Il legame tra uomo e cane arriva in Cassazione

Interessanti questioni esaminate da Cass. sez. 3 del 24.03.2023 n. 8459, rel. Oliva.

Domanda originaria: <<Con atto di citazione ritualmente notificato F.C. evocava in giudizio B.A. innanzi il Tribunale di Padova, chiedendo che venisse accertata la sua qualità di comproprietaria di un cane, acquistato nel corso della precedente relazione affettiva stabile intercorsa tra le parti, nonché lo scioglimento della relativa comunione con affidamento dell’animale e risarcimento dei danni, emotivi e patrimoniali>>.

Diritto di comproprietà escluso dal giudice del marito, come confermato dalla SC

Negato pure il dirito di visita all’animale per assenza/insufficienza del rapporto di affezione: <<Con il secondo e terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione della L. n. 76 del 2016 e dell’art. 132, comma 2, c.p.c. per aver la Corte omesso di valutare, senza motivare sul punto, la sussistenza di un rapporto tra le parti qualificabile come coppia di fatto e, di conseguenza, per aver escluso l’esistenza di un legame affettivo stabile con l’animale.

Entrambi i motivi, suscettibili di trattazione congiunta, sono inammissibili.

Le censure, infatti, non si confrontano con la motivazione della sentenza, la quale -oltre ad aver effettivamente considerato la possibile sussistenza di una famiglia di fatto tra le parti, escludendola sulla base della carenza del minimo requisito della convivenza e della brevità della relazione- ha negato il diritto di visita della ricorrente sulla base non della insussistenza della coppia di fatto, bensì per la carenza di prova dell’instaurazione di un rapporto significativo tra la ricorrente e il cane, vista la breve relazione sentimentale che l’aveva legata al suo padrone (cfr. pagg. 21-22 della sentenza: “La coppia B.- F. non costituiva famiglia nemmeno di fatto, né era definibile quale nucleo familiare in cui l’animale si trovava inserito. Si trattava di una relazione sentimentale molto breve che non aveva condotto le parti nemmeno alla convivenza. (…) Al di là della circostanza pacifica che la frequentazione della sig.ra F. con il cane, nell’ambito della sua relazione sentimentale con il sig. B., si sia limitata a circa 4 mesi, l’appellata non ha provato che, nonostante il breve periodo, si sia instaurato con l’animale un rapporto tale da far presumere che le possa essere riconosciuto un diritto di visita nei confronti dell’animale”)>>.

Quindi, anche in assenza di famiglia di fatto, il rapporto di affezione con il cane, se significativo, fa nascere un diritto di visitarlo. Su che base normativa? “Ogni altro fatto idoneo a produrle” ex art. 1173 cc?

Ma solo con un cane o pure con altri animali? E con cose?

Irrilevante il conflitto di interessi nelle delibere condominali (e poi: precisiazioni sul concetto di “innovazione” ex art. 1120 cc)

Circa il conflitto di interessi , Cass. sez 2 n° 5642 del 23.02.2023, rel. Giannaccari, dice:

<3.12.Tutto ciò si riflette, anzitutto, sul conflitto di interessi, posto che per il sorgere del conflitto tra il condominio ed il singolo condomino è necessario che questi sia portatore, allo stesso tempo, di un duplice interesse: uno come condomino ed uno come estraneo al condominio e che i due interessi non possano soddisfarsi contemporaneamente, ma che il soddisfacimento dell’uno comporti il sacrificio dell’altro.

3.13.Inoltre, nel condominio degli edifici, il quorum deliberativo – come quello costitutivo – è determinato con riferimento sia all’elemento personale (i condomini partecipanti all’assemblea), sia all’elemento reale (il valore di ciascun piano o porzione di piano rispetto all’intero edificio, espresso in millesimi).

3.14.Da nessuna norma si prevede che, ai fini della costituzione dell’assemblea o delle deliberazioni, non si tenga conto di alcuni dei partecipanti al condominio e dei relativi millesimi.

3.15.In materia di società di capitali, oltre l’ipotesi disciplinata dall’art. 2373 cit., si prevedono altri casi nei quali il socio non può esercitare il diritto di voto (art. 2344 comma 4 c.c.); peraltro, si prevedono anche casi in cui le azioni, per le quali il diritto di voto è sospeso, sono computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea (art. 2357 ter comma 2 c.c.).

3.16. Per contro, in tema di condominio negli edifici – posto che, in caso di conflitto di interessi, al condomino sia vietato esercitare il diritto di voto – non si contempla nessuna ipotesi nelle quali, ai fini dei quorum costitutivo e deliberativo, non si debba tener conto di tutti i partecipanti e di tutte le quote e nelle quali le maggioranze possano modificarsi in meno.

3.17.Al contrario, avuto riguardo alla funzione strumentale del principio maggioritario, in ragione della tutela dei diritti dei singoli sulle parti comuni e della garanzia del godimento delle unità immobiliari in proprietà solitaria, non sembra corretto applicare i principi elaborato in tema di società di capitali.

3.18.Ne consegue che, alla stregua dei principi sopra enunciati, non è corretta l’affermazione della Corte di merito secondo cui il voto della delegata T. non andava computato, per essere stato espresso in una situazione di conflitto di interessi, né, conseguentemente, che fosse necessaria la prova di resistenza della delibera senza il calcolo di quel voto>.

Sul cocnetto di  innovazione:

<<2.2.In tema di condominio di edifici costituisce innovazione ai sensi dell’art. 1120 c.c. non qualsiasi modificazione della cosa comune, ma solamente quella che alteri l’entità’ materiale del bene operandone la trasformazione ovvero determini la trasformazione della sua destinazione, nel senso che detto bene presenti, a seguito delle opere eseguite, una diversa consistenza materiale ovvero sia utilizzato per fini diversi da quelli precedenti l’esecuzione delle opere (Cass. Civ., Sez. II, Sez. 2 -, 04/09/2017, n. 20712; Cass. Civ., Sez. II, 29.8.1998, n. 8622)

2.3.Le modificazioni che invece mirano a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune o ne lasciano immutate la consistenza e la destinazione non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto.

