Eccesso dai poteri spettanti all’amminstratore: inopponibilità ai terzi ma non nullità (art. 2384 c.c.)

Cass. sez. III, 03/03/2025 n. 5.647 rel. Iannello, sul sempre scivoloso tema in oggetto:

<<Va osservato che, al riguardo, la Corte di merito ha fatto corretta applicazione, del principio che il Collegio condivide, secondo cui il contratto stipulato dall’amministratore di una società eccedendo dai poteri di rappresentanza fissati dall’atto costitutivo e dallo statuto non è affetto da nullità, atteso che la norma di cui all’art. 2384 cod. civ. secondo comma, nel testo applicabile alla fattispecie “ratione temporis”, prevede soltanto l’inopponibilità ai terzi delle limitazioni suddette, salvo che costoro abbiano agito intenzionalmente a danno della società, così escludendo implicitamente che la violazione della disposizione possa essere invocata dal terzo contraente (Cass. n. 22669 del 02/12/2004 Rv. 578317-01; v. anche Cass. n. 24547 dell’1/12/2016 Rv. 642662-02).

Giova, inoltre, ribadire che questa Corte ha, con riferimento alla distinzione tra atti di ordinaria e atti di straordinaria amministrazione, affermato che (Cass. n. 18536 del 10/07/2019 Rv. 654659-01) le limitazioni dei poteri di rappresentanza degli amministratori di società di capitali, risultanti dall’atto costitutivo o dallo statuto, ai sensi dell’art. 2384, comma 2, cod. civ., non sono opponibili ai terzi di buona fede, non solo quando si tratti di limitazioni alla rappresentanza processuale, ma anche per le limitazioni alla rappresentanza sostanziale, poiché la norma, che si riferisce ai poteri degli amministratori in via generale, prendendo in esame gli effetti della buona fede della controparte, si attaglia più appropriatamente all’ambito della rappresentanza negoziale.

È, altresì opportuno, per completezza espositiva, richiamare la giurisprudenza, risalente oramai di oltre un ventennio, resa a seguito della modifica dell’art. 2384 c.c. operata dall’art. 5 del D.P.R. n. 1127 del 29/12/1969, che pure, con l’art. 6, introdusse nel codice civile l’art. 2384-bis, secondo la quale (Cass. n. 14509 dell’8/11/2000 Rv. 541480-01) ai fini dell’opponibilità al terzo contraente delle limitazioni dei poteri di rappresentanza degli organi di società di capitali, l’art. 2384, comma secondo, c.c., nel testo novellato dall’art. 5 del D.P.R. n. 1127 del 1969, richiede non già la mera conoscenza della esistenza di tali limitazioni da parte del terzo, ma altresì la sussistenza di un accordo fraudolento, o, quanto meno, la consapevolezza di una stipulazione potenzialmente generatrice di danno per la società>>.

Azienda ereditaria tra comunione e società

Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 03/12/2024) 09/04/2025, n. 9309, rel. Giannaccari:

<<La decisione della Corte d’Appello si pone in contrasto con i principi affermati da questa Corte in tema di comunione di azienda ereditaria.

Quest’ultima forma oggetto di comunione fin tanto che rimangano presenti gli elementi caratteristici della comunione, e cioè fino a quando i coeredi si limitino a godere in comune l’azienda relitta dal de cuius, negli elementi e con la consistenza in cui essa è caduta nel patrimonio comune, come può avvenire nel caso di affitto dell’azienda stessa.

Allorché, invece, quest’ultima viene ad essere esercitata con fine speculativo, con nuovi interventi e con nuovi utili derivanti dal nuovo esercizio, possono verificarsi due ipotesi o l’impresa è esercitata, d’accordo, da tutti i coeredi, i quali convengono di continuarne l’esercizio, apportando nuovi incrementi o sviluppando i precedenti, a fine speculativo, e, in tal caso, sussistono tutti gli elementi della società, sia pure irregolare o di fatto, e la comunione incidentale si trasforma in società tra i coeredi, ovvero la continuazione dell’esercizio dell’impresa è effettuata da uno o da alcuni dei coeredi soltanto, ed allora la comunione incidentale è limitata all’azienda come relitta dal de cuius, con gli elementi – materiali e immateriali – esistenti al momento dell’apertura della successione mentre il successivo esercizio, con gli incrementi personalmente apportati dal coerede o dai coeredi che lo effettuano e con gli utili e le perdite conseguenti, non può essere imputato che al coerede o ai coeredi predetti (cfr. Cass. n. 10188/2019 e la giurisprudenza ivi richiamata).

