Danni cagionati dal proprietario agli edifici vicini tramite escavazione: si applica l’art. 840 cc oppure l’art. 2053 cc?

E’ giusta la prima secondo Cass. Sez. III  Sent. 02/02/2024, n. 3092, rel. Spaziani.

Per i danni cagionati in occasione di escavazione si applica l’art. 840 cc, ipotesi che non rientra nell’ambito dell’art. 2053.

La differenza (non da poco) tra le due regole attiene all’elemento soggettivo: per l’art. 2043 serve la colpa. Ed infatti il Trib., applicando l’art. 840 cc,  aveva condannato solo l’impresa appaltatrice, non la proprietaria.

<<5.8. Deve dunque accedersi ad una ricognizione dei rapporti tra l’art. 840 e l’art. 2053 cod. civ., nell’ipotesi di rovina di opere costruite nel sottosuolo in esecuzione di lavori di escavazione oggetto di un contratto di appalto, che tenga conto delle dette esigenze, circoscrivendo l’applicazione del criterio di imputazione oggettivo della responsabilità del proprietario, previsto dalla seconda disposizione, in modo da non ledere la necessità che sia assicurata al criterio soggettivo stabilito dalla prima lo spazio applicativo necessario ad un trattamento uniforme delle due fattispecie da essa contemplate.

Al riguardo, ove si tenga conto della diversa collocazione delle due norme e della loro differente funzione, deve escludersi l’applicabilità dell’art.2053 cod. civ. – in favore di quella dell’art. 840 cod. civ. – in tutte le ipotesi in cui assuma rilievo causale nella determinazione dell’evento dannoso l’attuale esercizio da parte del proprietario delle facoltà che costituiscono manifestazione del diritto di proprietà nei rapporti di vicinato.

Dunque, se nell’esercizio attuale delle facoltà del proprietario di realizzare escavazioni od opere nel sottosuolo, si producono danni ai vicini, in violazione del disposto dell’art.840 cod. civ., il proprietario deve ritenersi obbligato al risarcimento secondo gli ordinari criteri di imputazione della responsabilità; in tal caso, se i lavori sono stati appaltati, deve trovare applicazione il consolidato principio secondo il quale la responsabilità del proprietario, in via esclusiva o concorrente con quella dell’appaltatore, postula l’accertamento della sua ingerenza nei lavori medesimi con direttive più o meno vincolanti.

Se, invece, se non vi è alcun legame causale tra l’attuale esercizio delle facoltà del proprietario del fondo e l’evento lesivo, poiché la rovina concerne un edificio o una costruzione preesistenti o successivi all’attività di escavazione o alla realizzazione di opere nel sottosuolo, deve trovare applicazione l’art. 2053 cod. civ., di talché il proprietario risponde dei danni che ne sono conseguiti in capo ai terzi secondo un criterio di imputazione di carattere oggettivo, a prescindere dalla sua eventuale condotta colposa.

5.9. Il rilievo attribuito all’esercizio in atto delle facoltà proprietarie in funzione del discrimen tra i due diversi criteri di imputazione della responsabilità del proprietario esclude che, ai fini della definizione dei rapporti tra le due disposizioni, l’opus debba essere considerata in termini complessivi ed unitari, assumendo rilievo anche le singole parti di essa, purché distintamente individuabili ed aventi autonoma funzione e struttura.

Pertanto, mentre il criterio di imputazione ordinario di cui all’art. 840 cod. civ. trova applicazione durante l’attività di escavazione o di esecuzione dell’opera, la rovina della stessa dopo il suo completamento, o anche la rovina di singole parti strutturalmente e funzionalmente autonome, se già terminate, attribuisce ai terzi danneggiati l’azione di responsabilità ex art.2053 cod. civ.>>

Risarcimento del danno subito dal possessore per spoglio illecito: ricorre l’ingiustizia del danno ma resta salva la tutela petitoria

Cass. sez. III dell’ 11/12/2023 n. 34.540, rel. Iannello, in un’azione di danno da spoglio possessorio, la cui illiceità era stata accertata con sentenza passata in giudicato ex art. 1168 cc contro l’IACP di Palermo :

<<La pretesa risarcitoria trova nella specie fondamento, ex art. 2043 c.c., nel fatto illecito compiuto dall’Iacp, ossia nelle modalità con le quali l’Istituto è rientrato nel possesso dell’immobile occupato dalla C., al contempo spogliandone quest’ultima: fatto, questo, integrante spoglio meritevole di tutela di reintegra, secondo accertamento giudiziale passato in giudicato e, come tale, non più suscettibile di sindacato sotto tale profilo qualificatorio.

