Sulla responsabilità per le infiltrazioni provenienti da lastrico solare o da terrazzo di proprietà o uso esclusivi

Cass. ord. 14 dicembre 2023 n. 35.027, rel. Giannaccari:

<<Come affermato da questa Corte, in materia di responsabilità per
danni da infiltrazioni prodotte dal lastrico solare o dal terrazzo di
proprietà o di uso esclusivo, il paradigma è quello dell’art. 2051 c.c.
avuto riguardo alla posizione del soggetto proprietario o avente l’uso
esclusivo, in ragione del rapporto diretto che esso ha con il bene
potenzialmente dannoso.

E’, inoltre, configurabile una concorrente
responsabilità del Condominio, che, in forza degli artt. 1130 c.c.,
comma 1, n.4 e 1135 c.c., comma 1, n.4, è tenuto a compiere gli atti
conservativi e le opere di manutenzione straordinaria relativi alle parti
comuni dell’edificio, avuto riguardo alla posizione del soggetto che del
lastrico o della terrazza abbia l’uso esclusivo.
La concorrente responsabilità del Condominio è configurabile nel caso
in cui l’amministratore ometta di attivare gli obblighi conservativi
delle cose comuni ovvero nel caso in cui l’assemblea non adotti le
determinazioni di sua competenza in materia di opere di
manutenzione straordinaria ( Cass., Sez. Unite N.9449/2016
Cassazione civile sez. VI, 11/01/2022, n.516).

Il concorso di tali
responsabilità va di norma risolto, salva la rigorosa prova contraria
della specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di
cui all’art. 1126 c.c., che pone le spese di riparazione o di
ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell’usuario
esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a
carico del Condominio. Tale concorso di responsabilità si spiega con la
naturale interconnessione esistente tra la superficie del lastrico e
della terrazza a livello, sulla quale si esercita la custodia del titolare
del diritto di uso in via esclusiva, e la struttura immediatamente
sottostante, che costituisce cosa comune, sulla quale la custodia non
può esercitarsi nelle medesime forme ipotizzabili per la copertura
esterna.
In assenza di prova della riconducibilità del danno a fatto esclusivo
del titolare del diritto di uso esclusivo del lastrico solare o di una
parte di questo (Sez. 2, Sentenza n. 3239 del 07/02/2017 ) – e
tenuto conto che l’esecuzione di opere di riparazione o di
ricostruzione richiede la necessaria collaborazione del primo e del
condominio – il criterio di riparto previsto per le spese di riparazione o ricostruzione dalla citata disposizione costituisce un parametro
legale rappresentativo di una situazione di fatto, correlata all’uso e
alla custodia della cosa nei termini in essa delineati, valevole anche ai
fini della ripartizione del danno cagionato dalla cosa comune che,
nella sua parte superficiale, sia in uso esclusivo ovvero sia di
proprietà esclusiva, è comunque destinata a svolgere una funzione
anche nell’interesse dell’intero edificio o della parte di questo ad essa
sottostante>>

Distanze delle costruzioni dalle vedute (art. 905, 906, 907 cc)

Interessante ripasso di un argomento solo apparentemente antiqiato , ma invece ancora attuale, essendo relativo ad una sfera primordialmente importante per l’uomo (il proprio spazio vitale, di riservatezza, di prossimità con l’altro) (Cass.  sez. II sent. 12/12/2023, n. 34.717, rel. Giannaccari , da Onelegale).

Segnalo tre passaggi:

– I-

<<Come affermato da questa Corte, presupposto logico-giuridico dell’attuazione della disciplina della distanza delle costruzioni dalle vedute di cui all’art. 907 c.c. è l’anteriorità dell’acquisto del diritto alla veduta sul fondo vicino rispetto all’esercizio, da parte del proprietario di quest’ultimo, della facoltà di costruire. Pertanto, nel caso in cui l’usucapione del diritto di esercitare la servitù di veduta non sia maturata, per non essersi compiuto il termine utile, dopo l’ultimazione dell’edificio costruito sul fondo vicino, non può essere esercitato il diritto di richiedere l’arretramento dell’edificio stesso alla distanza prevista dalla citata norma. Nè vale invocare in contrario il principio della retroattività degli effetti dell’usucapione, in quanto, se è vero che l’usucapiente diventa titolare del diritto usucapito sin dalla data d’inizio del suo possesso, tuttavia i suddetti effetti sono commisurati alla situazione di fatto e diritto esistente al compimento del termine richiesto: ne consegue che se, durante il maturarsi del termine, il soggetto, che avrebbe potuto contestare l’esercizio della veduta, ha modificato tale situazione, avvalendosi della facoltà di costruire sul proprio fondo, è a tale situazione che occorre far riferimento per stabilire il contenuto ed i limiti del diritto di veduta usucapito (v. Cass. 9 aprile 1976, n. 1239).

Nel caso di specie, la Corte d’appello non ha accertato se e in base a quale titolo l’attore abbia acquistato la servitù di veduta.

La sentenza impugnata si è quindi sottratta all’onere di svolgere tale accertamento ed ha finito, quindi, per applicare la norma in tema di distanza delle costruzioni dalle vedute senza verificarne le condizioni che ne consentono l’applicazione.

2.4. Peraltro, in tema di servitù prediali, il diritto di pretendere, ai sensi dell’art. 907 c.c., l’osservanza della distanza in ordine alla servitù di veduta, acquistata per usucapione, verso il fondo del vicino, ha ad oggetto solo le nuove costruzioni, non anche le eventuali ricostruzioni di edifici demoliti, potendo questi essere ricostruiti (Cass. 12 maggio 2003, n. 7257).

