Distanza tra costruzioni (art. 873 cc) e da pareti finestrate (art. 10 DM n° 1444/1968)

Cass. sez. II Ord. 21/03/2024 n. 7.604, rel. Grasso:

<<Invero, questa Corte ha avuto modo di chiarire che la norma dell’art. 10 del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444, la quale prescrive che tra pareti finestrate deve essere osservata la distanza di dieci metri, ha inteso indicare una caratteristica del fabbricato, nel senso che quando questo presenta una facciata munita di finestre, il vicino non può costruire a meno di dieci metri da essa. Conseguentemente, ciascun condomino e non i soli proprietari degli appartamenti con vedute site lungo la facciata interessata, è legittimato a esperire l’Azione per fare valere il rispetto, da parte del vicino, della detta distanza, in quanto tale Azione è posta a tutela dell’intero edificio (Sez. 2, n. 1387, 05/03/1986, Rv. 444809).

Incontroverso che le norme tecniche d’attuazione dello strumento urbanistico di Reggio Calabria prevedono la distanza di quattordici metri, essa avrebbe dovuto essere misurata con il criterio immediatamente sopra richiamato, correttamente invocato dal A.A. con l’atto d’appello. La Corte di merito non svolto tale indagine e pertanto la sentenza deve essere cassata>>.

E poi:

<<Come costantemente affermato da questa Corte, sono esclusi dal calcolo delle distanze solo gli sporti con funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria (come le mensole, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), non anche le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza, specie ove la normativa locale non preveda un diverso regime giuridico per le costruzioni accessorie (Cass. n. 473/2019; Cass. 19932/2017; Cass. 18282/2016; Cass. 859/2016; Cass. 1406/2013; cass. 23845/2018).

Inoltre, è noto che a nozione di costruzione è unica, ai sensi dell’art. 873 c.c., e non può subire deroghe da parte di fonti secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, atteso che il rinvio a norme integrative contenuto nell’ultima parte dell’art. 873 c.c. riguarda la sola possibilità, per tali norme, di stabilire un distacco maggiore di quello codicistico (v. tra le varie cass. 23845/2018 cit.)>>.

la formazione del condominio è automatica con la prima vendita parziale

Cass. sez. II, ord. 27/11/2023  n. 32.857, rel. Scarpa:

<<Nel caso di frazionamento della proprietà di un immobile che dia luogo alla formazione di un condominio, la parte acquirente di una parte di esso, salvo che il titolo non disponga diversamente, entra a far parte del condominio ipso jure et facto relativamente alle parti comuni ex art. 1117 c.c. esistenti al momento dell’alienazione e per addizione, man mano che si realizzano, di quelle ulteriori parti necessarie o destinate, per caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune, nonché di quelle che i contraenti, nell’esercizio dell’autonomia privata, dispongano comunque espressamente di assoggettare al regime di condominialità>>.

(massima ufficiale)

Il rendiconto, per accertare debiti e crediti a fini divisori, può essere eseguito anche in corso di causa divisoria

Cass. sez. II, ord. 12/01/2024, n. 1.319 rel. Picaro:

<<Il rendiconto, ancorché per il disposto dell’art. 723 c.c. costituisca operazione contabile che deve necessariamente precedere la divisione, poiché preliminare alla determinazione della quota spettante a ciascun condividente, non si pone, tuttavia, in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale, ben potendosi richiedere tale divisione ex art. 1111 c.c. a prescindere dal rendiconto, a tanto potendosi e dovendosi provvedere nel corso del giudizio. Il giudice non può, peraltro, disporre il rendiconto senza istanza delle parti, le quali devono indicare i presupposti di fatto del relativo obbligo, con la conseguenza che la detta istanza non può non essere soggetta al regime di cui all’art. 345 c.p.c.>>

(massima di DeJure)

Diritto di installazione dell’antenna sulla proprietà altrui come servitù coattiva di passaggio

Cass. Sez. II Sent. del 08/11/2023, n.  31.101, rel. Amato:

propongo due massime sul medesimo insegnamento:

<<In tema di servitù di passaggio di antenna a favore di radioamatore, il diritto all’installazione dell’impianto sulla proprietà esclusiva altrui deriva direttamente dall’art. 21 Cost., di talché, nei casi in cui quest’ultimo non possa utilizzare spazi propri o comuni vi è l’obbligo, da parte dei proprietari di un immobile, di consentire la collocazione di antenne sulle porzioni in loro dominio esclusivo, senza diritto all’indennizzo e senza previa autorizzazione scritta, ma nei limiti del rispetto dei diritti proprietari, ai sensi dell’art. 91, comma 3, 92, comma 7, e 209, comma 2, d.lgs. n. 259 del 2003. (Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO GENOVA, 27/10/2017)>>   (CED Cassazione)

oppure:

<<Con riguardo ad un edificio in condominio ed all’installazione d’apparecchi per la ricezione di programmi radio-televisivi, il diritto di collocare nell’altrui proprietà antenne televisive, riconosciuto dalla L. 6 maggio 1940, n. 554, artt. 1 e 3 e del D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, art. 231 (ora assorbiti nel D.Lgs. n. 259 del 2003), è subordinato all’impossibilità per l’utente di servizi radiotelevisivi di utilizzare spazi propri, giacché altrimenti sarebbe ingiustificato il sacrificio imposto ai proprietari. Trattandosi di un fatto costitutivo del diritto all’installazione, l’onere di provare – se del caso anche con una C.T.U. – che non sia possibile utilizzare uno spazio proprio o condominiale per l’installazione, resta a carico del soggetto che intenda effettuarla>> (Massima redazionale: non è specificato di chi,  ma credo di OneLegale, avedola ivi reperita)

Se il condomino si allontana prima del voto, egli diventa “assente”, per cui il termine per l’impugnazjne non decorrerà dal dì della delibera ma da quello della sua comunicaizone

Utile precisazione in Cass.  Sez. II, Ord.  15/02/2024, n. 4.191, rel. Carrato:

<<pacifico – in punto di fatto – che il delegato (B.B.) dell’odierna ricorrente, pur avendo partecipato all’assemblea condominiale in data 15 ottobre 2013, prima dell’adozione della delibera assembleare sugli specifici punti fissati all’ordine del giorno indicati con i nn. 2 e 4, oggetto dell’impugnativa, si era allontanato dal locale in cui si stava svolgendo l’assemblea, manifestando tale sua volontà e non partecipando alla conseguente votazione.

Pertanto, detto delegato andava considerato propriamente “assente” all’atto dell’adozione della delibera concernente i due richiamati punti previsti all’ordine del giorno, ragion per cui il termine per impugnarla non si sarebbe potuto considerare decorrente dallo stesso giorno di assunzione della delibera, come invece erroneamente rilevato dalla Corte di appello.

Infatti, diversamente da quanto opinato dal giudice di secondo grado (oltretutto in conformità all’avviso di quello di prime cure), non avrebbe dovuto attribuirsi alcun rilievo all’avvenuta possibile percezione di quanto deliberato da parte del suddetto delegato dalla condomina A.A. che si era portato fuori dal luogo in cui si stava tenendo l’assemblea, essendosi dallo stesso volontariamente allontanato e facendo prendere atto di ciò con annotazione a verbale, non intendendo partecipare alla votazione, ragion per cui avrebbe dovuto essere considerato legittimamente come assente, senza che, in virtù di tale situazione, potesse venirsi a configurarsi – come creativamente sostenuto dalla Corte di appello – un fenomeno di “sostanziale astensione” del medesimo delegato rispetto alla intervenuta delibera assembleare (e, quindi, ritenerlo, illogicamente, presente “fittiziamente” e partecipante alla votazione, considerandolo come astenuto).

La giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 1208/1999) ha, anzi, stabilito che, in tema di condominio di edifici, ai fini del calcolo delle maggioranze prescritte dall’art. 1136 c.c. per l’approvazione delle delibere assembleari, non si può neanche tener conto dell’adesione espressa dal condomino che si sia allontanato prima della votazione dichiarando di accettare la decisione della maggioranza, perché solo il momento della votazione determina la fusione delle volontà dei singoli condomini formative dell’atto collegiale (precisandosi che nemmeno la eventuale conferma dell’adesione alla deliberazione, data dal condomino successivamente all’adozione della stessa, può valere, nella predetta ipotesi, come sanatoria della eventuale invalidità della delibera, dovuta al venir meno, per le predette ragioni, del richiesto ” quorum deliberativo “, potendo, se mai, tale conferma avere solo il valore di rinuncia a dedurre la invalidità, senza che sia, peraltro, preclusa agli altri condomini la possibilità di impugnazione).

