Messa a frutto unilaterale dell’immobile da parte del comproprietario e obbligo di rendiconto

Un caso di affitto unilateralmente stipulato e di canone unilateralmente percepito da parte di un  comproprietario, è deciso da Cass. 21.906 del 30.07.2021, rel. Tedesco, Cristini+1 c. Brivio.

Ecco cosa insengna la corte:

1° <<Il comproprietario, il quale abbia il godimento di uno dei beni comuni senza un titolo giustificativo, deve corrispondere agli altri, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, i frutti civili. Questi, identificandosi con il corrispettivo del godimento dell’immobile che si sarebbe potuto concedere ad altri, possono, solo in mancanza di altri più idonei parametri, essere individuati nei canoni di locazione percepibili per l’immobile (Cass. n. 7716/1990; n. 7881/2011; n. 17876/2019)>>.

2° <<Risulta chiaramente dalla giurisprudenza della Suprema corte che l’obbligo dei vari partecipanti alla comunione di non esercitare il godimento diretto della cosa comune, che di norma compete a ciascun partecipante ai sensi dell’art. 1102 c.c., sorge solo se ed in quanto venga deliberato, in sede di amministrazione della cosa comune, di procedere alla sua utilizzazione con la forma del godimento indiretto. In difetto di una siffatta delibera, ove l’immobile venga usato di fatto da uno soltanto dei comproprietari, con il consenso espresso o tacito e comunque senza l’opposizione degli altri aventi diritto, non può in ciò configurarsi un impedimento a che gli altri partecipanti possano usare della cosa comune secondo il loro diritto, in guisa da concretare una violazione dei limiti che sono stabiliti dall’art. 1102 c.c. all’uso della cosa comune da parte dei vari partecipanti (Cass. n. 2902/1974; n. 4131/2001; n. 22435/2011)).>>

E poi:

3° <<In questo ordine di idee è stato precisato che il semplice godimento esclusivo da parte del singolo comunista non può provocare un danno ingiusto nei confronti di coloro che hanno mostrato acquiescenza all’altrui uso esclusivo, quando non risulti provato che i beneficiari del godimento esclusivo del bene, ne abbiano tratto anche un vantaggio patrimoniale (Cass. n. 13036/1991; n. 24647/2010; n. 2423/2015).>>

4° <<E’ perfettamente configurabile l’ipotesi che i condividenti si accordino, anche in modo tacito, per una suddivisione materiale del godimento della singola cosa comune o dei più beni comuni. Non si tratta naturalmente di una assegnazione definitiva che corrisponderebbe a una vera e propria divisione (cfr. Cass. n. 3451/1977): i comunisti continuano a essere titolari di tutta la cosa, o delle più cose comuni; essi si sono soltanto accordati, anche tacitamente, nel senso di rinunziare ciascuno al godimento (e, normalmente, anche ai frutti) della parte o delle cose date agli altri. Salvo patto contrario, e fermo restando il divieto di mutamento di destinazione, la suddivisione materiale nei termini sopra indicati include la possibilità del compartecipe di ammettere anche altri al godimento delle cose assegnate, soprattutto qualora si tratti degli stretti familiari.>>

Mentre i passaggi sub 2-3-4 sono condivisibli, perplessità suscita quello sub 1 circa la quantificazione (inoltre si badi la più generale regola ivi affermata, importante a livello pratico: la messa a frutto, pur se del tutto unilaterale e mai comunicata loro, va poi condivisa con gli altri condomini).

In causa infatti era stato accertato l’ammontare dei canoni percepiti. Perchè allora la SC parla di <<corrispettivo del godimento … che si sarebbe potuto concedere ad altri>> e di <<canoni di locazione percepibili>>? Non pare fosse  stata azionata la negotiorum gestio nè una negligenza per mancato guadagno.

Immissioni sonore e limiti ex normativa tecnica speciale

Quanto alle immisisni sonore, I limiti posti da disciplina ammnistrativa mirano ad interessi pubblici e non sono vincolanti nei rapporti tra privati , ove vale solo la regola dlle normale tollerabilità ex art 844 cc

Così la -tralaticia -a pur sempre utile- precisazione di Cass. 28.07.2021 n. 21.649, Mongelli ed altri c. Fantappiè+1, rel. Giannaccari.

Di preciso: <<I primo luogo, va precisato che le normative tecniche speciali, che prescrivono i livelli di accettabilità delle immissioni, perseguendo esclusivamente interessi pubblici, operano in negativo nei rapporti fra privati e pubblica Amministrazione, al fine di assicurare alla collettività il rispetto di livelli minimi di quiete. Esse possono valere come indici valutativi del limite di intollerabilità nei rapporti orizzontali di vicinato, ai sensi dell’art. 844 c.c., (Cassazione civile sez. II, 01/10/2018, n. 23754)

La disciplina delle immissioni moleste in “alienum” nei rapporti fra privati va rinvenuta, infatti, nell’art. 844 c.c., alla stregua delle cui disposizioni, quand’anche dette immissioni non superino i limiti fissati dalle norme di interesse generale, il giudizio in ordine alla loro tollerabilità va compiuto secondo il prudente apprezzamento del giudice che tenga conto delle particolarità della situazione concreta (conf. Cass. n. 17281/2005 che ribadisce che la valutazione compiuta sul punto, con particolare riguardo a quello del contemperamento delle esigenze della proprietà privata con quelle della produzione, costituisce accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità).