2.4.Secondo l’accertamento della corte di merito, non costituiva innovazione la sostituzione delle gronde consdominiali in cemento, demolite e sostituite con gronde in lamiera a sbalzo di identica dimensione ed il rifacimento del muro di confine>.

Sottosuolo condominiale presunto comune e potere/dovere dell’amministatore di compiere gli atti conservativi ex art. 1130 n. 4 cc

Sulle due questioni v. Cass . ord. 2.786 del 31.01.2023, rel. Trapuzzano.

sub 1 (potere/dovere dell’amministatore di compiere gli atti conservativi ex art. 1130 n. 4 cc) , tali atti non sono solo quelli urgenti. Punto importante.

<<E tanto perché ricadono nell’ambito degli atti conservativi che l’amministratore può compiere, ai sensi dell’art. 1130, n. 4, c.c., senza la previa delibera autorizzativa dell’assemblea (o la successiva ratifica), eventualmente attraverso la promozione di azioni processuali per la tutela delle parti comuni dell’edificio, anche le iniziative non connotate dal requisito dell’urgenza, purché volte a salvaguardare l’integrità di un bene comune.

Sussiste, infatti, la legitimatio ad causam e ad processum dell’amministratore del condominio, senza bisogno di alcuna autorizzazione, allorquando egli agisca a tutela di beni condominiali, giacché i poteri promanano direttamente dalla legge e precisamente dall’art. 1130, n. 4, c.c., che pone addirittura come dovere proprio del suo ufficio quello di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, potere-dovere da intendersi non limitato agli atti cautelativi ed urgenti, ma esteso a tutti gli atti miranti a mantenere l’esistenza e la pienezza o integrità di detti diritti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5772 del 23/03/2004; Sez. 2, Sentenza n. 6494 del 06/11/1986).

Siffatta conclusione è avvalorata dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte in ordine alla portata degli “atti conservativi” che il chiamato all’eredità può compiere prima di accettare, ai sensi dell’art. 460, comma 2, c.c.: essi si distinguono dalle azioni possessorie che possono essere intraprese ai sensi del comma 1 di tale disposizione e consistono in atti di gestione dei beni indirizzati ad assicurare il mantenimento dello stato di fatto quale esistente.

La natura conservativa dell’atto non e’, dunque, connotata dall’aspetto strumentale inerente all’indifferibilità del suo espletamento, bensì dal vincolo teleologico da cui è avvinto il suo compimento, essenzialmente indirizzato a preservare l’integrità fisica e giuridica nonché la consistenza materiale del bene comune (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6190 del 03/05/2001; Sez. 2, Sentenza n. 13611 del 12/10/2000; Sez. 2, Sentenza n. 6593 del 11/11/1986; Sez. 2, Sentenza n. 3510 del 28/05/1980).

Nella fattispecie, la rimessione in pristino dello stato del sottosuolo, di cui il condomino si è appropriato attraverso le opere di escavazione volte ad ingrandire il bene di sua proprietà esclusiva, costituisce azione propria diretta a far cessare la privazione di un bene comune, sicché il suo esperimento non era condizionato alla esclusiva formulazione di azioni possessorie o d’urgenza. Sono, infatti, atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, sia gli atti materiali (riparazioni di muri portanti, di tetti e lastrici) sia quelli giudiziali (azioni contro comportamenti illeciti posti in essere da terzi), necessari per la salvaguardia dell’integrità dell’immobile, indipendentemente dal momento in cui essi siano avviati rispetto all’epoca di realizzazione delle condotte lesive di beni comuni.

Ne’ la radicale privazione di tale bene può essere assimilata al mutamento della sua destinazione d’uso.

D’altronde, nessuna contraddizione è integrata per effetto della discriminazione tra tutela in forma specifica del bene comune mediante sua restitutio in integrum e azione risarcitoria connessa alla lesione di tale bene. Solo per quest’ultima è preclusa all’amministratore la proposizione, in difetto di mandato rappresentativo dei singoli condomini, delle azioni risarcitorie per i danni subiti dalle unità immobiliari di loro proprietà esclusiva (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 3846 del 17/02/2020; Sez. 2, Sentenza n. 217 del 12/01/2015; Sez. 2, Sentenza n. 22656 del 08/11/2010).>>

Sub 2), proprietà del sottosuolo:

<<Al riguardo, l’istante osserva che, nel caso di specie, l’edificio si sviluppava su muri, pilastri e altri manufatti d’appoggio, sicché il suolo avrebbe potuto essere considerato proprietà comune solo per la parte necessaria al suo sostentamento, né la proprietà condominiale avrebbe potuto estendersi sino alla porzione oggetto dello scavo posta ad una quota superiore rispetto al livello delle fondazioni.>>

Censura incomrpesibile. Puntualmente la SC risponde:

<<E tanto perché la zona esistente in profondità, al di sotto dell’area superficiaria che è alla base dell’edificio, in mancanza di un titolo che attribuisca ad alcuno di essi la proprietà esclusiva, rientra per presunzione in quella comune tra i condomini, anche ai sensi del disposto dell’art. 1117 c.c. all’esito della novella di cui alla L. n. 220 del 2012. Nessuno di costoro, pertanto, può, senza il consenso degli altri, procedere all’escavazione del sottosuolo per ricavarne nuovi locali o per ingrandire quelli preesistenti, in quanto, attraendo la cosa comune nell’orbita della sua disponibilità esclusiva, limiterebbe l’altrui uso e godimento ad essa pertinenti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 33163 del 16/12/2019; Sez. 6-2, Ordinanza n. 29925 del 18/11/2019; Sez. 2, Sentenza n. 6154 del 30/03/2016; Sez. 3, Sentenza n. 15383 del 13/07/2011).