Insomma, qualora un condomino ad un certo punto – nel corso della celebrazione di un’assemblea condominiale – si allontani e tale circostanza viene fatta annotare sul verbale, [NB l’interessante precisazione: è condizione necessaria?] se è incontrovertibile che l’allontanamento non incide sui “quorum costitutivi” (che devono sussistere al momento iniziale), tale circostanza incide, altrettanto indiscutibilmente, su quelli deliberativi relativamente ai singoli punti all’ordine del giorno (nonché sui diritti dei distinti condomini) rispetto ai quali il singolo o più condomini abbiano deciso di non prendere parte alla discussione e alla conseguente delibera, e, quindi, di non partecipare alla votazione, rimanendo del tutto irrilevante la possibile udibilità dall’esterno, da parte dei condomini preventivamente allontanatisi del locale di svolgimento dell’assemblea delle determinazioni che la stessa ha inteso adottare in proposito.

Di conseguenza, il termine di 30 giorni previsto dall’art. 1137, comma 2, c.c. per l’impugnazione delle delibere assembleari annullabili non può farsi coincidere come “dies a quo” – per il condomino (nel caso di specie rappresentato dal delegato) allontanatosi volontariamente dal luogo di svolgimento dell’assemblea, con relativa presa d’atto a verbale, senza partecipare quindi alla votazione – con quello del giorno di adozione della delibera stessa sui punti all’ordine del giorno rispetto alla cui discussione e deliberazione il condomino allontanatosi non ha voluto partecipare, dovendosi, a tutti gli effetti, quest’ultimo considerarsi assente (rimanendo, per quanto in precedenza evidenziato, irrilevante la possibile “udibilità” da parte di detto condomino, postosi all’esterno dei locali in cui si tiene la riunione, della delibera presa dall’assemblea sui relativi argomenti).

A tale principio di diritto dovrà uniformarsi il giudice di rinvio, per effetto del quale – nel caso di specie – la Corte di appello avrebbe dovuto far legittimamente decorrere il suddetto termine, nei confronti della condomina A.A. rimasta – a mezzo del suo delegato – “assente”, da quello successivo della ricevuta comunicazione, da parte della stessa, del verbale contenente la delibera eventualmente annullabile, ove eseguita, non potendo – in mancanza – nemmeno considerarsi iniziato a decorrere (da cui deriverebbe la tempestività, in ogni caso, dell’impugnativa effettuata dall’A.A. con la proposizione dell’atto di citazione notificato il 29 novembre 2013, restando, comunque, demandato al giudice di rinvio – se, eventualmente, si fosse provveduto a tale comunicazione – rivalutare, di conseguenza, la tempestività o meno dell’impugnativa della delibera assembleare, con riferimento all’individuazione del “dies a quo” in rapporto al momento di introduzione del giudizio e, in caso di accertato avvenuto rispetto, decidere sul merito dell’impugnativa stessa)>>.

Ammessa dalle Sezioni Unite la servitù prediale di parcheggio

Condivisibile il raiognamento di Cass. sez. un.  13/02/2024 n. 3.925, rel. Orilia:

<<La realitas, che distingue il ius in re aliena dal diritto personale di godimento, implica dunque l’esistenza di un legame strumentale ed oggettivo, diretto ed immediato, tra il peso imposto al fondo servente ed il godimento del fondo dominante, nella sua concreta destinazione e conformazione, al fine di incrementarne l’utilizzazione, sì che l’incremento di utilizzazione deve poter essere conseguito da chiunque sia proprietario del fondo dominante e non essere legato ad una attività personale del soggetto. In questa prospettiva, il carattere della realità non può essere escluso per il parcheggio dell’auto sul fondo altrui quando tale facoltà sia costruita come vantaggio a favore del fondo, per la sua migliore utilizzazione: è il caso del fondo a destinazione abitativa, il cui utilizzo è innegabilmente incrementato dalla possibilità, per chi sia proprietario, di parcheggiare l’auto nelle vicinanze dell’abitazione.

Quanto detto non è peraltro ancora sufficiente a individuare la servitù di parcheggio distinguendola dal diritto personale di godimento, poiché occorre guardare anche al fondo servente, il cui utilizzo non può mai risultare del tutto inibito.

Posto, infatti, che la servitù consiste nella conformazione del diritto di proprietà in modo divergente dallo statuto legale, essa non è compatibile con lo svuotamento delle facoltà del proprietario del fondo servente, al quale deve residuare la possibilità di utilizzare il fondo, pur con le restrizioni e limitazioni che discendono dal vantaggio concesso al fondo dominante. [punto teoricamente -ma probabilmente non praticamente –  interessante]

Detto in altre parole, l’asservimento del fondo servente deve essere tale da non esaurire ogni risorsa ovvero ogni utilità che il fondo servente può dare e il proprietario deve poter continuare a fare ogni e qualsiasi uso del fondo che non confligga con l’utilitas concessa. Diversamente si è fuori dallo schema tipico della servitù.