L’art. 844 c.c., affida al giudice il compito di individuare nel caso concreto il significato da attribuire a tale locuzione così ampia e generica, dal momento che la soglia di normale tollerabilità dell’immissione rumorosa non ha carattere assoluto, ma dipende dalla situazione ambientale, dalle caratteristiche della zona e dalle abitudini degli abitanti, tutelando il diritto al riposo, alla serenità e all’equilibrio della mente, nonché alla vivibilità dell’abitazione che il rumore e il frastuono mette a repentaglio. L’accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili può determinare una lesione del diritto al riposo notturno e alla vivibilità della propria abitazione, la cui prova può essere fornita dal danneggiato anche mediante presunzioni sulla base delle nozioni di comune esperienza (Cass. n. 26899 del 2014)>>.

Nel caso specifico la corte di merito aveva accertato <<il superamento della normale tollerabilità sulla base delle conclusioni cui era pervenuto il CTU, il quale ha rilevato un significativo superamento di tre decibel rispetto agli standard previsti dalla normativa specifica (pag. 9 della sentenza) ed ha evidenziato come le immissioni sonore fossero inevitabili in relazione alle caratteristiche costruttive del secondo vano bagno, dal momento che lo scarico era stato installato nel muro divisorio ed al confine con la stanza da letto, tenuto conto del frequente utilizzo nelle ore notturne da parte del convenuto.>>

Sul c.d. rumore di fondo:

<<Quanto all’erroneità del criterio di rilevamento delle immissioni sonore, avvenute nelle ore notturne e quindi in assenza di rumori di fondo, la corte di merito si è conformata al principio secondo cui il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è mai assoluto, ma relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (cd. criterio comparativo), sicché la valutazione diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale, appropriatamente e globalmente considerata (Cassazione civile sez. II, 05/11/2018, n. 28201).

Nel caso di specie, infatti, il giudice di merito, nel tenere conto della rumorosità di fondo, ha accertato in concreto che le immissioni rumorose prodotte da un bagno possono essere anche notturne e, in questo caso, verificarsi in una situazione di rumore di fondo pressoché inesistente. Cosicché non è illogico il giudizio della corte distrettuale operato in situazione di scarso rumore di fondo, ovvero alle 10 del mattino di un giorno feriale piovoso>>

Sulla liquidazione del danno, asseritamente liquidato senza prova:

<<La Corte di Strasburgo ha fatto più volte applicazione di tale principio anche a fondamento della tutela alla vivibilità dell’abitazione e alla qualità della vita all’interno di essa, riconoscendo alle parti assoggettate ad immissioni intollerabili un consistente risarcimento del danno morale, e tanto pur non sussistendo alcuno stato di malattia. (Cass. sez. 3, n. 20927, 16/10/2015, Rv. 637537). Si è analogamente affermato che pur quando non risulti integrato un danno biologico, la lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria casa di abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane sono pregiudizi apprezzabili in termini di danno non patrimoniale (Cass. n. 7875 del 2009).

A tali principi si è conformata la corte di merito che ha accertato la sussistenza di un danno risarcibile correlato al pregiudizio al diritto al riposo, che ridonda sulla qualità della vita di un individuo e conseguentemente sul diritto alla salute costituzionalmente garantito.

Non si tratta di danno in re ipsa ma di danno-conseguenza, che, secondo l’accertamento della corte di merito, è stato provato in termini di disagi sofferti in dipendenza della difficile vivibilità della casa.>>

Cappotto termico e qualificazione a fini condominiali della relativa realizzazione

Il c.d. cappotto termico non costiuisce innovazione gravosa o voluttuaria ex art. 1121 cc. Così aveva deciso la corte di appello e così decide ora la SC con sentenza n° 10.371 del 20.04.2021, rel. Scarpa.

<<L’argomentazione dei giudici di merito è conforme all’interpretazione che questa Corte presceglie della norma indicata: si intendono innovazioni voluttuarie, per le quali è consentito al singolo condomino, ai sensi dell’art. 1121 c.c., di sottrarsi alla relativa spesa, quelle nuove opere che incidono sull’entità sostanziale o sulla destinazione della cosa comune che sono tuttavia prive di oggettiva utilità, mentre sono innovazioni gravose quelle caratterizzate da una notevole onerosità rispetto alle particolari condizioni e all’importanza dell’edificio, e ciò sulla base di un accertamento di fatto devoluto al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua (Cass. Sez. 2, 18/01/1984, n. 428; Cass. Sez. 2, 23/04/1981, n. 2408). In particolare, le innovazioni voluttuarie, consentite dal primo comma e vietate dal secondo comma dell’art. 1121 c.c., a seconda che consistano, o meno, in opere suscettibili di utilizzazione separata, sono quelle che, per la loro natura, estensione e modalità di realizzazione, esorbitino apprezzabilmente dai limiti della conservazione, del ripristino o del miglior godimento della cosa comune, per entrare nel campo del mero abbellimento e/o del superfluo (Cass. Sez. 2, 08/06/1995, n. 6496).>