E ciò a prescindere dalla funzione portante in concreto dell’edificio esercitata dal suolo.

Nella fattispecie, è pacifico che il condomino proprietario del piano seminterrato non vanti alcun titolo dominicale sul suolo sottostante il suo immobile, sicché – in base alla predetta presunzione – deve ritenersi che il bene rientri tra quelli condominiali.>>

La locazione agraria stipulata da uno solo dei comprorietari è efficace verso il conduttore

Cass. 21.11.2022 sez. III n° 34.131 , rel. Condello:

<<La sentenza impugnata si pone in linea con il principio pacifico della giurisprudenza di legittimità secondo cui il comproprietario può agire in giudizio per ottenere il rilascio dell’immobile per finita locazione o la risoluzione del contratto per inadempimento, trattandosi di un atto di ordinaria amministrazione della cosa comune per il quale si deve presumere che sussista il consenso degli altri comproprietari o quanto meno della maggioranza dei partecipanti alla comunione (tanto che si esclude la necessità della integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri partecipanti) (Cass., sez. 3, 13/07/1999, n. 7416; Cass., sez. 3, 04/06/2008, n. 14759).

Pertanto, qualora il contratto di locazione abbia ad oggetto un immobile in comproprietà indivisa, ciascuno dei comunisti ha, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori, rispondendo a regole di comune esperienza che uno o alcuni di essi gestiscano, con il consenso degli altri, gli interessi di tutti, sicché l’eventuale mancanza di poteri o di autorizzazione rileva nei soli rapporti interni fra i comproprietari e non può essere eccepita alla parte conduttrice (Cass., sez. 2, 02/02/2016, n. 1986).

Ciò impone di ritenere che il contratto di locazione, seppure concluso dal V. solo con C.M., come ritenuto dalla Corte d’appello, era valido ed opponibile anche agli altri comproprietari del fondo, anche se rimasti estranei alla stipula del contratto di affitto, e che l’ordine di rilascio del fondo, derivante dall’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto di affitto, sebbene proposta dal solo C.M., si estende anche agli altri comproprietari del bene>>.

Il Condominio è consumatore? Risposta (non chiara) dalla Corte di Giustizia

Corte di Giustizia 27.10.2022 , C-485/21, affronta il tema in oggetto con risposta non molto chiara o meglio  utile

Il rapporto de quo è quello di amministrazione cioè tra condomini e società amministratrice delle parti comuni.

Distingue a seconda che si esamini il caso del singolo condomino o l’intero condominio che -previa delibera- abbia stipulato detto contrtto.

Dice la CG : <<Nel caso di specie, occorre rilevare che dalla domanda di pronuncia pregiudiziale risulta che E. Ts. D. è una persona fisica e che il contratto di cui al punto 12 della presente sentenza ha per oggetto la gestione e la manutenzione delle parti comuni dell’immobile in regime di condominio nel quale E. Ts. D. è proprietaria di un appartamento. Pertanto, nell’ipotesi in cui detta persona sia parte di tale contratto e purché non utilizzi detto appartamento per scopi che rientrano esclusivamente nella sua attività professionale, occorre, in linea di principio, ritenere che essa agisca in qualità di «consumatore», ai sensi dell’articolo 2, lettera b), della direttiva 93/13, in tale contratto.>>

Risposta ovvvia tranne che per l’ambiguo “esclusivamente”: che significa? Se l’uso è professionale solo “prevalentemente” (prevalenza ratio temporis oppure ratio spatii, id est per metri quadri) rimane consumatore?  Che l’uso concorrente non precluda tale qualfica, lo si desume dal seguente § 32 (v. dopo) : ma resta il criterio distintivo: basta la prevalenza o serve appunto l’esclusività?

Nel secondo caso (delibera assembelare) :

<< 32   In secondo luogo, nell’ipotesi in cui un contratto relativo alla gestione e alla manutenzione delle parti comuni di un immobile in condominio sia stipulato tra l’amministratore di condominio e l’assemblea generale dei condòmini o l’associazione di proprietari di tale immobile, il proprietario di un appartamento facente parte di detto immobile è considerato un «consumatore», ai sensi dell’articolo 2, lettera b), della direttiva 93/13, purché tale proprietario, innanzitutto, possa essere qualificato come «parte» di detto contratto; inoltre, sia una persona fisica e, infine, non utilizzi tale appartamento esclusivamente per scopi che rientrano nella sua attività professionale. A quest’ultimo proposito, occorre precisare che non può essere esclusa dal campo di intervento della nozione di «consumatore» la fattispecie in cui una persona fisica utilizzi l’appartamento che costituisce il suo domicilio personale anche a fini professionali, come nell’ambito di un telelavoro subordinato o dell’esercizio di una libera professione.

33      Per contro, quando un siffatto proprietario di appartamento non può essere qualificato come «parte» di detto contratto, e poiché l’assemblea generale dei condòmini o l’associazione di proprietari di un immobile non è, per definizione, una «persona fisica», ai sensi di tale articolo 2, lettera b) e, pertanto, non può essere qualificata come «consumatore» ai sensi di tale disposizione, un siffatto contratto è escluso dall’ambito di applicazione della direttiva 93/13 (v., per analogia, sentenza del 2 aprile 2020, Condominio di Milano, via Meda, C‑329/19, EU:C:2020:263, punto 29)>>.

Passaggiio poco chiaro sun un tema praticamente importante.

Forse la CG intende che se -in base al diritto nazionale- il rapporto instaurato dalla assemblea è ricostruibile in termini unitari, non può essere consumatore. Se invece va ricostruito come fascio di rapporti tra ogni condomino e la società amminsitratrice, allora il singolo può essere consumatore ma si esminerà caso per caso.

Che l’assemblea automaticamente non sia persona fisica e quindi non possa essere consumatore ci pare detto frettolosamente. Se infatti tutti i condomini sono tali,  il loro agire collettivo non gli fa perdere tale  qualità.