Rispetto a tale fatto costitutivo del vantato credito risarcitorio nessun rilievo impeditivo può assumere l’eventuale insussistenza di un effettivo ius possidendi in capo alla parte illecitamente privata del possesso.

Alcune precisazioni concettuali si rendono al riguardo opportune:

– la lesione del possesso o della detenzione può provocare danni non riparabili con il mero ripristino della situazione anteriore, che si identificano sia nella diminuzione patrimoniale che la vittima subisce per il ristabilimento dello status quo antea, sia nel mancato esercizio del potere di fatto;

– il risarcimento può però pure avere funzione sostitutiva del recupero della situazione possessoria, nell’ipotesi in cui quest’ultimo si presenti impossibile (di fatto) per distruzione della cosa o smarrimento o perdita irrecuperabile di essa dopo lo spoglio, ovvero (giuridicamente) perché la medesima è stata alienata ad un terzo ignaro, che ne ha acquistato il possesso (arg. ex art. 1169);

– in entrambi i casi la lesione del possesso che consegua ad un’attività di spoglio rilevante ai sensi dell’art. 1168 c.c., mette in essere una tipica fattispecie di illecito extracontrattuale, a condizione che, ovviamente, il fatto materiale compiuto dal terzo si traduca in un danno effettivo per il titolare della situazione possessoria;

– proprio su tale piano (quello cioè della possibilità di configurare un danno risarcibile conseguente alla lesione del possesso) si era in passato, nella dottrina, affacciata una tesi restrittiva (ora echeggiata dalla motivazione della sentenza impugnata) secondo la quale, essendo la tutela possessoria delineata dalla legge sotto il profilo della “mera azione” e non del diritto soggettivo, le restrizioni apportate alla situazione di fatto non potrebbero essere qualificate “ingiuste” ai sensi dell’art. 2043, non avendo il sistema lo scopo “di garantire incondizionatamente al possessore senza titolo i vantaggi economici del godimento del bene”;

tale tesi non ha però più ragion d’essere a fronte della ormai pacifica diversa ricostruzione del concetto di “danno ingiusto” ex art. 2043 c.c., come danno arrecato non iure, ossia in assenza di una causa giustificativa, e risolventesi nella “lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo” (Cass. Sez. U. 22/07/1999, n. 500);

– essendo dunque ormai superato l’antico dogma dell’illecito come lesione di un diritto soggettivo assoluto, deve ritenersi acquisito che anche colui il quale, per circostanze contingenti, si trovi ad esercitare su di una cosa un potere soltanto di fatto può, dal danneggiamento di essa, risentire un danno risarcibile, indipendentemente dall’esistenza del diritto all’esercizio di quel potere (v. in tal senso già Cass. 24/02/1981, n. 1131 secondo cui “qualsiasi possessore o detentore può, agendo in possessorio a tutela del suo rapporto col bene, chiedere anche il ristoro dei danni determinati dall’attività illecita del terzo”, giacché “l’azione di responsabilità extracontrattuale non postula necessariamente una identità tra il titolo al risarcimento e il titolo giuridico di proprietà o di godimento”, con la conseguenza che nel giudizio risarcitorio non è necessario per l’attore dimostrare il suo diritto sul bene, ma è sufficiente dimostrare di trovarsi in una relazione di fatto con la cosa e di avere subito un danno patrimoniale per la mancata disponibilità di essa; v. anche, conff., Cass. 14/05/1979, n. 2780; 14/05/1993, n. 5485; 29/01/2014, n. 1964, in motivazione);

– ne discende anche che alcun rilievo impeditivo può nemmeno avere la pretesa della nuova assegnataria di ottenere il pieno godimento dell’immobile a lei successivamente locato: trattandosi di pretesa derivata la stessa non varrebbe di per sé a rendere meno illecita l’azione spoliatrice dell’Iacp ed a privare dunque di fondamento la conseguente pretesa risarcitoria;

– il diritto dell’Iacp sul bene, e quello derivato della nuova locataria, agiscono sul diverso e non incompatibile terreno della tutela petitoria;

entrambi, in particolare, rimangono tutelabili con azioni reali o personali di rilascio del bene, pur tenendo ferma la riconosciuta illiceità dello spoglio in precedenza compiuto dall’ente proprietario e salvi gli effetti dell’eventuale mala fede del possessore, che rimane possibile far valere al fine di ottenere, in seno ad eventuale giudizio di rivendica, la restituzione del bene o il controvalore di questo, insieme con i frutti dovuti per legge dal possessore di mala fede (v. Cass. 12/05/1987, n. 4367)>>.

