Seconda bocciatura del mega compenso di Musk accordatogli dal board di Tesla da parte del medesimo giudice della corte del Delaware

Richard J. Tornetta v. Elon Musk et al.Court of chancery of Delaware 2 dicembre 2024m C.A. No. 2018-0408-KSJM, giudice McCORMICK, C.

Ecco i quattro motivi supportanti la decisione, come li riassume all’inizio della stessa il giudice:

<<The motion to revise is denied. The large and talented group of defense firms
got creative with the ratification argument, but their unprecedented theories go
against multiple strains of settled law. There are at least four fatal flaws. First, the
defendants have no procedural ground for flipping the outcome of an adverse post-trial decision based on evidence they created after trial. Second, common-law ratification is an affirmative defense that must be timely raised, which means that, at a minimum, it cannot be raised for the first time after the post-trial opinion. Third, what the defendants call “common law ratification” has no basis in the common law— a stockholder vote standing alone cannot ratify a conflicted-controller transaction. Fourth, even if a stockholder vote could have a ratifying effect, it could not do so here due to multiple, material misstatements in the proxy statement. Each of these defects standing alone defeats the motion to revise>>

Quelli interssanti sono il 3 ° (sub C, p. 34 ss) e soprattutto il 4° (sub D, P. 41 SS) : ratifica invalda perchè senza basi nel common law e comunque perchè i soci erano disinformati (inesattezze nella delega di voto)

Riporto solo ciè che Tesla aveva detto ai suoi soci:

<<• Their vote could “extinguish claims for breach of fiduciary duty by
authorizing an act that otherwise would constitute a breach.”166
• “[T]he deficiencies, including disclosure deficiencies, procedural
deficiencies, and breaches of fiduciary duty, identified by the Delaware
Court in connection with the Board and our stockholders’ original
approval of the 2018 CEO Performance Award should be ratified and
remedied and any wrongs found by the Delaware Court in connection
with the 2018 CEO Performance award should be cured.”167
• “[I]f the 2018 CEO Performance Award is ratified, those options will be
restored to Mr. Musk. As a result, Mr. Tornetta may not be considered
to have rendered the ‘benefit’ to Tesla through his lawsuit that is
claimed by his attorneys.”168
• And “a new stockholder vote allows the disclosure deficiencies found by
the Tornetta court to be corrected, among other things>>.

Ebbene, dice il giudice, “All of this is materially false or misleading”.

Importasnti studiosi di diritto societario usa pensano che i giudici del Delaware siano diventasti un pò troppo pro minoranze e troppo poco pro amministratori:  ad es. Jonathan Macey e Stephen M. Bainbridge.

Di quest’ultimo v. il suo post 2 dicembre 2024 sulla seconda sentenza qui ricordata.

Negligenza dell’amministratore di società costituita da mancata messa a frutto degli immobili: a lui spetta l’onere di provarne la congruenza con l’interesse sociale

Cass. sez. II, ord. 20/09/2024, n. 25.260, rel. Giannaccari:

<<11.1. Come è noto, all’amministratore di una società non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può eventualmente rilevare come giusta causa di sua revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società: ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, e quindi, l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste l’adempimento dei suo doveri sociali previsti dall’art. 2392 c.c. (Cass. 12.2.2013, n. 3409; Cass. 2.2.2015, n. 1783; Cass. 22.6.2017, n. 15470).

11.2. L’azione di responsabilità sociale promossa contro amministratori e sindaci di società di capitali ha natura contrattuale, il che comporta che la società ha l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra queste ed il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori e sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro (Cassazione civile sez. I, 07/02/2020, n. 2975; Cass. 31.8.2016, n. 17441; Cass. 11.11.2010, n. 22911). [non esattissimo, tira dritto un pò troppo il collegio…]

11.3. Questa Corte ha affermato, sul tema dell’onere probatorio che, ove i comportamenti degli amministratori che si assumono illeciti non siano in sé vietati dalla legge o dallo statuto e l’obbligo di astenersi dal porli in essere discenda dal dovere di lealtà, coincidente col precetto di non agire in conflitto di interessi con la società amministrata, o dal dovere di diligenza, consistente nell’adottare tutte le misure necessarie alla cura degli interessi sociali a lui affidati, l’illecito è integrato dal compimento dell’atto in violazione di uno dei menzionati doveri. In tal caso, l’onere della prova da parte della società non si esaurisce nella dimostrazione dell’atto compiuto dall’amministratore, ma investe una serie di elementi dai quali è possibile dedurre che lo stesso implica violazione del dovere di lealtà o di diligenza [ovvio]. Il contenuto di siffatti obblighi di carattere generale può specificarsi solo con riferimento alle circostanze del caso concreto; pertanto, in relazione alla mancata osservanza, da parte dell’amministratore, dell’obbligo di diligenza, chi agisce in giudizio deve dare dimostrazione di una serie di indici dai quali è possibile inferire la violazione del predetto dovere, che è definito dall’art. 2932 c.c. (Cassazione civile sez. I, 09/11/2020, n. 25056; Cassazione civile sez. I, 07/02/2020, n. 2975).