Risposte finali , § 35:

–     una persona fisica, proprietaria di un appartamento in un immobile in regime di condominio, deve essere considerata un «consumatore», ai sensi di tale direttiva, qualora essa stipuli un contratto con un amministratore di condominio ai fini della gestione e della manutenzione delle parti comuni di tale immobile, purché non utilizzi tale appartamento per scopi che rientrano esclusivamente nella sua attività professionale. La circostanza che una parte delle prestazioni fornite da tale amministratore di condominio in base a detto contratto risulti dalla necessità di rispettare specifici requisiti in materia di sicurezza e di pianificazione territoriale, previsti dalla legislazione nazionale, non è idonea a sottrarre detto contratto dal campo di applicazione di tale direttiva,

–        nell’ipotesi in cui sia stipulato un contratto relativo alla gestione e alla manutenzione delle parti comuni di un immobile in regime di condominio tra l’amministratore di condominio e l’assemblea generale dei condòmini o l’associazione di proprietari di tale immobile, una persona fisica, proprietaria di un appartamento situato in quest’ultimo, può essere considerata un «consumatore», ai sensi della direttiva 93/13, purché essa possa essere qualificata come «parte» di detto contratto e non utilizzi tale appartamento esclusivamente per scopi rientranti nella sua attività professionale.

Sul regolamento condominiale apponente limiti -rectius: servitù reciproche- alle proprietà individuali (regolamento contrattuale)

Utilissime e chiarissime precisazioni sull’oggetto in Cass. n° 24.526 del 09.08.2022, sez. 2, rel. Manna:

  • a giurisprudenza di questa Corte è costante, innanzi tutto, nell’affermare che i divieti ed i limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro ed esplicito, non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto, l’individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l’ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti
  • La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito ormai da tempo che le clausole dei regolamenti condominiali predisposti dall’originario proprietario dell’edificio condominiale ed allegati ai contratti di acquisto delle singole unità immobiliari, nonché quelle dei regolamenti condominiali formati con il consenso unanime di tutti i condomini, hanno natura contrattuale soltanto qualora si tratti di clausole limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni ovvero attributive ad alcuni condomini di maggiori diritti rispetto agli altri, mentre, qualora si limitino a disciplinare l’uso dei beni comuni, hanno natura regolamentare. Ne consegue che, mentre le clausole di natura contrattuale possono essere modificate soltanto dall’unanimità dei condomini e non da una deliberazione assembleare maggioritaria, avendo la modificazione la medesima natura contrattuale, le clausole di natura regolamentare sono modificabili anche da una deliberazione adottata con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., comma 2 (S.U. n. 943/99).Di riflesso, la necessità della forma scritta, che limitatamente alle clausole del regolamento aventi natura contrattuale, è imposta dalla circostanza che queste incidono sui diritti immobiliari dei condomini sulle loro proprietà esclusive o sulle parti comuni oppure attribuiscono a taluni condomini diritti di quella natura maggiori di quelli degli altri condomini (v. S.U. n. 943/99; conformi, nn. 5626/02 e 24146/04).Il fatto che la medesima tecnica contrattuale (scilicet, il rinvio al regolamento predisposto dal costruttore contenuto nei singoli contratti di trasferimento delle unità singole) sia impiegata per dar vita a un regolamento che contenga tanto le previsioni sull’uso delle cose comuni, quanto eventuali limitazioni incidenti sulle proprietà individuali, non significa che tutto ciò che il regolamento stesso contenga sia, per ciò solo e ad ogni effetto, di natura contrattuale. Al contrario, dove c’e’ disposizione regolamentare, nell’accezione propria del termine ai sensi dell’art. 1138 c.c., comma 1, non c’e’ contratto o convenzione, come si desume dall’art. 1138 c.c., comma 4, e viceversa.
  • principio di dirityo : “Le clausole contenute in un regolamento condominiale di formazione contrattuale, le quali limitino la facoltà dei proprietari delle unità singole di adibire il proprio immobile a determinate destinazioni, hanno natura contrattuale e, pertanto, ad esse deve corrispondere una tecnica formativa di pari livello formale e sostanziale, che consiste in una relatio perfecta attuata mediante la riproduzione delle suddette clausole all’interno dell’atto d’acquisto della proprietà individuale, non essendo sufficiente, per contro, il mero rinvio al regolamento stesso”
  • 6.3. – Dalla sentenza impugnata non è dato desumere, inoltre, se l’odierno ricorrente abbia acquistato il proprio immobile dal costruttore o da un precedente condomino. Ciò è rilevante in quanto, in tale sola ultima ipotesi, è necessario che le limitazioni di cui si discute, ove non espressamente contenute nell’atto stesso di vendita, risultino trascritte contro detta proprietà in data anteriore all’acquisto fattone dal D.. Ed in tal caso non è indispensabile la loro riproduzione nel contratto stesso.La necessità di tale accertamento scaturisce dal principio della relatività degli effetti negoziali, ai sensi dell’art. 1372 cpv. c.c.. Principio che ha posto in giurisprudenza la questione del se e del come, in ambito condominiale, si possa predicare un’efficacia ultra partes delle clausole che limitino l’uso o la destinazione delle proprietà individuali.La giurisprudenza di questa C.S. ha espresso nel tempo opinioni divergenti, avendole ricondotte a tre diverse categorie giuridiche: onere reale, obligatio propter rem o servitù.
  • L’onere reale, infatti, (i) consiste in un’obbligazione periodica di dare o di facere (ma in realtà gli unici casi censiti e censibili prevedono solo un dare, ben dubbie essendo altre ipotesi quali l’art. 960 c.c., comma 1, e art. 981 c.c., comma 1) in favore del proprietario di un altro fondo o del medesimo fondo (ove il proprietario sia diverso dal possessore oblato), giustificata dal vantaggio che al soggetto obbligato deriva dal possedere un bene altrui ovvero dalla necessità di compensare il dominio concorrente sul bene stesso o altre prestazioni del creditore che arrecano utilità al fondo; (ii) in caso di mancato pagamento il relativo credito è assistito dalla garanzia reale sul medesimo bene onerato; (iii) si estingue mediante il c.d. abbandono liberatorio; e, infine, (iv) pacificamente può essere previsto solo dalla legge o nei casi da quest’ultima consentiti.Nessuna di queste caratteristiche è ravvisabile nelle limitazioni all’uso delle proprietà singole.
  • 6.3.3. – Anche se solo di recente, la giurisprudenza di questa Corte può ritenersi assestata sulla tesi per cui le restrizioni alle facoltà inerenti al godimento della proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio, volte a vietare lo svolgimento di determinate attività all’interno delle unità immobiliari esclusive, costituiscono servitù reciproche e devono perciò essere approvate mediante espressione di una volontà contrattuale, e quindi con il consenso di tutti i condomini, mentre la loro opponibilità ai terzi, che non vi abbiano espressamente e consapevolmente aderito, rimane subordinata all’adempimento dell’onere di trascrizione (così, da ultimo, n. 17159/22, non massimata, che a sua volta cita le nn. 6769/18, 23/04, 5626/02, 4963/01, 49/92, 4554/86; cui adde le nn. 277/64, 4781/83, 49/92, 11688/99, 4920/06, 1064/11, 14898/13 e 21024/16).
  • La necessaria premessa di tale orientamento, cui va assicurata continuità, risiede nell’ammissibilità (pacifica in dottrina e in giurisprudenza: v. sentenza n. 3258/83) sia di servitù atipiche, tipico essendo il solo genus così come regolato dall’art. 1027 c.c. e ss., sia di servitù reciproche (anch’esse senz’altro ammesse dalla giurisprudenza di questa Corte: cfr. ex pluribus e tra le più recenti, le nn. 524/21, 14820/18 e 5336/17). Queste ultime comportano che ciascun fondo e’, ad un tempo, servente e dominante, data la corrispondenza biunivoca del peso imposto da un’apposita previsione contenuta nel regolamento contrattuale, a carico ed a favore di ciascuna unità di proprietà singola.Trattandosi di servitù, la loro opponibilità ai terzi acquirenti di ciascuna unità singola dipende dalla trascrizione, prevista dall’art. 2643 c.c., n. 4, che deve riguardare la specifica convenzione che contenga la servitù stessa, con particolare richiamo alle clausole relative e al loro contenuto. Con la creazione del condominio per effetto della prima alienazione, la servitù è costituita a favore e contro il primo immobile di proprietà singola, da un lato, ed a favore e contro i restanti fondi ancora invenduti, dall’altro, e così via finché con l’ultima vendita ciascuna unità singola diviene servente e dominante verso ognuna delle altre.
  • n assenza di trascrizione, può essere sufficiente anche il solo contenuto dell’atto di vendita, ma alla duplice condizione che: a) esso sia corredato della specifica indicazione delle clausole impositive della servitù, essendo del tutto insufficiente, come s’e’ detto supra al par. 6.2., il mero rinvio al regolamento condominiale; e b) dette clausole siano ripetute nei successivi atti di trasferimento, poiché diversamente torna ad operare il limite dell’art. 1372 c.c., Non senza precisare, però, che in tal modo, atteso che il richiamo alla servitù diviene parte integrante di ogni titolo d’acquisto della proprità (dal primo ai successivi), tecnicamente non si può parlare di opponibilità della servitù, bensì dell’iterazione della sua preesistenza negli atti traslativi del medesimo bene immobile.