Uso o innovazione individuale della cosa comune? La trasformazione del tetto in terrazza privata

Cass. civ., Sez. II, Sent., (data ud. 14/11/2023) 10/01/2024, n. 917, rel. Fortunato:

Premessa sulla distinzione tra uso della cosa comune e innovazikone ex art. 1120:

<<Le innovazioni di cui all’art. 1120 c.c. si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall’art. 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne l’aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, ma con quello del singolo condomino, essendo volte al suo solo perseguimento (Cass. 2126/2021; Cass. 20712/2017; Cass. 18052/2012; Cass. n. 20712; Cass. 240/1997).

Costituisce innovazione ex art. 1120 c.c., non qualsiasi modificazione della cosa comune, ma solo quella che alteri l’entità materiale del bene, operandone la trasformazione, o ne modifichi la destinazione, ove il bene assuma, a seguito delle opere eseguite, una diversa consistenza materiale o sia utilizzato per fini diversi da quelli originari.

Qualora la modificazione della cosa comune risponda allo scopo di un uso del bene più intenso e proficuo, si versa nell’ambito dell’art. 1102 c.c., che, sebbene dettato in materia di comunione ordinaria, è applicabile in materia di condominio degli edifici per effetto del richiamo contenuto nell’art. 1139 c.c.>>

Ne segue: <<per tali ragioni la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, sempre che un tale intervento dia luogo a modifiche non significative della consistenza del bene in rapporto alla sua estensione e sia attuato con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio mediante idonei materiali (Cass. 14107/2012; Cass. 2126/2021).

L’art. 1102 c.c. consente a ciascun proprietario di far un uso più inteso della cosa comune a condizione che non sia alterata la funzione del bene e non impedito il pari uso: l’alterazione della funzione del bene deve essere effettiva e non può consistere in una semplice modificazione materiale; il pari uso non va inteso non deve consistere nel medesimo uso che possa invece farne il singolo che si trovi in un rapporto particolare e diverso con la cosa, ma di uso anche inteso ma che possa essere effettivo, occorrendo individuare, in concreto, i sacrifici alle facoltà di godimento che tale modifica apporti, senza dar rilievo ad una astratta possibilità di uso alternativo o un suo ipotetico depotenziamento (Cass. 14107/2012; Cass. 857/2019; Cass. 13503/2019; Cass. 41490/2021; Cass. 19939/2022; Cass. 2971/2023).

Le opere di cui si discute non costituivano – quindi – innovazioni suscettibili di autorizzazione ai sensi dell’art. 1120 c.c.: la norma riguarda non le opere intraprese dal singolo per realizzare un miglior uso della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 c.c., ma quelle volute dall’assemblea condominiale con la maggioranza prescritta>>.

Occhio però al limite: <<Occorre tuttavia considerare che l’art. 1120, comma 2 c.c. [rectius: comma 4] , nel vietare le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico – è astrattamente applicabile anche agli interventi effettuati con le finalità di cui all’art. 1102 c.c. (Cass. 11455/2015; Cass. 18350/2013; Cass. 14607/12), dovendosi accertare, oltre alla compatibilità dell’intervento con i limiti derivanti dall’art. 1102 c.c., il rispetto dell’ultimo comma dell’art. 1120 c.c., alla luce del necessario coordinamento normativo che deve farsi tra l’art. 1102, l’art. 1120 e, ove si tratti di interventi sulle pari esclusive, con l’art. 1122 c.c. (Cass. 11455/2015).

Competerà al giudice del rinvio riesaminare i fatti di causa e valutare la sussistenza delle violazioni, conformandosi agli enunciati principi di diritto.>>

Un caso di servitù apparente (al fine dell’acquisto per usucapione)

Un’applicazione dell’art. 1061 cc trovi in Cass. sez. II, Sent. 29/12/2023, n. 36.341, rel. Varrone, circa una rampa che , passando per il fondo servente, portava al retrostante (rispetto alla pubblica via) fondo dominante:

<<La questione principale che pone il presente ricorso riguarda la censura sollevata con il primo motivo ed avente ad oggetto la sussistenza nel caso di specie del requisito dell’apparenza ex art. 1061 c.c. dello scivolo-rampa quale presupposto costitutivo dell’usucapione della servitù di passaggio oggetto della domanda.

La sentenza impugnata è conforme alla giurisprudenza di questa Corte che richiede ai fini della sussistenza del requisito dell’apparenza la presenza di opere visibili e permanenti obiettivamente destinate al suo esercizio che rivelino in modo non equivoco l’esistenza del peso gravante sul fondo servente, in modo da rendere manifesto che non si tratta di attività compiuta in via precaria, bensì di preciso onere a carattere stabile (ex plurimius Sez. 6-2, Ord. n. 11834 del 2021; Sez. 6-2, Ord. N. 7004 del 2017; Sez. 2, Sent. n. 25355 del 2017).