La questione si pone quindi non già in termini di configurabilità in astratto della servitù di parcheggio, ma di previsione, in concreto, di un vantaggio a favore di un fondo cui corrisponda una limitazione a carico di un altro fondo, come rimodulazione dello statuto proprietario, a carattere tendenzialmente perpetuo. È evidente, allora, che la verifica se ci si trovi in presenza di servitù di parcheggio o di diritto personale impone l’esame del titolo e della situazione in concreto sottoposta al giudizio, al fine di stabilire se sussistano i requisiti del ius in re aliena, e specificamente: l’altruità della cosa, l’assolutezza, l’immediatezza (non necessità dell’altrui collaborazione, ai sensi dell’art. 1064 cod. civ.), l’inerenza al fondo servente (diritto opponibile a tutti coloro che vantino diritti sul fondo servente potenzialmente in conflitto con la servitù), l’inerenza al fondo dominante (l’utilizzo del parcheggio deve essere, nel contempo, godimento della proprietà del fondo dominante, secondo la sua destinazione), la specificità dell’utilità riservata, la localizzazione intesa quale individuazione del luogo di esercizio della servitù>>.

Poi:

<<4.5 La tesi favorevole alla costituzione della servitù, oltre ad essere in linea con il sistema, esalta in definitiva il fondamentale principio dell’autonomia negoziale (art. 1322 cc) che, si badi bene, non sfocia in una libertà illimitata, dovendosi sempre confrontare con il limite della meritevolezza di tutela degli elementi dell’accordo.

Del resto, come già rilevato anche da queste Sezioni Unite (cfr. Sentenza n. 8434 del 2020 in una vicenda condominiale sulla concessione di un lastrico solare in godimento ad un terzo per l’installazione di impianti tecnologici), non vi è ragione per negare alle parti la possibilità di scegliere, nell’esercizio dell’autonomia privata riconosciuta dall’articolo 1322 c.c., se perseguire risultati socio-economici analoghi, anche se non identici, mediante contratti ad effetti reali o mediante contratti ad effetti obbligatori; come si verifica, ad esempio, in relazione all’attribuzione del diritto di raccogliere i frutti dal fondo altrui (che può essere conseguita attraverso un contratto costitutivo del diritto di usufrutto o attraverso un contratto attributivo di un diritto personale di godimento, lato sensu riconducibile al modello del contratto di affitto) o in relazione all’attribuzione del diritto di attraversare il fondo altrui (che può essere conseguita attraverso un contratto costitutivo di una servitù di passaggio o attraverso un contratto attributivo di un diritto personale di passaggio, cfr. Cass. 2651/2010, Cass. 3091/2014).

Il principio di tipicità legale necessaria dei diritti reali si traduce nella regola secondo cui i privati non possono creare figure di diritti reali al di fuori di quelle prevista dalla legge e – secondo il recente orientamento espresso dalle sezioni unite con la sentenza n. 28972 del 17/12/2020 con la quale è stato affermato che proprio per effetto della operatività del principio appena richiamato è da ritenere preclusa la pattuizione avente ad oggetto l’attribuzione del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” di una porzione condominiale – tale caratterizzazione è supportata anche dagli argomenti secondo i quali: l’art.1322 cc colloca nel comparto contrattuale il principio dell’autonomia; l’ordinamento mostra di guardare sotto ogni aspetto con sfavore a limitazioni particolarmente incisive del diritto di proprietà; l’art. 2643 c.c. contiene un’elencazione tassativa dei diritti reali soggetti a trascrizione.