11.4. Recentemente, questa Corte ha affermato che, in tema di responsabilità dell’amministratore per i danni cagionati alla società amministrata, il principio della insindacabilità del merito delle scelte di gestione (cd. business judgement rule, non si applica in presenza di irragionevolezza, imprudenza o arbitrarietà palese dell’iniziativa economica (Cassazione civile sez. I, 25/03/2024, n. 8069).

11.5. A tali principi di diritto non si è uniformata la Corte di merito, che si è limitata ad affermare l’insindacabilità delle scelte gestionali dell’amministratore, senza verificare se il non essersi attivato per concedere in locazione gli immobili della società, utilizzandoli gratuitamente, costituisse violazione del dovere di diligenza.

11.6. La società attrice aveva allegato che A.A. era rimasto inerte e non aveva a messo a frutto gli immobili e che tale comportamento aveva arrecato un danno costituito dalla mancata percezione dei canoni di locazione, considerato che si trattava di una società immobiliare, il cui scopo sociale è la reddittività degli immobili.

11.7. A fronte di tale condotta inerte, era onere dell’amministratore dimostrare le ragioni di tale scelta gestionale, non essendo legittimo opporre una scelta arbitraria, che, appare prima facie, irrazionale ed implausibile rispetto all’oggetto sociale.[questa è la parte più interessante: insegnamento ersatto]

11.8. La Corte di merito ha errato non solo nella ripartizione dell’onere probatorio ma, altresì, nell’affermare l’assoluta insindacabilità delle scelte gestionali anche nell’ipotesi in cui siano contrarie a principi di irragionevolezza, imprudenza o arbitrarietà. È stato omesso qualsiasi approfondimento in ordine all’utilizzo personale di tali immobili da parte dell’amministratore, al fine di stabilire se si trattasse di scelta gestionale prudente in considerazione dell’oggetto sociale della società>>.

Le azioni proprie vanno computate per il calcolo della maggioranza di qualunque delibera societaria: sia sul capitale totale che su quello presente in assemblea

Cass. sez. I, 03/09/2024 n. 23.557, rel. Falabella, sull’art. 2357 ter c. 2 cc, nella nota lite all’interno del grupppo Salini:

<<1.3. – La conformazione che ha assunto il secondo comma dell’art. 2357-ter, comma 2, a seguito della novella consente di affermare che, proprio muovendo dalla logica che informava la richiamata pronuncia, deve oggi pervenirsi a conclusioni opposte rispetto a quelle cui giunse la medesima. Infatti, nell’odierna versione della disposizione è venuto meno il riferimento al capitale e, come si è visto, le azioni proprie sono computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea, onde esse entrano nel conteggio di tutti i quorum costitutivi e deliberativi: anche quelli che dipendono dal capitale presente in assemblea (come è previsto per le delibera dell’assemblea ordinaria in seconda convocazione). Che il termine maggioranza possa essere riferito, come sostenuto dai ricorrenti, tanto al capitale intervenuto in assemblea quanto all’intero capitale sociale è da escludere, visto che una tale lettura è contrastante col dato letterale, specie se letto in una chiave diacronica, avendo riguardo al diverso tenore delle due versioni della medesima norma, e finisce per postulare l’obiettiva inutilità, e quindi la sostanziale irragionevolezza dell’intervento legislativo del 2010. (…)

La volontà espressa dal legislatore trova ragione nell’esigenza, ben evidenziata da Cass. 2 ottobre 2018, n. 23950 cit., di impedire, nelle società “chiuse”, che le azioni proprie modifichino i rispettivi poteri dei soci e, più in generale, che risulti alterata la c.d. funzione organizzativa del capitale sociale: la prospettiva funzionale associata alla norma vigente è dunque rovesciata rispetto a quella che poteva accostarsi alla precedente versione del testo legislativo, ove era dominante il fine di evitare situazioni di stallo, per l’impossibilità di formare una maggioranza, rispetto a decisioni dalle quali dipendesse la stessa sopravvivenza della società (Cass. 16 ottobre 2013, n. 23540 cit., in motivazione)”.