È stato, infatti, osservato che la distinzione tra società di persone e comunione di godimento, quale risulta dal raffronto tra gli artt. 2247 e 2248 c.c., trova applicazione anche riguardo ad un’azienda compresa in un’eredità.

Ne deriva, in applicazione del richiamato principio di diritto, che

a) le consistenze, l’avviamento (v. Cass. n. 3775/1994) e, dunque, il complessivo valore aziendale devono essere fissati, ai fini divisionali, alla data di apertura della successione (fatta salva, ovviamente, la rivalutazione per il periodo successivo, trattandosi appunto di debito di valore cfr. Cass. n. 6931/2016);

b) le spese, gli incrementi o i decrementi aziendali successivi a tale data non possono essere considerati comuni ma ascrivibili all’attività di chi le gestisce>>.

Esatto, parrebbe.

Applicato al caso sub iudice:

<<Ne consegue che la Corte d’Appello avrebbe dovuto accertare se, al momento dell’apertura della successione, fosse sussistente una comunione ereditaria con riferimento all’azienda, tenendo conto che il Tribunale di Brindisi aveva accertato, con più volte indicata sentenza n. 994/2007, passata in giudicato, che solo A.A. e B.B. avevano esercitato l’attività di impresa.

In virtù di tali consolidati principi, ai quali il collegio intende dare continuità, la Corte d’Appello avrebbe dovuto accertare se, al momento della divisione dell’asse ereditario di D.D., la continuazione dell’esercizio dell’impresa fosse stata effettuata dalla de cuius o soltanto dai convenuti.

La Corte d’Appello ha, invece, erroneamente ritenuto che l’azienda fosse entrata nell’asse ereditario della de cuius sol perché alla stessa era stata attribuita una quota, pari a 54/126 del laboratorio artigianale e dell’attività commerciale di vendita, con riferimento alla consistenza che l’azienda aveva al momento dell’apertura della successione di E.E.

Si trattava di una quota dell’eredità del dante causa, stimata con riferimento al valore che l’azienda aveva al momento del decesso di E.E., aumentato del valore locativo per stimare il bene al momento della divisione, per tenere conto dell’apporto dei fratelli B.B. e A.A., che avevano gestito l’azienda.

La Corte d’Appello – dopo aver affermato che l’azienda, nella sua consistenza originaria, era stata assegnata a D.D., B.B. e A.A. sulla base del valore al momento dell’apertura della successione di E.E., accresciuta del valore locativo dal 1976 in poi – si è interrogata sul se “quella entità” fosse caduta in successione, quale patrimonio da dividere tra i suoi eredi, oppure se a D.D. fosse stata attribuita “una quota dell’azienda intesa nella sua consistenza dinamica”.

La Corte di merito giunge alla conclusione che l’azienda fosse stata assegnata nella sua “consistenza dinamica”, affermando, che “non vi fosse riscontro alla circostanza che la D.D. sia rimasta estranea all’esercizio dell’impresa, non essendo necessario l’apporto personale per configurarsi l’esercizio collettivo di un’impresa, opzione da cui deriva che la quota attribuita alla D.D. fu intesa in senso dinamico”, e, a conforto di tale tesi, richiama la sentenza del Tribunale di Brindisi n. 994/2007, che aveva determinato il valore del bene al momento della divisione.

