Solidarietà per obblighi previdenziali del Condominio rispetto al lavori di pulzia delle parti comuni? La SC rimedia a incertezze e precedenti errati

Cass. 19514 sez. lavoro del 10.07.2023, rel. Calafiore circa l’art. 29.2 del d. lgs. 273/2003 (<<  In caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro e’ obbligato in solido con l’appaltatore, nonche’ con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonche’ i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento.  Il committente che ha eseguito il pagamento e’ tenuto, ove previsto, ad assolvere gli obblighi del sostituto d’imposta ai sensi delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e puo’ esercitare l’azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali>>.) ;

<<nel caso di specie, la Corte d’appello ha rilevato che il Condominio committente e odierno ricorrente, seppure non impresa, fosse da ritenere “datore di lavoro” perché, in modo incontestato, le lavoratrici interessate dall’omissione contributiva ivi prestavano l’attività di pulizia oggetto d’appalto e lo stesso Condominio non aveva negato la “qualifica di datore di lavoro”;

tale affermazione non può essere condivisa, nonostante in tal senso si sia espressa, incidentalmente nell’ambito di un giudizio relativo agli obblighi dei contraenti in appalto conferito da un condominio ad una impresa di pulizie, anche la Seconda Sezione di questa Corte di cassazione con l’ordinanza n. 4079 del 2022;

il “datore di lavoro” che, in alternativa all’imprenditore, è responsabile solidale ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, non può identificarsi puramente e semplicemente con lo stesso committente presso cui l’attività oggetto dell’appalto viene eseguita; infatti, se così fosse sarebbe stato sufficiente prevedere l’obbligo di solidarietà riferendosi semplicemente al “committente” dell’appalto;

e’ evidente che il datore di lavoro diretto dei dipendenti per i quali si è verificato l’inadempimento contributivo, è l’appaltatore e non il committente e la garanzia della solidarietà aggiunge un debitore a quello principale; la disposizione in esame individua tale debitore solidale nel committente che svolge attività imprenditoriale o nel committente datore di lavoro, con ciò selezionando tali figure all’interno della intera categoria dei possibili committenti di appalti di opere o di servizi;

peraltro, ai sensi del comma 3 ter, sfugge al vincolo solidaristico imposto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, il committente persona fisica che non esercita attività di impresa o professionale;

dunque, è certamente attratto nell’orbita della solidarietà il committente che assume la veste di imprenditore, ai sensi dell’art. 2082 c.c., intesa in senso oggettivo, come attività economica organizzata atta a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi (Cass. n. 16612 del 19/06/2008);

ma lo e’, allo stesso modo, il committente che pur non essendo “imprenditore” è “datore di lavoro”, e cioè il committente che anche attraverso le prestazioni di lavoro rese dai dipendenti dell’appaltatore realizza l’oggetto della propria attività istituzionale, prendendo parte a quel processo di decentramento produttivo del servizio che costituisce il fenomeno economico a cui la norma si riferisce; come avviene, ad esempio, nell’ipotesi delle associazioni, degli enti no profit, etc.; in questi casi, infatti, si realizzano quelle ipotesi di commistione tra le figure del datore di lavoro (appaltatore) ed il committente, fruitore della prestazione lavorativa (potenziale datore di lavoro cd. indiretto) nei cui confronti il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29 ha inteso rafforzare le tutele dei lavoratori;

come è noto, (Cass. n. 2169 del 2022; Corte Cost. n. 254 del 2017) la ratio dell’introduzione della responsabilità solidale del committente è quella di evitare il rischio che i meccanismi di decentramento, e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione, vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell’esecuzione del contratto commerciale;

la solidarietà mira a disciplinare la responsabilità in tutte le ipotesi di dissociazione fra la titolarità del contratto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione, assicurando in tal modo tutela omogenea a tutti quelli che svolgono attività lavorativa indiretta, qualunque sia il livello di decentramento (Cass. n. 25172 del 2019);

il limite soggettivo positivo a tale estensione è dato dalla qualità di imprenditore o di datore di lavoro del committente, mentre quello negativo è integrato dalla esplicita esclusione, per effetto del comma 3 bis, dall’attrazione dell’orbita della solidarietà delle persone fisiche che non esercitano attività d’impresa o professionale;

e’ così esclusa dalla solidarietà tanto la persona fisica che appalta i lavori di ristrutturazione di un proprio immobile, quanto il condominio di immobili;

il condominio, infatti, non svolge attività d’impresa, non partecipa per propri scopi istituzionali al decentramento produttivo e non assume, soprattutto ai fini lavoristici, un rilievo giuridico diverso da quello dei singoli condomini (cfr. Cass., 11 gennaio 2012, n. 177; vd. Cass. SS.UU. n. 10934 del 2019) posto che si tratta di un ente di gestione dei beni comuni;>>

Insegnamento esatto anche se scontato alla luce del tenore della disposizione, sopra rirporta

E’ divisibile l’immobile abusivo se è stata presentata domanda di sanatoria e sono state pagare le rate? Si

Così per Cass.  sez. 2 n° 9255 del 04.04.2023, rel. Tedesco.