Ne consegue che, durante il minimo periodo intercorrente fra la demolizione e la ricostruzione non è potuto sorgere e consolidarsi iure servitutis il diritto di veduta>>.

– II-

<<La sentenza adotta in modo indifferenziato il termine di “veduta laterale” e “veduta obliqua”.

Per distinguere tra vedute dirette, oblique e laterali la giurisprudenza di questa Corte ha adottato il criterio basato sulla posizione di chi guarda, soprattutto allorchè, come avviene appunto per i balconi, siano possibili più posizioni di affaccio: rispetto ad ogni lato del balcone si ha, infatti, una veduta diretta, ovvero frontale, e due vedute oblique o laterali a seconda dell’ampiezza angolare (Cassazione civile sez. II, 30/03/2018, n. 8010; Cass. Civ., Sez. II, 5.1.2011, n. 220).

La veduta laterale è quella che si esercita in linea retta, nella stessa direzione del muro in cui è posta, sicchè per esercitarla occorre volgere completamente il capo da una parte.

La veduta obliqua è quella che si esercita guardando non di fronte ma sul tratto che è posto a destra o a sinistra di chi guarda.

Da balconi, terrazze o da altri luoghi aperti, lo sguardo può volgersi frontalmente verso tutte le direzioni.

Mentre l’art. 905 c.c., si riferisce alle vedute dirette, le vedute oblique sono invece disciplinate dall’art. 906 c.c., per il quale la distanza “deve misurarsi dal più vicino lato della finestra o dal più vicino sporto”.

Nel caso di specie, è errata l’affermazione della Corte di merito secondo cui dal balconcino posto al primo piano perpendicolarmente alla proprietà A.A. potesse esercitarsi una veduta obliqua sul cortile e sul fondo della parte della parte convenuta, essendo, invece, esercitabile solo la veduta diretta>>.-

– III –

<<Con il terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 872 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte d’appello disposto la riduzione in pristino per la violazione delle altezze prescritte dai regolamenti locali, mentre tale violazione avrebbe potuto comportare il solo risarcimento per equivalente, previa prova rigorosa del pregiudizio subito.

3.1. Il motivo è fondato.

3.2. La Corte distrettuale ha accertato che la sopraelevazione era stata eseguita in violazione delle NTA del Comune di Sparone perchè non trovava giustificazione nel “recupero di maggiori luci nette interpiano o di riutilizzo di sottotetto a fini abitativi”, in quanto le altezze esistenti erano già abbondantemente idonee a riutilizzare il sottotetto a fini abitativi; poichè la sopraelevazione era stata eseguita in difformità del titolo autorizzativo sia in relazione all’altezza che alla volumetria, la Corte d’appello ha condannato A.A. alla riduzione dell’innalzamento del tetto fino all’altezza di colmo della costruzione previgente.

3.3. La Corte d’appello è incorsa nella violazione dell’art. 872 c.c., in quanto dalla violazione delle norme urbanistiche che disciplinano l’altezza dei fabbricati non può conseguire la condanna alla riduzione in pristino, ma solo al risarcimento dei danni.

3.4. Infatti, sono da ritenersi integrative delle norme del codice civile solo le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all’altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo principale la tutela d’interessi generali urbanistici, disciplinano solo l’altezza in sè degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi, tutelano esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini. Ne consegue che, mentre nel primo caso sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, nel secondo è ammessa la sola tutela risarcitoria, previa rigorosa prova del danno subito (Cass. 18 maggio 2016, n. 10264; Cass. 16 gennaio 2009, n. 1073)>>.

L?interverrrsione del possesso nella estensione del diritto da diritto sulla quopta di contitolarità a diritto sull’intero

Cass. sez. 2 del 30/11/2023 n. 33.453, rel. Oliva, secondo cui l’interversione in tale caso non è quella dell’art. 1164 cc,  dovendo essere rivolta ai comproprietari.

La seconda parte mi pare esatta, ma non la prima: le condotte verso i comproprietari son sempre quelle tradizionalmente ascritte al concetto di interversio possessionis-

<<E, quanto all’interversio possessionis, va del pari ribadito che il “Il partecipante alla comunione che intenda dimostrare l’intenzione di possedere non a titolo di compossesso, ma di possesso esclusivo (“uti dominus”), non ha la necessità di compiere atti di interversio possessionis alla stregua dell’art. 1164 c.c., dovendo, peraltro, il mutamento del titolo consistere in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini della cosa, incompatibile con il permanere del compossesso altrui, non essendo al riguardo sufficienti atti soltanto di gestione, consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri, o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o l’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo ad una estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9100 del 12/04/2018, Rv. 648079; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16841 del 11/08/2005, Rv. 584306; principio valido anche ai rapporti tra coeredi, prima della divisione, in forza di Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 9359 del 08/04/2021, Rv. 660860, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10734 del 04/05/2018, Rv. 648439 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1370 del 18/02/1999, Rv. 523346). Il semplice godimento della cosa comune da parte di uno dei compossessori, dunque, non è di per sé idoneo a far ritenere lo stato di fatto funzionale all’esercizio del possesso ad usucapionem, poiché ben potrebbe trattarsi della conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte degli altri compossessori; è dunque necessario, ai fini dell’usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla cosa attraverso un’attività apertamente e inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su chi invoca l’avvenuta usucapione del bene>>.

