Immissioni acustiche intollerabili dai bar agli appartamenti soprastanti

Appello Milano n. 72/2023 del 12.01.2023, RG 3689/2023, affronta agli aspetti pratici sul tema in oggetto e si presenta di notevole interesse per chi debba occuparsene.

Riporto solo il seguente passo per la sua importanza teorica:

<<E’ stato accertato che già dalle ore 22.00 i livelli di immissioni acustiche nell’appartamento dei Bianchi-Sabato erano notevolmente superiori ai limiti di accettabilità amministrativa.
In proposito occorre tenere presente che il diritto alla normale qualità della vita è ritenuto prevalente rispetto alle esigenze della produzione – ex plurimis Cass. n. 21504 del 31/08/2018 . L’art. 844, comma 2, c.c., nella parte in cui rimette alla valutazione del giudice il contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, considerando eventualmente la priorità di un
determinato uso, va letto tenendo conto che il limite della tutela della salute è da ritenersi ormai intrinseco nell’attività di produzione, oltre che nei rapporti di vicinato, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, sicché deve sempre considerarsi prevalente – rispetto alle esigenze della produzione – la soddisfazione di una normale qualità della vita. Ne deriva l’esclusione, in siffatta evenienza, dell’impiego di qualsiasi criterio di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell’uso-. La prescrizione è quindi pienamente giustificata ed anzi è legittima solo se sono rigorosamente rispettate tutte le altre prescrizioni imposte funzionali a ridurre le emissioni acustiche provenienti
dall’esercizio del diritto del plateatico nel lasso di tempo consentito fino alle ore 23.00>>.

Chi paga le spese condominiali per un appartamento di proprietà di un trust? Il trustee , dice la Cassazione

Cass.  n° 3.190 del 02.02.2023, sez. 2, rel. Scarpa:

<<l’unità immobiliare compresa nel Condominio di , alla quale si riferiscono i contributi oggetto del decreto ingiuntivo per cui è causa, è stata conferita in un “trust” traslativo, denominato “GP Trust”, sicché la “trustee” … s.r.l. è divenuta titolare della proprietà della stessa ed è tenuta, in quanto tale, a sostenerne le spese, non assumendo rilevanza, a tali fini, i limiti ai relativi poteri e doveri imposti dal disponente nell’atto istitutivo e l’effetto segregativo proprio dell’istituto, in vista del successivo ed eventuale trasferimento della titolarità dei beni vincolati ai soggetti beneficiari. Pur conferendo l’operazione al “trustee” una proprietà limitata nell’esercizio alla realizzazione del programma stabilito dal disponente nell’atto istitutivo a vantaggio del o dei beneficiari, i tre centri di imputazione della vicenda sono il disponente, il “trustee” e il beneficiario, mentre il “trust” non rileva quale soggetto giuridico dotato di una distinta individualità. A ciò consegue altresì che il “trustee” è il titolare dei diritti conferiti nel patrimonio vincolato ed è l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, operando non quale rappresentante del “trust” o del beneficiario, ma quale titolare della legittimazione dispositiva del diritto (ex multis, Cass. 26 maggio 2020, n. 9648; Cass. 20 giugno 2019, n. 16550; Cass. 30 maggio 2018, n. 13626; Cass. 19 maggio 2017, n. 12718; Cass. 27 gennaio 2017, n. 2043).
Questa interpretazione trae fondamento dall’art. 2 della Convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, adottata a L’Aja il 1° luglio 1985 e ratificata dalla legge 16 ottobre 1989, n. 364, secondo la quale “per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico. Il trust presenta le seguenti caratteristiche: a) i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee; b) i beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee; c) il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge (…)”.
Del tutto diversa dal trust, e dunque estranea alla fattispecie per cui è causa, per come in fatto ricostruita dai giudici del merito, è la disciplina posta dalla legge 23 novembre 1939, n. 1966, la quale riguarda la mera amministrazione di beni per conto di terzi, conferita a società fiduciarie mediante mandato, salva rimanendo la proprietà effettiva di questi in capo ai mandanti (cfr. Cass. Sez. Unite 27 aprile 2022, n. 13143)>>.

Il legame tra uomo e cane arriva in Cassazione

Interessanti questioni esaminate da Cass. sez. 3 del 24.03.2023 n. 8459, rel. Oliva.

Domanda originaria: <<Con atto di citazione ritualmente notificato F.C. evocava in giudizio B.A. innanzi il Tribunale di Padova, chiedendo che venisse accertata la sua qualità di comproprietaria di un cane, acquistato nel corso della precedente relazione affettiva stabile intercorsa tra le parti, nonché lo scioglimento della relativa comunione con affidamento dell’animale e risarcimento dei danni, emotivi e patrimoniali>>.