Il “cappotto termico” da realizzare sulle facciate dell’edificio condominiale, al fine di migliorarne l’efficienza energetica, <<non è opera destinata all’utilità o al servizio esclusivo dei condomini titolari di unità immobiliare site nella parte non interrata del fabbricato, come sostengono i ricorrenti (proprietari di locali interrati serviti da autonomo ingresso). Le opere, gli impianti o manufatti che, come il “cappotto” sovrapposto sui muri esterni dell’edificio, sono finalizzati alla coibentazione del fabbricato in funzione di protezione dagli agenti termici, vanno ricompresi tra quelli destinati al vantaggio comune e goduti dall’intera collettività condominiale (art. 1117, n. 3, c.c.), inclusi i proprietari dei locali terranei, e non sono perciò riconducibili fra quelle parti suscettibili di destinazione al servizio dei condomini in misura diversa, ovvero al godimento di alcuni condomini e non di altri, di cui all’art. 1123, commi 2 e 3, c.c. Ne consegue che, ove la realizzazione del cappotto termico sia deliberata dall’assemblea, trova applicazione l’art. 1123, comma 1, c.c., per il quale le spese sono sostenute da tutti i condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno (arg. da Cass. Sez. 2, 25/09/2018, n. 22720; Cass. Sez. 2, 15/02/2008, n. 3854; Cass. Sez. 2, 04/05/1999, n. 4403; Cass. Sez. 2, 17/03/1999, n. 2395; Cass. Sez. 2, 23/12/1992, n. 13655).>>

Spese condominiali e loro riparto tra venditore ed acquirente

Messa a punto sull’oggetto da parte di Cass. 11.199 del 28.04.2021, rel. Scarpa:

<<alla stregua dell’art. 63, comma 2, disp. att. c.c. (nella formulazione antecedente alla modificazione operata dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220), chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo, al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente. Come già ricordato, occorre a tal fine distinguere tra spese necessarie alla manutenzione ordinaria, alla conservazione, al godimento delle parti comuni dell’edificio o alla prestazione di servizi nell’interesse comune, ovvero ad impedire o riparare un deterioramento, e spese attinenti a lavori che consistano in un’innovazione o che comunque comportino, per la loro particolarità e consistenza, un onere rilevante, superiore a quello inerente alla manutenzione ordinaria dell’edificio e cagionate da un evento non evitabile con quest’ultima. Nella prima ipotesi, l’obbligazione si ritiene sorta non appena si compia l’intervento ritenuto necessario dall’amministratore, e quindi in coincidenza con il compimento effettivo dell’attività gestionale. Nel caso, invece, delle opere di manutenzione straordinaria e delle innovazioni, la deliberazione dell’assemblea, chiamata a determinare quantità, qualità e costi dell’intervento, assume valore costitutivo della relativa obbligazione in capo a ciascun condomino. Da ciò si fa derivare che, verificandosi l’alienazione di una porzione esclusiva posta nel condominio in seguito all’adozione di una delibera assembleare, antecedente alla stipula dell’atto traslativo, volta all’esecuzione di lavori consistenti in innovazioni, straordinaria manutenzione o ristrutturazione, ove non sia diversamente convenuto nei rapporti interni tra venditore e compratore, i relativi costi devono essere sopportati dal primo, anche se poi i lavori siano stati, in tutto o in parte, effettuati in epoca successiva, con conseguente diritto dell’acquirente a rivalersi nei confronti del proprio dante causa, per quanto pagato al condominio in forza del principio di solidarietà passiva ex art. 63 disp. att. c.c. Dunque, tale momento di insorgenza dell’obbligo di contribuzione condominiale rileva anche per imputare l’obbligo di partecipazione alla spesa nei rapporti interni tra venditore e compratore, ma sempre che gli stessi (come qui si assume avvenuto dalla ricorrente) non si fossero diversamente accordati, rimanendo, peraltro, inopponibili al condominio i patti eventualmente intercorsi tra costoro>>.

Le sezioni unite sulla cessione di cubatura (a fini fiscali)

Cass. sez. un. 16.080 del 0902.2021, rel. Stalla ,sulla cessione di cubatura (in una lite inerente alla sua esatta imposizione tributaria)

<<Consistente e diacronico, come si è osservato, è l’indirizzo giurisprudenziale che colloca la cessione di cubatura tra gli atti costitutivi o traslativi di un diritto reale.

Esso si fonda sulla valorizzazione – nell’ambito di una fattispecie che, pur correlandosi al rilascio del titolo edilizio da parte della pubblica amministrazione, si assume a forte connotazione privatistica – del carattere prettamente dominicale ascrivibile allo sfruttamento edilizio del suolo e, per questa via, alla considerazione della edificabilità in termini di utilità intrinseca ed inerente a quest’ultimo (qualitas fundi).