Servitù apparenti e servitù discontinue nel possesso ad usucapionem

Utili precisazioni al pratico da Cass. sez. II ord. del 227-11-2023, n. 32.816 , rel. Mocci (testo da Altalex)

<<4.1) Sul punto, la Corte d’appello ha testualmente affermato
“Invero ed in particolare, non solo non risulta allegato, ma neppure
provato, l’intervenuto iniziale acquisto dell’effettivo esercizio del
potere di fatto uti domini della servitù, quale momento da cui far
decorrere il ventennio utile per il maturare dell’usucapione non
potendosi far coincidere questo momento con quello
dell’ultimazione dell’opera, che costituisce, in relazione alla
fattispecie reale invocata, un antecedente logico-naturale,
differente dall’esercizio del possesso esclusivo, della situazione di
fatto corrispondente al relativo diritto reale, non potendosi del
resto neppure omettere di aggiungere che difetta anche la prova
rigorosa (gravante sull’attore), del possesso pacifico, di cui anche
con riferimento alla servitù discontinua, è pur sempre necessaria
l’allegazione e la prova”.
4.2) In sostanza, la Corte distrettuale ha negato la declaratoria di
usucapione della servitù di veduta per la mancanza di prova sia
sull’effettivo esercizio del potere di fatto, sia sul possesso pacifico.
I giudici di secondo grado hanno però mancato di confrontarsi con
la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui il
requisito dell’apparenza della servitù discontinua, richiesto al fine
della sua costituzione per usucapione, si configura quale presenza
di segni visibili d’opere di natura permanente obiettivamente
destinate al suo esercizio, tali da rivelare in maniera non equivoca
l’esistenza del peso gravante sul fondo servente per l’utilità del
fondo dominante, dovendo dette opere, naturali o artificiali che
siano, rendere manifesto trattarsi non di un’attività posta in essere
in via precaria, o per tolleranza del proprietario del fondo servente,
comunque senza “animus utendi iure servitutis”, bensì d’un onere
preciso, a carattere stabile, corrispondente in via di fatto al
contenuto di una determinata servitù che, peraltro, non implica
necessariamente un’utilizzazione continuativa delle opere stesse, la
cui apparenza e destinazione all’esercizio della servitù permangono,
a comprova della possibilità di tale esercizio e pertanto, della
permanenza del relativo possesso, anche in caso di utilizzazione
saltuaria (Sez. 2, n. 3076 del 16 febbraio 2005; Sez. 2, n. 8736 del
26 giugno 2001).
4.3) In altri termini, in tema di servitù discontinue, l’esercizio
saltuario non è di ostacolo a configurarne il possesso, dovendo lo
stesso essere determinato con riferimento alle peculiari
caratteristiche ed alle esigenze del fondo dominante.
4.4) Ma la sentenza impugnata si rivela carente anche con riguardo
al tema della visibilità delle opere, ai sensi dell’art. 1061 cod. civ., che deve essere tale da escludere la clandestinità del possesso e da
far presumere che il proprietario del fondo servente abbia contezza
dell’obiettivo asservimento della proprietà a vantaggio del fondo
dominante. Sotto tale profilo, esattamente censurato dalla
ricorrente, la Corte d’appello omette qualunque motivazione, ed
anche il richiamo a Sez. 2, n. 24401 del 17 novembre 2014 risulta
lacunoso e difficilmente comprensibile.
4.5) Siffatta indagine appare, per converso, doverosa, posto che,
secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’esistenza di un’opera
muraria munita di parapetti e di muretti, dai quali sia
obiettivamente possibile guardare e affacciarsi comodamente verso
il fondo del vicino, è sufficiente a integrare una veduta e il possesso
della relativa servitù, senza che occorra anche l’esercizio effettivo
dell’affaccio (essendo la continuità dell’esercizio della veduta
normalmente assorbito nella situazione oggettiva dei luoghi), ne’
che tali opere siano sorte per l’esercizio esclusivo della veduta,
essendo sufficiente che le stesse tale esercizio rendano possibile
(Sez. 2, n. 20205 del 13 ottobre 2004; Sez. 2, n. 866 del 16
gennaio 2007)>

Tipi di tabelle millesimali condominiali e loro regime giuridico di modificabilità

Utili precisazioni in Cass. sez. II del 19/10/2023, rel. Chieca:

<< Da questi elementi la Corte territoriale ha tratto la conclusione che l’accordo di cui trattasi integra la “diversa convenzione” espressamente fatta salva dall’inciso finale dell’art. 1123 c.c., comma 1, non suscettibile di revisione ai sensi dell’art. 69 disp. att. c.c..

A sostegno della soluzione accolta ha richiamato i principi di diritto enunciati da questa Corte con sentenza n. 7300/2010, rammentando che in subiecta materia si suole distinguere tre tipologie di tabelle millesimali:

1) le tabelle convenzionali c.d. “pure”, caratterizzate dall’accordo con il quale “i condomini, nell’esercizio della loro autonomia”, dichiarano espressamente “di accettare che le loro quote nel condominio vengano determinate in modo difforme da quanto previsto dall’art. 1118 c.c. e art. 68 disp. att. c.c., dando vita alla “diversa convenzione” di cui all’art. 1123 c.c., comma 1, u.p.”: in questo caso, “la dichiarazione di accettazione ha valore negoziale e, risolvendosi in un impegno irrevocabile di determinare le quote in un certo modo, impedisce di ottenerne la revisione ai sensi dell’art. 69 disp. att. c.c.”;