Diritto di comproprietà escluso dal giudice del marito, come confermato dalla SC

Negato pure il dirito di visita all’animale per assenza/insufficienza del rapporto di affezione: <<Con il secondo e terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione della L. n. 76 del 2016 e dell’art. 132, comma 2, c.p.c. per aver la Corte omesso di valutare, senza motivare sul punto, la sussistenza di un rapporto tra le parti qualificabile come coppia di fatto e, di conseguenza, per aver escluso l’esistenza di un legame affettivo stabile con l’animale.

Entrambi i motivi, suscettibili di trattazione congiunta, sono inammissibili.

Le censure, infatti, non si confrontano con la motivazione della sentenza, la quale -oltre ad aver effettivamente considerato la possibile sussistenza di una famiglia di fatto tra le parti, escludendola sulla base della carenza del minimo requisito della convivenza e della brevità della relazione- ha negato il diritto di visita della ricorrente sulla base non della insussistenza della coppia di fatto, bensì per la carenza di prova dell’instaurazione di un rapporto significativo tra la ricorrente e il cane, vista la breve relazione sentimentale che l’aveva legata al suo padrone (cfr. pagg. 21-22 della sentenza: “La coppia B.- F. non costituiva famiglia nemmeno di fatto, né era definibile quale nucleo familiare in cui l’animale si trovava inserito. Si trattava di una relazione sentimentale molto breve che non aveva condotto le parti nemmeno alla convivenza. (…) Al di là della circostanza pacifica che la frequentazione della sig.ra F. con il cane, nell’ambito della sua relazione sentimentale con il sig. B., si sia limitata a circa 4 mesi, l’appellata non ha provato che, nonostante il breve periodo, si sia instaurato con l’animale un rapporto tale da far presumere che le possa essere riconosciuto un diritto di visita nei confronti dell’animale”)>>.

Quindi, anche in assenza di famiglia di fatto, il rapporto di affezione con il cane, se significativo, fa nascere un diritto di visitarlo. Su che base normativa? “Ogni altro fatto idoneo a produrle” ex art. 1173 cc?

Ma solo con un cane o pure con altri animali? E con cose?

Irrilevante il conflitto di interessi nelle delibere condominali (e poi: precisiazioni sul concetto di “innovazione” ex art. 1120 cc)

Circa il conflitto di interessi , Cass. sez 2 n° 5642 del 23.02.2023, rel. Giannaccari, dice:

<3.12.Tutto ciò si riflette, anzitutto, sul conflitto di interessi, posto che per il sorgere del conflitto tra il condominio ed il singolo condomino è necessario che questi sia portatore, allo stesso tempo, di un duplice interesse: uno come condomino ed uno come estraneo al condominio e che i due interessi non possano soddisfarsi contemporaneamente, ma che il soddisfacimento dell’uno comporti il sacrificio dell’altro.

3.13.Inoltre, nel condominio degli edifici, il quorum deliberativo – come quello costitutivo – è determinato con riferimento sia all’elemento personale (i condomini partecipanti all’assemblea), sia all’elemento reale (il valore di ciascun piano o porzione di piano rispetto all’intero edificio, espresso in millesimi).

3.14.Da nessuna norma si prevede che, ai fini della costituzione dell’assemblea o delle deliberazioni, non si tenga conto di alcuni dei partecipanti al condominio e dei relativi millesimi.

3.15.In materia di società di capitali, oltre l’ipotesi disciplinata dall’art. 2373 cit., si prevedono altri casi nei quali il socio non può esercitare il diritto di voto (art. 2344 comma 4 c.c.); peraltro, si prevedono anche casi in cui le azioni, per le quali il diritto di voto è sospeso, sono computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea (art. 2357 ter comma 2 c.c.).

3.16. Per contro, in tema di condominio negli edifici – posto che, in caso di conflitto di interessi, al condomino sia vietato esercitare il diritto di voto – non si contempla nessuna ipotesi nelle quali, ai fini dei quorum costitutivo e deliberativo, non si debba tener conto di tutti i partecipanti e di tutte le quote e nelle quali le maggioranze possano modificarsi in meno.

3.17.Al contrario, avuto riguardo alla funzione strumentale del principio maggioritario, in ragione della tutela dei diritti dei singoli sulle parti comuni e della garanzia del godimento delle unità immobiliari in proprietà solitaria, non sembra corretto applicare i principi elaborato in tema di società di capitali.

3.18.Ne consegue che, alla stregua dei principi sopra enunciati, non è corretta l’affermazione della Corte di merito secondo cui il voto della delegata T. non andava computato, per essere stato espresso in una situazione di conflitto di interessi, né, conseguentemente, che fosse necessaria la prova di resistenza della delibera senza il calcolo di quel voto>.