Si tratta di impostazione – avallata da parte della dottrina e sostenuta anche a livello di prassi notarile – storicamente radicatasi con riguardo alla previsione di diritti di rilocalizzazione privata della volumetria da parte di taluni piani regolatori generali di grandi città e, in particolare, al problema della riconoscibilità ad essi delle agevolazioni previste per i trasferimenti immobiliari dalla L. n. 408 del 1949 (L. Tupini).

L’amministrazione finanziaria ha più volte richiamato e fatto proprio questo orientamento ricostruttivo, rimarcando a sua volta l’inerenza alla proprietà del suolo della cessione di cubatura (ritenuta comportare un effetto in tutto analogo a quello conseguente alla disposizione di un diritto reale), ponendolo a fondamento della maggior imposizione sia di registro sia di plusvalenza reddituale (Ris. n. 250948 del 17 agosto 1976; Circ AE 233/E del 20 agosto 2009).

Va però detto – e già questo induce qualche prima perplessità sulla complessiva tenuta della tesi – che all’interno dell’indirizzo di realità non si sono poi date risposte sempre univoche sul tipo di diritto reale che verrebbe a costituirsi o a trasferirsi con l’atto di cessione di cubatura.

Analoga frammentarietà di vedute si ha anche nella dottrina che sostiene questo indirizzo, non essendo in essa neppure mancate ricostruzioni dommatiche che individuano nell’istituto – a superamento del regime di numero chiuso – un diritto reale senz’altro atipico, o anche un diritto reale tipico (almeno in parte regolato dalla disciplina urbanistica), ma nuovo rispetto a quelli disciplinati dal codice civile.>>

Certamente più vicino alla realtà della fattispecie, nell’ambito dei diritti reali di godimento, proseguno le SSUU, << è il richiamo allo schema della servitù prediale e, in particolare, alle figure della servitù non aedificandi (in caso di cessione totale della cubatura assentita) ovvero altius non tollendi (in caso di cessione parziale). Anche in questo caso si è in presenza di una concezione fortemente privatistica dell’istituto, la quale pone l’assenso della pubblica amministrazione all’esterno della fattispecie costitutiva, rispetto alla quale esso fungerebbe da mera condizione di efficacia nelle forme della condicio juris (qualora prevista dal piano regolatore generale o dall’altra disciplina urbanistica), ovvero della condicio facti (se prevista come tale dalle parti nel contratto); neppure mancano, in dottrina, richiami all’assenso della PA quale, non già elemento accidentale del contratto, ma oggetto di presupposizione con incidenza causale sulla volontà negoziale.

Va anche considerato che sul piano teorico la servitù consente, rispetto ad altri diritti reali, più ampi spazi ricostruttivi in ragione del peculiare atteggiarsi in essa del carattere di tipicità. Ciò nel senso che se la servitù è certamente autodeterminata e tipica nella individuazione legale dei suoi elementi costitutivi e portanti (in primo luogo nella essenzialità della relazione di asservimento di un fondo a vantaggio di un fondo contiguo), la determinazione del contenuto pratico di questa relazione e delle sue concrete modalità di svolgimento e manifestazione è poi ampiamente demandata (nelle servitù volontarie) all’autonomia delle parti ed alla finalizzazione e qualificazione della servitù a seconda delle più eterogenee esigenze di asservimento-utilità (agricole, industriali, edilizie ecc…) assegnate dalle parti stesse ai fondi.

Ed infatti l’adozione, in materia, dello schema della servitù, ovvero – come anche si legge – dell’asservimento del terreno per scopi edificatori, scaturisce dall’assunto, più volte ribadito in giurisprudenza, secondo cui: “le pattuizioni con le quali vengono imposte, a carico di un fondo ed a favore del fondo confinante, limitazioni di edificabilità restringono permanentemente i poteri connessi al proprietario dell’area gravata e mirano ad assicurare, correlativamente, particolari utilità a vantaggio del proprietario dell’area contigua. Pattuizioni siffatte si atteggiano, rispetto ai terreni che ne sono colpiti, a permanente minorazione della loro utilizzazione da parte di chiunque ne sia il proprietario ed attribuiscono ai terreni contigui un corrispondente vantaggio che inerisce ai terreni stessi come qualitas fundi, cioè con carattere di realità così da inquadrarsi nello schema delle servitù” (Cass. nn. 2743/73, 1317/80, 4624/84, 4770/96, 3937/01, 14580/12).>>

Anche qui però ci sono criticità., p. 15 ss

la SC analziza quindi la tesi per cui non si tratta di atto traslativo o costitutivo di diritto reale., § 7,  p. 18 ss.: <<Dalla natura, non traslativa né costitutiva di un diritto reale bensì meramente obbligatoria e vincolata all’assenso della PA, vengono poi tratte varie importanti conseguenze, quali: l’atto non richiede la forma scritta ad substantiam ex art.1350 cod.civ.; l’interpretazione della reale volontà delle parti può anche desumersi, per facta concludentia, dal comportamento complessivo dei contraenti successivo alla stipulazione (come nell’ipotesi in cui la volontà di cedere la cubatura venga desunta dalla dichiarazione di adesione resa dal cedente direttamente alla PA); il mancato rilascio del permesso di costruire nonostante la conforme attivazione del cedente presso la PA determina l’inefficacia del negozio, non la sua risoluzione per inadempimento>>, p. 19. Il quale pure è criticabile, p. 20 ss.