Nel caso di specie la Corte d’Appello, con giudizio di fatto sottratto al sindacato di legittimità, ha accertato che la rampa era destinata ad essere utilizzata per consentire il passaggio dalla strada pubblica al fondo dominante. In particolare, si legge nella sentenza impugnata che vi è un chiaro collegamento fra la strada pubblica e proprietà degli attori e che dalle deposizioni testimoniali è emerso che il fondo degli attori è posto in successione rispetto al fondo dei convenuti sul quale insiste la rampa e tale situazione logistica dimostra senza ombra di dubbio la funzione dell’opera visibile ed apparente di accesso al fondo dominante attraverso il fondo servente.

La motivazione della Corte d’Appello, insuscettibile di sindacato in fatto circa lo stato dei luoghi, è conforme alla giurisprudenza di questa Corte quanto ai principi in diritto da essa affermati circa l’apparenza dell’opera, svolgendo la rampa anche la funzione di accesso al fondo dominante attraverso il fondo servente. In altri termini, nella specie, sussiste quel quid pluris che la giurisprudenza di questa Corte richiede ai fini della dimostrazione della specifica destinazione dell’opera all’esercizio della servitù e che riguarda la sua oggettiva destinazione al servizio (anche) del fondo dominante in modo da rivelare in modo non equivoco l’esistenza del peso gravante sul fondo servente (Sez. 2, n. 13238 del 2010; Sez. 2, n. 2994 del 17/02/2004)>>.

Arrivato in Gazzetta il c.d. Data Act

è ora in GUCE del 22.12.2023 il reg. 2023/2854 del 13-12-2023, cd data act. (permalink QUI).

Riguarda il dirito sui propri dati generati dall’uso di prodotti industriali “connessi” (punto centrale) e servizi ad esso correlati: devono essere effettivamente a disposizione del conctraente che li genera.

Riguarda sia dati personali che non personali.

REgola base: <<I prodotti connessi sono progettati e fabbricati e i servizi correlati sono progettati e forniti in modo tale che i dati dei prodotti e dei servizi correlati, compresi i pertinenti metadati necessari a interpretare e utilizzare tali dati, siano, per impostazione predefinita, accessibili all’utente in modo facile, sicuro, gratuito, in un formato completo, strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo automatico e, ove pertinente e tecnicamente possibile, in modo diretto>> (art. 3.1).

E se l’utente non può accedervi direttamente usando il prodotto? Allora <<i titolari dei dati mettono prontamente a disposizione dell’utente i dati, nonché i pertinenti metadati necessari per interpretare e utilizzare tali dati senza indebito ritardo, con la stessa qualità di cui dispone il titolare dei dati, in modo facile, sicuro, gratuitamente, in un formato completo, strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo automatico e, ove pertinente e tecnicamente possibile, modo continuo e in tempo reale. Ciò avviene sulla base di una semplice richiesta mediante mezzi elettronici, ove tecnicamente fattibile>>, art. 4.1.

Il titolare deve anche metterli a disposizione di terzi, se l’utente così chiede, art. 5.

E’ comminata l’inefficacia di clausole abusive nei contratti B2B, art. 13.

Infine, la parte forse meno vistosa ma assai importante per le in passato paventate difficoltà tecniche: la portabilità tecnica dei dati o meglio il “passaggio tra servizi di trattamento” (capo VI).

Riporto solo l’art. 23: <<I fornitori di servizi di trattamento dei dati adottano le misure di cui agli articoli 25, 26, 27, 29 e 30 per consentire ai clienti di passare a un servizio di trattamento dei dati, che copre lo stesso tipo di servizio ed è fornito da un diverso fornitore di servizi di trattamento dei dati, o a un’infrastruttura TIC locale, o, se del caso, di utilizzare più fornitori di servizi di trattamento dei dati contemporaneamente. I fornitori di servizi di trattamento dei dati non impongono ed eliminano in particolare gli ostacoli pre-commerciali, commerciali, tecnici, contrattuali e organizzativi che impediscono ai clienti di:

a) risolvere, dopo il termine massimo di preavviso e il completamento positivo del processo di passaggio, conformemente all’articolo 25, il contratto del servizio di trattamento dei dati; b) concludere nuovi contratti con un altro fornitore di servizi di trattamento dei dati che coprono lo stesso tipo di servizio; c) trasferire i dati esportabili del cliente e risorse digitali a un diverso fornitore di servizi di trattamento dei dati o a un’infrastruttura TIC locale, anche dopo aver beneficiato di un’offerta gratuita; d) conformemente all’articolo 24, conseguire l’equivalenza funzionale nell’utilizzo del nuovo servizio di trattamento dei dati nell’ambiente informatico di un altro fornitore di servizi di trattamento dei dati che copre il servizio equivalente ; e) disaggregare, ove tecnicamente fattibile, i servizi di trattamento dei dati di cui all’articolo 30, paragrafo 1, da altri servizi di trattamento dei dati forniti dal fornitore di servizi di trattamento dei dati>.