 

  • “Le clausole contenute in un regolamento condominiale di formazione contrattuale, le quali limitino la facoltà dei proprietari delle unità singole di adibire il loro immobile a determinate destinazioni, costituiscono servitù reciproche a favore e contro ciascuna unità immobiliare di proprietà individuale, e sono soggette, pertanto, ai fini dell’opponibilità ultra partes, alla trascrizione in base all’art. 2643 c.c., n. 4, e art. 2659 c.c., comma 1, n. 2”.

Danno da occupazione abusiva dell’immobile: in re ipsa o da provare?

E’ nel secondo senso Cass. sez. un. 15.11.2022 n. 33.645, rel. Scoditti.

 

La decisione va condivisa.

Premessa: si tratterebbe di danno emergente e non mancato guadagno : << 4.2. Entrambe le ordinanze interlocutorie pongono la questione
della configurabilità del c.d. danno
in re ipsa nell’ipotesi di
occupazione
sine titulo dell’immobile, ma il punto di divergenza fra gli
orientamenti che esse esprimono riguarda non il mancato guadagno,
bensì la perdita subita. Entrambe le ordinanze escludono infatti che
un danno
in re ipsa sia configurabile in relazione al lucro cessante e si
può convenire sul dato che nella giurisprudenza di legittimità le
occasioni di guadagno perse devono essere oggetto di specifica
prova, naturalmente anche a mezzo di presunzioni. La problematica
del danno
in re ipsa emerge in entrambe le ordinanze in relazione alla
facoltà di godere del proprietario quale individuazione dell’esistenza di
un danno risarcibile per il sol fatto che di tale facoltà il proprietario sia
stato privato a causa dell’occupazione abusiva dell’oggetto del suo
diritto
>>

<<4.5. La questione posta dal contrasto è, al fondo, se la violazione
del contenuto del diritto, in quanto integrante essa stessa un danno
risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche
risarcitoria. Ritengono le Sezioni Unite che al quesito debba darsi
risposta positiva, nei termini emersi nella richiamata linea evolutiva
della giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, secondo cui la
locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno
presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della
presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il
pregiudizio allegato (Cass. 7 gennaio 2021, n. 39; 20 gennaio 2022,
n. 4936; 22 aprile 2022, n. 12865). Tale esito interpretativo, per
quanto riguarda la lesione della facoltà di godimento, resta coerente
al significato di danno risarcibile quale perdita patrimoniale subita in
conseguenza di un fatto illecito. La linea da perseguire è infatti,
secondo le Sezioni Unite, quella del punto di mediazione fra la teoria
normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della Seconda
Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla Terza
Sezione Civile. Al fine di salvaguardare tale punto di mediazione,
l’estensione della tutela dal piano reale a quello risarcitorio, per
l’ipotesi della violazione del contenuto del diritto, deve lasciare intatta
la distinzione fra le due forme di tutela>>