Sul cocnetto di  innovazione:

<<2.2.In tema di condominio di edifici costituisce innovazione ai sensi dell’art. 1120 c.c. non qualsiasi modificazione della cosa comune, ma solamente quella che alteri l’entità’ materiale del bene operandone la trasformazione ovvero determini la trasformazione della sua destinazione, nel senso che detto bene presenti, a seguito delle opere eseguite, una diversa consistenza materiale ovvero sia utilizzato per fini diversi da quelli precedenti l’esecuzione delle opere (Cass. Civ., Sez. II, Sez. 2 -, 04/09/2017, n. 20712; Cass. Civ., Sez. II, 29.8.1998, n. 8622)

2.3.Le modificazioni che invece mirano a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune o ne lasciano immutate la consistenza e la destinazione non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto.

2.4.Secondo l’accertamento della corte di merito, non costituiva innovazione la sostituzione delle gronde consdominiali in cemento, demolite e sostituite con gronde in lamiera a sbalzo di identica dimensione ed il rifacimento del muro di confine>.

Sottosuolo condominiale presunto comune e potere/dovere dell’amministatore di compiere gli atti conservativi ex art. 1130 n. 4 cc

Sulle due questioni v. Cass . ord. 2.786 del 31.01.2023, rel. Trapuzzano.

sub 1 (potere/dovere dell’amministatore di compiere gli atti conservativi ex art. 1130 n. 4 cc) , tali atti non sono solo quelli urgenti. Punto importante.

<<E tanto perché ricadono nell’ambito degli atti conservativi che l’amministratore può compiere, ai sensi dell’art. 1130, n. 4, c.c., senza la previa delibera autorizzativa dell’assemblea (o la successiva ratifica), eventualmente attraverso la promozione di azioni processuali per la tutela delle parti comuni dell’edificio, anche le iniziative non connotate dal requisito dell’urgenza, purché volte a salvaguardare l’integrità di un bene comune.

Sussiste, infatti, la legitimatio ad causam e ad processum dell’amministratore del condominio, senza bisogno di alcuna autorizzazione, allorquando egli agisca a tutela di beni condominiali, giacché i poteri promanano direttamente dalla legge e precisamente dall’art. 1130, n. 4, c.c., che pone addirittura come dovere proprio del suo ufficio quello di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, potere-dovere da intendersi non limitato agli atti cautelativi ed urgenti, ma esteso a tutti gli atti miranti a mantenere l’esistenza e la pienezza o integrità di detti diritti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5772 del 23/03/2004; Sez. 2, Sentenza n. 6494 del 06/11/1986).

Siffatta conclusione è avvalorata dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte in ordine alla portata degli “atti conservativi” che il chiamato all’eredità può compiere prima di accettare, ai sensi dell’art. 460, comma 2, c.c.: essi si distinguono dalle azioni possessorie che possono essere intraprese ai sensi del comma 1 di tale disposizione e consistono in atti di gestione dei beni indirizzati ad assicurare il mantenimento dello stato di fatto quale esistente.

La natura conservativa dell’atto non e’, dunque, connotata dall’aspetto strumentale inerente all’indifferibilità del suo espletamento, bensì dal vincolo teleologico da cui è avvinto il suo compimento, essenzialmente indirizzato a preservare l’integrità fisica e giuridica nonché la consistenza materiale del bene comune (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6190 del 03/05/2001; Sez. 2, Sentenza n. 13611 del 12/10/2000; Sez. 2, Sentenza n. 6593 del 11/11/1986; Sez. 2, Sentenza n. 3510 del 28/05/1980).

Nella fattispecie, la rimessione in pristino dello stato del sottosuolo, di cui il condomino si è appropriato attraverso le opere di escavazione volte ad ingrandire il bene di sua proprietà esclusiva, costituisce azione propria diretta a far cessare la privazione di un bene comune, sicché il suo esperimento non era condizionato alla esclusiva formulazione di azioni possessorie o d’urgenza. Sono, infatti, atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, sia gli atti materiali (riparazioni di muri portanti, di tetti e lastrici) sia quelli giudiziali (azioni contro comportamenti illeciti posti in essere da terzi), necessari per la salvaguardia dell’integrità dell’immobile, indipendentemente dal momento in cui essi siano avviati rispetto all’epoca di realizzazione delle condotte lesive di beni comuni.

Ne’ la radicale privazione di tale bene può essere assimilata al mutamento della sua destinazione d’uso.