<<La Corte d’appello motivava il diniego a causa del carattere abusivo dell’immobile, non superata dalla presentazione della istanza di condono, in assenza del provvedimento di concessione in sanatoria. (…)

In questo senso la Corte non ha tenuto conto che domanda di condono corredata della prova dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione costituisce documentazione alternativa rispetto alla concessione in sanatoria (Cass. n. 20258/2009), tale da comportare il venir meno dell’impedimento giuridico alla divisione (Cass. S.U., n. 25021/2019). L’ulteriore rilievo che si legge nella sentenza impugnata, desunto dalla relazione del consulente tecnico, che il Comune aveva richiesto documentazione integrativa che non era stata presentata, di per sé, non fornisce argomento per negare le implicazioni derivanti, sotto il profilo della commerciabilità del bene, dalla esistenza della domanda di condono e dal pagamento delle due rate. È circostanza pacifica nella causa che la quota indivisa dell’immobile, ritenuto non divisibile dalla Corte territoriale, era stata oggetto di atto notarile inter vivos>>.

Questo invece il passaggio nella sentenza di appello censurato dalla SC:

<<Invero, ritiene la Corte di condividere il principio espresso dalla Suprema Corte secondo cui, “quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46 e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex art. 713 c. c., sotto il profilo della ”possibilità giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale. La mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell’edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.» (Cass.Sez.Unite 7 ottobre 2019 n.25021).
Nel caso di specie è lo stesso appellante che da atto della mancanza di regolarità, avendo evidenziato di aver presentato domanda di sanatoria, non potendo, tuttavia, detta circostanza assumere rilievo dirimente, per come correttamente affermato dal Giudice di prime cure, in assenza del provvedimento di rilascio della concessione in sanatoria>>.

Ben si può condannare il Comune ai danni per non aver fatto quianto possibile per eliminare il disturbo da riumnori niotturni proocati dalal clientela dei bar

Giustamente Cass. sez. III del 23 maggio 2023 n. 14.209, rel. Vicenti, cassa l’appello Brescia che aveva negato il danno perchè allegante vioalazioni del Comune esorbitanti i suoi poteri .

E’ ora che la giurisprudenza interventa in modo deciso sul grave problema della rimorosità prodotta dai clienti dei locali che tengono aperto fino a tardi alla sera. In attesa che intervenga il legislatore (improbabile)

<<3.2. – Ciò premesso, è errata la premessa da cui muove la Corte territoriale, poiché la tutela del privato che lamenti la lesione, anzitutto, del diritto alla salute (costituzionalmente garantito e incomprimibile nel suo nucleo essenziale (Cost., art. 32)), ma anche del diritto alla vita familiare (convenzionalmente garantito (art. 8 CEDU: cfr., tra le altre, Cass. n. 2611/2017; Cass. n. 19434/2019; Cass. n. 21649/2021)) e della stessa proprietà (che rimane diritto soggettivo pieno sino a quando non venga inciso da un provvedimento che ne determini l’affievolimento (Cass. n. 1636/1999)), cagionata dalle immissioni (nella specie, acustiche) intollerabili, ex art. 844 c.c., provenienti da area pubblica (nella specie, da una strada della quale la Pubblica Amministrazione è proprietaria), trova fondamento, anche nei confronti della P.A., anzitutto nelle stesse predette norme a presidio dei beni oggetto dei menzionati diritti soggettivi.

La P.A. stessa, infatti, è tenuta ad osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni e, quindi, il principio del neminem laedere, con ciò potendo essere condannata sia al risarcimento del danno (artt. 2043 e 2059 c.c.) patito dal privato in conseguenza delle immissioni nocive che abbiano comportato la lesione di quei diritti, sia la condanna ad un facere, al fine di riportare le immissioni al di sotto della soglia di tollerabilità, non investendo una tale domanda, di per sé, scelte ed atti autoritativi, ma, per l’appunto, un’attività soggetta al principio del neminem laedere (tra le più recenti: Cass., S.U., n. 21993/2020; Cass., S.U., n. 25578/2020; Cass., S.U., n. 23436/2022; Cass., S.U., n. 27175/2022; Cass., S.U., n. 5668/2023).