Tale affermazione si pone in contrasto sia con il giudicato costituito da quest’ultima sentenza, che aveva accertato che la gestione dell’azienda era stata svolta da parte dei soli germani B.B. e A.A., sia con il principio di diritto (al quale dovrà uniformarsi il giudice di rinvio) secondo cui l’azienda ereditaria forma oggetto di comunione fin tanto che rimangano presenti gli elementi caratteristici della comunione, e cioè fino a quando i coeredi si

limitino a godere in comune l’azienda relitta dal de cuius; allorché, invece, quest’ultima viene ad essere esercitata da uno o da alcuni dei coeredi la comunione incidentale è limitata all’azienda come relitta dal de cuius, con gli elementi – materiali e immateriali – esistenti al momento dell’apertura della successione.

Ha, quindi errato la Corte d’Appello nel determinare il valore dell’azienda con riferimento al momento della divisione dell’asse relitto di D.D., senza accertare, ai fini della persistenza della comunione, se ed in quale misura la de cuius avesse contribuito alla gestione dell’azienda>>.

La responsabilità per debiti della società scissa e le possibili azioni del creditore ipotecario della medesima

Cass. sez. I, ord. 30/12/2024  n. 35.087, est. Dongiacomo, sull’art. 2506 quater c. 3 c.c.:

<<3.4. In effetti, in caso di scissione, la responsabilità per i debiti non soddisfatti della società scissa (la quale ne risponde per l’intero), si estende, in forza dell’art. 2506-quater, comma 3, c.c., in via solidale (e sussidiaria), a tutte le società partecipanti all’operazione, ciascuna delle quali, tuttavia, ne risponde “nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato”.

3.5. La prova della sussistenza, in concreto, di tale limite e della sua esatta misura (vale a dire la quota di spettanza di “quanto al momento della scissione era effettivamente disponibile per il soddisfacimento dei creditori”: Cass. n. 4455 del 2016, in motiv.) quale fatto impeditivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione solidale (che, altrimenti, in quanto tale, si estenderebbe all’intera prestazione non eseguita), grava, peraltro, a norma dell’art. 2697, comma 2, c.c., su ciascuna delle società beneficiarie (e, quindi, in caso di fallimento, sul curatore), anche in ragione della vicinanza delle stesse all’oggetto della relativa dimostrazione (Cass. n. 36690 del 2021, in motiv.).

3.6. La società partecipante all’operazione, ove sia stata assegnataria di uno o più beni immobili della società scissa sui quali era stata iscritta ipoteca a garanzia dei debiti di quest’ultima, è, tuttavia, in qualità di terzo acquirente [nds: è un acquisto, tecnicamente? Direi di si, verificandosi nella scissione un trasferimento] del bene ipotecato, patrimonialmente responsabile di tali obbligazioni, nel senso che, pur non essendo “personalmente” obbligata, può subire (nei limiti, naturalmente, dell’immobile vincolato a garanzia di un debito altrui) l’azione esecutiva (artt. 602 c.p.c. ss.) del creditore ipotecario (art. 2808, comma 1, c.c.).

3.7. Il creditore munito di ipoteca (concessa a garanzia di un debito della società scissa), pertanto, come giustamente affermato dalla banca ricorrente, può, in via alternativa, far valere:

– o il suo diritto di ipoteca sull’immobile (e solo sullo stesso) nei confronti della società che ne sia stata l’assegnataria;

– o il suo diritto di credito nei confronti di ciascuna delle società partecipanti all’operazione (compresa, evidentemente, l’assegnataria dell’immobile ipotecato), che risponde, personalmente ed illimitatamente, del debito della società scissa, che si accolla ex lege ma “nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato”.