<<4.9. Nella comune fattispecie di occupazione abusiva d’immobile è
al contrario richiesta, come si è visto, l’allegazione della concreta
possibilità di esercizio del diritto di godimento che è andata persa. Ciò
significa che il non uso, il quale è pure una caratteristica del
contenuto del diritto, non è suscettibile di risarcimento>>

PRINCIPI DI DIRITO:

<<  –  “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento
del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del

diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del
godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta”;
–   “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di
un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il
risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare,
esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso
mediante il parametro del canone locativo di mercato”;
–   “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di
un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento
del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito,
quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe
concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore
al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto ad un prezzo
più conveniente di quello di mercato”.
>>

(Si tratterà però spesso di lucro cessante, a dispetto di quanto premettono le SU come sopra riportato)

Importante la precisazione per cui la relevatio ab onere probandi ex art. 115 cpc riguarda solo i fatti noti al convenuto: <<Sia per la perdita subita che per il mancato guadagno va rammentato che l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte convenuta, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass.
31 agosto 2020, n. 18074; 4 gennaio 2019, n. 87; 18 luglio 2016, n.
14652; 13 febbraio 2013, n. 3576). Poiché non si compie l’effetto di
cui all’art. 115, comma 1, cod. proc. civ., per i fatti ignoti al
danneggiante l’onere probatorio sorge comunque per l’attore, a
prescindere dalla mancanza di contestazione, ma il criterio di
normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi
di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che
l’evenienza dei fatti ignoti alla parte convenuta sia tendenzialmente
più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno. Ne consegue sul
piano pratico la maggiore ricorrenza per il convenuto dell’onere di
contestazione, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto
dall’art. 115 comma 1, nelle controversie aventi ad oggetto la perdita
subita e la maggiore ricorrenza per l’attore dell’onere probatorio, pur
in mancanza di contestazione, nelle controversie aventi ad oggetto il
mancato guadagno>>

Regola spesso violata nella prassi giudiziaria

La quota di s.r.l. è suscettibile di possesso e quindi è pure usucapibile

Analitica sentenza del Trib. Milano 22.12.2021 n. 5.552 RG 25346/2019, rel. est. Astuni, che si pronuncia come in oggetto, cher ripercorre il processo normtivo di smaterialzizazine dei titoli anche nelle s.p.a.

<<Anche dopo l’abolizione del libro soci e la previsione (art. 2470 c.c.) dell’iscrizione dell’atto di trasferimento nel registro delle imprese, al fine di rendere efficace l’acquisto nei confronti della società, la giurisprudenza ha continuato a riconoscere nell’iscrizione la condizione necessaria e sufficiente all’esercizio dei diritti di socio, e quindi la fonte di un potere di fatto. Trib. Roma, in funzione di giudice del registro, con decreto 12.1.2018 (su Jus Explorer) ha convincentemente negato all’acquirente, che ancora non aveva depositato a registro delle imprese l’atto di trasferimento, il potere di decidere come socio unico la sostituzione dell’amministratore: “in epoca anteriore [al deposito], l’acquirente della quota sociale non può esercitare i diritti sociali. Conseguentemente, egli non può assumere alcuna decisione che sia imputabile alla società e ciò neppure differendo gli effetti della propria dichiarazione di volontà (in quanto tale dichiarazione nel momento in cui viene posta in essere non è imputabile in alcun modo alla società medesima)”. A sua volta, Trib. Milano sez. impresa 5.12.2017 ha ritenuto sufficiente l’iscrizione a libro soci per l’individuazione del titolare dei diritti nei confronti della società, “senza che tale qualità possa essere contestata dagli organi sociali relativamente
a vicende di invalidità riguardanti i rapporti tra cedente e cessionario delle partecipazioni (i.e. rapporti tra i soci quali privati e non in quanto soci)”. Nel medesimo senso cfr. ancora Trib. Torino sez. impresa 13.1.2021 n. 111 e 4.6.2021 n. 2839, in tema di spettanza del diritto al dividendo al socio iscritto, ancorché obbligato a trasferire ad altri soci la propria quota, in virtù di una clausola statutaria di riscatto. Ammessa la natura della quota di S.r.l. come posizione obiettivata in un bene mobile e la nozione estensiva di possesso della quota per il tramite dell’iscrizione a libro soci, appare logico e coerente trarre da queste premesse di diritto la conclusione che la quota di S.r.l. può essere usucapita>>.

Coerede escluso dalla gestione dei beni comuni: gli spettano i frutti della gestione medesima?

Dice di si Cass. sez. 2 del 8 giugno 2022 n. 18.548, rel. Scarpa, che offre spunti interessanti sul tema dell’art. 1102 cc e in particolare del godimento prevalente o esclusivo da parte di un condomino ai danni di un altro.

<<6.5.1. In tema di comunione, l’art. 1102 c.c., consente al comproprietario l’utilizzazione ed il godimento della cosa comune anche in modo particolare e più intenso, ovvero nella sua interezza (in solidum), ponendo il divieto, piuttosto, di alterare la destinazione della cosa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, così da negare che l’utilizzo del singolo possa risolversi in una compressione quantitativa o qualitativa di quello, attuale o potenziale, di tutti i comproprietari. Diverso regime rispetto all’uso della cosa comune vale per i frutti naturali (che entrano a far parte della comunione e quindi si ripartiscono tra i partecipanti pro quota) e per i frutti civili (soggetti alla regola della divisione ipso iure, e però nella comunione ereditaria disciplinati ulteriormente dal principio della dichiaratività della divisione, di cui all’art. 757 c.c.).