D’altronde, nessuna contraddizione è integrata per effetto della discriminazione tra tutela in forma specifica del bene comune mediante sua restitutio in integrum e azione risarcitoria connessa alla lesione di tale bene. Solo per quest’ultima è preclusa all’amministratore la proposizione, in difetto di mandato rappresentativo dei singoli condomini, delle azioni risarcitorie per i danni subiti dalle unità immobiliari di loro proprietà esclusiva (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 3846 del 17/02/2020; Sez. 2, Sentenza n. 217 del 12/01/2015; Sez. 2, Sentenza n. 22656 del 08/11/2010).>>

Sub 2), proprietà del sottosuolo:

<<Al riguardo, l’istante osserva che, nel caso di specie, l’edificio si sviluppava su muri, pilastri e altri manufatti d’appoggio, sicché il suolo avrebbe potuto essere considerato proprietà comune solo per la parte necessaria al suo sostentamento, né la proprietà condominiale avrebbe potuto estendersi sino alla porzione oggetto dello scavo posta ad una quota superiore rispetto al livello delle fondazioni.>>

Censura incomrpesibile. Puntualmente la SC risponde:

<<E tanto perché la zona esistente in profondità, al di sotto dell’area superficiaria che è alla base dell’edificio, in mancanza di un titolo che attribuisca ad alcuno di essi la proprietà esclusiva, rientra per presunzione in quella comune tra i condomini, anche ai sensi del disposto dell’art. 1117 c.c. all’esito della novella di cui alla L. n. 220 del 2012. Nessuno di costoro, pertanto, può, senza il consenso degli altri, procedere all’escavazione del sottosuolo per ricavarne nuovi locali o per ingrandire quelli preesistenti, in quanto, attraendo la cosa comune nell’orbita della sua disponibilità esclusiva, limiterebbe l’altrui uso e godimento ad essa pertinenti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 33163 del 16/12/2019; Sez. 6-2, Ordinanza n. 29925 del 18/11/2019; Sez. 2, Sentenza n. 6154 del 30/03/2016; Sez. 3, Sentenza n. 15383 del 13/07/2011).

E ciò a prescindere dalla funzione portante in concreto dell’edificio esercitata dal suolo.

Nella fattispecie, è pacifico che il condomino proprietario del piano seminterrato non vanti alcun titolo dominicale sul suolo sottostante il suo immobile, sicché – in base alla predetta presunzione – deve ritenersi che il bene rientri tra quelli condominiali.>>

La locazione agraria stipulata da uno solo dei comprorietari è efficace verso il conduttore

Cass. 21.11.2022 sez. III n° 34.131 , rel. Condello:

<<La sentenza impugnata si pone in linea con il principio pacifico della giurisprudenza di legittimità secondo cui il comproprietario può agire in giudizio per ottenere il rilascio dell’immobile per finita locazione o la risoluzione del contratto per inadempimento, trattandosi di un atto di ordinaria amministrazione della cosa comune per il quale si deve presumere che sussista il consenso degli altri comproprietari o quanto meno della maggioranza dei partecipanti alla comunione (tanto che si esclude la necessità della integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri partecipanti) (Cass., sez. 3, 13/07/1999, n. 7416; Cass., sez. 3, 04/06/2008, n. 14759).

Pertanto, qualora il contratto di locazione abbia ad oggetto un immobile in comproprietà indivisa, ciascuno dei comunisti ha, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori, rispondendo a regole di comune esperienza che uno o alcuni di essi gestiscano, con il consenso degli altri, gli interessi di tutti, sicché l’eventuale mancanza di poteri o di autorizzazione rileva nei soli rapporti interni fra i comproprietari e non può essere eccepita alla parte conduttrice (Cass., sez. 2, 02/02/2016, n. 1986).

Ciò impone di ritenere che il contratto di locazione, seppure concluso dal V. solo con C.M., come ritenuto dalla Corte d’appello, era valido ed opponibile anche agli altri comproprietari del fondo, anche se rimasti estranei alla stipula del contratto di affitto, e che l’ordine di rilascio del fondo, derivante dall’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto di affitto, sebbene proposta dal solo C.M., si estende anche agli altri comproprietari del bene>>.

Il Condominio è consumatore? Risposta (non chiara) dalla Corte di Giustizia

Corte di Giustizia 27.10.2022 , C-485/21, affronta il tema in oggetto con risposta non molto chiara o meglio  utile

Il rapporto de quo è quello di amministrazione cioè tra condomini e società amministratrice delle parti comuni.

Distingue a seconda che si esamini il caso del singolo condomino o l’intero condominio che -previa delibera- abbia stipulato detto contrtto.

Dice la CG : <<Nel caso di specie, occorre rilevare che dalla domanda di pronuncia pregiudiziale risulta che E. Ts. D. è una persona fisica e che il contratto di cui al punto 12 della presente sentenza ha per oggetto la gestione e la manutenzione delle parti comuni dell’immobile in regime di condominio nel quale E. Ts. D. è proprietaria di un appartamento. Pertanto, nell’ipotesi in cui detta persona sia parte di tale contratto e purché non utilizzi detto appartamento per scopi che rientrano esclusivamente nella sua attività professionale, occorre, in linea di principio, ritenere che essa agisca in qualità di «consumatore», ai sensi dell’articolo 2, lettera b), della direttiva 93/13, in tale contratto.>>

Risposta ovvvia tranne che per l’ambiguo “esclusivamente”: che significa? Se l’uso è professionale solo “prevalentemente” (prevalenza ratio temporis oppure ratio spatii, id est per metri quadri) rimane consumatore?  Che l’uso concorrente non precluda tale qualfica, lo si desume dal seguente § 32 (v. dopo) : ma resta il criterio distintivo: basta la prevalenza o serve appunto l’esclusività?