2) le tabelle convenzionali c.d. “dichiarative”, che si differenziano dalle prime perché, “tramite l’approvazione della tabella, anche in forma contrattuale (mediante la sua predisposizione da parte dell’unico originario proprietario e l’accettazione degli iniziali acquirenti delle singole unità immobiliari, ovvero mediante l’accordo unanime di tutti i condomini), i condomini stessi intendono… non già modificare la portata dei loro rispettivi diritti ed obblighi di partecipazione alla vita del condominio, bensì determinare quantitativamente siffatta portata (addivenendo, così, alla approvazione delle operazioni di calcolo documentate dalla tabella medesima)”: in detta ipotesi, “la semplice dichiarazione di approvazione non riveste natura negoziale, con la conseguenza che l’errore, il quale, in forza dell’art. 69 disp. att. c.c., giustifica la revisione delle tabelle millesimali, non coincide con l’errore vizio del consenso, di cui agli artt. 1428 c.c. e segg., ma consiste, per l’appunto, nella obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari ed il valore proporzionale ad esse attribuito”; [si tratta di negozio determinativo]

3) le tabelle c.d. “assembleari”, cioè adottate dall’organo collegiale del condominio con la maggioranza qualificata all’uopo richiesta, le quali risultano “pacificamente soggette al procedimento di revisione di cui al più volte menzionato art. 69” >>.

La locazione stipulata da un comproprietario (nel caso specifico: a favore di altro comproprietario) va inquadrata nella gestione di affari

Cass. sez. III del 18/07/2023 n. 20.885, rel. Condello;

<<4. Il primo ed il secondo motivo, strettamente connessi, possono essere congiuntamente trattati e sono infondati, avendo, del tutto correttamente, la Corte d’appello ricondotto la fattispecie qui in esame, in cui si controverte della locazione di un bene comune da parte di un solo comproprietario, all’istituto della gestione d’affari, in conformità a quanto statuito dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 11135/2012.

Con tale sentenza è stato enunciato il seguente principio: “La locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari rientra nell’ambito della gestione di affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all’art. 2032 c.c., sicché, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore può ratificare l’operato del gestore e, ai sensi dell’art. 1705 c.c., comma 2, applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 c.c., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla rispettiva quota di proprietà indivisa”.

A tale approdo le Sezioni Unite sono pervenute all’esito di un lungo excursus delle diverse posizioni emerse nella giurisprudenza di legittimità in merito alla questione relativa alla legittimazione del comproprietario non locatore ad agire direttamente per l’esercizio dei diritti e dei poteri contrattuali derivanti dalla stipulazione del contratto da parte dell’altro comproprietario, confermando che la locazione svolge pienamente i suoi effetti anche quando il locatore abbia violato i limiti dei poteri che gli spettano ex art. 1105 c.c. e ss., essendo sufficiente ai fini della stipula della locazione che abbia la disponibilità della cosa locata.

A fronte delle diverse soluzioni prospettate dalla giurisprudenza sul tema, le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover inquadrare la fattispecie nell’ambito della gestione di affari altrui ex art. 2028 c.c., “consentendo tale disciplina di offrire una soluzione che vale a contemperare gli interessi e le posizioni dei vari soggetti coinvolti”.

Nel rilevare che l’esistenza di una situazione di contitolarità del bene da parte del gestore non è di ostacolo all’applicazione dell’art. 2028 c.c., hanno avuto cura di sottolineare che “elemento caratterizzante della gestione di affari è il compimento di atti giuridici spontaneamente ed utilmente nell’interesse altrui, in assenza di un obbligo legale o convenzionale di cooperazione” e che, a tal fine, si richiede, insieme alla spontaneità dell’intervento del gestore, all’animus aliena negotia gerendi, all’alienità dell’affare, all’utilità della gestione (utiliter coeptum), anche l’absentia domini, da intendersi non come impossibilità oggettiva o soggettiva di curare i propri interessi, bensì come semplice mancanza di un rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento senza opposizione e/o divieto del dominus.

Sulla base di tali premesse, le Sezioni Unite hanno desunto le seguenti conclusioni: l’opposizione del comproprietario non locatore rileva solo se portata a conoscenza e manifestata prima della stipula del contratto, ai sensi dell’art. 2031 c.c., rimanendo, in caso contrario, il contratto di locazione pienamente efficace, ancorché non vi sia il consenso del comproprietario che non ha stipulato il contratto; il comproprietario non locatore che abbia ratificato l’operato dell’altro comunista, ai sensi dell’art. 1705 c.c., potrà sostituirsi al comproprietario locatore per il solo esercizio dei diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato con preclusione del compimento di ogni altra azione derivante dal contratto.

Il contratto sottoscritto dal comproprietario locatore e dal conduttore è dunque valido ed efficace, cosicché la posizione del conduttore è posta al riparo da eventuali contrasti che dovessero insorgere tra i comproprietari in ordine alla gestione del bene comune, mentre il comproprietario non locatore, che sia a conoscenza dell’intenzione dell’altro comproprietario di addivenire alla stipula del contratto di locazione del bene comune, deve manifestare preventivamente il proprio dissenso, il che lo esonera dal dover adempiere le obbligazioni assunte dal gestore, ma conserva comunque la facoltà di ratificare il contratto stipulato dal comproprietario locatore (in senso conforme, Cass., sez. 3, 10/10/2019, n. 25433; Cass., sez. 3, 10/09/2019, n. 22540; Cass., sez. 3, 09/04/2021, n. 9476).

A siffatti principi occorre attenersi anche nella fattispecie in esame, a nulla rilevando, come ritenuto dalla parte ricorrente, la qualità di comproprietario del bene in capo al conduttore A.G.. Come evidenziato dai giudici d’appello, “una volta riconosciuta ad un comproprietario la detenzione esclusiva della res comune in virtù di un contratto di locazione, ad opera del comproprietario che tale detenzione possa trasferire, a tale contratto, fondante un titolo di detenzione esclusiva, dovrà farsi riferimento nei rapporti con il comproprietario conduttore, potendo poi la disciplina in tema di rendiconto dei frutti e delle rendite senz’altro rilevare nei rapporti tra comproprietario locatore, che abbia riscosso per intero il canone di locazione, e gli altri comunisti, che siano rimasti estranei al contratto di locazione”.