Poi:

><<1.4. – Oppone la parte ricorrente che accogliendo la soluzione dalla stessa avversata si conferisce ai soci di minoranza un peso maggiore rispetto a quello che avrebbero se le azioni proprie fossero distribuite proporzionalmente tra tutti i soci: è vero, però, che il mancato computo delle azioni proprie può consentire al socio di maggioranza relativa, in situazioni particolari, quale quella in esame, una prevalenza nei processi deliberativi, convertendo, di fatto, quella maggioranza relativa in una maggioranza assoluta; si deve quindi semplicemente prendere atto che il legislatore, facendo uso della propria discrezionalità, di fronte a più soluzioni astrattamente ipotizzabili, ha inteso optare per il criterio che più si mostrava capace di preservare, in seno all’assemblea, gli equilibri preesistenti all’acquisto delle azioni proprie da parte della società. Tale discrezionalità, merita aggiungere, è stata spesa differenziando le società “chiuse” da quelle “aperte” ed escludendo per queste ultime che le azioni proprie fossero incluse nel quorum deliberativo: ciò al fine evidente di consentire che in queste ultime, in cui l’azionariato è diffuso, la maggioranza si formasse in modo più agevole>>.

Dovere di agire informato e segnali di allerta per l’amministratore (bancario) non esecutivo

Segnali di allerta sono la natura strategica dell’operazione programmata e l’eccessiva sinteticità delle comunicazioni fornite dagli amministratori delegati.

In tali casi , cumulatisi i due segnali , il non esecutivo avrebbe dovuto mettersi in moto esercitando i poteri spettantigli.

Così Cass. sez. II, sent. 23/07/2024 n. 20.398, rel. Caponi: anche se a sua volta con eccessiva sinteticità, limitandosi a giudicare esatto questo passaggio della corte di appello ma senza motivare (<<L’orientamento è stato correttamente applicato al caso attuale, giacché “due circostanze avrebbero dovuto allertare il componente del consiglio di amministrazione non titolare di deleghe (…) ad esercitare in maniera pregnante il potere ispettivo interno, richiedendo dettagliate informazioni: in primo luogo la natura strategica dell’operazione Fresh; in secondo luogo le comunicazioni eccessivamente sintetiche fornite dagli organi delegati”>>).

Onere della prova della responsabilità dei sindaci azionata in via di eccezione da aprte della curatela

Non chiarissimo insegnamento in Cass. sez. I, ord. 24/01/2024  n. 2.343, rel. Terrusi:

<<I.- Ora nella giurisprudenza di questa Corte è invalsa la sottolineatura che nell’ipotesi dell’eccezione formulata per motivare l’esclusione di un credito professionale dal passivo di un fallimento non è dato al curatore prospettare l’eccezione solo sommariamente, senza indicare i fatti di inadempimento da imputare al creditore escluso (v. Cass. Sez. 6-1 n. 24794-18).

La ragione è che per i componenti del collegio sindacale di una società l’eccezione di inadempimento finisce col riprodurre la distinzione basica dell’art. 2407 cod. civ. tra responsabilità esclusiva e responsabilità concorrente dei sindaci con quella degli amministratori, per omessa vigilanza sui comportamenti di questi. E in questa seconda ipotesi implica doversi declinare l’ambito dei fatti alla luce del necessariamente variegato apporto che i sindaci, col proprio contegno di volta in volta integrante l’inosservanza dei doveri primari di cui all’art. 2403 cod. civ., possano aver dato nelle altrettante variegate situazioni gestorie caratterizzanti gli inadempimenti degli amministratori.

Poiché l’allegazione di un comportamento specifico e negligente, secondo quanto espresso appunto dalla proposizione di un’eccezione effettiva e non sommaria di inadempimento, si manifesta come fatto modificativo del diritto al compenso del creditore, non sarebbe coerente ipotizzarne l’esito senza che sull’eccipiente gravi anche la prova di quei fatti storici, attinenti alla gestione ovvero al concreto assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, sui quali si innesta la deviazione della condotta di vigilanza esigibile dal sindaco; quella condotta, cioè, che il sindaco, che poi agisce in sede concorsuale per l’adempimento del proprio credito stante il pregresso inadempimento del corrispettivo, avrebbe dovuto tenere – e non ha tenuto – in relazione al suo mandato. Solo, dunque, per essa appare sufficiente, nella ripartizione dell’onere della prova, che il creditore della prestazione di vigilanza (nella fattispecie, e per la società, il curatore fallimentare) possa anche limitarsi a eccepire, nei segnalati termini di specificità, l’inesatto adempimento, allegato come difetto di vigilanza rispetto a fatti specifici invece non solo descritti ma anche provati>>.

Sembra che la specificità dell’eccezione, così descritta, riguardi non solo  l’allegazione ma anche la prova delle negligenze amministrative, rimaste prime di reazione sindacale.