Tornando al tema specifico della servitù di parcheggio e riprendendo il passaggio motivazionale di Cass. sentenza 6 luglio 2017, n. 16698 cit., la tesi favorevole alla costituzione della servitù di parcheggio valorizza il concetto di tipicità strutturale, ma non contenutistico della servitù. [giusto: del resto l’ampiezza dei concetto di “peso” e di “utilità” ex art. 1027 cc è inequivoca]

Sulla base di tali considerazioni, dunque, l’autonomia contrattuale è libera di prevedere una utilitas – destinata a vantaggio non già di una o più persone, ma di un fondo – che si traduca nel diritto di parcheggio di autovetture secondo lo schema appunto della servitù prediale e quindi nell’osservanza di tutti i requisiti del ius in re aliena, quali l’altruità della cosa, l’assolutezza, l’immediatezza (non necessità dell’altrui collaborazione, ai sensi dell’art. 1064 cod. civ.), l’inerenza al fondo servente (diritto opponibile a tutti coloro che vantino diritti sul fondo servente potenzialmente in conflitto con la servitù), l’inerenza al fondo dominante (l’utilizzo del parcheggio deve essere, nel contempo, godimento della proprietà del fondo dominante, secondo la sua destinazione), la specificità dell’utilità riservata, la localizzazione intesa quale individuazione del luogo di esercizio della servitù affinché non si incorra nella indeterminatezza dell’oggetto e nello svuotamento di fatto del diritto di proprietà.

Sotto quest’ultimo profilo, come già affermato da questa Corte (v. Sez. U. n. 28972 /2020 cit.), la servitù può sì essere modellata in funzione delle più svariate utilizzazioni, pur riguardate dall’angolo visuale dell’obbiettivo rapporto di servizio tra i fondi e non dell’utilità del proprietario del fondo dominante, ma non può mai tradursi in un diritto di godimento generale del fondo servente, il che determinerebbe lo svuotamento della proprietà di esso, ancora una volta, nel suo nucleo fondamentale; insomma, la costituzione della servitù, concretandosi in un rapporto di assoggettamento tra due fondi, importa una restrizione delle facoltà di godimento del fondo servente, ma tale restrizione, se pur commisurata al contenuto ed al tipo della servitù, non può, tuttavia, risolversi nella totale elisione delle facoltà di godimento del fondo servente.

Ciò posto, non vi è dubbio che lo stabilire se un contratto debba qualificarsi come contratto ad effetti reali o come contratto ad effetti obbligatori attiene all’ermeneusi negoziale, la cui soluzione compete al giudice di merito (cfr. tra le tante, SSUU Sentenza n. 8434 del 2020 cit.)>>.

Principio di diritto:

“In tema di servitù, lo schema previsto dall’art. 1027 c.c. non preclude la costituzione, mediante convenzione, di servitù avente ad oggetto il parcheggio di un veicolo sul fondo altrui purché, in base all’esame del titolo e ad una verifica in concreto della situazione di fatto, tale facoltà risulti essere stata attribuita come vantaggio in favore di altro fondo per la sua migliore utilizzazione e sempre che sussistano i requisiti del diritto reale e in particolare la localizzazione”;

Nota alla sentenza con bozza di clausola di Alessandro Torrioni in Federnotizie.

Le spese condominiali amministrative, concernenti non tutti ma solo determinati condomini, legittimamente sono poste a carico solo di questi ultimi

Cass. Sez. II, Ord. 16/01/2024, n. 1.704, rel. Mondini:

<<2.4. La Corte, con la sentenza n.12573 del 2019 dopo aver cassato la sentenza favorevole agli odierni ricorrente in quanto la stessa si era limitata a stabilire che le spese in contestazione dovevano essere ripartite secondo la legge con implicito riferimento al solo primo comma dell’art. 1223 c.c., aveva imposto al giudice del rinvio di svolgere accertamenti finalizzati a verificare se le attività i cui costi erano stati addebitati agli odierni ricorrenti fossero attività destinate a servire tutti i condomini o solo i ricorrenti cosicché, in questo secondo caso, i costi potessero essere posti a carico dei soli ricorrenti, in applicazione del secondo comma dell’art. 1123 c.c. Secondo i ricorrenti, il Tribunale non avrebbe adempiuto a quanto demandatogli dalla Corte perché avrebbe “accomunato in un unico calderone” tutti gli addebiti laddove invece, per adempiere, avrebbe dovuto esprimersi su ogni singolo addebito in relazione ad ogni singola missiva, tanto più che non tutte le missive erano state inviate da o a i ricorrenti.