La logica indicata dalle Sezioni Unite, cioè quella della gestione d’affari, è perfettamente ricorrente nel caso in cui uno dei comproprietari stipuli la locazione della cosa comune con altro comproprietario. Si potrebbe pensare che essa difetti, perché il comproprietario che assume le vesti di conduttore non potrebbe connotarsi contemporaneamente come soggetto per cui il comproprietario che assume la veste di conduttore agisca coma gerente. Ma, data la diversità della posizione di comproprietario e di quella di stipulante la locazione come conduttore, non si configura alcuna incompatibilità, trattandosi di posizioni giuridicamente distinte. Semmai, il comproprietario che riceve la res in locazione dovrà essere considerato – per un evidente principio di non contraddizione – automaticamente ratificante, per così dire ilico et immediate l’operato del suo collega stipulante come locatore.

In questa ottica, dunque, il contratto concluso dal comproprietario locatore, C.R., e A.G. conserva piena validità ed è dunque opponibile all’odierna ricorrente, comproprietaria del bene, che, come accertato dalla Corte d’appello, non essendosi preventivamente opposta alla stipula del contratto di locazione, non può pretendere la risoluzione del medesimo contratto, ma può soltanto chiedere il pagamento pro quota dei canoni di locazione maturati in data successiva alla intervenuta ratifica, coincidente con la data di notificazione dell’atto di intimazione dello sfratto per morosità>>.

Chi è responsabile per i danni (da infiltraizoni) derivanti da terrazza condominiale ma ad uso esclusivo? Sia il Condominio che l’usuario esclusivo (come custode ex art. 2051 cc)

Cass. sez. 2 ord. del 9 ottobre 2023 n. 28.253, rel. Scarpa:

<<5.3. Uniformandosi al principio di diritto enunciato da Cass. Sez. Unite 10 maggio 2016, n. 9449, deve ribadirsi che in tema di condominio negli edifici, qualora l’uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell’appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l’usuario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia il condominio in forza degli obblighi inerenti l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull’amministratore ex art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., nonché sull’assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n.4, c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria, regolandosi il concorso di tali responsabilità, secondo i criteri di cui all’art. 1126 c.c., a meno che non risulti la prova della riconducibilità del danno a fatto esclusivo del titolare del diritto di uso esclusivo del lastrico solare>>.

Poi :

<<5.5. Ora, con riguardo ai danni che una porzione di proprietà esclusiva, compresa in un edificio condominiale, subisca, come accertato nella specie, per effetto dell’inadempimento dell’obbligo gravante sul condominio di deliberare e di eseguire le necessarie opere di riparazione e di manutenzione, deve riconoscersi al titolare di detta porzione la possibilità di esperire azione risarcitoria contro il medesimo condominio, in base all’art. 2051 c.c., e cioè in relazione alla ricollegabilità di tali danni all’inosservanza da parte del condominio medesimo di provvedere, quale custode, ad eliminare le caratteristiche dannose della cosa. Peraltro, ove, come ancora nella specie, i danni subiti dal singolo condomino derivino dalle condizioni di degrado delle parti comuni imputabili già all’originario venditore, unico proprietario pro indiviso dell’edificio, che ha poi proceduto al frazionamento e dato luogo alla costituzione del condominio, non è di ostacolo a ravvisare la responsabilità del condominio ex art. 2051 c.c., per il protrarsi della omessa riparazione, la transazione intercorsa tra i condomini e il medesimo venditore, avente ad oggetto i lavori da eseguire sulle medesime parti comuni dell’edificio per eliminarne i difetti in esse riscontrati, con esclusione della garanzia contrattuale ai sensi dell’art. 1490, comma 2, c.c., in quanto il condominio non subentra quale successore a titolo particolare nella responsabilità posta a carico del venditore (o costruttore), ma assume dal momento della sua costituzione il distinto obbligo, quale custode dei beni e dei servizi comuni, di adottare tutte le misure necessarie affinché tali cose non rechino pregiudizio ad alcuno (arg. da Cass. n. 3209 del 1991; n. 6856 del 1993; n. 3753 del 1999; n. 1994 del 1980)>>.

Enuncia il seg. principio di diritto:

il titolare di una unità immobiliare compresa in un edificio condominiale può esperire azione risarcitoria contro il condominio, in base all’art. 2051 c.c., per i danni derivanti dalle condizioni di degrado di un lastrico solare di uso esclusivo, ancorché tali difetti siano imputabili già all’originario venditore, unico proprietario pro indiviso dell’edificio, e siano stati oggetto di transazione con i condomini acquirenti al momento della costituzione del condominio, con esclusione della garanzia contrattuale ai sensi dell’art. 1490, comma 2, c.c., in quanto il condominio non subentra quale successore a titolo particolare nella responsabilità posta a carico del venditore, ma assume dal momento della sua costituzione l’obbligo, quale custode dei beni e dei servizi comuni, di adottare tutte le misure necessarie affinché tali cose non rechino pregiudizio ad alcuno.