L’art. 20 GDPR sulla portabilità riguarda solo i dati personali.

Inizierà ad applicarsi tra due anni (dal 12 dicembre 2025, art. 50, 2° per.).

 

Sulla responsabilità per le infiltrazioni provenienti da lastrico solare o da terrazzo di proprietà o uso esclusivi

Cass. ord. 14 dicembre 2023 n. 35.027, rel. Giannaccari:

<<Come affermato da questa Corte, in materia di responsabilità per
danni da infiltrazioni prodotte dal lastrico solare o dal terrazzo di
proprietà o di uso esclusivo, il paradigma è quello dell’art. 2051 c.c.
avuto riguardo alla posizione del soggetto proprietario o avente l’uso
esclusivo, in ragione del rapporto diretto che esso ha con il bene
potenzialmente dannoso.

E’, inoltre, configurabile una concorrente
responsabilità del Condominio, che, in forza degli artt. 1130 c.c.,
comma 1, n.4 e 1135 c.c., comma 1, n.4, è tenuto a compiere gli atti
conservativi e le opere di manutenzione straordinaria relativi alle parti
comuni dell’edificio, avuto riguardo alla posizione del soggetto che del
lastrico o della terrazza abbia l’uso esclusivo.
La concorrente responsabilità del Condominio è configurabile nel caso
in cui l’amministratore ometta di attivare gli obblighi conservativi
delle cose comuni ovvero nel caso in cui l’assemblea non adotti le
determinazioni di sua competenza in materia di opere di
manutenzione straordinaria ( Cass., Sez. Unite N.9449/2016
Cassazione civile sez. VI, 11/01/2022, n.516).

Il concorso di tali
responsabilità va di norma risolto, salva la rigorosa prova contraria
della specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di
cui all’art. 1126 c.c., che pone le spese di riparazione o di
ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell’usuario
esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a
carico del Condominio. Tale concorso di responsabilità si spiega con la
naturale interconnessione esistente tra la superficie del lastrico e
della terrazza a livello, sulla quale si esercita la custodia del titolare
del diritto di uso in via esclusiva, e la struttura immediatamente
sottostante, che costituisce cosa comune, sulla quale la custodia non
può esercitarsi nelle medesime forme ipotizzabili per la copertura
esterna.
In assenza di prova della riconducibilità del danno a fatto esclusivo
del titolare del diritto di uso esclusivo del lastrico solare o di una
parte di questo (Sez. 2, Sentenza n. 3239 del 07/02/2017 ) – e
tenuto conto che l’esecuzione di opere di riparazione o di
ricostruzione richiede la necessaria collaborazione del primo e del
condominio – il criterio di riparto previsto per le spese di riparazione o ricostruzione dalla citata disposizione costituisce un parametro
legale rappresentativo di una situazione di fatto, correlata all’uso e
alla custodia della cosa nei termini in essa delineati, valevole anche ai
fini della ripartizione del danno cagionato dalla cosa comune che,
nella sua parte superficiale, sia in uso esclusivo ovvero sia di
proprietà esclusiva, è comunque destinata a svolgere una funzione
anche nell’interesse dell’intero edificio o della parte di questo ad essa
sottostante>>

Distanze delle costruzioni dalle vedute (art. 905, 906, 907 cc)

Interessante ripasso di un argomento solo apparentemente antiqiato , ma invece ancora attuale, essendo relativo ad una sfera primordialmente importante per l’uomo (il proprio spazio vitale, di riservatezza, di prossimità con l’altro) (Cass.  sez. II sent. 12/12/2023, n. 34.717, rel. Giannaccari , da Onelegale).