In realtà il Tribunale ha preso in esame ciascuna missiva separatamente. Ne ha esaminato il contenuto. Ha individuato l’attività svolta dall’amministratore. Ha dato conto, anche attraverso il riferimento alle allegazioni delle parti, delle ragioni per cui le attività emergenti da ciascuna missiva dovevano essere ricondotte a richieste o all’iniziativa dei ricorrenti. Ha dato altresì conto in modo puntuale di mittenti e destinatari con la precisazione, ove diversi dall’amministratore e dagli odierni ricorrenti, del rapporto con l’uno o gli altri. Trattavasi -ha specificato il Tribunale- del legale dell’amministratore in relazione a richieste del legale dei ricorrenti e di un geometra che, richiesto direttamente dai ricorrenti di modificare un determinato preventivo, aveva effettuato la prestazione e si era poi rivolto all’amministratore il quale era stato conseguentemente costretto ad esaminare il documento inviatogli e a dare riscontro al geometra>>.

Danni cagionati dal proprietario agli edifici vicini tramite escavazione: si applica l’art. 840 cc oppure l’art. 2053 cc?

E’ giusta la prima secondo Cass. Sez. III  Sent. 02/02/2024, n. 3092, rel. Spaziani.

Per i danni cagionati in occasione di escavazione si applica l’art. 840 cc, ipotesi che non rientra nell’ambito dell’art. 2053.

La differenza (non da poco) tra le due regole attiene all’elemento soggettivo: per l’art. 2043 serve la colpa. Ed infatti il Trib., applicando l’art. 840 cc,  aveva condannato solo l’impresa appaltatrice, non la proprietaria.

<<5.8. Deve dunque accedersi ad una ricognizione dei rapporti tra l’art. 840 e l’art. 2053 cod. civ., nell’ipotesi di rovina di opere costruite nel sottosuolo in esecuzione di lavori di escavazione oggetto di un contratto di appalto, che tenga conto delle dette esigenze, circoscrivendo l’applicazione del criterio di imputazione oggettivo della responsabilità del proprietario, previsto dalla seconda disposizione, in modo da non ledere la necessità che sia assicurata al criterio soggettivo stabilito dalla prima lo spazio applicativo necessario ad un trattamento uniforme delle due fattispecie da essa contemplate.

Al riguardo, ove si tenga conto della diversa collocazione delle due norme e della loro differente funzione, deve escludersi l’applicabilità dell’art.2053 cod. civ. – in favore di quella dell’art. 840 cod. civ. – in tutte le ipotesi in cui assuma rilievo causale nella determinazione dell’evento dannoso l’attuale esercizio da parte del proprietario delle facoltà che costituiscono manifestazione del diritto di proprietà nei rapporti di vicinato.

Dunque, se nell’esercizio attuale delle facoltà del proprietario di realizzare escavazioni od opere nel sottosuolo, si producono danni ai vicini, in violazione del disposto dell’art.840 cod. civ., il proprietario deve ritenersi obbligato al risarcimento secondo gli ordinari criteri di imputazione della responsabilità; in tal caso, se i lavori sono stati appaltati, deve trovare applicazione il consolidato principio secondo il quale la responsabilità del proprietario, in via esclusiva o concorrente con quella dell’appaltatore, postula l’accertamento della sua ingerenza nei lavori medesimi con direttive più o meno vincolanti.

Se, invece, se non vi è alcun legame causale tra l’attuale esercizio delle facoltà del proprietario del fondo e l’evento lesivo, poiché la rovina concerne un edificio o una costruzione preesistenti o successivi all’attività di escavazione o alla realizzazione di opere nel sottosuolo, deve trovare applicazione l’art. 2053 cod. civ., di talché il proprietario risponde dei danni che ne sono conseguiti in capo ai terzi secondo un criterio di imputazione di carattere oggettivo, a prescindere dalla sua eventuale condotta colposa.

5.9. Il rilievo attribuito all’esercizio in atto delle facoltà proprietarie in funzione del discrimen tra i due diversi criteri di imputazione della responsabilità del proprietario esclude che, ai fini della definizione dei rapporti tra le due disposizioni, l’opus debba essere considerata in termini complessivi ed unitari, assumendo rilievo anche le singole parti di essa, purché distintamente individuabili ed aventi autonoma funzione e struttura.