Condominio: differenza tra innovazioni e disciplina delle modalità di uso della cosa comune

Cass. sez. II del 13.06.2023 n. 16.902, rel. Falaschi:

<<Ad avviso della giurisprudenza di questa Corte (cfr., Cass. n. 15460 del 2002; Cass. n. 12654 del 2006 e Cass. n. 18052 del 2012), in tema di condominio, per innovazioni delle cose comuni devono intendersi non tutte le modificazioni (qualunque “opus novum”), ma solamente quelle modifiche che, determinando l’alterazione dell’entità materiale o il mutamento della destinazione originaria, comportano che le parti comuni, in seguito all’attività o alle opere eseguite, presentino una diversa consistenza materiale ovvero vengano ad essere utilizzate per fini diversi da quelli precedenti. In altre parole, nell’ambito della materia del condominio negli edifici, per innovazione in senso tecnico – giuridico, vietata ai sensi dell’art. 1120 c.c., deve intendersi non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente quella modificazione materiale che ne alteri l’entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria, mentre le modificazioni che mirino a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune e ne lascino immutate la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i concorrenti interessi dei condomini, non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto. A tale principio si è conformata la Corte di secondo grado che, con valutazione di merito adeguatamente motivata e fondata su univoci accertamenti di fatto, ha esattamente ritenuto – condividendo l’accertamento effettuato dal c.t.u. – che il Condominio con la diversa assegnazione dei posti auto e con l’amministrazione del corridoio sito a destra dell’ingresso del palazzo condominiale ha avuto quale finalità proprio quella di rendere detti spazi fruibili a tutti e per questo ne ha coerentemente disciplinato l’utilizzo. Con la conseguenza che ha valutato rispondere a logica e coerenza assegnare a ciascuno dei proprietari dei locali terranei lo stallo immediatamente prospicente gli stessi. Dunque si è trattata di operazione diretta a disciplinare, in senso migliorativo, l’uso della cosa comune impedendo che taluno dei condomini rimanesse privo della utilità fornita dal potere parcheggiare nello spazio comune, soprattutto considerando che, nel caso di specie, al piano terra del fabbricato esistevano locali di proprietà esclusiva, per cui non si era determinata alcuna interclusione degli stessi ma solo “il mero fastidio di spostare la propria vettura per accedervi più comodamente”. Ne’ l’utilizzo del “corridoio comune” per parcheggiare i motocicli solo sul lato destro ne impediva la percorribilità da parte dei proprietari dei depositi ivi situati, stante la oggettiva ampiezza dello stesso.

Pertanto deve, in questa sede, essere riconfermato il principio secondo cui, in tema di condominio di edifici, la Delib. assembleare, con la quale sia stata disposta una diversa distribuzione dei posti auto e dell’area per il parcheggio delle moto per disciplinare lo spazio comune in modo più utile per tutti i condomini, anche in funzione di impedire usi discriminati di tale area, rientra legittimamente nei poteri dell’assemblea dei condomini, attenendo all’uso della cosa comune ed alla sua regolamentazione, senza sopprimere o limitare le facoltà di godimento dei condomini, non incidendo sull’essenza del bene comune né alterandone la funzione o la destinazione (v., Cass. n. 9999 del 1992 e Cass. n. 875 del 1999). Pertanto, non è richiesta (come ravvisato esattamente, nella fattispecie, dalla Corte territoriale) per la legittimità di una Delib. assembleare condominiale avente detto oggetto, l’adozione con la maggioranza qualificata dei due terzi del valore dell’edificio, non concernendo tale Delib. una “innovazione” secondo il significato attribuito a tale espressione dal codice civile, ma riguardando solo la regolamentazione dell’uso ordinario della cosa comune consistente nel consentire a tutti i condomini di potersi avvantaggiare del beneficio del parcheggio>>.

Violazione di servitù reciproche condominiali: i divieti di certi usi delle parti di proprietà esclusiva devono essere “chiari ed espliciti”

Cass. sez.- II n- 15.222 del 30 maggio 2023 rel. Scarpa, circa la legittimità dell’uso di un immoibile condominiale come asilo nido.

L’art. 9 del regolamento di condominio era finalizzato <<ad impedire di “destinare gli appartamenti e gli altri enti dello stabile a uso diverso da quello figurante nel rogito di acquisto”, aggiungendo “e’ vietato destinare gli alloggi a uso sanitario, gabinetti di cura, ambulatorio per malattie infettive e contagiose, scuole di musica, di canto, di ballo e pensioni”>>.

sulla non ncessità di litisconsorzio verso il pripreitario condoiuno per le azioni di cessazione, bastando la presenza del  conduttore:

<<2.6.1. L’azione intentata dal Condominio di via (Omissis) per l’asserita violazione, in immobile condotto in locazione, di una prescrizione contenuta nel regolamento condominiale di non destinare i singoli locali di proprietà esclusiva dell’edificio a determinati usi, recante altresì la domanda di cessazione dell’attività abusiva e di accertamento della illegittimità dell’attività svolta nell’immobile alla stregua del divieto regolamentare, non poteva proporsi nei confronti della sola conduttrice Child Care s.r.l., essendo la proprietaria dell’unità immobiliare Talvera s.a.s. litisconsorte necessario in un tale giudizio. Ciò si comprende in quanto il giudizio che sia diretto a verificare l’esistenza e l’opponibilità di una siffatta clausola del regolamento, la quale preveda limitazioni all’uso delle unità immobiliari in proprietà esclusiva, accerta la sussistenza di servitù reciproche che riguardano immediatamente la cosa e perciò deve coinvolgere anche il proprietario, e non soltanto il conduttore.