Nel secondo caso (delibera assembelare) :

<< 32   In secondo luogo, nell’ipotesi in cui un contratto relativo alla gestione e alla manutenzione delle parti comuni di un immobile in condominio sia stipulato tra l’amministratore di condominio e l’assemblea generale dei condòmini o l’associazione di proprietari di tale immobile, il proprietario di un appartamento facente parte di detto immobile è considerato un «consumatore», ai sensi dell’articolo 2, lettera b), della direttiva 93/13, purché tale proprietario, innanzitutto, possa essere qualificato come «parte» di detto contratto; inoltre, sia una persona fisica e, infine, non utilizzi tale appartamento esclusivamente per scopi che rientrano nella sua attività professionale. A quest’ultimo proposito, occorre precisare che non può essere esclusa dal campo di intervento della nozione di «consumatore» la fattispecie in cui una persona fisica utilizzi l’appartamento che costituisce il suo domicilio personale anche a fini professionali, come nell’ambito di un telelavoro subordinato o dell’esercizio di una libera professione.

33      Per contro, quando un siffatto proprietario di appartamento non può essere qualificato come «parte» di detto contratto, e poiché l’assemblea generale dei condòmini o l’associazione di proprietari di un immobile non è, per definizione, una «persona fisica», ai sensi di tale articolo 2, lettera b) e, pertanto, non può essere qualificata come «consumatore» ai sensi di tale disposizione, un siffatto contratto è escluso dall’ambito di applicazione della direttiva 93/13 (v., per analogia, sentenza del 2 aprile 2020, Condominio di Milano, via Meda, C‑329/19, EU:C:2020:263, punto 29)>>.

Passaggiio poco chiaro sun un tema praticamente importante.

Forse la CG intende che se -in base al diritto nazionale- il rapporto instaurato dalla assemblea è ricostruibile in termini unitari, non può essere consumatore. Se invece va ricostruito come fascio di rapporti tra ogni condomino e la società amminsitratrice, allora il singolo può essere consumatore ma si esminerà caso per caso.

Che l’assemblea automaticamente non sia persona fisica e quindi non possa essere consumatore ci pare detto frettolosamente. Se infatti tutti i condomini sono tali,  il loro agire collettivo non gli fa perdere tale  qualità.

Risposte finali , § 35:

–     una persona fisica, proprietaria di un appartamento in un immobile in regime di condominio, deve essere considerata un «consumatore», ai sensi di tale direttiva, qualora essa stipuli un contratto con un amministratore di condominio ai fini della gestione e della manutenzione delle parti comuni di tale immobile, purché non utilizzi tale appartamento per scopi che rientrano esclusivamente nella sua attività professionale. La circostanza che una parte delle prestazioni fornite da tale amministratore di condominio in base a detto contratto risulti dalla necessità di rispettare specifici requisiti in materia di sicurezza e di pianificazione territoriale, previsti dalla legislazione nazionale, non è idonea a sottrarre detto contratto dal campo di applicazione di tale direttiva,

–        nell’ipotesi in cui sia stipulato un contratto relativo alla gestione e alla manutenzione delle parti comuni di un immobile in regime di condominio tra l’amministratore di condominio e l’assemblea generale dei condòmini o l’associazione di proprietari di tale immobile, una persona fisica, proprietaria di un appartamento situato in quest’ultimo, può essere considerata un «consumatore», ai sensi della direttiva 93/13, purché essa possa essere qualificata come «parte» di detto contratto e non utilizzi tale appartamento esclusivamente per scopi rientranti nella sua attività professionale.

Sul regolamento condominiale apponente limiti -rectius: servitù reciproche- alle proprietà individuali (regolamento contrattuale)

Utilissime e chiarissime precisazioni sull’oggetto in Cass. n° 24.526 del 09.08.2022, sez. 2, rel. Manna:

  • a giurisprudenza di questa Corte è costante, innanzi tutto, nell’affermare che i divieti ed i limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro ed esplicito, non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto, l’individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l’ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti
  • La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito ormai da tempo che le clausole dei regolamenti condominiali predisposti dall’originario proprietario dell’edificio condominiale ed allegati ai contratti di acquisto delle singole unità immobiliari, nonché quelle dei regolamenti condominiali formati con il consenso unanime di tutti i condomini, hanno natura contrattuale soltanto qualora si tratti di clausole limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni ovvero attributive ad alcuni condomini di maggiori diritti rispetto agli altri, mentre, qualora si limitino a disciplinare l’uso dei beni comuni, hanno natura regolamentare. Ne consegue che, mentre le clausole di natura contrattuale possono essere modificate soltanto dall’unanimità dei condomini e non da una deliberazione assembleare maggioritaria, avendo la modificazione la medesima natura contrattuale, le clausole di natura regolamentare sono modificabili anche da una deliberazione adottata con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., comma 2 (S.U. n. 943/99).Di riflesso, la necessità della forma scritta, che limitatamente alle clausole del regolamento aventi natura contrattuale, è imposta dalla circostanza che queste incidono sui diritti immobiliari dei condomini sulle loro proprietà esclusive o sulle parti comuni oppure attribuiscono a taluni condomini diritti di quella natura maggiori di quelli degli altri condomini (v. S.U. n. 943/99; conformi, nn. 5626/02 e 24146/04).Il fatto che la medesima tecnica contrattuale (scilicet, il rinvio al regolamento predisposto dal costruttore contenuto nei singoli contratti di trasferimento delle unità singole) sia impiegata per dar vita a un regolamento che contenga tanto le previsioni sull’uso delle cose comuni, quanto eventuali limitazioni incidenti sulle proprietà individuali, non significa che tutto ciò che il regolamento stesso contenga sia, per ciò solo e ad ogni effetto, di natura contrattuale. Al contrario, dove c’e’ disposizione regolamentare, nell’accezione propria del termine ai sensi dell’art. 1138 c.c., comma 1, non c’e’ contratto o convenzione, come si desume dall’art. 1138 c.c., comma 4, e viceversa.
  • principio di dirityo : “Le clausole contenute in un regolamento condominiale di formazione contrattuale, le quali limitino la facoltà dei proprietari delle unità singole di adibire il proprio immobile a determinate destinazioni, hanno natura contrattuale e, pertanto, ad esse deve corrispondere una tecnica formativa di pari livello formale e sostanziale, che consiste in una relatio perfecta attuata mediante la riproduzione delle suddette clausole all’interno dell’atto d’acquisto della proprietà individuale, non essendo sufficiente, per contro, il mero rinvio al regolamento stesso”
  • 6.3. – Dalla sentenza impugnata non è dato desumere, inoltre, se l’odierno ricorrente abbia acquistato il proprio immobile dal costruttore o da un precedente condomino. Ciò è rilevante in quanto, in tale sola ultima ipotesi, è necessario che le limitazioni di cui si discute, ove non espressamente contenute nell’atto stesso di vendita, risultino trascritte contro detta proprietà in data anteriore all’acquisto fattone dal D.. Ed in tal caso non è indispensabile la loro riproduzione nel contratto stesso.La necessità di tale accertamento scaturisce dal principio della relatività degli effetti negoziali, ai sensi dell’art. 1372 cpv. c.c.. Principio che ha posto in giurisprudenza la questione del se e del come, in ambito condominiale, si possa predicare un’efficacia ultra partes delle clausole che limitino l’uso o la destinazione delle proprietà individuali.La giurisprudenza di questa C.S. ha espresso nel tempo opinioni divergenti, avendole ricondotte a tre diverse categorie giuridiche: onere reale, obligatio propter rem o servitù.
  • L’onere reale, infatti, (i) consiste in un’obbligazione periodica di dare o di facere (ma in realtà gli unici casi censiti e censibili prevedono solo un dare, ben dubbie essendo altre ipotesi quali l’art. 960 c.c., comma 1, e art. 981 c.c., comma 1) in favore del proprietario di un altro fondo o del medesimo fondo (ove il proprietario sia diverso dal possessore oblato), giustificata dal vantaggio che al soggetto obbligato deriva dal possedere un bene altrui ovvero dalla necessità di compensare il dominio concorrente sul bene stesso o altre prestazioni del creditore che arrecano utilità al fondo; (ii) in caso di mancato pagamento il relativo credito è assistito dalla garanzia reale sul medesimo bene onerato; (iii) si estingue mediante il c.d. abbandono liberatorio; e, infine, (iv) pacificamente può essere previsto solo dalla legge o nei casi da quest’ultima consentiti.Nessuna di queste caratteristiche è ravvisabile nelle limitazioni all’uso delle proprietà singole.
  • 6.3.3. – Anche se solo di recente, la giurisprudenza di questa Corte può ritenersi assestata sulla tesi per cui le restrizioni alle facoltà inerenti al godimento della proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio, volte a vietare lo svolgimento di determinate attività all’interno delle unità immobiliari esclusive, costituiscono servitù reciproche e devono perciò essere approvate mediante espressione di una volontà contrattuale, e quindi con il consenso di tutti i condomini, mentre la loro opponibilità ai terzi, che non vi abbiano espressamente e consapevolmente aderito, rimane subordinata all’adempimento dell’onere di trascrizione (così, da ultimo, n. 17159/22, non massimata, che a sua volta cita le nn. 6769/18, 23/04, 5626/02, 4963/01, 49/92, 4554/86; cui adde le nn. 277/64, 4781/83, 49/92, 11688/99, 4920/06, 1064/11, 14898/13 e 21024/16).
  • La necessaria premessa di tale orientamento, cui va assicurata continuità, risiede nell’ammissibilità (pacifica in dottrina e in giurisprudenza: v. sentenza n. 3258/83) sia di servitù atipiche, tipico essendo il solo genus così come regolato dall’art. 1027 c.c. e ss., sia di servitù reciproche (anch’esse senz’altro ammesse dalla giurisprudenza di questa Corte: cfr. ex pluribus e tra le più recenti, le nn. 524/21, 14820/18 e 5336/17). Queste ultime comportano che ciascun fondo e’, ad un tempo, servente e dominante, data la corrispondenza biunivoca del peso imposto da un’apposita previsione contenuta nel regolamento contrattuale, a carico ed a favore di ciascuna unità di proprietà singola.Trattandosi di servitù, la loro opponibilità ai terzi acquirenti di ciascuna unità singola dipende dalla trascrizione, prevista dall’art. 2643 c.c., n. 4, che deve riguardare la specifica convenzione che contenga la servitù stessa, con particolare richiamo alle clausole relative e al loro contenuto. Con la creazione del condominio per effetto della prima alienazione, la servitù è costituita a favore e contro il primo immobile di proprietà singola, da un lato, ed a favore e contro i restanti fondi ancora invenduti, dall’altro, e così via finché con l’ultima vendita ciascuna unità singola diviene servente e dominante verso ognuna delle altre.
  • n assenza di trascrizione, può essere sufficiente anche il solo contenuto dell’atto di vendita, ma alla duplice condizione che: a) esso sia corredato della specifica indicazione delle clausole impositive della servitù, essendo del tutto insufficiente, come s’e’ detto supra al par. 6.2., il mero rinvio al regolamento condominiale; e b) dette clausole siano ripetute nei successivi atti di trasferimento, poiché diversamente torna ad operare il limite dell’art. 1372 c.c., Non senza precisare, però, che in tal modo, atteso che il richiamo alla servitù diviene parte integrante di ogni titolo d’acquisto della proprità (dal primo ai successivi), tecnicamente non si può parlare di opponibilità della servitù, bensì dell’iterazione della sua preesistenza negli atti traslativi del medesimo bene immobile.