Pertanto, mentre il criterio di imputazione ordinario di cui all’art. 840 cod. civ. trova applicazione durante l’attività di escavazione o di esecuzione dell’opera, la rovina della stessa dopo il suo completamento, o anche la rovina di singole parti strutturalmente e funzionalmente autonome, se già terminate, attribuisce ai terzi danneggiati l’azione di responsabilità ex art.2053 cod. civ.>>

Risarcimento del danno subito dal possessore per spoglio illecito: ricorre l’ingiustizia del danno ma resta salva la tutela petitoria

Cass. sez. III dell’ 11/12/2023 n. 34.540, rel. Iannello, in un’azione di danno da spoglio possessorio, la cui illiceità era stata accertata con sentenza passata in giudicato ex art. 1168 cc contro l’IACP di Palermo :

<<La pretesa risarcitoria trova nella specie fondamento, ex art. 2043 c.c., nel fatto illecito compiuto dall’Iacp, ossia nelle modalità con le quali l’Istituto è rientrato nel possesso dell’immobile occupato dalla C., al contempo spogliandone quest’ultima: fatto, questo, integrante spoglio meritevole di tutela di reintegra, secondo accertamento giudiziale passato in giudicato e, come tale, non più suscettibile di sindacato sotto tale profilo qualificatorio.

Rispetto a tale fatto costitutivo del vantato credito risarcitorio nessun rilievo impeditivo può assumere l’eventuale insussistenza di un effettivo ius possidendi in capo alla parte illecitamente privata del possesso.

Alcune precisazioni concettuali si rendono al riguardo opportune:

– la lesione del possesso o della detenzione può provocare danni non riparabili con il mero ripristino della situazione anteriore, che si identificano sia nella diminuzione patrimoniale che la vittima subisce per il ristabilimento dello status quo antea, sia nel mancato esercizio del potere di fatto;

– il risarcimento può però pure avere funzione sostitutiva del recupero della situazione possessoria, nell’ipotesi in cui quest’ultimo si presenti impossibile (di fatto) per distruzione della cosa o smarrimento o perdita irrecuperabile di essa dopo lo spoglio, ovvero (giuridicamente) perché la medesima è stata alienata ad un terzo ignaro, che ne ha acquistato il possesso (arg. ex art. 1169);

– in entrambi i casi la lesione del possesso che consegua ad un’attività di spoglio rilevante ai sensi dell’art. 1168 c.c., mette in essere una tipica fattispecie di illecito extracontrattuale, a condizione che, ovviamente, il fatto materiale compiuto dal terzo si traduca in un danno effettivo per il titolare della situazione possessoria;

– proprio su tale piano (quello cioè della possibilità di configurare un danno risarcibile conseguente alla lesione del possesso) si era in passato, nella dottrina, affacciata una tesi restrittiva (ora echeggiata dalla motivazione della sentenza impugnata) secondo la quale, essendo la tutela possessoria delineata dalla legge sotto il profilo della “mera azione” e non del diritto soggettivo, le restrizioni apportate alla situazione di fatto non potrebbero essere qualificate “ingiuste” ai sensi dell’art. 2043, non avendo il sistema lo scopo “di garantire incondizionatamente al possessore senza titolo i vantaggi economici del godimento del bene”;

tale tesi non ha però più ragion d’essere a fronte della ormai pacifica diversa ricostruzione del concetto di “danno ingiusto” ex art. 2043 c.c., come danno arrecato non iure, ossia in assenza di una causa giustificativa, e risolventesi nella “lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo” (Cass. Sez. U. 22/07/1999, n. 500);

– essendo dunque ormai superato l’antico dogma dell’illecito come lesione di un diritto soggettivo assoluto, deve ritenersi acquisito che anche colui il quale, per circostanze contingenti, si trovi ad esercitare su di una cosa un potere soltanto di fatto può, dal danneggiamento di essa, risentire un danno risarcibile, indipendentemente dall’esistenza del diritto all’esercizio di quel potere (v. in tal senso già Cass. 24/02/1981, n. 1131 secondo cui “qualsiasi possessore o detentore può, agendo in possessorio a tutela del suo rapporto col bene, chiedere anche il ristoro dei danni determinati dall’attività illecita del terzo”, giacché “l’azione di responsabilità extracontrattuale non postula necessariamente una identità tra il titolo al risarcimento e il titolo giuridico di proprietà o di godimento”, con la conseguenza che nel giudizio risarcitorio non è necessario per l’attore dimostrare il suo diritto sul bene, ma è sufficiente dimostrare di trovarsi in una relazione di fatto con la cosa e di avere subito un danno patrimoniale per la mancata disponibilità di essa; v. anche, conff., Cass. 14/05/1979, n. 2780; 14/05/1993, n. 5485; 29/01/2014, n. 1964, in motivazione);

– ne discende anche che alcun rilievo impeditivo può nemmeno avere la pretesa della nuova assegnataria di ottenere il pieno godimento dell’immobile a lei successivamente locato: trattandosi di pretesa derivata la stessa non varrebbe di per sé a rendere meno illecita l’azione spoliatrice dell’Iacp ed a privare dunque di fondamento la conseguente pretesa risarcitoria;