Deve invero considerarsi che l’azione del condominio diretta a curare l’osservanza del regolamento ed a far riconoscere in giudizio l’esistenza della servitù che limiti la facoltà del proprietario della singola unità di adibire il suo immobile a determinate destinazioni, si configura come confessoria servitutis, e perciò vede quale legittimato dal lato passivo in primo luogo colui che, oltre a contestare l’esistenza della servitù, abbia un rapporto attuale con il fondo servente (proprietario, comproprietario, titolare di un diritto reale sul fondo o possessore suo nomine), potendo solo nei confronti di tali soggetti esser fatto valere il giudicato di accertamento, contenente, anche implicitamente, l’ordine di astenersi da qualsiasi turbativa nei confronti del titolare della servitù o di rimessione in pristino, mentre gli autori materiali della lesione del diritto di servitù possono essere eventualmente chiamati in giudizio quali destinatari dell’azione ex art. 1079 c.c. ove la loro condotta si sia posta a titolo di concorso con quella di uno dei predetti soggetti o abbia comunque implicato la contestazione della servitù (arg. da Cass. n. 1332 del 2014; n. 1383 del 1994).

Il condominio, quindi, sempre che sia provata l’operatività della clausola limitativa, ovvero la sua opponibilità al condomino locatore, può chiedere, comunque, nei diretti confronti del conduttore di una porzione del fabbricato condominiale, la cessazione della destinazione abusiva e l’osservanza in forma specifica delle istituite limitazioni, giacché il conduttore non può venire a trovarsi, rispetto al condominio, in posizione diversa da quella del condomino suo locatore, il quale, a sua volta, è tenuto ad imporre contrattualmente al conduttore il rispetto degli obblighi e dei divieti previsti dal regolamento, a prevenirne le violazioni e a sanzionarle anche mediante la cessazione del rapporto di locazione (cfr. Cass. n. 24188 del 2021; n. 11383 del 2006; n. 4920 del 2006; n. 16240 del 2003; n. 23 del 2004; n. 15756 del 2001; n. 4963 del 2001; n. 8239 del 1997; n. 825 del 1997; n. 5241 del 1978).

Le aspirazioni del conduttore di destinare l’immobile locato al soddisfacimento delle proprie esigenze abitative o all’esercizio della sua attività produttiva non hanno, invero, spazio per alcuna rivendicazione nei confronti della collettività condominiale, e vengono relegate al piano dei rimedi sinallagmatici esperibili verso il locatore. Il nostro ordinamento, diversamente da altri, non differenzia, in termini di opponibilità al conduttore, tra clausole del regolamento condominiale trascritte prima o dopo la stipula del contratto di locazione. Il conduttore convenuto dal condominio sull’assunto della violazione della norma regolamentare non può perciò invocare alcuna verifica giudiziale di meritevolezza della limitazione al suo godimento, ma solo rilevare, eventualmente, la mancata approvazione o l’inopponibilità di quel regolamento che rappresenta la condizione costitutiva dell’esperita azione>>

e poi:

<<2.6.5. Configurandosi, appunto, tali restrizioni di godimento delle proprietà esclusive come servitù reciproche, intanto può allora ritenersi che un regolamento condominiale ponga limitazioni ai poteri ed alle facoltà spettanti ai condomini sulle unità immobiliari di loro esclusiva proprietà, in quanto le medesime limitazioni siano enunciate nel regolamento in modo chiaro ed esplicito, dovendosi desumere inequivocamente dall’atto scritto, ai fini della costituzione convenzionale delle reciproche servitù, la volontà delle parti di costituire un vantaggio a favore di un fondo mediante l’imposizione di un peso o di una limitazione su un altro fondo appartenente a diverso proprietario. Il contenuto di tale diritto di servitù si concreta nel corrispondente dovere di ciascun condomino di astenersi dalle attività vietate, quale che sia, in concreto, l’entità della compressione o della riduzione delle condizioni di vantaggio derivanti – come qualitas fundi, cioè con carattere di realità – ai reciproci fondi dominanti, e perciò indipendentemente dalla misura dell’interesse del titolare del Condominio o degli altri condomini a far cessare impedimenti e turbative. Non appaga, pertanto, l’esigenza di inequivoca individuazione del peso e dell’utilità costituenti il contenuto della servitù costituita per negozio la formulazione di divieti e limitazioni nel regolamento di condominio operata non mediante elencazione delle attività vietate, ma mediante generico riferimento ai pregiudizi che si ha intenzione di evitare (quali, ad esempio, l’uso contrario al decoro, alla tranquillità o alla decenza del fabbricato), da verificare di volta in volta in concreto, sulla base della idoneità della destinazione, semmai altresì saltuaria o sporadica, a produrre gli inconvenienti che si vollero, appunto, scongiurare (Cass. n. 38639 del 2021; n. 33104 del 2021; n. 24188 del 2021; n. 21307 del 2016; n. 23 del 2004).

2.6.6. La condivisa esigenza di chiarezza e di univocità che devono rivelare i divieti ed i limiti regolamentari di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva, coerente con la loro natura di servitù reciproche, comporta che il contenuto e la portata di detti divieti e limiti vengano determinati fondandosi in primo luogo sulle espressioni letterali usate. L’art. 1362 c.c., del resto, allorché nel comma 1 prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto, anzi intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile>>.

Sulla necessitàò di precisa indiduazione della servitu cioè meglio del “peso” concordato sul fondo servente: ovvia, visto l’art. 1346 cc e la fonte contrattuale dela servitù. Meno ovvio è il criterio letterale che impedisce applicazioni estensive o analogiche (diremmo se si tratasse di norma legislativa invece che di patto)

<<2.6.7. Nella interpretazione del divieto di “destinare gli appartamenti e gli altri enti dello stabile a uso diverso da quello figurante nel rogito di acquisto”, occorre allora considerare che il contenuto di un diritto reale di servitù non può consistere in un generico divieto di disporre del fondo servente, dovendo il titolo costitutivo contenere tutti gli elementi atti ad individuare la portata oggettiva del peso imposto sopra un fondo per l’utilità di altro fondo appartenente a diverso proprietario, con la specificazione dell’estensione (Cass. n. 18349 del 2012).