Cessione di quota sociale e vizi nel bene appartanente alla società

Aperture (non nuove) alla rilevanza dei vizi nei beni appartanenti alla società, di cui è venduta una quota (del 51%), in  Cass. Sez. II, Ord., 18/07/2024, n. 19.833, rel. Picaro:

<<Osserva la Corte che un proprio primo indirizzo, prevalente (Cass. n.5053/2024; Cass.n. 21590/2019; Cass. n. 7183/2019; Cass. n.16963/2014;Cass. n. 17948/2012; Cass. n. 16031/2007; Cass. n.26690/2006), afferma che la cessione delle azioni, o delle quote, di una società di capitali, ha come oggetto immediato la partecipazione sociale, e solo quale oggetto mediato, la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta. Pertanto, le carenze o i vizi relativi alle caratteristiche e al valore dei beni ricompresi nel patrimonio sociale e, di conseguenza, alla consistenza economica della partecipazione possono giustificare la sua risoluzione o la riduzione del prezzo pattuito solo se il cedente abbia fornito, a tale riguardo, specifiche garanzie contrattuali.

Tale interpretazione si fonda sull’individuazione dell’oggetto del negozio di modificazione della partecipazione sociale. Un bene, la partecipazione sociale, che attribuisce al titolare diritti amministrativi e diritti patrimoniali da esercitare nella società per effetto dell’acquisizione della qualità di socio. Un bene, la partecipazione sociale, che non si limita, quindi, ad attribuire al socio diritti patrimoniali parametrati al valore del patrimonio della società, ma che, in relazione a ciascun tipo societario prescelto, attribuisce anche diritti amministrativi, che consentono al socio di partecipare alla vita della società, esercitando tutte le facoltà concesse dalla legge e dallo statuto, rispetto alle quali l’aspettativa di redditività connessa all’esercizio dei diritti patrimoniali costituisce non più che un aspetto del complessivo status di socio. L’assetto patrimoniale del valore della partecipazione, in quanto corrispondente all’esercizio dei diritti patrimoniali spettanti al socio, è solo una parte dell’utilità che l’acquirente della partecipazione riceve per effetto del suo acquisto.

Lo status di socio attribuisce, quindi, diritti più ampi e ulteriori rispetto a quelli legati al concorso alla distribuzione degli utili, ipotesi nella quale potrebbe sussistere un interesse ad attribuire sempre e comunque rilevanza all’effettivo valore dei beni che costituiscono il patrimonio della società, in dipendenza di vizi che ne diminuiscano il valore, con conseguente ammissibilità delle azioni contrattuali a difesa dell’effettivo valore del bene mediato, in assenza di specifiche garanzie.

La sentenza impugnata ha richiamato l’orientamento minoritario di questa Corte (Cass. ord. 12.9.2019 n. 22790; Cass. 9.9.2004 n. 18181), secondo cui le azioni (e le quote) delle società di capitali costituiscono beni di “secondo grado”, in quanto non sono del tutto distinti e separati da quelli compresi nel patrimonio sociale, e sono rappresentative delle posizioni giuridiche spettanti ai soci in ordine alla gestione ed alla utilizzazione di detti beni, funzionalmente destinati all’esercizio dell’attività sociale.

Tale orientamento, che comunque non è in contrasto con quello prevalente, evidenzia che comunque le azioni esperibili a tutela dell’effettivo valore della partecipazione discendono da un’applicazione del generale canone di buona fede, e sono limitate alle ipotesi in cui la differenza tra l’effettiva consistenza quantitativa del patrimonio sociale rispetto a quella indicata nel contratto, incida sulla solidità economica e sulla produttività della società, e quindi sul valore delle azioni o delle quote, che sono l’oggetto immediato della cessione, potendo per tale via integrare una mancanza delle qualità essenziali della cosa, ovvero essere indizio del fatto che i beni confluiti nel patrimonio siano assolutamente privi della capacità funzionale a soddisfare i bisogni dell’acquirente, quindi “radicalmente diversi” da quelli pattuiti (vedi in tal senso Cass. n. 3370/2004 richiamata nella sentenza impugnata e Cass. n.2843/1996).