Segnalo tre passaggi:

– I-

<<Come affermato da questa Corte, presupposto logico-giuridico dell’attuazione della disciplina della distanza delle costruzioni dalle vedute di cui all’art. 907 c.c. è l’anteriorità dell’acquisto del diritto alla veduta sul fondo vicino rispetto all’esercizio, da parte del proprietario di quest’ultimo, della facoltà di costruire. Pertanto, nel caso in cui l’usucapione del diritto di esercitare la servitù di veduta non sia maturata, per non essersi compiuto il termine utile, dopo l’ultimazione dell’edificio costruito sul fondo vicino, non può essere esercitato il diritto di richiedere l’arretramento dell’edificio stesso alla distanza prevista dalla citata norma. Nè vale invocare in contrario il principio della retroattività degli effetti dell’usucapione, in quanto, se è vero che l’usucapiente diventa titolare del diritto usucapito sin dalla data d’inizio del suo possesso, tuttavia i suddetti effetti sono commisurati alla situazione di fatto e diritto esistente al compimento del termine richiesto: ne consegue che se, durante il maturarsi del termine, il soggetto, che avrebbe potuto contestare l’esercizio della veduta, ha modificato tale situazione, avvalendosi della facoltà di costruire sul proprio fondo, è a tale situazione che occorre far riferimento per stabilire il contenuto ed i limiti del diritto di veduta usucapito (v. Cass. 9 aprile 1976, n. 1239).

Nel caso di specie, la Corte d’appello non ha accertato se e in base a quale titolo l’attore abbia acquistato la servitù di veduta.

La sentenza impugnata si è quindi sottratta all’onere di svolgere tale accertamento ed ha finito, quindi, per applicare la norma in tema di distanza delle costruzioni dalle vedute senza verificarne le condizioni che ne consentono l’applicazione.

2.4. Peraltro, in tema di servitù prediali, il diritto di pretendere, ai sensi dell’art. 907 c.c., l’osservanza della distanza in ordine alla servitù di veduta, acquistata per usucapione, verso il fondo del vicino, ha ad oggetto solo le nuove costruzioni, non anche le eventuali ricostruzioni di edifici demoliti, potendo questi essere ricostruiti (Cass. 12 maggio 2003, n. 7257).

Ne consegue che, durante il minimo periodo intercorrente fra la demolizione e la ricostruzione non è potuto sorgere e consolidarsi iure servitutis il diritto di veduta>>.

– II-

<<La sentenza adotta in modo indifferenziato il termine di “veduta laterale” e “veduta obliqua”.

Per distinguere tra vedute dirette, oblique e laterali la giurisprudenza di questa Corte ha adottato il criterio basato sulla posizione di chi guarda, soprattutto allorchè, come avviene appunto per i balconi, siano possibili più posizioni di affaccio: rispetto ad ogni lato del balcone si ha, infatti, una veduta diretta, ovvero frontale, e due vedute oblique o laterali a seconda dell’ampiezza angolare (Cassazione civile sez. II, 30/03/2018, n. 8010; Cass. Civ., Sez. II, 5.1.2011, n. 220).

La veduta laterale è quella che si esercita in linea retta, nella stessa direzione del muro in cui è posta, sicchè per esercitarla occorre volgere completamente il capo da una parte.

La veduta obliqua è quella che si esercita guardando non di fronte ma sul tratto che è posto a destra o a sinistra di chi guarda.

Da balconi, terrazze o da altri luoghi aperti, lo sguardo può volgersi frontalmente verso tutte le direzioni.

Mentre l’art. 905 c.c., si riferisce alle vedute dirette, le vedute oblique sono invece disciplinate dall’art. 906 c.c., per il quale la distanza “deve misurarsi dal più vicino lato della finestra o dal più vicino sporto”.

Nel caso di specie, è errata l’affermazione della Corte di merito secondo cui dal balconcino posto al primo piano perpendicolarmente alla proprietà A.A. potesse esercitarsi una veduta obliqua sul cortile e sul fondo della parte della parte convenuta, essendo, invece, esercitabile solo la veduta diretta>>.-

– III –

<<Con il terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 872 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte d’appello disposto la riduzione in pristino per la violazione delle altezze prescritte dai regolamenti locali, mentre tale violazione avrebbe potuto comportare il solo risarcimento per equivalente, previa prova rigorosa del pregiudizio subito.

3.1. Il motivo è fondato.

3.2. La Corte distrettuale ha accertato che la sopraelevazione era stata eseguita in violazione delle NTA del Comune di Sparone perchè non trovava giustificazione nel “recupero di maggiori luci nette interpiano o di riutilizzo di sottotetto a fini abitativi”, in quanto le altezze esistenti erano già abbondantemente idonee a riutilizzare il sottotetto a fini abitativi; poichè la sopraelevazione era stata eseguita in difformità del titolo autorizzativo sia in relazione all’altezza che alla volumetria, la Corte d’appello ha condannato A.A. alla riduzione dell’innalzamento del tetto fino all’altezza di colmo della costruzione previgente.

3.3. La Corte d’appello è incorsa nella violazione dell’art. 872 c.c., in quanto dalla violazione delle norme urbanistiche che disciplinano l’altezza dei fabbricati non può conseguire la condanna alla riduzione in pristino, ma solo al risarcimento dei danni.