Dopo la pars destruens, ecco la lunga pars construens, basasta sulla precisione di cui allart. 2643 n. 2bis c.c., rlativa alla trascrizione: <<Ciò non toglie che dalla previsione in esame, dettata da esigenze di certezza ed opponibilità circolatorie, possano e debbano trarsi importanti contributi interpretativi circa la qualificazione giuridica della cessione di cubatura; appunto considerata – una volta riconosciuto in essa il tratto saliente costituito, al contempo, dal distacco del diritto di costruire dal fondo di generazione e dalla sua autonoma e separata negoziabilità – quale specie del genere ‘diritti edificatori’. Un primo elemento ricostruttivo è dato dal definitivo allontanamento dell’istituto dall’ambito di realità nel quale secondo alcuni si collocava. In proposito, va rilevato non solo che l’elenco degli atti soggetti a trascrizione ex articolo 2643 non presuppone necessariamente il carattere ‘reale’ dell’atto, posto che la legge ammette la trascrizione anche di atti relativi a beni immobili che rivestono pacifica natura obbligatoria, come i contratti di locazione ultranovennale (art.2643 n.8) ovvero i contratti preliminari (art.2645 bis), ma anche che una specifica ed autonoma previsione di trascrivibilità dei ‘diritti edificatori’ in quanto tali non avrebbe avuto ragion d’essere, né logica né pratica, qualora questi ultimi, partecipando di natura reale, risultassero comunque già prima trascrivibili in base alla disciplina generale (per le servitù, in particolare, ai sensi del n.4). Da questo punto di vista, l’introduzione nell’ordinamento del n.2 bis costituisce un pesante argomento sistematico a sostegno dell’indirizzo della non realità dell’atto di cessione di cubatura, là dove si rimproverava a quest’ultimo (per ragioni uguali e contrarie a quelle per le quali si dava invece credito all’indirizzo opposto) di inficiare, precludendone la pubblicità, proprio le esigenze di certezza ed opponibilità coessenziali ad uno strumento negoziale così rilevante e diffuso. A ciò si aggiunge, non ultimo, che l’esplicito riconoscimento del ruolo di normazione assegnato in materia alla legislazione 22 ssuu Ov. Ric.n. 25485/18 rg. – Cam.Cons. del 23.3.2021 Corte di Cassazione – copia non ufficiale

regionale, ed addirittura agli strumenti urbanistici distribuiti sul territorio, mal si concilia con l’esigenza che le restrizioni ‘reali’ al diritto di proprietà rinvenienti dall’ordinamento civile vengano dettate in maniera uniforme e centralizzata, ex articolo 117 lett. l) Cost., dal legislatore statale. Un secondo elemento è dato dal fatto che quest’ultimo qualifica i diritti edificatori – appunto – come ‘diritti’. Si tratta di una presa di posizione che non è solo semantica e che se, per un verso, rimarca la derivazione proprietaria del diritto di costruire, si discosta, per altro, da tutte quelle – pur argomentate ed accreditate – impostazioni dottrinarie che individuano, nella figura in esame, ora una posizione giuridica soggettiva meno piena (perché di interesse legittimo pretensivo sul piano pubblicistico e di semplice chance o aspettativa edificatoria su quello negoziale), ora il prodotto ultimo di un processo di oggettivazione ex art.810 cod.civ., che renderebbe il ‘bene-cubatura’ più simile ad una cosa oggetto di diritti (salvo poi disputarne l’essenza immobiliare, mobiliare, virtuale, immateriale o di frutto del fondo) che ad un diritto in sè. Così come ancora più distante appare la scelta del legislatore da quelle concezioni secondo cui la cubatura non sarebbe, in verità, né un diritto né una cosa, ma soltanto un numero-indice espressivo, nel rapporto tra metri quadrati e metri cubi, della misura della risorsa edificatoria disponibile in capo al proprietario sulla ‘colonna d’aria’ sovrastante il suo fondo. Un terzo elemento è dato dalla collocazione dell’istituto all’interno del sistema di tutela dei diritti per mezzo della trascrizione, a sua volta intrinsecamente connesso alla vicenda traslativa, costitutiva o modificativa (n.2 bis: “i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori …”). E’ dunque chiara l’opzione legislativa secondo cui i diritti edificatori, non solo sono genericamente disponibili per contratto, ma tra le parti vengono costituiti, trasferiti e modificati direttamente per effetto di questo, e non di altro. Il che comporta la netta rivalutazione del sostrato privatistico della cessione di cubatura, ricollocando l’effetto traslativo suo proprio nell’ambito dell’autonomia negoziale delle parti, non già del procedimento amministrativo. Da qui l’estendibilità alla materia del principio consensualistico di cui all’articolo 1376 del codice civile, secondo il quale nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento di un diritto (anche diverso dalla proprietà di cosa determinata o da un diritto reale) questo si trasmette e si acquista per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato. Resta naturalmente, una volta che alla cessione di cubatura consegua la presentazione da parte del cessionario di un progetto edificatorio su di essa basato, il ruolo autorizzativo e regolatorio del permesso di costruire, per il cui rilascio il cedente è tenuto ad operare secondo il dovere generale di solidarietà, cooperazione, correttezza e buona fede. Si tratta appunto di un elemento che concorre non al trasferimento in sé tra i privati della cubatura, quanto alla sua fruibilità in conformità alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, alle quali il cessionario dovrà ispirarsi mediante la presentazione di un progetto edificatorio assentibile perché ad esse rispondente. In quanto elemento esterno di regolazione pubblicistica di un diritto di origine privatistica, il permesso di costruire – seppure per certi versi anomalo perché chiesto e rilasciato per una volumetria aumentata – continua ad operare su un piano non dissimile da quello ‘normale’ dei provvedimenti genericamente ampliativi della sfera giuridica del privato e, segnatamente, da quello che regola ordinariamente l’esercizio diretto dello jus aedificandi da parte del proprietario.>>