– il diritto dell’Iacp sul bene, e quello derivato della nuova locataria, agiscono sul diverso e non incompatibile terreno della tutela petitoria;

entrambi, in particolare, rimangono tutelabili con azioni reali o personali di rilascio del bene, pur tenendo ferma la riconosciuta illiceità dello spoglio in precedenza compiuto dall’ente proprietario e salvi gli effetti dell’eventuale mala fede del possessore, che rimane possibile far valere al fine di ottenere, in seno ad eventuale giudizio di rivendica, la restituzione del bene o il controvalore di questo, insieme con i frutti dovuti per legge dal possessore di mala fede (v. Cass. 12/05/1987, n. 4367)>>.

Uso o innovazione individuale della cosa comune? La trasformazione del tetto in terrazza privata

Cass. civ., Sez. II, Sent., (data ud. 14/11/2023) 10/01/2024, n. 917, rel. Fortunato:

Premessa sulla distinzione tra uso della cosa comune e innovazikone ex art. 1120:

<<Le innovazioni di cui all’art. 1120 c.c. si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall’art. 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne l’aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, ma con quello del singolo condomino, essendo volte al suo solo perseguimento (Cass. 2126/2021; Cass. 20712/2017; Cass. 18052/2012; Cass. n. 20712; Cass. 240/1997).

Costituisce innovazione ex art. 1120 c.c., non qualsiasi modificazione della cosa comune, ma solo quella che alteri l’entità materiale del bene, operandone la trasformazione, o ne modifichi la destinazione, ove il bene assuma, a seguito delle opere eseguite, una diversa consistenza materiale o sia utilizzato per fini diversi da quelli originari.

Qualora la modificazione della cosa comune risponda allo scopo di un uso del bene più intenso e proficuo, si versa nell’ambito dell’art. 1102 c.c., che, sebbene dettato in materia di comunione ordinaria, è applicabile in materia di condominio degli edifici per effetto del richiamo contenuto nell’art. 1139 c.c.>>

Ne segue: <<per tali ragioni la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, sempre che un tale intervento dia luogo a modifiche non significative della consistenza del bene in rapporto alla sua estensione e sia attuato con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio mediante idonei materiali (Cass. 14107/2012; Cass. 2126/2021).

L’art. 1102 c.c. consente a ciascun proprietario di far un uso più inteso della cosa comune a condizione che non sia alterata la funzione del bene e non impedito il pari uso: l’alterazione della funzione del bene deve essere effettiva e non può consistere in una semplice modificazione materiale; il pari uso non va inteso non deve consistere nel medesimo uso che possa invece farne il singolo che si trovi in un rapporto particolare e diverso con la cosa, ma di uso anche inteso ma che possa essere effettivo, occorrendo individuare, in concreto, i sacrifici alle facoltà di godimento che tale modifica apporti, senza dar rilievo ad una astratta possibilità di uso alternativo o un suo ipotetico depotenziamento (Cass. 14107/2012; Cass. 857/2019; Cass. 13503/2019; Cass. 41490/2021; Cass. 19939/2022; Cass. 2971/2023).

Le opere di cui si discute non costituivano – quindi – innovazioni suscettibili di autorizzazione ai sensi dell’art. 1120 c.c.: la norma riguarda non le opere intraprese dal singolo per realizzare un miglior uso della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 c.c., ma quelle volute dall’assemblea condominiale con la maggioranza prescritta>>.

Occhio però al limite: <<Occorre tuttavia considerare che l’art. 1120, comma 2 c.c. [rectius: comma 4] , nel vietare le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico – è astrattamente applicabile anche agli interventi effettuati con le finalità di cui all’art. 1102 c.c. (Cass. 11455/2015; Cass. 18350/2013; Cass. 14607/12), dovendosi accertare, oltre alla compatibilità dell’intervento con i limiti derivanti dall’art. 1102 c.c., il rispetto dell’ultimo comma dell’art. 1120 c.c., alla luce del necessario coordinamento normativo che deve farsi tra l’art. 1102, l’art. 1120 e, ove si tratti di interventi sulle pari esclusive, con l’art. 1122 c.c. (Cass. 11455/2015).

Competerà al giudice del rinvio riesaminare i fatti di causa e valutare la sussistenza delle violazioni, conformandosi agli enunciati principi di diritto.>>