3.4. Infatti, sono da ritenersi integrative delle norme del codice civile solo le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all’altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo principale la tutela d’interessi generali urbanistici, disciplinano solo l’altezza in sè degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi, tutelano esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini. Ne consegue che, mentre nel primo caso sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, nel secondo è ammessa la sola tutela risarcitoria, previa rigorosa prova del danno subito (Cass. 18 maggio 2016, n. 10264; Cass. 16 gennaio 2009, n. 1073)>>.

L?interverrrsione del possesso nella estensione del diritto da diritto sulla quopta di contitolarità a diritto sull’intero

Cass. sez. 2 del 30/11/2023 n. 33.453, rel. Oliva, secondo cui l’interversione in tale caso non è quella dell’art. 1164 cc,  dovendo essere rivolta ai comproprietari.

La seconda parte mi pare esatta, ma non la prima: le condotte verso i comproprietari son sempre quelle tradizionalmente ascritte al concetto di interversio possessionis-

<<E, quanto all’interversio possessionis, va del pari ribadito che il “Il partecipante alla comunione che intenda dimostrare l’intenzione di possedere non a titolo di compossesso, ma di possesso esclusivo (“uti dominus”), non ha la necessità di compiere atti di interversio possessionis alla stregua dell’art. 1164 c.c., dovendo, peraltro, il mutamento del titolo consistere in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini della cosa, incompatibile con il permanere del compossesso altrui, non essendo al riguardo sufficienti atti soltanto di gestione, consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri, o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o l’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo ad una estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9100 del 12/04/2018, Rv. 648079; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16841 del 11/08/2005, Rv. 584306; principio valido anche ai rapporti tra coeredi, prima della divisione, in forza di Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 9359 del 08/04/2021, Rv. 660860, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10734 del 04/05/2018, Rv. 648439 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1370 del 18/02/1999, Rv. 523346). Il semplice godimento della cosa comune da parte di uno dei compossessori, dunque, non è di per sé idoneo a far ritenere lo stato di fatto funzionale all’esercizio del possesso ad usucapionem, poiché ben potrebbe trattarsi della conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte degli altri compossessori; è dunque necessario, ai fini dell’usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla cosa attraverso un’attività apertamente e inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su chi invoca l’avvenuta usucapione del bene>>.

Servitù apparenti e servitù discontinue nel possesso ad usucapionem

Utili precisazioni al pratico da Cass. sez. II ord. del 227-11-2023, n. 32.816 , rel. Mocci (testo da Altalex)

<<4.1) Sul punto, la Corte d’appello ha testualmente affermato
“Invero ed in particolare, non solo non risulta allegato, ma neppure
provato, l’intervenuto iniziale acquisto dell’effettivo esercizio del
potere di fatto uti domini della servitù, quale momento da cui far
decorrere il ventennio utile per il maturare dell’usucapione non
potendosi far coincidere questo momento con quello
dell’ultimazione dell’opera, che costituisce, in relazione alla
fattispecie reale invocata, un antecedente logico-naturale,
differente dall’esercizio del possesso esclusivo, della situazione di
fatto corrispondente al relativo diritto reale, non potendosi del
resto neppure omettere di aggiungere che difetta anche la prova
rigorosa (gravante sull’attore), del possesso pacifico, di cui anche
con riferimento alla servitù discontinua, è pur sempre necessaria
l’allegazione e la prova”.
4.2) In sostanza, la Corte distrettuale ha negato la declaratoria di
usucapione della servitù di veduta per la mancanza di prova sia
sull’effettivo esercizio del potere di fatto, sia sul possesso pacifico.
I giudici di secondo grado hanno però mancato di confrontarsi con
la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui il
requisito dell’apparenza della servitù discontinua, richiesto al fine
della sua costituzione per usucapione, si configura quale presenza
di segni visibili d’opere di natura permanente obiettivamente
destinate al suo esercizio, tali da rivelare in maniera non equivoca
l’esistenza del peso gravante sul fondo servente per l’utilità del
fondo dominante, dovendo dette opere, naturali o artificiali che
siano, rendere manifesto trattarsi non di un’attività posta in essere
in via precaria, o per tolleranza del proprietario del fondo servente,
comunque senza “animus utendi iure servitutis”, bensì d’un onere
preciso, a carattere stabile, corrispondente in via di fatto al
contenuto di una determinata servitù che, peraltro, non implica
necessariamente un’utilizzazione continuativa delle opere stesse, la
cui apparenza e destinazione all’esercizio della servitù permangono,
a comprova della possibilità di tale esercizio e pertanto, della
permanenza del relativo possesso, anche in caso di utilizzazione
saltuaria (Sez. 2, n. 3076 del 16 febbraio 2005; Sez. 2, n. 8736 del
26 giugno 2001).
4.3) In altri termini, in tema di servitù discontinue, l’esercizio
saltuario non è di ostacolo a configurarne il possesso, dovendo lo
stesso essere determinato con riferimento alle peculiari
caratteristiche ed alle esigenze del fondo dominante.
4.4) Ma la sentenza impugnata si rivela carente anche con riguardo
al tema della visibilità delle opere, ai sensi dell’art. 1061 cod. civ., che deve essere tale da escludere la clandestinità del possesso e da
far presumere che il proprietario del fondo servente abbia contezza
dell’obiettivo asservimento della proprietà a vantaggio del fondo
dominante. Sotto tale profilo, esattamente censurato dalla
ricorrente, la Corte d’appello omette qualunque motivazione, ed
anche il richiamo a Sez. 2, n. 24401 del 17 novembre 2014 risulta
lacunoso e difficilmente comprensibile.
4.5) Siffatta indagine appare, per converso, doverosa, posto che,
secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’esistenza di un’opera
muraria munita di parapetti e di muretti, dai quali sia
obiettivamente possibile guardare e affacciarsi comodamente verso
il fondo del vicino, è sufficiente a integrare una veduta e il possesso
della relativa servitù, senza che occorra anche l’esercizio effettivo
dell’affaccio (essendo la continuità dell’esercizio della veduta
normalmente assorbito nella situazione oggettiva dei luoghi), ne’
che tali opere siano sorte per l’esercizio esclusivo della veduta,
essendo sufficiente che le stesse tale esercizio rendano possibile
(Sez. 2, n. 20205 del 13 ottobre 2004; Sez. 2, n. 866 del 16
gennaio 2007)>