La decisione impugnata, in linea con tale ultima giurisprudenza, non si è limitata a fare derivare la mancanza di qualità ex art. 1497 cod. civ. dall’esistenza sull’immobile adibito a palestra, l’unico ricompreso nel patrimonio della società cedenda, dei vincoli di destinazione non dichiarati (secondo le prove testimoniali valutate) connessi ai contributi ed alle agevolazioni finanziarie concesse alla SFC Srl dalla Regione Sardegna, in quanto alle pagine 19, 20 e 21 ha correttamente considerato le specifiche ripercussioni da cio derivate, secondo la CTU espletata, sul valore della stessa quota societaria cedenda (diminuzione di valore del 25%), ossia dell’oggetto immediato della cessione, ha evidenziato che nel preliminare di cessione delle quote era stato fatto all’art. 3 uno specifico riferimento alla determinazione del prezzo in Euro1.600.000,00 in considerazione della situazione contabile dell’unico immobile, di circa 1250 mq su due livelli e di tutte le attrezzature, avente primaria importanza per le parti, ed ha ritenuto che pertanto la TIB avesse legittimamente fatto affidamento, secondo i canoni della buona fede, in tale valutazione, risultata frustrata dall’omessa dichiarazione dei soci della SFC Srl, in fase precontrattuale, circa il vincolo di destinazione e circa i limiti soggettivi di trasferibilità della stessa quota, che derivavano dalla celata fruizione delle contribuzioni e dei finanziamenti agevolati regionali.

La sentenza impugnata, inoltre, ha evidenziato che i soci della SFC Srl nel preliminare avevano dichiarato che le quote della società non solo erano nella loro esclusiva proprietà, circostanza veritiera, ma anche nella loro “libera disponibilità”, fornendo quindi sul punto una garanzia specifica alla TIB, che viceversa, solo dopo la firma del preliminare, in base alla documentazione in seguito consegnatale, ha potuto scoprire che la quota societaria, a seguito dei contributi a titolo gratuito e dei finanziamenti agevolati fruiti dalla SFC Srl, non poteva esserle trasferita senza la preventiva comunicazione ed autorizzazione della Regione Sardegna, e senza il rispetto dei requisiti soggettivi della normativa regionale sui beneficiari (partecipazione come soci di almeno tre soggetti, di cui almeno il 60% di età compresa tra 18 e 35 anni non compiuti, iscritti nelle liste di collocamento), la cui violazione avrebbe comportato la decadenza immediata dai benefici a suo tempo concessi alla cedente, con conseguente obbligo di restituzione in un’unica soluzione dell’intero importo fruito, ben superiore alle rate di mutuo altrimenti da restituire delle quali era stata edotta. La sentenza impugnata ha poi escluso, a pagina 16, che la circostanza che la TIB avesse la mera possibilità di nominare un altro soggetto come acquirente della quota, potesse rendere ininfluente la circostanza che il cessionario definitivo della quota societaria dovesse presentare i suddetti requisiti soggettivi, essendo stato fissato un termine di appena 25 giorni dal preliminare per la cessione definitiva, nel quale evidentemente sarebbe stato pressoché impossibile, per l’ignara TIB, soddisfare i requisiti soggettivi necessari ad evitare la decadenza dalle agevolazioni concesse alla SFC Srl dalla Regione Sardegna, e comunque non è invocabile l’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., in quanto la circostanza in questione è stata già considerata, anche se sinteticamente, dalla Corte d’Appello>>.

La delibera della SRL sul compenso amministratori è viziata da conflitto di interessi?

Cass. sez. I, 23/04/2024, ord. n. 10.889, rel. Catallozzi:

<<- con particolare riferimento al primo requisito si osserva che il conflitto di interessi, da accertarsi non in termini astratti e ipotetici, ma con riferimento alla singola delibera, sussiste quando vi è, di fatto, un conflitto tra un interesse non sociale – quindi un interesse che non è in alcun modo riconducibile al contratto di società – e uno qualsiasi degli interessi che sono riconducibili a tale contratto e, quindi, che sono comuni ai soci (cfr. Cass. 13 marzo 2023, n. 7279; Cass. 12 dicembre 2005, n. 27387)

– la situazione di conflitto di interessi tra socio e società presuppone, dunque, che il primo si trovi nella condizione di essere portatore, con riferimento a una specifica delibera, di un duplice e contrapposto interesse – da un lato il proprio interesse di socio [NO: di persona non socia: come socio può perseguire solo l’interesse sotteso al contratto sociale] e dall’altro l’interesse della società – e che questa duplicità di interessi sia tale per cui il socio non possa realizzare l’uno se non sacrificando l’altro;

– pertanto, la circostanza che una siffatta delibera consenta al socio il conseguimento (anche) di un suo personale interesse non comporta, di per sé, un pregiudizio all’interesse sociale (cfr. Cass. 21 marzo 2000, n. 3312);

– in applicazione di tale principio è stato affermato che la deliberazione determinativa del compenso dell’amministratore non può considerarsi invalida per il mero fatto che essa sia stata adottata col voto determinante espresso dallo stesso amministratore che abbia preso parte all’assemblea in veste di socio, se non ne risulti altresì pregiudicato l’interesse sociale (così, Cass. 3 dicembre 2008, n. 28748);