Ne consegue la titolarità dal lato passivo del convenuto Comune di (Omissis) a fronte delle domande, risarcitoria e inibitoria, proposte dagli attori a fronte del dedotto vulnus che le immissioni intollerabili, provenienti dalla strada comunale in cui si trova la loro abitazione, sono idonee a cagionare ai diritti dai medesimi vantati.

3.3. – Posta tale diversa premessa, e’, altresì, errata la decisione della Corte territoriale di ritenere, di per sé, infondate le domande attoree in quanto esorbitanti dai limiti interni della giurisdizione del giudice ordinario.

Anzitutto, la domanda di risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti dagli attori in conseguenza delle immissioni acustiche intollerabili, non postula alcun intervento del giudice ordinario di conformazione del potere pubblico e, dunque, non spiega alcuna incidenza rispetto al perimetro dei limiti interni della relativa giurisdizione, ma richiede soltanto la verifica della violazione da parte della P.A. del principio del neminem laedere e, dunque, della sussistenza o meno della responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c., per aver mancato di osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni quale condotta, connotata da c.d. colpa generica, determinativa di danno ingiusto per il privato.

Anche la domanda volta a far cessare le immissioni intollerabili, come detto, non implica, di per sé, una attribuzione al giudice ordinario di poteri esorbitanti rispetto a quelli previsti dall’ordinamento e, dunque, ad esso inibiti dal principio desumibile dalla L. 20 marzo 1865 n. 2248 All. E., art. 4, comma 2, siccome incidenti sul potere discrezionale riservato alla Pubblica Amministrazione nell’espletamento dei suoi compiti istituzionali.

La circostanza che il primo giudice avesse predeterminato il facere del Comune convenuto imponendo ad esso taluni comportamenti implicanti l’adozione di provvedimenti discrezionali ed autoritativi – come l’effettuazione di un servizio pubblico di vigilanza, organizzandone anche le modalità operative – non impediva, però, ogni diversa delibazione del giudice di secondo grado, coerente con la portata della domanda formulata dagli attori, che fosse volta ad imporre alla P.A. (non già le modalità di esercizio del potere discrezionale ad essa spettante, ma) di procedere agli interventi idonei ed esigibili per riportare le immissioni acustiche entro la soglia di tollerabilità, ossia quegli interventi orientati al ripristino della legalità a tutela dei diritti soggettivi violati>>.

E’ ammissibile locare la quota ideale di una comunione? Si, come si desume dall’art. 1103 c.c.

Così Cass. sez. III n° 6338 del 02 marzo 2023, rel. Condello:

<<Con specifico riferimento al contratto del 25 febbraio 2009, e’, inoltre, incontestato in fatto che L.S.G., assumendo di essere proprietario pro indiviso dei fondi per cui è controversia, ha concesso in affitto all’odierno controricorrente soltanto la propria quota ideale, pari a 138/744 indivisi, come è consentito dall’art. 1103 c.c., che ammette la locazione della quota di bene comune.

Invero, anche se la giurisprudenza di legittimità in un suo risalente precedente ha espresso un iniziale giudizio di inammissibilità della locazione della quota (Cass., 11/03/1942 n. 652), l’orientamento prevalente è senz’altro orientato per l’ammissibilità della locazione di quota (Cass. 13/02/1951 n. 350; Cass. 29/05/1954 n. 1768; Cass. 09/05/1961, n. 1077; Cass. 22/05/1982, n. 3143; Cass., sez. 3, 20/07/1991, n. 8110; Cass., sez. 3, 28/09/2000, n. 12870). E’ stato chiarito (Cass., sez. 3, 05/01/2005, n. 165) che, quando il potere di disposizione sulla cosa appartiene a più soggetti nella forma della comunione in senso specifico ex art. 1100 c.c., tutti possono, rinunciando al godimento diretto, concederla in locazione a terzi ed anche a taluno soltanto dei contitolari; allo stesso modo, il comproprietario può concedere in locazione la cosa comune anche nei limiti della propria quota ideale. Con la precisazione che l’art. 1105 c.c., secondo il quale tutti i partecipanti alla comunione hanno diritto di concorrere all’amministrazione della cosa comune, non limita l’autonomo potere di disposizione di ciascun partecipante alla comunione sulla sua quota ideale della cosa comune (art. 1103 c.c.), per cui gli atti dispositivi della quota medesima e la amministrazione di essa riguardano solo il singolo titolare.

Il giudice di merito ha, quindi, fatto buon governo delle suddette disposizioni di legge, laddove ha affermato che il contratto di affitto del 25 febbraio 2009 legittima L.S.G. a detenere il fondo nei limiti della quota ideale ad esso concessa in godimento.