 

  • “Le clausole contenute in un regolamento condominiale di formazione contrattuale, le quali limitino la facoltà dei proprietari delle unità singole di adibire il loro immobile a determinate destinazioni, costituiscono servitù reciproche a favore e contro ciascuna unità immobiliare di proprietà individuale, e sono soggette, pertanto, ai fini dell’opponibilità ultra partes, alla trascrizione in base all’art. 2643 c.c., n. 4, e art. 2659 c.c., comma 1, n. 2”.

Danno da occupazione abusiva dell’immobile: in re ipsa o da provare?

E’ nel secondo senso Cass. sez. un. 15.11.2022 n. 33.645, rel. Scoditti.

 

La decisione va condivisa.

Premessa: si tratterebbe di danno emergente e non mancato guadagno : << 4.2. Entrambe le ordinanze interlocutorie pongono la questione
della configurabilità del c.d. danno
in re ipsa nell’ipotesi di
occupazione
sine titulo dell’immobile, ma il punto di divergenza fra gli
orientamenti che esse esprimono riguarda non il mancato guadagno,
bensì la perdita subita. Entrambe le ordinanze escludono infatti che
un danno
in re ipsa sia configurabile in relazione al lucro cessante e si
può convenire sul dato che nella giurisprudenza di legittimità le
occasioni di guadagno perse devono essere oggetto di specifica
prova, naturalmente anche a mezzo di presunzioni. La problematica
del danno
in re ipsa emerge in entrambe le ordinanze in relazione alla
facoltà di godere del proprietario quale individuazione dell’esistenza di
un danno risarcibile per il sol fatto che di tale facoltà il proprietario sia
stato privato a causa dell’occupazione abusiva dell’oggetto del suo
diritto
>>

<<4.5. La questione posta dal contrasto è, al fondo, se la violazione
del contenuto del diritto, in quanto integrante essa stessa un danno
risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche
risarcitoria. Ritengono le Sezioni Unite che al quesito debba darsi
risposta positiva, nei termini emersi nella richiamata linea evolutiva
della giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, secondo cui la
locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno
presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della
presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il
pregiudizio allegato (Cass. 7 gennaio 2021, n. 39; 20 gennaio 2022,
n. 4936; 22 aprile 2022, n. 12865). Tale esito interpretativo, per
quanto riguarda la lesione della facoltà di godimento, resta coerente
al significato di danno risarcibile quale perdita patrimoniale subita in
conseguenza di un fatto illecito. La linea da perseguire è infatti,
secondo le Sezioni Unite, quella del punto di mediazione fra la teoria
normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della Seconda
Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla Terza
Sezione Civile. Al fine di salvaguardare tale punto di mediazione,
l’estensione della tutela dal piano reale a quello risarcitorio, per
l’ipotesi della violazione del contenuto del diritto, deve lasciare intatta
la distinzione fra le due forme di tutela>>