– ne consegue che, con riferimento al caso in esame, la mera circostanza che il socio privato, per il tramite dell’amministratore della società, abbia votato la delibera avente a oggetto la determinazione del compenso dell’amministratore medesimo non è idonea a dare luogo a una situazione di conflitto di interesse, rilevante ai fini che qui interessano, non avendo la Corte territoriale accertato – né la parte ricorrente dedotto di aver allegato – la presenza di elementi significativi di una incompatibilità dell’interesse sociale con l’interesse individuale perseguito;

– al contrario, il giudice di appello, nell’argomentare l’insussistenza della denunciata situazione di conflitto di interesse, ha valorizzato il fatto che con la impugnata delibera di approvazione del compenso degli amministratori l’assemblea ha disposto la riduzione dello stesso – da Euro 58.800,00 a Euro 41.040,00 – per il periodo decorrente dal 1° aprile 2015 al 31 dicembre dello stesso anno, in ragione delle difficoltà economiche della società;

– si osserva, inoltre, che non risulta decisiva la dedotta ripetuta sollecitazione rivolta dal socio privato al socio pubblico ad alienare la propria quota, ritenuta dal ricorrente strumentale a determinare un deprezzamento del valore della quota medesima e un suo più conveniente acquisto della stessa, atteso che la Corte di appello ha accertato che il socio privato si è limitato a chiedere al socio pubblico di procedere alla indizione di una gara a evidenza pubblica per la cessione di tale quota, in conformità con gli obblighi di legge, e che, dunque, la riferita finalità di deprimere il valore della quota per poi acquistarla a trattativa diretta non era ipotizzabile, stante l’incertezza dell’esito di una procedura a evidenza pubblica;

– con il secondo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 2477 e 2479-ter, secondo comma, cod. civ. e degli artt. 2,3 e 4D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, per avere la sentenza impugnata ritenuto insussistente il danno alla società e il conflitto di interessi del socio privato in relazione alla mancata nomina dell’organo di controllo;>>

Vale tacita rinuncia ai crediti, sub iudice e illiquidi, e non compresi nel bilancio finale di liquidazione, estinguere la società tramite cancellazione dal registro imprese in pendenza di lite (con impossibilità di trasferimento ai soci anche ai fini dell’art. 110 cod. proc. civ.)?

Cass. sez. I ord interl. 13 giugno 2024 n. 16.477, rel. Terrusi, rinvia la questione alle sezioni unite per contrasto giurisprudenziale (e per la particolare importanza della questione stssa):

<< VIII. – In definitiva può osservarsi che, dopo le sentenze delle Sezioni Unite all’inizio citate, si è perpetuato un contrasto in seno alla Corte, vertente in particolare sulla possibilità di configurare la tacita rinuncia ad alcuni dei crediti della società, sub iudice e illiquidi, e non compresi nel bilancio finale di liquidazione, ove questa venga cancellata dal registro delle imprese in pendenza di lite, con conseguente estinzione e impossibilità di trasferimento ai soci anche ai fini dell’art. 110 cod. proc. civ.

Secondo l’orientamento sotteso alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 6070 del 2013, condiviso da altre immediatamente susseguenti anche non massimate, andrebbe constata in casi del genere una presunzione pressoché assoluta di rinuncia, correlata a un intento abdicativo di per sé discendente dalla cancellazione.

Cosa peraltro determinativa di non secondarie criticità: (a) per l’irrazionalità della configurazione che pone a elemento distintivo l’idoneità della posta creditoria a essere iscritta nel bilancio finale, in contrasto col principio contabile generale per cui ogni credito, in verità, ancorché illiquido o incerto, va iscritto (e quindi può essere iscritto) in bilancio al valore presumibile di realizzo (art. 2426 cod. civ.); (b) per l’automatica riconduzione della formalità pubblicitaria (la cancellazione dal registro delle imprese) alla fattispecie della rinuncia, pur in presenza di circostanze logicamente non compatibili, come la coltivazione del giudizio per l’accertamento del credito da parte del liquidatore; (c) per l’oggettiva difficolta di sostenere l’assunto sul piano degli effetti pratici, giacché mantenendosi l’automatismo ne deriverebbe una perdita potenziale in pregiudizio degli stessi creditori, in ragione della impossibilità di far conto della posta attiva in esito a una scelta abdicativa a loro estranea.

In ragione di tanto le due decisioni citate, della Prima sezione (Cass. Sez. 1 n. 9464-20) e della Prima sottosezione delle Sesta (Cass. Sez. 6-1 n. 30075-20), hanno ritenuto di poter trovare un punto di equilibrio nell’affermazione di una presunzione inversa, escludente (di fatto) ogni automatismo: la cancellazione della società non determina la automatica rinuncia del credito controverso, perché la remissione del debito presuppone una volontà inequivoca in tal senso, che deve essere specificamente allegata e provata.