3.8. E se la società assegnataria, com’è accaduto nel caso in esame, è assoggettata a fallimento, il creditore ipotecario per un debito della società scissa:

– se fa valere il diritto di credito (sussidiario) relativo a tale debito, ha l’onere di insinuarsi al passivo della relativa procedura (artt. 52 e 55, comma 3, L.Fall.), limitato nel quantum (in deroga rispetto a quanto previsto dall’art. 61, comma 1, L.Fall.) al “valore effettivo del patrimonio netto … assegnato” alla società fallita ed accollataria per legge dello stesso, partecipando, entro tale limite, alla distribuzione dell’intero attivo concorsuale (oltre che dell’immobile ipotecato a garanzia del predetto debito, con prelazione, ove richiesta, sul relativo ricavato: artt. 54, commi 1 e 3, e 111 n. 2 L.Fall.);

– se, per contro, fa valere (solo) il diritto d’ipoteca sull’immobile assegnato, può limitarsi ad intervenire nel procedimento fallimentare onde partecipare alla distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione del bene (e solo del bene) compreso nella procedura ed ipotecato in suo favore>>.

Articolata decisione di Trib. Milano nel caso Vivendi v. TIM circa la impugnabilità da parte del socio di delibera del cda (art. 2388 cc): l’illegittima esclusione del voto , essendo questo mero strumento e non obiettivo, non permette di qualificarla come lesiva dei diritti di socio

Trib. Milano sez. spec. impr. 14.01.2025 n. 278, rel. Marconi:

<<Tuttavia, mentre non vi sono dubbi sulla ravvisabilità della situazione che legittima il socio all’impugnazione della delibera consiliare illegittima nella lesione del diritto di recesso e del conseguente diritto alla liquidazione da parte della società del valore della partecipazione sociale, la riconducibilità del diritto di voto in assemblea alla categoria dei diritti soggettivi individuali che ove lesi legittimano il socio all’impugnazione ai sensi dell’art. 2388 comma 4 c.c. è esclusa dalla giurisprudenza di legittimità, che lo annovera fra le posizioni che accomunano tutti i componenti della compagine sociale e che contrappongono le competenze dei due organi sociali e non la posizione individuale di un singolo socio alla società ( Cass. 11.12.2020 n. 28359).

Del resto, il diritto di voto è un potere strumentale alla formazione della deliberazione destinato ad esaurire la propria funzione all’interno del procedimento assembleare ed il suo esercizio da parte del socio concorre alla formazione in assemblea della volontà dell’ente e, di per sé, a meno che non ricorrano ipotesi di una sua peculiare connotazione, non gli assicura la realizzazione dell’interesse individuale perseguito.

Anche a voler sorvolare sulla questione della riconducibilità del diritto di voto in assemblea alla categoria dei diritti soggettivi individuali la cui lesione legittima il socio all’impugnazione ai sensi dell’art. 2388 comma 4 c.c. la semplice prospettazione ipotetica ed eventuale delle posizioni soggettive lese dalla deliberazione consiliare impugnata evidenzia l’assenza di un concreto ed attuale interesse alla pronuncia di annullamento richiesta e la mera rilevanza accademica dei “quesiti” posti al giudice sull’accertamento della legittimità dell’operato del consiglio di amministrazione sotto il profilo dell’osservanza del perimetro dei poteri gestori nella situazione descritta.

Infatti, tanto in relazione alla lamentata lesione del diritto di voto tanto in relazione alla lesione dell’eventuale diritto di recesso a fronte della modificazione non condivisa dell’oggetto sociale, indispensabile ai fini dell’esistenza dell’interesse ad impugnare la deliberazione consiliare è che il socio prospetti come certa almeno l’espressione del suo voto in dissenso che, a voler seguire l’impostazione della socia attrice, è l’unica facoltà effettivamente compromessa dalla deliberazione del consiglio di amministrazione elusiva della competenza assembleare.

Solo l’espressione del diritto di voto in dissenso viene, infatti, preclusa dalla delibera consiliare elusiva del diritto del socio di esprimersi in assemblea sulla modificazione dell’oggetto sociale in modo tale da maturare il diritto di recesso che è, altrimenti, solo una prerogativa astratta riconosciuta dall’ordinamento ai soci al verificarsi delle condizioni previste dall’art. 2437 comma 1 lett. a).