Tipi di tabelle millesimali condominiali e loro regime giuridico di modificabilità

Utili precisazioni in Cass. sez. II del 19/10/2023, rel. Chieca:

<< Da questi elementi la Corte territoriale ha tratto la conclusione che l’accordo di cui trattasi integra la “diversa convenzione” espressamente fatta salva dall’inciso finale dell’art. 1123 c.c., comma 1, non suscettibile di revisione ai sensi dell’art. 69 disp. att. c.c..

A sostegno della soluzione accolta ha richiamato i principi di diritto enunciati da questa Corte con sentenza n. 7300/2010, rammentando che in subiecta materia si suole distinguere tre tipologie di tabelle millesimali:

1) le tabelle convenzionali c.d. “pure”, caratterizzate dall’accordo con il quale “i condomini, nell’esercizio della loro autonomia”, dichiarano espressamente “di accettare che le loro quote nel condominio vengano determinate in modo difforme da quanto previsto dall’art. 1118 c.c. e art. 68 disp. att. c.c., dando vita alla “diversa convenzione” di cui all’art. 1123 c.c., comma 1, u.p.”: in questo caso, “la dichiarazione di accettazione ha valore negoziale e, risolvendosi in un impegno irrevocabile di determinare le quote in un certo modo, impedisce di ottenerne la revisione ai sensi dell’art. 69 disp. att. c.c.”;

2) le tabelle convenzionali c.d. “dichiarative”, che si differenziano dalle prime perché, “tramite l’approvazione della tabella, anche in forma contrattuale (mediante la sua predisposizione da parte dell’unico originario proprietario e l’accettazione degli iniziali acquirenti delle singole unità immobiliari, ovvero mediante l’accordo unanime di tutti i condomini), i condomini stessi intendono… non già modificare la portata dei loro rispettivi diritti ed obblighi di partecipazione alla vita del condominio, bensì determinare quantitativamente siffatta portata (addivenendo, così, alla approvazione delle operazioni di calcolo documentate dalla tabella medesima)”: in detta ipotesi, “la semplice dichiarazione di approvazione non riveste natura negoziale, con la conseguenza che l’errore, il quale, in forza dell’art. 69 disp. att. c.c., giustifica la revisione delle tabelle millesimali, non coincide con l’errore vizio del consenso, di cui agli artt. 1428 c.c. e segg., ma consiste, per l’appunto, nella obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari ed il valore proporzionale ad esse attribuito”; [si tratta di negozio determinativo]

3) le tabelle c.d. “assembleari”, cioè adottate dall’organo collegiale del condominio con la maggioranza qualificata all’uopo richiesta, le quali risultano “pacificamente soggette al procedimento di revisione di cui al più volte menzionato art. 69” >>.