le SSU_U precisano che <<tutte le implicazioni di non-realità che si sono qui individuate non comportino la negazione dell’inerenza al fondo del diritto sulla cubatura ceduta, quanto l’attribuzione ad essa di un’incidenza più identitaria e funzionale (di necessario collegamento con un determinato suolo tanto di origine quanto di destinazione) che coessenziale alla natura dell’istituto; ciò sul presupposto fondante del fenomeno stesso dei ‘diritti edificatori’, sempre insito – anche se con connotati di varia intensità – nel loro scorporo dal fondo di produzione e nella ritenuta meritevolezza della loro circolazione separata>>, p. 24

Diritti proprietari al rispetto delle distanze e diritti da contratto

Interessante Cass. 15.142 del 31.05.2021, rel. Giannaccari, sul rapporto tra diritto del proprietario al rispetto delle distanze e diritto di credito sorto da convenzione con un vicino.

Il dirito al rispetto delle distanze non si prescrive (salvo l’usucapione): <<I poteri inerenti al diritto di proprietà, tra i quali rientra quello di esigere il rispetto delle distanze, non si estinguono per il decorso del tempo, salvi gli effetti dell’usucapione del diritto a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale. Discende da tale principio che anche l’azione per ottenere il rispetto delle distanze legali è imprescrittibile, trattandosi di azione reale modellata sullo schema dell'”actio negatoria servitutis”, rivolta non ad accertare il diritto di proprietà dell’attore, bensì a respingere l’imposizione di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dar luogo a servitù (Cass. Civ., Sez. II, 23.1.2012, n.871, Cass.Civ., Sez.II, 7.9.2009, n.19289; Cass. Civ., Sez.II, Cass. Civ., Sez. II, 26.1.2000, n.867).>>, § 1.3.

la corte d imerito l’aveva invece ritenuto precritto confondend operò la fonte della pretesa e aserendo che la prescrittiviàità derivasse dal convenzione de l 1996. La quale vas invece intesa come concessione precareia, ben distinta dal diritto domnucale a.l rispetto delle distanze che non si prescrive.

<<La corte di merito non ha fatto corretta affermazione dei citati principi di diritto poiché ha ritenuto che l’azione volta al rispetto delle distanze legali fosse prescritta per decorrenza del termine decennale previsto per l’esercizio del diritto di credito del condominio ad ottenere la prestazione di cui alla convenzione conclusa nel 1966, con la quale i precedenti proprietari si erano accordati perché Ambrogio Angelo, dante causa del convenuto, potesse mantenere le finestre, il cornicione e la gronda ad una distanza inferiore a quella legale, corrispondendo la somma di £5000,00 annui fino alla vendita dell’immobile a terzi. Detta pattuizione non era costitutiva di servitù a carico del fondo concedente in quanto vincolava unicamente le parti che avevano sottoscritto l’accordo ed era soggetta a revoca se il concessionario avesse trasferito a terzi la proprietà. La convenzione del 1966, sottoscritta dalla Compagnia Santa Orsola, dante causa del Condominio, e Angelo Ambrosio, dante causa del convenuto Bortolani, è stata correttamente qualificata dalla corte di merito come “concessione precaria”, vincolante inter partes e, pertanto, inidonea ad imporre servitù prediali. Il diritto di credito nascente dalla convenzione, soggetto all’ordinario termine di prescrizione, non va confuso con il diritto del proprietario a non subire pesi che non siano imposti per legge o per contratto. Conseguentemente, il diritto all’accertamento della violazione delle distanze e della demolizione delle opere illegittimamente realizzate non nasce dalla concessione, ma è connessa alle facoltà relative al diritto di proprietà, che, quale diritto reale, è imprescrittibile, salvo gli effetti dell’usucapione. E’, quindi, errata l’affermazione contenuta a pag.14 della sentenza impugnata secondo cui il diritto di credito del concedente, soggetto a prescrizione, estinguerebbe anche il diritto di chiedere il rispetto delle distanze legali come se il diritto di proprietà traesse origine dalla convenzione >>, § 1.4.