<<4.9. Nella comune fattispecie di occupazione abusiva d’immobile è
al contrario richiesta, come si è visto, l’allegazione della concreta
possibilità di esercizio del diritto di godimento che è andata persa. Ciò
significa che il non uso, il quale è pure una caratteristica del
contenuto del diritto, non è suscettibile di risarcimento>>

PRINCIPI DI DIRITO:

<<  –  “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento
del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del

diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del
godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta”;
–   “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di
un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il
risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare,
esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso
mediante il parametro del canone locativo di mercato”;
–   “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di
un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento
del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito,
quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe
concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore
al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto ad un prezzo
più conveniente di quello di mercato”.
>>

(Si tratterà però spesso di lucro cessante, a dispetto di quanto premettono le SU come sopra riportato)

Importante la precisazione per cui la relevatio ab onere probandi ex art. 115 cpc riguarda solo i fatti noti al convenuto: <<Sia per la perdita subita che per il mancato guadagno va rammentato che l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte convenuta, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass.
31 agosto 2020, n. 18074; 4 gennaio 2019, n. 87; 18 luglio 2016, n.
14652; 13 febbraio 2013, n. 3576). Poiché non si compie l’effetto di
cui all’art. 115, comma 1, cod. proc. civ., per i fatti ignoti al
danneggiante l’onere probatorio sorge comunque per l’attore, a
prescindere dalla mancanza di contestazione, ma il criterio di
normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi
di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che
l’evenienza dei fatti ignoti alla parte convenuta sia tendenzialmente
più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno. Ne consegue sul
piano pratico la maggiore ricorrenza per il convenuto dell’onere di
contestazione, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto
dall’art. 115 comma 1, nelle controversie aventi ad oggetto la perdita
subita e la maggiore ricorrenza per l’attore dell’onere probatorio, pur
in mancanza di contestazione, nelle controversie aventi ad oggetto il
mancato guadagno>>

Regola spesso violata nella prassi giudiziaria

La quota di s.r.l. è suscettibile di possesso e quindi è pure usucapibile

Analitica sentenza del Trib. Milano 22.12.2021 n. 5.552 RG 25346/2019, rel. est. Astuni, che si pronuncia come in oggetto, cher ripercorre il processo normtivo di smaterialzizazine dei titoli anche nelle s.p.a.

<<Anche dopo l’abolizione del libro soci e la previsione (art. 2470 c.c.) dell’iscrizione dell’atto di trasferimento nel registro delle imprese, al fine di rendere efficace l’acquisto nei confronti della società, la giurisprudenza ha continuato a riconoscere nell’iscrizione la condizione necessaria e sufficiente all’esercizio dei diritti di socio, e quindi la fonte di un potere di fatto. Trib. Roma, in funzione di giudice del registro, con decreto 12.1.2018 (su Jus Explorer) ha convincentemente negato all’acquirente, che ancora non aveva depositato a registro delle imprese l’atto di trasferimento, il potere di decidere come socio unico la sostituzione dell’amministratore: “in epoca anteriore [al deposito], l’acquirente della quota sociale non può esercitare i diritti sociali. Conseguentemente, egli non può assumere alcuna decisione che sia imputabile alla società e ciò neppure differendo gli effetti della propria dichiarazione di volontà (in quanto tale dichiarazione nel momento in cui viene posta in essere non è imputabile in alcun modo alla società medesima)”. A sua volta, Trib. Milano sez. impresa 5.12.2017 ha ritenuto sufficiente l’iscrizione a libro soci per l’individuazione del titolare dei diritti nei confronti della società, “senza che tale qualità possa essere contestata dagli organi sociali relativamente
a vicende di invalidità riguardanti i rapporti tra cedente e cessionario delle partecipazioni (i.e. rapporti tra i soci quali privati e non in quanto soci)”. Nel medesimo senso cfr. ancora Trib. Torino sez. impresa 13.1.2021 n. 111 e 4.6.2021 n. 2839, in tema di spettanza del diritto al dividendo al socio iscritto, ancorché obbligato a trasferire ad altri soci la propria quota, in virtù di una clausola statutaria di riscatto. Ammessa la natura della quota di S.r.l. come posizione obiettivata in un bene mobile e la nozione estensiva di possesso della quota per il tramite dell’iscrizione a libro soci, appare logico e coerente trarre da queste premesse di diritto la conclusione che la quota di S.r.l. può essere usucapita>>.