E’ ben vero, come si sostiene in ricorso, che il contratto di affitto ha legittimato l’odierno controricorrente alla sola detenzione della quota di proprietà del concedente, ma non anche alla detenzione della quota di proprietà delle ricorrenti, nel cui compossesso queste sono state reimmesse, secondo la ricostruzione della vicenda fattuale operata dalla Corte d’appello, dall’ufficiale giudiziario in data 20 aprile 2009.     Va, tuttavia, considerato che le parti ricorrenti, con l’atto introduttivo del giudizio, hanno chiesto il risarcimento del danno da ritardata restituzione dei fondi, sul rilievo che l’affittuario si fosse reso inadempiente all’obbligo di rilascio derivante dal contratto di affitto, cosicché, invocando l’art. 1102 c.c., che regola i rapporti tra condomini ed i limiti all’uso della cosa comune, ed adducendo che l’attività di allevamento svolta dal L. impegna l’intero fondo, precludendo alle stesse qualsiasi utilizzo del bene, introducono questioni fondate su un diverso titolo, come tali inammissibili>>.

La prova del diritto di comproprietà nel giudizio divisionale è attenuato rispetto ad una domanda di rivendica

Per cui non è applicabile l’art. 567 c. 2 CPC e quindi non è necessaria la produzione documentale ivi menzionata.

così Cass. sez. 6 del 2 marzo 2023 n. 6228 rel. Tedesco.

Riporto due passaggi:

<<a) In primo luogo, la Suprema Corte (Cass. n. 10067-2020, ampiamente richiamata in ricorso e precedente alla sentenza impugnata), pur condividendo l’esigenza che, nel giudizio di divisione ereditaria, occorra offrire la dimostrazione dell’appartenenza dei beni al de cuius o più genericamente la prova della comproprietà (cfr. Cass. n. 1965-2022), ha precisato, sulla scorta di risalenti principi, che, pure in presenza di contestazioni dei coeredi, non grava a carico dell’attore l’onere di quella prova rigorosa richiesta nel caso di azione di rivendicazione o di quella di mero accertamento positivo della proprietà, “poiché non si tratta di accertare positivamente la proprietà dell’attore negando quella dei convenuti, ma di fare accertare un diritto comune a tutte le parti in causa, quali coeredi” (Cass. n. 1309-1966)>>

E quello sul rapporto tra l’art. 1113 cc e la trascrizione ex art. 2646 cc:

<<In sesto luogo, la Suprema Corte ha anche approfondito il rapporto fra l’art. 1113 e l’art. l’art. 2646 c.c., che preveda la trascrizione della divisione che ha per oggetto beni immobili, precisando innanzitutto che non è applicabile alla divisione il principio prior in tempore nella sua funzione tipica quale emerge dagli artt. 2644 e 2914, n. 1, c.c. Correlativamente la trascrizione della domanda di divisione va curata non per gli effetti previsti dagli artt. 2652 e 2653 c.c., ma per gli effetti enunciati nell’art. 1113 c.c., norma che in verità disciplina non solo gli effetti della trascrizione della domanda di divisione, ma anche quelli della trascrizione della stessa divisione (Cass. n. 26692/2020). Pertanto, colui che trascrive o iscrive contro uno dei comproprietari, prima della trascrizione della divisione (o della domanda di divisione giudiziale), non rafforza definitivamente il proprio acquisto secondo lo schema dell’art. 2644 c.c., ma, nel concorso delle condizioni previste dall’art. 1113 c.c., acquisisce il diritto di impugnare la divisione già eseguita alla quale non sia stato chiamato a partecipare, o di disconoscerne immediatamente l’efficacia, se l’omissione è incorsa in danno dei soggetti indicati nel comma 3 della norma. E’ stato opportunamente precisato che l’impugnativa è data a chi abbia interesse a una nuova divisione e abbia avuto un danno dalla vecchia.

L’inefficacia, perciò, non potrebbe essere fatta valere da chi non ha avuto pregiudizio dall’atto (in questo senso, con riferimento a un profilo specifico riguardante il processo esecutivo, Cass. 10653/2014).