Di contro, l’arresto della Terza sezione ha posto nuovamente al centro del problema l’automatismo discendente dalla distinzione operata dalle Sezioni Unite del 2013, ridimensionandone il profilo – certo – ma sull’opposto versante della ripartizione dell’onere della prova: la volontà abdicativa si presume fintanto che non sia dimostrato il contrario, vale a dire che il credito, originariamente azionato dalla società e per definizione illiquido, non è stato implicitamente rinunciato>>.

La cancellazione della società dal registro imprese “causa pendente” non equivale a rinunzia del credito azionato

Cass. sez. I, 14/06/2024 n. 16.607, rel. Fidanzia:

<<La Corte d’Appello ha ritenuto che, alla stregua dei principi enunciati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 6070/2013, dovrebbe presumersi che la società correntista, con la cancellazione dal registro delle Imprese, abbia inteso rinunciare al credito vantato nei confronti della banca, con conseguente intrasmissibilità del medesimo ai soci.

Questo Collegio non condivide una tale impostazione giuridica.

Va osservato che questa Corte, nella sentenza n. 9464/2020 (conf. Cass. n. 28439/2020), proprio in un’analoga fattispecie in cui era stata proposta una domanda di ripetizione di indebito bancario, ha enunciato il principio – cui questo Collegio intende dare continuità – secondo cui l’estinzione di una società conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, ove intervenuta nella pendenza di un giudizio dalla stessa originariamente intrapreso, non determina anche l’estinzione della pretesa azionata, salvo che il creditore abbia manifestato, anche attraverso un comportamento concludente, la volontà di rimettere il debito comunicandola al debitore e sempre che quest’ultimo non abbia dichiarato, in un congruo termine, di non volerne profittare.

La predetta pronuncia, nel suo articolato (e pienamente condivisibile) percorso argomentativo, dopo essersi diffusamente soffermata sull’istituto della remissione di debito, a norma dell’art. 1236 cod. civ., evidenziandone i caratteri della univocità e concludenza, da valutare con particolare rigore e cautela, ha osservato che tali requisiti devono essere riscontrati nel comportamento della società nel momento in cui essa si cancella dal registro delle imprese, e ciò al fine di individuarvi anche la rinuncia in ordine ai diritti di credito ancora non esatti o non liquidati, con la conseguenza che, ove difettino indici univoci sulla volontà remissoria, deve essere esclusa la volontà di remissione del debito.

Né ad una diversa conclusione si può pervenire per effetto delle decisioni delle Sezioni unite (Cass. nn. 6070 – 6072 del 2013), le quali avevano, piuttosto, evidenziato che la remissione del debito per effetto della cancellazione della società dal registro delle imprese fosse una delle varie evenienze solo “possibili”. Pertanto, in presenza di una domanda della cancellazione della società dal registro delle imprese, non è sufficiente – pena il ritenere ingiustificatamente sempre estinto il credito in tali evenienze, sulla base di una presunzione assoluta priva dei caratteri ex art. 2729 c.c. – che la cancellazione sia domandata ed eseguita.

La predetta sentenza n. 9464/2020 ha, infine, evidenziato che “..All’opposto, la mancata dichiarazione del difensore, ai sensi dell’art. 300 c.p.c. ai fini della interruzione del processo e la prosecuzione del medesimo, pur dopo l’avvenuta cancellazione della società costituisce un elemento in senso contrario rispetto ad un’ipotizzata volontà abdicativa: essendo ragionevolmente presumibile, piuttosto, in generale che il difensore, mandatario della società, avesse in tal senso concordato con la stessa la linea difensiva da tenere, anche nell’interesse dei soci, il cui sostrato personale riemerge proprio nel momento della cancellazione del soggetto collettivo. Il relativo accertamento, concretandosi in un giudizio di fatto, sfugge al sindacato di legittimità; ma costituisce giudizio di diritto escludere che la mera cancellazione dal registro delle imprese possa, di per sé sola, per la sua invincibile equivocità, reputarsi sufficiente a dedurne una volontà abdicativa”.

Orbene, anche questo Collegio è concorde nell’escludere che la mera cancellazione di una società dal registro delle imprese possa, di per sé sola, per la sua evidente equivocità, reputarsi sufficiente a dedurne la remissione del credito fatto valere in giudizio, la quale deve essere, invece, allegata e provata con rigore da chi intenda farla valere, dimostrando tutti i presupposti della fattispecie, ossia la inequivoca volontà remissoria e la destinazione dichiarazione ad uno specifico creditore (Cass. n. 30075/2020).