Perché sia ravvisabile un atto illecito e perciò un danno risarcibile, dunque, occorre che siano verificate le condizioni di cui all’art. 2043 c.c. (danno prodotto non iure e contra ius), e cioè la sussistenza di una compromissione da parte di un comproprietario dell’uso consentito agli altri. Quando, a norma dell’art. 1102 c.c., si ha un abuso della cosa comune, per l’alterazione della sua destinazione ovvero per l’impedimento del pari uso di essa da parte degli altri partecipanti alla comunione, ciascuno dei partecipanti è legittimato ad esercitare lo ius prohibendi per ottenere la cessazione della condotta illegittima, oltre che a promuovere un’azione di risarcimento del danno, inteso come effetto della diminuzione della quota o della perdita materiale del bene oggetto della comproprietà (arg. da Cass. Sez. 2, 12/09/2003, n. 13424; Cass. Sez. 2, 10/01/1981, n. 243; Cass. Sez. 2, 12/09/1970, n. 1388).>>

Viceversa, è stato precisato in giurisprudenza come <<l’utilizzazione esclusiva del bene comune da parte di uno dei comproprietari, ove mantenuta nei limiti di cui all’art. 1102 c.c., non è di per sé idonea a produrre alcun pregiudizio in danno degli altri comproprietari che siano rimasti inerti o abbiano acconsentito ad esso in modo certo ed inequivoco, essendo l’occupante tenuto al pagamento della corrispondente quota di frutti civili ricavabili dal godimento indiretto della cosa solo se gli altri partecipanti abbiano manifestato l’intenzione di utilizzare il bene in maniera diretta e non gli sia stato concesso, e sempre che risulti provato che il comproprietario, il quale abbia avuto l’uso esclusivo del bene, ne abbia tratto anche un vantaggio patrimoniale (Cass. Sez. 2, 09/02/2015, n. 2423; Cass. Sez. 2, 03/12/2010, n. 24647; Cass. Sez. 2, 04/12/1991, n. 13036).

In particolare, un coerede, il quale, dopo la morte del de cuius, trattenga il possesso di un bene ereditario, rimane nell’ambito dell’esercizio legittimo dei poteri spettanti al comproprietario pur ove utilizzi ed amministri individualmente lo stesso, a meno che il rapporto materiale instaurato con la res non si svolga in maniera tale da escludere gli altri coeredi, con palese manifestazione del volere, dalla possibilità di instaurare analogo rapporto con il medesimo bene (Cass. Sez. 2, 04/05/2018, n. 10734)>>.

Ove, viceversa, risulti dimostrata <<una sottrazione o un impedimento assoluto, da parte di un comproprietario, delle facoltà dominicali di godimento e disposizione del bene comune spettanti agli altri contitolari, ovvero una violazione dei criteri stabiliti dall’art. 1102 c.c., per l’occupazione dell’intero immobile ad opera del comunista e la sua destinazione ad utilizzazione personale esclusiva, con privazione pro quota della disponibilità dei residui partecipanti, può dirsi risarcibile, sotto l’aspetto del lucro cessante, non solo il lucro interrotto, ma anche quello impedito nel suo potenziale esplicarsi, essendo perciò il danno da quantificare in base ai frutti civili che l’autore della violazione abbia tratto dall’uso esclusivo del bene. Non vi è luogo, altrimenti, di riconoscere una “indennità” per il sol fatto dell’occupazione dell’intero bene ad opera del comproprietario, ove la stessa non si connoti altresì di illiceità per superamento dei limiti ex art. 1102 c.c. (dal che genera un “danno”), in quanto tale occupazione trova comunque titolo giustificativo nella comproprietà che investe tutta la cosa comune, e la sorte dei frutti naturali e civili tratti dal bene goduto individualmente ha attuazione in sede di divisione e di resa del conto (insieme alle spese necessarie od utili per la conservazione o il miglioramento del bene comune anticipate dal comunista), né altrimenti la legge prevede espressamente in tale evenienza un indennizzo da attività lecita ma dannosa (si vedano, indicativamente, Cass. Sez. 2, 12/03/2019, n. 7019, non massimata; Cass. Sez. 2, 07/08/2012, n. 14213; Cass. Sez. 2, 30/03/2012, n. 5156; Cass. Sez. 2, 06/04/2011, n. 7881; Cass. Sez. 2, 05/09/2013, n. 20394).

<<6.5.2. La Corte d’appello di Lecce, avendo ritenuto accertato che S.A. e S.N. avevano goduto per intero del fabbricato, ha quindi deciso che le stesse dovessero corrispondere alla comproprietaria S.M.C., quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione “pro quota” del bene comune, il valore del corrispettivo del godimento dell’immobile secondo i correnti prezzi di mercato, considerando, tuttavia, che lo stesso fino al 1995 era stato in condizioni che ne impedivano l’abitabilità. Tale valutazione, operata ai sensi degli artt. 1223 e 2056 c.c., spettava ai giudici del merito, e non è qui sindacabile contrapponendo soluzioni logico-deduttive alternative rispetto a quella adottata nella sentenza impugnata.>

Consenso alla modifica dei criteri di riparto spese condominiali e opponibilità della stessa ai terzi acquirenti

In materia condominiale, son sempre puntuali le precisazioni del rel. Scarpa della 2 sez. Cass. civ. sull’oggetto, qui con ord. 4 luglio 2022 n. 21.086.