E’ stato anche chiarito che la preventiva trascrizione della domanda giudiziale non mette fuori causa le conseguenze della retroattività dell’acquisto destinato a realizzarsi con la divisione con riferimento ai diritti reali, di godimento o di garanzia, costituiti dal comunista sulla propria quota: in forza della retroattività, questi diritti colpiscono di massima soltanto la cosa di cui egli risulti con la divisione proprietario. La regola è espressamente ribadita nel comma 1 dell’art. 2825 c.c. per l’ipoteca presa contro il singolo comproprietario, che produce effetto rispetto ai beni o a quella porzione di beni che a lui verranno assegnati nella divisione. Pertanto, l’ipoteca iscritta contro un solo condomino, seppure operata dopo la trascrizione della domanda di divisione, è ancora ipoteca su beni comuni. Si trasferirà perciò sul diverso bene assegnato o sui conguagli, solo che non beneficia dell’onere di chiamata (Cass. n. 19550/ 2009; n. 1270/1967).

g) Ancora sul tema della trascrizione, è stato chiarito che vale anche nella divisione giudiziale la regola generale che l’obbligo della trascrizione di determinate domande giudiziali è posto a salvaguardia degli eventuali diritti dei terzi ed il suo mancato adempimento non è di ostacolo alla procedibilità delle relative azioni né alla decisione delle domande stesse, potendo soltanto dar luogo a sanzioni di carattere fiscale se ed in quanto applicabili (Cass. n. 1787/1976). Naturalmente, secondo le regole generali, il difetto di trascrizione della domanda giudiziale non impedisce la successiva trascrizione del provvedimento definitivo (sentenza o ordinanza) con il quale è attuato il riparto. Peraltro, non operando la prenotazione, gli effetti divisori non saranno opponibili ai creditori e aventi causa che avranno iscritto o trascritto l’acquisto anche dopo l’inizio del giudizio e fino alla trascrizione del provvedimento giudiziale. Costoro si troveranno nella stessa posizione di coloro che avevano acquistato e trascritto prima che la divisione giudiziale avesse inizio (art. ex art. 1113, comma 3, c.c.) (Cass. n. 10067/2020).

Si ritiene comunemente che la trascrizione della divisione, oltre che per gli effetti previsti dall’art. 1113 c.c., sia poi richiesta ai fini della continuità di cui all’art. 2650 c.c. (Cass. n. 2800/1985; Cass. n. 821/2000, che richiama il medesimo principio per la trascrizione della domanda giudiziale di divisione)>>

Prova della comproprietà nel giudizio di divisione ereditaria

Cass. ord. sezione sesta-2 del 2 marzo 2023 n. 6228, rel.  Tedesco, dà utili precisazioni circa la prova della titolarità (e altre questioni) nel giudizio di divisione dicomunione ereditaria, di significativa importanza per l’operatore.

Questa la massima tratta da www.ilcaso.it : <<Nei giudizi di scioglimento della comunione, la prova della comproprietà dei beni dividendi non è quella rigorosa richiesta in caso di azione di rivendicazione o di accertamento positivo della proprietà, atteso che la divisione, oltre a non operare alcun trasferimento di diritti dall’uno all’altro condividente, è volta a far accertare un diritto comune a tutte le parti in causa e non la proprietà dell’attore con negazione di quella dei convenuti, sicché, in caso di non contestazione sull’appartenenza dei beni, non può disconoscersi la possibilità di una prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico, siccome ridondanti a vantaggio della collettività dei condividenti>>.

Questi i passi per esteso:

<a) In primo luogo, la Suprema Corte (Cass. n. 10067/2020, ampiamente richiamata in ricorso e precedente alla sentenza impugnata), pur condividendo l’esigenza che, nel giudizio di divisione ereditaria, occorra offrire la dimostrazione dell’appartenenza dei beni al de cuius o più genericamente la prova della comproprietà (cfr. Cass. n. 1965/2022), ha precisato, sulla scorta di risalenti principi, che, pure in presenza di contestazioni dei coeredi, non grava a carico dell’attore l’onere di quella prova rigorosa richiesta nel caso di azione di rivendicazione o di quella di mero accertamento positivo della proprietà, “poiché non si tratta di accertare positivamente la proprietà dell’attore negando quella dei convenuti, ma di fare accertare un diritto comune a tutte le parti in causa, quali coeredi” (Cass. n. 1309/1966). Con la divisione, infatti, si opera la trasformazione dell’oggetto del diritto di ciascuno, da diritto sulla quota ideale a diritto su un bene determinato, senza che intervenga fra i condividenti alcun atto di cessione o di alienazione (Cass. n. 20645/2005). La divisione, in considerazione della sua efficacia retroattiva sancita dagli artt. 757 e 1116 c.c., non opera alcun trasferimento di diritti dall’uno all’altro dei condividenti (Cass. n. 17061/2011), ma lascia ciascuno di essi aventi causa dal de cuius (o più in generale, con riferimento a qualsiasi comunione, dal dante causa dei partecipanti alla comunione medesima). Si spiega con tale natura dell’atto divisionale la regola che divisione non integra titolo astrattamente idoneo all’acquisto della proprietà per gli effetti previsti dall’art. 1159 c.c. (Cass. n. 1976/1983). Inoltre, è principio consolidato nella giurisprudenza della Corte quello secondo cui, ai fini della prova della proprietà nel giudizio di rivendicazione non può essere sufficiente un atto di divisione, che, per il suo carattere dichiarativo e non costitutivo di diritti, non ha di per sé solo forza probante nei confronti dei terzi del diritto di proprietà attribuito ai condividenti, occorrendo dimostrare il titolo di acquisto della comunione, in base al quale il bene e stato attribuito in sede di divisione» (Cass. n. 1930/1966; n. 1511/1979; n. 3724/1987). Si ha cura di precisare che il principio opera quando l’atto è fatto valere fuori dalla cerchia dei condividenti o loro aventi causa, mentre non può essere applicato nella controversia sulla proprietà tra i condividenti o i loro aventi causa, perché la divisione, la divisione, accertando i diritti delle parti sul presupposto di una comunione dei beni divisi, presuppone l’appartenenza dei beni alla comunione (Cass. n. 4828/1994).
b) In secondo luogo, la Suprema Corte ha chiarito che non si può escludere a priori la rilevanza della non contestazione e, a fortiori, dell’esplicito o implicito riconoscimento dell’appartenenza dei beni ai coeredi (Cass. n. 40041/2021). Con questo, naturalmente, non si intende sostenere che la divisione immobiliare possa farsi “sulla parola”, ma più limitatamente che, in una situazione nella quale la comune proprietà dei beni dividendi, nel significato sopra chiarito, sia incontroversa, non si potrebbe disconoscere la possibilità della prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico (cfr. Cass. n. 21716/2020), tenuto conto, appunto, che non si fornisce la prova di un fatto costitutivo di una domanda che vede le parti in contrapposizione fra loro (Cass. n. 1065/2022). La domanda di divisione, infatti, anche quando sia proposta da uno solo, è sempre comune a tutti i condividenti (Cass. n. 6105/1987; n. 15504/2018), i quali sono tutti sul medesimo piano ed hanno tutti eguale diritto alla divisione (Cass.n.4353/1980). Pertanto, le verifiche condotte dall’ausiliario d’ufficio ridondano a vantaggio della collettività dei condividenti, così come andrebbe a svantaggio di tutti una acquisizione postuma, anche se operata d’ufficio dal consulente, dal quale emergesse che la proprietà comune, non contestata o desunta a livello indiziario, non trova conferma sul piano documentale (Cass. n. 40041/2021)>>.

Errato e probab. non pertinente è però il riferimento alla non traslatività della divisione, la quale va invece ritenuta esistente (irrilevante è l’appoggio alla retroattività disposta di imperio, mera fictio iuris).

Il NFT su una blockchain è un bene diverso dall’uguale NFT su altra blockchain? L’account su un NFT , cessato e riascquistato da terzi, rimane uguale giuridicamente o no? bene o solo la rappresentazione digitale di un bene?

La US District Court of NY n° 22-CV-881 (JLC) del 17 marzo 2023, Free Holdings c. Mccoy-Sotheby’s, decide interessanti questioni, cui però non si possono fare osservazioni se non sommarie, data la tecnicità richiesta.

Un artista crea un’immagine digitale chiamandola “Quantum” e collocandola come  NFT su blockchain “Namecoin”  (vedila qui)

Poi, cessato per decorso del tempo il diritto sul relativo account (“burnt”), la sposta su Etehereum e poi la vende tramite Sotheby’s (per oltre 1,4 mln. di dollari !!). Qui se ne racconta la storia rappresentando la prima fase su Namecoin come estinta e l’account relativo appunto burnt.

Un terzo riattiva e riregistra l’account sul relativo nome/stringa . Egli poi agisce verso l’artista e Sothebys per aver usato espressioni fuorvianti nella presentazione del NFT su Eteherum, dicendo che l’account era stato burnt e simili.

L’interesse economico deriva dal fatto che pare si trattasse del primo NFT inassoluto al mondo.

Su suggerimento dell’artista, il giudice rigetta la domanda del terzo (Free Holdings) perchè -in breve, se ben capisco- una cosa è il diritto sull’account della piattaforma/blockchain, altra è quello sull’opera rappresentata nel/dal  file e chiamata Quantum.

