emotivi e patrimoniali>>.

Diritto di comproprietà escluso dal giudice del marito, come confermato dalla SC

Negato pure il dirito di visita all’animale per assenza/insufficienza del rapporto di affezione: <<Con il secondo e terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione della L. n. 76 del 2016 e dell’art. 132, comma 2, c.p.c. per aver la Corte omesso di valutare, senza motivare sul punto, la sussistenza di un rapporto tra le parti qualificabile come coppia di fatto e, di conseguenza, per aver escluso l’esistenza di un legame affettivo stabile con l’animale.

Entrambi i motivi, suscettibili di trattazione congiunta, sono inammissibili.

Le censure, infatti, non si confrontano con la motivazione della sentenza, la quale -oltre ad aver effettivamente considerato la possibile sussistenza di una famiglia di fatto tra le parti, escludendola sulla base della carenza del minimo requisito della convivenza e della brevità della relazione- ha negato il diritto di visita della ricorrente sulla base non della insussistenza della coppia di fatto, bensì per la carenza di prova dell’instaurazione di un rapporto significativo tra la ricorrente e il cane, vista la breve relazione sentimentale che l’aveva legata al suo padrone (cfr. pagg. 21-22 della sentenza: “La coppia B.- F. non costituiva famiglia nemmeno di fatto, né era definibile quale nucleo familiare in cui l’animale si trovava inserito. Si trattava di una relazione sentimentale molto breve che non aveva condotto le parti nemmeno alla convivenza. (…) Al di là della circostanza pacifica che la frequentazione della sig.ra F. con il cane, nell’ambito della sua relazione sentimentale con il sig. B., si sia limitata a circa 4 mesi, l’appellata non ha provato che, nonostante il breve periodo, si sia instaurato con l’animale un rapporto tale da far presumere che le possa essere riconosciuto un diritto di visita nei confronti dell’animale”)>>.

Quindi, anche in assenza di famiglia di fatto, il rapporto di affezione con il cane, se significativo, fa nascere un diritto di visitarlo. Su che base normativa? “Ogni altro fatto idoneo a produrle” ex art. 1173 cc?

Ma solo con un cane o pure con altri animali? E con cose?

Chiarimenti sull’ampiezza della divisione giudiziale (art. 727 cc)

La Cassazione (n. 1065 del 14.01.2022, rel. Tedesco) sul tema così si esprime nella massima da essa coniata:

Quando non vi sia stato accordo tra i condividenti per limitare le operazioni divisionali ad una parte soltanto del compendio comune, il giudizio di divisione ereditaria deve ritenersi instaurato per giungere al completo scioglimento della comunione, previa esatta individuazione di tutto ciò che ne costituisca oggetto; conseguentemente, fermo il rispetto delle preclusioni tipiche del normale giudizio di cognizione, l’indicazione dei beni può essere fatta anche in un secondo tempo anche dal condividente che non abbia ha proposto la domanda, costituendo una tale indicazione una precisazione dell’unitaria istanza, comune a tutte le parti, rivolta allo scioglimento della comunione“.

Si noti l’importante profilo processuale, cui va aggiunto quell sulla relazione notarile ex 567 cpc:

Nel giudizio di scioglimento della comunione, quando la situazione di comune appartenenza dei beni sia incontroversa fra i condividenti, il giudice d’appello, dinanzi al quale sia stata impugnata la sentenza di primo grado che abbia erroneamente dichiarato inammissibile la domanda di divisione, non può rigettare l’appello in base al rilievo che l’appellante non ha curato di estrarre copia della relazione notarile relativa agli immobili da dividere, già acquisita dinanzi al primo giudice, ma non rinvenibile nel fascicolo della parte che ne aveva curato la produzione. La documentazione mancante, infatti, non integra la prova di un fatto favorevole a una parte e sfavorevole all’altra, ma ridonda a vantaggio di tutti i condividenti, ai quali la domanda di divisione è comune; conseguentemente, il giudice d’appello, qualora ritenga di non poter prescindere dalla suddetta documentazione, potrà ordinarne alle parti la produzione anche nel corso delle operazioni divisionali, venendo in considerazione solo l’esigenza di reiterare il riscontro documentale, già dato in primo grado, di una comune appartenenza pacifica e incontroversa“.