Si insegna in dottrina che la servitù è un “diritto reale speciale”, sicché contenuto di essa, ove il peso imposto consista in un non facere, non può mai essere un indeterminato divieto di astensione da ogni diversa destinazione all’utilizzazione del fondo servente, che ne svuoti la proprietà.

La questione rievoca il complesso dibattito sui vincoli convenzionali alla destinazione d’uso dei beni immobili e sulla inidoneità degli stessi a valicare l’efficacia meramente obbligatoria. Già la più risalente giurisprudenza sosteneva l’invalidità delle clausole contrattuali degli atti di vendita che vietassero sine die all’acquirente di imprimere una diversa destinazione al bene, per l’effetto di disintegrazione del diritto di proprietà da esse discendenti (Cass. n. 1056 del 1950; n. 1343 del 1950; n. 4530 del 1984).

La costituzione della servitù, concretandosi in un rapporto di assoggettamento tra due fondi, importa, allora, una restrizione delle facoltà di godimento del fondo servente, ma tale restrizione, seppur commisurata al contenuto ed al tipo della servitù, non può risolversi nella totale elisione delle facoltà di disposizione del fondo servente (Cass. n. 1037 del 1966), precludendo al titolare dello stesso ogni possibile mutamento di destinazione.

Avendo, peraltro, la Corte d’appello di Milano analizzato la nozione legislativa della “destinazione d’uso”, occorre precisare che la decisione in esame non pone una questione di interpretazione delle disposizioni di legge, la quale è regolata dall’art. 12 preleggi assegnando un valore prioritario al dato letterale ed individuando, quale ulteriore elemento, l’intenzione del legislatore, quanto questione di interpretazione contrattuale in senso stretto, la quale, come già considerato, ha ad oggetto la determinazione della volontà dei contraenti.

Nella interpretazione, invece, del divieto di “destinare gli alloggi a uso sanitario, gabinetti di cura, ambulatorio per malattie infettive e contagiose, scuole di musica, di canto, di ballo e pensioni”, occorre preservare il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, avendo riguardo alle limitazioni enunciate nel regolamento in modo chiaro ed esplicito, e cioè alla elencazione delle attività vietate risultanti dall’atto scritto, non potendosene desumere ulteriori e diverse in ragione delle possibili finalità pratiche perseguite dai condomini contraenti in rapporto ai pregiudizi che si aveva intenzione di evitare (quale, ad esempio, evitare tutte le attività parimenti “rumorose”).

3. Alla stregua dei principi enunciati, dovrà procedersi in sede di rinvio ad accertare se l’art. 9 del regolamento condominiale fosse opponibile alla condomina locatrice Talvera s.a.s. e se lo stesso rechi un divieto chiaro ed esplicito di destinare le unità immobiliari di proprietà esclusiva ad asilo nido>>.

Probabilmente, stante l’affermata interpretazione letterale, la SC avrebbe potuto ex art. 384/2 cpc decidere nel merito, dato che l’asilo nido non rientra negli usi proibiti elencati  nel regol..

Delibera condominiale sull’uso del cortile comune tramite assegnazione turnaria di posti auto

Cass. sez. 2 , ord. n. 14.019 del 22/05/2023, rel. Besso Marcheis:

<< La delibera del 5 aprile 2002 (cfr. le pagg. 4 e 5 della sentenza impugnata) ha stabilito “di ricavare nelle zone posteriori e laterali dell’area condominiale dei posti macchina aggiuntivi da assegnare annualmente in uso ai condomini che ne facciano richiesta e che hanno la necessità di parcheggiare all’interno dell’area condominiale una seconda vettura dietro pagamento di euro 7 mensili a posto, quale contributo per il temporaneo uso esclusivo della porzione della proprietà comune rispetto agli altri condomini; qualora le richieste superino il numero dei posti aggiuntivi disponibili, l’assegnazione di questi avverrà per sorteggio”. Si tratta – come ha osservato il giudice d’appello – non dell’attribuzione in via esclusiva e per un tempo indefinito di posti auto, al di fuori della logica della turnazione, ma della regolamentazione di una forma di godimento turnario dell’area del cortile comune: l’assegnazione dei posti è annuale, su richiesta o sorteggio, ed è previsto il versamento di un mero contributo (7 euro mensili), che non rende a pagamento l’attribuzione dei posti. Tale regolamentazione rientrava pertanto nelle attribuzioni dell’assemblea condominiale ed è pertanto legittima la delibera che l’ha approvata. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, “la delibera assembleare che, in considerazione dell’insufficienza dei posti auto in rapporto al numero dei condomini, ha previsto l’uso turnario e stabilito l’impossibilità, per i singoli condomini, di occupare gli spazi ad essi non assegnati anche se i condomini aventi diritto non occupino in quel momento l’area parcheggio loro riservata, [..] costituisce corretta espressione del potere di regolamentazione dell’uso della cosa comune da parte dell’assemblea; infatti, se la natura di un bene immobile oggetto di comunione non ne permette un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l’uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure mediante avvicendamento; pertanto, l’assemblea, alla quale spetta il potere di disciplinare i beni e servizi comuni, al fine della migliore e più razionale utilizzazione, ben può stabilire, con deliberazione a maggioranza, il godimento turnario della cosa comune, nel caso in cui – come nella fattispecie in esame – non sia possibile l’uso simultaneo da parte di tutti i condomini, a causa del numero insufficiente dei posti auto condominiali” (così, ex multis, Cass. 12485/2012)>>.

L’insegnamento è esatto.