In particolare:

<<Free Holdings does provide an adequate factual basis to support a plausible
proprietary interest in -709a—that is, assertions of title displayed on the -709a
Record Page and by Twitter user @EarlyNFT. See AC ¶¶ 38, 42–43. Free Holdings
has thus alleged a proprietary interest in -709a sufficient for standing. However,
Free Holdings has not articulated any facts to support its claim to ownership of
Quantum vis-à-vis its claim to -709a. As McCoy points out, Free Holdings “never
alleges that it can or could control” Quantum. McCoy Mem. at 5. As factual
support, Free Holdings provides only its own alleged statements on Namecoin that it “assert[ed] title to the file at the URL http://static.mccoyspace.com/gifs/quantum.gif” and that “[t]itle transfers to whoever controls this blockchain entry,” -709a Record Page, along with an article explaining that the significance of name ownership on Namecoin is open to debate. See Pl. Mem. McCoy at 8 n.5 (citing Defining NFT); Dkt. No. 66, Ex. C (same); McCoy Mem. at 5, 12. Even taken together, they are insufficient to give rise to a legally-protected interest in Quantum>>.

Questo l’articolo del New York Times citato dal giudice sugli artisti digitali che si esprimono creando NFTs.

(notizia e link da Paolo Maria Gangi in IPKat , ove interessanti dettagli tecnici).

Costruzione in aderenza e costruizone in appoggio nella disciplina codicistica delle distanze

Cass.  sez. 3 del 16.01.2023 n. 1104, rel. Iannello, sugli artt. 874, 877 e  880 c.c.

<< 7. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione degli artt. 873 e 877 c.c., per avere la Corte d’appello adottato quale sanzione della operata costruzione in appoggio l’arretramento della stessa ad almeno tre metri dal muro di fabbrica di proprietà di I.F. anziché il suo mero rifacimento in aderenza e non in appoggio.

8. Il motivo è fondato.

Secondo principio bensì risalente ma tuttavia incontrastato nella giurisprudenza di questa Corte, “ove sia stata scelta dall’avente diritto la soluzione di costruire il muro perimetrale del nuovo edificio in aderenza di quello altrui, preesistente sul confine, per tutta la sua altezza nonché in appoggio e sopraelevazione per il tratto nel quale il nuovo edificio supera l’altezza di quello preesistente, e risulti la illegittimità dello appoggio e della sopraelevazione perché non sussisteva e non è stata acquisita la comunione del muro contiguo, la sanzione applicabile non è quella della demolizione del nuovo edificio, per tutta la sua altezza, fino a distanziarlo della misura legale da quello preesistente, sebbene soltanto quella dell’eliminazione degli appoggi e della sopraelevazione sul muro altrui, in guisa da ridurre il nuovo edificio nei limiti della semplice aderenza ed entro i propri confini (Cass. n. 1734 del 06/05/1977).

La costruzione in aderenza ex art. 877 c.c., comma 1, costituisce una facoltà del proprietario il cui esercizio non implica particolari oneri o formalità e può aversi anche in caso di sopraelevazione di sopraelevazione di costruzione preesistente (Cass. n. 7183 del 10/05/2012; n. 38033 del 02/12/2021).

Essa trova ostacolo: a) nel caso in cui il vicino abbia acquisito il diritto di esercitare delle vedute dal muro posto sul confine, nella previsione di cui all’art. 907 c.c., a mente del cui comma 3, “se si vuole appoggiare la nuova costruzione al muro in cui sono le dette vedute dirette od oblique, essa deve arrestarsi almeno a tre metri sotto la loro soglia” (norma, questa, applicabile, senza alcuna distinzione, alle costruzioni in appoggio come a quelle in aderenza: Cass. n. 4976 del 2000; n. 1832 del 2000); b) nel caso in cui lo strumento urbanistico locale sancisca l’obbligo inderogabile di osservare una determinata distanza dal confine, perché tale disciplina, integrativa di quella codicistica, vincola alla osservanza della diversa distanza stabilita senza alcuna facoltà di allineamento (in verticale) alla originaria preesistente costruzione (cfr. Cass. n. 3737 del 20/04/1994); c) nel caso in cui la sopraelevazione da edificare in aderenza non goda di piena autonoma sotto l’aspetto statico (Cass. n. 12419 del 15/12/1993; n. 17388 del 30/08/2004).

Nel caso di specie però nessun accertamento risulta condotto al riguardo in sentenza, essendo stata anzi ritenuta assorbita la pur riproposta domanda di riduzione in pristino per violazione delle distanze dalle vedute.

In difetto di tale accertamento l’ordine di demolizione risulta in effetti ingiustificato in punto di diritto e deve ritenersi frutto di error in iudicando, sub specie di vizio di sussunzione della fattispecie concreta, così come allo stato accertata, nella fattispecie legale quale definita dal combinato disposto degli artt. 873 e 877 c.c..