Premessa generale: <<6.3. Ribadendo il principio da ultimo precisato in Cass. Sez. Unite, 14 aprile 2021, n. 9839, sono nulle le deliberazioni con le quali, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i generali criteri di ripartizione delle spese previsti dalla legge o dalla convenzione, da valere per il futuro, trattandosi di materia che esula dalle attribuzioni dell’assemblea previste dall’art. 1135 c.c., nn. 2) e 3), mentre sono meramente annullabili le deliberazioni aventi ad oggetto la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese relative alla gestione delle parti e dei servizi comuni adottate in violazione dei criteri generali previsti dalla legge o dalla convenzione stessi, trattandosi di deliberazioni assunte nell’esercizio di dette attribuzioni assembleari. Come anche precisato da Cass. Sez. Unite, 14 aprile 2021, n. 9839, nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice può sindacare sia la nullità dedotta dalla parte o rilevata d’ufficio della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione, sia l’annullabilità di tale deliberazione, a condizione che quest’ultima sia però dedotta mediante apposita domanda riconvenzio-nale di annullamento.>>

Sull’opponibilità all’acquirente:

<< 6.4.2. Problema ulteriore – non affrontato nelle censure qui in esame – è quello dell’efficacia, ovvero dell’opponibilità, anche nei confronti dei successori dei condomini originari dell’eventuale clausola regolamentare contenente una convenzione sulla ripartizione delle spese in deroga ai criteri di cui all’art. 1123 c.c. (cfr. Cass. 9 agosto 1996, n. 7353; Cass. 16 dicembre 1988, n. 6844; Cass. 23 dicembre 1988, n. 7039).

La sostanza di una “diversa convenzione”, ex art. 1123 c.c., comma 1, è quella di una dichiarazione negoziale, espressione di autonomia privata, con cui i condomini programmano che la portata degli obblighi di contribuzione alle spese sia determinata in modo difforme da quanto previsto negli artt. 1118,1123 c.c. e ss., e art. 68 disp. att. c.c..

L’efficacia di una convenzione con la quale, ai sensi dell’art. 1123 c.c., comma 1, si deroga al regime legale di ripartizione delle spese è perciò soggetta alla regola della relatività degli effetti del contratto, di cui all’art. 1372 c.c., sicché essa è limitata alle parti che la stipulano e non si estende ai loro aventi causa a titolo particolare, se non attraverso uno degli strumenti negoziali all’uopo predisposti dall’ordinamento (delegazione, espromissione, accollo e cessione del contratto). Occorre, altrimenti, che gli aventi causa abbiano preso conoscenza della preesistente convenzione ex art. 1123 c.c., comma 1, al momento dell’acquisto ed abbiano manifestato il loro consenso nei confronti degli altri condomini (e non quindi soltanto nei confronti di chi abbia loro alienato la proprietà dell’immobile) (cfr. ancora Cass. 9 agosto 1996, n. 7353).

Non sovviene per la convenzione sul riparto delle spese la regola della vincolatività del regolamento nei confronti di eredi ed aventi causa dei condomini che siano stati direttamente chiamati ad approvarlo, alla stregua dell’art. 1107 c.c., comma 2, (che al condominio si applica in forza dell’art. 1139 c.c., e che viene espressamente richiamato dall’art. 1138 c.c., comma 3), trattandosi di clausola di contenuto contrattuale, eccentrica rispetto al contenuto normativo tipico del regolamento.

Nemmeno è ipotizzabile la trascrivibilità di una convenzione di deroga ai criteri legali delle spese condominiali: vi osta il principio di tassatività della trascrizione immobiliare, essendo l’opponibilità degli effetti conseguente alla trascrizione propria soltanto degli atti e delle sentenze specificamente indicati negli artt. 2643 e 2645 c.c.. Funzione della trascrizione, del resto, è quella non di fornire notizie sulle vicende riguardanti il patrimonio immobiliare, ma di risolvere eventuali conflitti fra più aventi causa; e la tipicità degli effetti della trascrizione e dei diritti reali non fa acquisire carattere reale ad un’obbligazione solo perché essa sia stata annotata nei registri immobiliari>>.

Sulla forma dell’espressione del consenso:

<<6.4.5. Siffatta unanime convenzione modificatrice è stata ritenuta perfezionata dalla Corte d’appello di Milano allorché C.R., unico condomino assente all’assemblea del 6 febbraio 1996 (che aveva approvato la modifica regolamentare con il voto favorevole dei nove restanti condomini, fra cui la dante causa della attuale ricorrente), aveva dichiarato di aderirvi con lettera del 20 settembre 2004. Ciò che rileva nella specie non è l’attività dell’assemblea, quanto alle operazioni di voto, all’esito delle stesse, alla verifica delle maggioranze, ma la formazione di un consenso negoziale, che ben può manifestarsi al di fuori della riunione, anche mediante successiva adesione di una parte al contratto con l’osservanza della forma prescritta per quest’ultimo.

6.4.6. Se una delibera di condominio deve assumersi all’unanimità ed è volta, in realtà, ad esprimere la volontà contrattuale nei reciproci rapporti tra i partecipanti, essa non è impugnabile secondo la disciplina delle delibere assembleari (art. 1137 c.c.), con la conseguente possibilità, da un lato, del successivo perfezionamento di essa al di fuori dell’assemblea (art. 1326 c.c. e segg.); dall’altro, della costituzione, modifica, estinzione di un rapporto giuridico in forma non vincolata, con il solo limite della sua riconoscibilità (arg. da Cass. 2 febbraio 1998, n. 982; Cass. 21 maggio 1976, n. 1830; Cass. 2 agosto 1969, n. 2916).>>

Principio di diritto : <<in tema di condominio negli edifici, la convenzione sulla ripartizione delle spese in deroga ai criteri legali, ai sensi dell’art. 1123 c.c., comma 1, – che deve essere approvata da tutti i condomini, ha efficacia obbligatoria soltanto tra le parti ed è modificabile unicamente tramite un rinnovato consenso unanime – presuppone una dichiarazione di accettazione avente valore negoziale, espressione di autonomia privata, la quale prescinde dalle formalità richieste per lo svolgimento del procedimento collegiale che regola l’assemblea e può perciò manifestarsi anche mediante successiva adesione al contratto con l’osservanza della forma prescritta per quest’ultimo.>>