E poi: <<Del resto, le convenzioni costitutive di servitù “personali” o “irregolari”, aventi come contenuto limitazioni della proprietà del fondo altrui a beneficio di un determinato soggetto e non di un diverso fondo, sono disconosciute dal codice vigente, in quanto si concretizzano in una utilità del tutto personale e non in un’utilità oggettiva del fondo dominante (Cass. Civ., Sez.II, 26.2.2019, n.5603)>>, § 1.6.

Possesso ad usucapionem del coerede

Un figlio, che abitava col padre, al decesso doi questi continua ad abitarvi a madre e fratelli però non viene consegnata copia della casa di casa nè costoro la reclamano o contestano l’uso della casa.

Ciò costituisce possesso idoneo all’usucapione? Dice di no Cass. sez. II n. 9359 del 08.04.2021, rel. Besso Marcheis.

Così osserva: <<La circostanza, poi, non poteva essere ritenuta “elemento di per sè sufficiente ad attestare il possesso” necessario per l’acquisto per usucapione della proprietà del bene. E’ vero che secondo questa Corte “il coerede che, a seguito della morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso” (ex multis, Cass. 966/2019). A tal fine, però “egli, che già possiede animo proprio e a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus” (Cass. 10734/2018, Cass. 7221/2009, Cass. 13921/2002), “non essendo sufficiente l’astensione degli altri partecipanti dall’uso della cosa comune” (Cass. 966/2019). Pertanto, il fatto che M.Q., che già abitava con il padre l’appartamento e quindi aveva le chiavi del medesimo, abbia continuato ad essere il solo ad averne la disponibilità non indica, di per sè, il possesso esclusivo dell’immobile.>>

Affermazione ineccepibile, anche se tutto sommato pianamente discendente dai principi in tema di usucapione.

Nemmeno la sostituzione della serratura sarebbe di per sè decisiva: <<diverso valore, invece, può avere secondo la giurisprudenza di questa Corte “la sostituzione della serratura – della quale tutti i coeredi hanno però la chiave – anche se, per tale ipotesi, devesi, comunque, provare che l’azione sia stata voluta e manifestata al fine d’escludere il compossesso dei coeredi e non piuttosto a fini d’ordinaria manutenzione o di migliore preservazione dell’immobile e di quanto in esso contenuto” (Cass. 1370/1999).>>. Precisazione anche questa ineccepibile ma ovvia.

Sulla tolleranza da parte degli altri coeredi , la SC osserva:  <<quanto, infine, al riferimento operato dalla Corte d’appello alla tolleranza da parte degli altri compossessori, va precisato – come sottolineano le ricorrenti – che “in tema di usucapione, per stabilire se un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l’altrui tolleranza e sia quindi inidonea all’acquisto del possesso, la lunga durata dell’attività medesima può integrare un elemento presuntivo nel senso dell’esclusione della tolleranza qualora non si tratti di rapporti di parentela, ma di rapporti di mera amicizia o buon vicinato, giacchè nei secondi, di per sè labili e mutevoli, è più difficile, a differenza dei primi, il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo” (così, da ultimo, Cass. 11277/2015)>>.   Si tratta del passaggio più interssante.

Su quest’ultimo punto, conclude così la SC: <<In ogni caso, però, il riferimento alla tolleranza non è conferente nel caso di specie, in cui M.Q. essendo coerede era già (con)possessore e quello che doveva essere provato era l’esercizio esclusivo, nel senso di esclusione del compossesso dei coeredi, del dominio sulla res comune, prova il cui onere gravava sull’usucapiente (v. Cass. 13921/2002).>>

Sulla legittimazione passiva dell’amministratore condominiale

La domanda di risarcimento danni provnienti da negligente manutenzione delle cose comuini può essere rivolta verso l’amminstratore solamente? cioè costui ha legittimazione passiva (e dunque può eventualmente anche proporre impugnazione)?

La risposta è positiva per Cass. 29.01.2021 n. 2127, Finrami srl c. Cond. Monti Maggiò, est. Scarpa, visto che l’art. 1130 n. 4 gli attribuisce il compito di conservare le parti comuni .

<<Corretta è la statuizione della Corte d’appello secondo cui sussiste la legittimazione passiva dell’amministratore (e quindi anche quella a proporre impugnazione avverso la sentenza che abbia visto soccombente il condominio), senza necessità di autorizzazione dell’assemblea a costituirsi nel giudizio, rispetto alla controversia relativa alla domanda di risarcimento dei danni che siano derivati al singolo condomino o a terzi per difetto di manutenzione di un bene condominiale, essendo l’amministratore comunque tenuto a provvedere alla conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio ai sensi dell’art. 1130 c.c., n. 4>>.