Al riguardo, mai nel corso del giudizio OMISSIS ha prospettato la volontà di esprimere nell’eventuale assemblea indetta per la modificazione dell’oggetto sociale prodromica all’operazione di dismissione dell’infrastruttura di rete fissa un voto dissenziente e, anche nel corso dell’interrogatorio libero, il suo legale rappresentante si è limitato a ribadire che OMISSIS con l’introduzione del presente giudizio, mirava semplicemente ad ottenere la convocazione dell’assemblea per acquisire in quella sede maggiori informazioni sull’operazione (v. verbale dell’udienza del 21 maggio 2024).

La socia attrice si è ben guardata dal prospettare l’intento di esprimere un voto dissenziente alla modifica dell’oggetto sociale, preferendo lamentarsi della mancata celebrazione dell’assemblea straordinaria che, peraltro, ben avrebbe potuto richiedere ai sensi dell’art. 2367 c.c. e dell’art. 125 ter comma 3 del Tuf. Le norme richiamate consentono, infatti, al socio che rappresenti almeno un ventesimo del capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio di richiedere la convocazione dell’assemblea, con la previsione dell’onere di svolgere in luogo degli amministratori la relazione sulle materie all’ordine del giorno da trattare che la socia attrice ben avrebbe potuto assolvere attraverso l’illustrazione, sulla base degli elementi all’epoca noti, delle ragioni di incompatibilità dell’operazione di dismissione con l’oggetto sociale così come diffusamente esposte nel corso del presente giudizio.

In mancanza della prospettazione dell’intento di esprimere un voto dissenziente alla formale modificazione dell’oggetto sociale che sarebbe stato frustrato dalla delibera consiliare elusiva del dovere di sottoporre la questione all’assemblea, deve escludersi la configurabilità anche solo potenziale della prospettata lesione del diritto di recesso di cui all’art. 2437 comma 1 lett. a) c.c. e l’esistenza di un interesse giuridico della socia attrice, concreto e attuale, all’impugnazione e all’annullamento della deliberazione consiliare.

Nell’impossibilità di configurare in conseguenza della deliberazione consiliare impugnata la lesione anche solo potenziale di un diritto individuale attuale e concreto della socia attrice, l’interesse a che con il suo annullamento si ” fissi anche la regola di condotta degli amministratori per il futuro” in relazione al dovere di non dare corso agli impegni assunti dalla società con atti negoziali inefficaci ( v. memoria ex art. 171 ter n. 1 c.p.c. di parte attrice a pag. 30) sostanzialmente coincide con l’interesse sociale alla legittimità della gestione di cui, in questo contesto, sono depositari solo gli amministratori dissenzienti e il collegio sindacale e non vale, quindi, a sorreggere l’impugnazione proposta dall’attrice nella sua qualità di socia.

In sintesi la socia OMISSIS è priva di interesse giuridico attuale e concreto all’impugnazione della deliberazione del consiglio di amministrazione di Con sotto i profili descritti ai punti a) e b) non avendo neanche osato preannunciare la volontà di opporsi, nell’eventualità della convocazione dell’assemblea, all’adozione delle decisioni sull’oggetto sociale che ritiene prodromiche all’attuazione di un’operazione di dismissione dettata dalla incontestata necessità di ridurre drasticamente, riportandola entro limiti di sostenibilità, l’imponente esposizione debitoria gravante sul futuro dell’ex monopolista delle telecomunicazioni.

In conclusione, l’impugnazione della delibera consiliare in relazione ai motivi di illegittimità dedotti ai punti a) e b) proposta dalla socia attrice deve essere dichiarata inammissibile per difetto di interesse giuridico attuale e concreto alla pronuncia di annullamento>>.

Però è un poco arbitrario pensare che l’espressione lesive dei loro diritti si riferisca solo a diritti finali e non a quelli strumentali

(da Onelegale)

Responsabilità aggravata per l’amministratore non esecutivo di società bancaria rispetto a quello di società non bancaria?