Ne consegue che, in difetto di altri indici univoci sulla volontà remissoria – nel caso di specie, non accertati dalla sentenza impugnata, né comunque evidenziati dalla banca ricorrente – può ragionevolmente ritenersi che sia avvenuta, per effetto della cancellazione della società dal registro delle imprese, un trasferimento dei diritti di quest’ultima ai soci>>.

Affermazione ineccepibile, anche se tutto sommato scontata.

Estensione del fallimento al socio apparente di S.A.S.

Cass sez. I, ord. 29/04/2024  n. 11.342, rel. Dongiacomo:

<<3.2. La corte d’appello, infatti, ha ritenuto che il fallimento della Nastrificio Finat Sas di Ca.Br. e Ca.Da., dichiarato con sentenza del 3-5-2018, era stato tempestivamente e correttamente esteso, con la reclamata sentenza del 9-9-2021, a Ca.Br., per un verso affermando che il mantenimento del nome e del cognome nella denominazione della “Nastrificio Finat Sas di Ca.Br. e Ca.Da.” si configura, a fronte del chiaro dettato normativo di cui all’art. 2314 c.c., come un elemento di esteriorizzazione ai terzi del vincolo societario e di affectio societatis, senza che assumano rilievo le ragioni della scelta, e, per altro verso, escludendo che il termine di un anno previsto dall’art. 147, comma 2°, L.Fall. potesse decorrere dal momento in cui, in data 12-12-2012, lo stesso aveva cessato di essere il socio accomandatario della società poi fallita.

3.3. La decisione, così assunta, è senz’altro conforme alle norme che regolano la fattispecie accertata in fatto dal giudice di merito: se non altro perché, come questa Corte ha ripetutamente affermato, nelle società di persone, l’assoggettabilità al fallimento del socio apparente in conseguenza del fallimento della società non richiede la dimostrazione della stipulazione e dell’operatività di un patto sociale, essendo a tal fine sufficiente la prova di un comportamento tale da integrare l’esteriorizzazione del rapporto, ancorché inesistente nei rapporti interni, a tutela dei terzi che su quella apparenza abbiano fatto affidamento (Cass. n. 8168 del 1996), come, appunto, nel caso in cui il terzo, pur non essendo più socio, abbia nondimeno acconsentito il mantenimento del proprio nome nella ragione sociale.

3.4. L’art. 2314, comma 2°, c.c., a norma del quale “l’accomandante, il quale consenta che il suo nome sia compreso nella ragione sociale, risponde di fronte ai terzi illimitatamente e solidalmente con i soci accomandatari per le obbligazioni sociali”, è, infatti, volta a tutelare l’affidamento dei terzi creditori nella responsabilità illimitata di chi, quale socio accomandante ovvero, come nella specie, di socio accomandatario cessato per morte, recesso o (può aggiungersi) cessione della quota (art. 2292, comma 2°, richiamato dall’art. 2314 c.c. in materia di società in accomandita semplice), abbia, tuttavia, consentito (come, nel caso in esame, è rimasto incontestato) di presentarsi ai terzi, pur non essendolo (più), alla stessa stregua di un socio illimitatamente responsabile (art. 2291, comma 1°, e 2314, comma 1°, c.c.) e cioè, nella società in accomandita semplice, di un socio (attualmente) accomandatario (cfr. Cass. n. 30882 del 2018, in motiv.).

3.5. L’inserimento del nominativo del socio accomandante nella ragione sociale (art. 2314, comma 2°, c.c.), al pari dell’inserimento nella ragione sociale del nome del socio accomandatario cessato (artt. 2314, comma 1°, e 2292, comma 2°, c.c.), ne comporta, invero e per previsione normativa, la responsabilità illimitata per le obbligazioni della società esclusivamente in ragione del contenuto oggettivo della ragione sociale e della oggettiva confusione conseguentemente ingenerata sul ruolo da lui (ancora) svolto nella società; deve, per contro, restare estranea a tale valutazione ogni considerazione relativa ad elementi estrinseci all’aspetto formale della ragione sociale come, ad esempio, il comportamento dell’accomandante o del socio accomandatario cessato, i quali, in effetti, rispondono personalmente (anche per ripercussione automatica del fallimento della società: art. 147, comma 1°, L.Fall.) dei debiti contratti dalla società nel periodo di tempo in cui il loro nome è compreso nella ragione sociale a prescindere dal fatto che i terzi sapessero o ignorassero che si trattava di un socio accomandante o di un socio accomandatario non più tale>>.

Che poi aggiunge utili precisazioni sul decorso del termine annuale ex art. 147 l. fall., qui opmesse