Il Collegio intende, invero, dare seguito all’orientamento interpretativo secondo cui <<il potere – dovere di “compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio”, attribuito all’amministratore di condominio dall’art. 1130, n. 4, c.c., implica in capo allo stesso la correlata autonoma legittimazione processuale attiva e passiva, ex art. 1131 c.p.c., in ordine alle controversie in materia di risarcimento dei danni, qualora l’istanza appaia connessa o conseguenziale, appunto, alla conservazione delle cose comuni (Cass. Sez. 2, 22/10/1998, n. 10474; Cass. Sez. 2, 18/06/1996, n. 5613; Cass. Sez. 2, 23/03/1995, n. 3366; Cass. Sez. 2, 22/04/1974, n. 1154; cfr. anche Cass. Sez. 2, 15/07/2002, n. 10233; Cass. Sez. 3, 21/02/2006, n. 3676; Cass. Sez. 2, 21/12/2006, n. 27447; Cass. Sez. 3, 25/08/2014, n. 18168; Cass. Sez. U, 10/05/2016, n. 9449).>>.

Nulla da osservare: affermazione logica e persuasiva.

Di conseguenza la clausola difforme del regolamento condominiale, prosegue la SC, è inefficace.

Anche qui nulla da obiettare, se non che la SC poteva specificare il tipo di inefficacia: quella data dalla nullità per violazione di norma imperativa.

L’uso del marchio/nome commerciale altrui nel keyword advertising costituisce “furto di proprietà”?

Edible IP cita Google presso una corte delle Georgia per quattro causae petendi in relazione all’uso del suo nome commerciale (“Edible Arrangements”) all’interno del suo keyword advertising(.

Ques’ultimo è la pubbicità tramite asta di Google sui termini ai fini dell’elenco dei risultati sponsorizzati della ricerca: di quelli “sponsorizzati”, non di quelli “naturali” (che nulla hanno di naturale, essendo frutto di precisi, studiatissimi e continuamente modificati algoritimi).

Ricordo qui solo la prima causa petendi, “theft of property”, secondo il codice della Georgia: <<Any owner of personal property shall be authorized to bring a civil action to recover damages from any person who willfully damages the owner’s personal property or who commits a theft as defined in Article 1 of Chapter 8 of Title 16 involving the owner’s personal property>> ( O.C.G.A. § 51-10-6 ).

Però la corte di appello , 2nd division, 29.01.2021, caso  A20A1594, EDIBLE IP, LLC v. GOOGLE, LLC, rigetta tutte le domande , tra cui quella basata sul cit. furto di porprietà, pp. 4-7.

Infatti l’allegazione di proprieà intellettuale sul termine non permette di ravvisare furto, per quanto possa essere creativa l’allegazione del difensore: <<Creative pleading cannot convert Google’s advertising program into a theft by taking. Edible IP has not alleged that it has a proprietary interest in Google’s search results pages or any right to control the advertising on those pages. It claims only that it ownsthe intellectual property associated with “Edible Arrangements.” The alleged “sale” of that term for advertising placement does not constitute theft.>>, p. 6/7.

La proprietà  intellettuale (PI), diremmo noi, non può essere qualificata come proprietà di cose, di res, nemmeno di energie. Vecchia questione quella del se alla PI possano applicarsi le regole dominicali di origina romane.

A me pare di si , in linea di principio: anche se non indiscriinatamente bensì solo dopo una attenta estensione analogica.

Resta da capire perchè non abbia azionato la tutela specifica per i marchi.

(notizia e link alla sentenza presi dal blog di Eric Goldman)

Chiarezza, finalmente, sul “diritto di uso esclusivo” di un condomino su porzione condominiale

L’annosa questione del valore giuridico dell’attribuzione di un diritto d’uso esclusivo a favore di uno o più condomini su una specifica porzione condominale (spesso, di cortile),  è stata risolta da Cass. sez. un. 28972 del 17.12.2020, rel. Di Mauro (se ne v. il testo nel sito della Cassazione).

Il tema è interessante poichè le clausole di questo tipo sono frequenti nela pratica notarile.

La trattazione parte dal § 3 a p. 8; si tratta di pronuncia nell’interesse della legge ex art. 363 cpc (il ricorso era stato estinto per rinuncia accettata (§ 2).

L’opinione della corte inizia al § 6, p. 18 ss

La Corte nega si tratti di diritto reale atipico, creato dall’autonomia privata: a ciò osta la tipicità/numerus clausus dei diritti reali , che permane salda nel nostro ordinamento, § 6.9 a p. 27 ss.

Nemmeno è una servitù prediale, § 6.8, p. 25 ss.

C’è allora da capire -profilo centrale nella pratica- come interpretare le clausole del rogito che qualifichino come <diritto di uso esclusivo> le facoltà concesse al condomino: se cioè siano nulla oppure da intepretare conservativamente come qualcosa d’altro (§ 7, p. 33 ss).

Per la Corte potrà talora pure essere interpretata come attribuzione di titolo proprietario pieno. Del che però c’è da dubitare, essendo chiaro che le parti hanno voluto atribuire qualcosa meno , altrimenti avrebbero usato il termine <proprietà>, soprattuttto in atti pubblici rogati da tecnico del diritto come è un notaio.