La sentenza impugnata deve essere pertanto, sul punto, cassata con rinvio al giudice a quo il quale, in applicazione dell’esposto principio, dovrà valutare la possibilità, in relazione agli elementi di fatto acquisiti ovvero acquisibili ancora ex officio (a mezzo ad es. di una c.t.u.) di emettere, quale prioritaria alternativa sanzione conseguente alla non consentita costruzione in appoggio, un ordine di costruzione in aderenza della sopraelevazione de qua (terzo e quarto piano del fabbricato ex L.F.) >>.

Immissioni acustiche intollerabili dai bar agli appartamenti soprastanti

Appello Milano n. 72/2023 del 12.01.2023, RG 3689/2023, affronta agli aspetti pratici sul tema in oggetto e si presenta di notevole interesse per chi debba occuparsene.

Riporto solo il seguente passo per la sua importanza teorica:

<<E’ stato accertato che già dalle ore 22.00 i livelli di immissioni acustiche nell’appartamento dei Bianchi-Sabato erano notevolmente superiori ai limiti di accettabilità amministrativa.
In proposito occorre tenere presente che il diritto alla normale qualità della vita è ritenuto prevalente rispetto alle esigenze della produzione – ex plurimis Cass. n. 21504 del 31/08/2018 . L’art. 844, comma 2, c.c., nella parte in cui rimette alla valutazione del giudice il contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, considerando eventualmente la priorità di un
determinato uso, va letto tenendo conto che il limite della tutela della salute è da ritenersi ormai intrinseco nell’attività di produzione, oltre che nei rapporti di vicinato, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, sicché deve sempre considerarsi prevalente – rispetto alle esigenze della produzione – la soddisfazione di una normale qualità della vita. Ne deriva l’esclusione, in siffatta evenienza, dell’impiego di qualsiasi criterio di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell’uso-. La prescrizione è quindi pienamente giustificata ed anzi è legittima solo se sono rigorosamente rispettate tutte le altre prescrizioni imposte funzionali a ridurre le emissioni acustiche provenienti
dall’esercizio del diritto del plateatico nel lasso di tempo consentito fino alle ore 23.00>>.

Chi paga le spese condominiali per un appartamento di proprietà di un trust? Il trustee , dice la Cassazione

Cass.  n° 3.190 del 02.02.2023, sez. 2, rel. Scarpa:

<<l’unità immobiliare compresa nel Condominio di , alla quale si riferiscono i contributi oggetto del decreto ingiuntivo per cui è causa, è stata conferita in un “trust” traslativo, denominato “GP Trust”, sicché la “trustee” … s.r.l. è divenuta titolare della proprietà della stessa ed è tenuta, in quanto tale, a sostenerne le spese, non assumendo rilevanza, a tali fini, i limiti ai relativi poteri e doveri imposti dal disponente nell’atto istitutivo e l’effetto segregativo proprio dell’istituto, in vista del successivo ed eventuale trasferimento della titolarità dei beni vincolati ai soggetti beneficiari. Pur conferendo l’operazione al “trustee” una proprietà limitata nell’esercizio alla realizzazione del programma stabilito dal disponente nell’atto istitutivo a vantaggio del o dei beneficiari, i tre centri di imputazione della vicenda sono il disponente, il “trustee” e il beneficiario, mentre il “trust” non rileva quale soggetto giuridico dotato di una distinta individualità. A ciò consegue altresì che il “trustee” è il titolare dei diritti conferiti nel patrimonio vincolato ed è l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, operando non quale rappresentante del “trust” o del beneficiario, ma quale titolare della legittimazione dispositiva del diritto (ex multis, Cass. 26 maggio 2020, n. 9648; Cass. 20 giugno 2019, n. 16550; Cass. 30 maggio 2018, n. 13626; Cass. 19 maggio 2017, n. 12718; Cass. 27 gennaio 2017, n. 2043).
Questa interpretazione trae fondamento dall’art. 2 della Convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, adottata a L’Aja il 1° luglio 1985 e ratificata dalla legge 16 ottobre 1989, n. 364, secondo la quale “per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico. Il trust presenta le seguenti caratteristiche: a) i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee; b) i beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee; c) il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge (…)”.
Del tutto diversa dal trust, e dunque estranea alla fattispecie per cui è causa, per come in fatto ricostruita dai giudici del merito, è la disciplina posta dalla legge 23 novembre 1939, n. 1966, la quale riguarda la mera amministrazione di beni per conto di terzi, conferita a società fiduciarie mediante mandato, salva rimanendo la proprietà effettiva di questi in capo ai mandanti (cfr. Cass. Sez. Unite 27 aprile 2022, n. 13143)>>.