Cass. sez. II, ord.  20/11/2024  n. 29.844. rel. Giannaccari, sull’annosa questione sempre sollevata in tema di opposizione a sanzioni Banca di Italia:

premessa genrale, poco interessante perchè scontata:

<<E’ stato affermato che l’obbligo imposto dall’art. 2381, ultimo comma del codice civile agli amministratori delle società per azioni di “agire in modo informato”, pur quando non siano titolari di deleghe, si declina, da un lato, nel dovere di attivarsi, esercitando tutti i poteri connessi alla carica, per prevenire o eliminare ovvero attenuare le situazioni di criticità aziendale di cui siano, o debbano essere, a conoscenza, dall’altro, in quello di informarsi, affinché tanto la scelta di agire quanto quella di non agire risultino fondate sulla conoscenza della situazione aziendale che gli stessi possano procurarsi esercitando tutti i poteri di iniziativa cognitoria connessi alla carica, con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze>>.

Più interessante il prosieguo sul settore bancario:

<<Tali obblighi si connotano in termini particolarmente incisivi per gli amministratori di società che esercitano l’attività bancaria, prospettandosi, in tali ipotesi, non solo una responsabilità di natura contrattuale nei confronti dei soci della società, ma anche quella, di natura pubblicistica, nei confronti dell’Autorità di vigilanza.

Il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie – inoltre – non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega.

A prescindere dalla qualità di consigliere esecutivo o meno, tutti gli amministratori, che vengono nominati in ragione della loro specifica competenza anche nell’interesse dei risparmiatori, devono svolgere i compiti loro affidati dalla legge con particolare [perchè particolare??]  diligenza e, quindi, anche in presenza di eventuali organi delegati, sussiste il dovere dei singoli consiglieri di valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo e contabile, nonché il generale andamento della gestione della società, e l’obbligo, in ipotesi di conoscenza o conoscibilità [come al solito, è proprio questo il punto: quando ricorre la conoscibilità?] di irregolarità commesse nella prestazione dei servizi di investimento, di assumere ogni opportuna iniziativa per assicurare che la società si uniformi ad un comportamento diligente, corretto e trasparente (Cass. n. 2620/2021).

Ne consegue che il consigliere di amministrazione non esecutivo di società per azioni, in conformità al disposto dell’art.2932 comma 2 del codice civile, è solidalmente responsabile della violazione commessa quando non intervenga al fine di impedirne il compimento o attenuarne le conseguenze dannose (Cass. n. 19556/2020; Cass. n. 24851/2019; Cass. n. 5606/2019).

A tali principi si è uniformata la Corte d’Appello che, con motivazione non apparente (Cass. Sez. Unite n. 8054/2014), ha ritenuto che le mere richieste di informazioni e di chiarimenti da parte di Ca.Fr., prive di alcun intervento diretto a manifestare il dissenso in ordine alle criticità dell’assetto organizzativo e alle scelte strategiche dell’azienda, non fossero sufficienti ad elidere le sue responsabilità, considerazione questa che è riferibile anche alla autosospensione.[questo è il passo piùinterssante]

La Corte d’Appello, con apprezzamento di fatto [NOOO: è giudizio, non accert. di fatto], incensurabile in sede di legittimità ha ritenuto che non fossero sufficienti pochi e segmentati interventi dell’opponente in consiglio di amministrazione per escludere la responsabilità nelle scelte gestionali della banca, nel dovere di vigilanza sull’organizzazione in quanto da detti interventi non era riscontrabile alcun fattivo interessamento del ricorrente al fine di informarsi e, successivamente, di offrire concreti spunti tecnici per correggere le problematiche inerenti ai rischi ed oggetto dei rilievi. Secondo la Corte di merito, si è trattato di generiche richieste di chiarimenti o di ricognizioni o di raccomandazioni, prive di incisività e specificità in relazione ai temi trattati, prive di motivazione congrua e prive quindi di concreta attitudine a indirizzare ed orientare il Consiglio di amministrazione ad una migliore e più prudente valutazione dei rischi medesimi.[prenda adeguata nota l’oepratore]

Contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, non si configura, nel caso di specie, una forma di responsabilità oggettiva, ma una responsabilità per colpa, correlata ad una condotta negligente ed inerte rispetto agli obblighi di vigilanza sanciti dalle disposizioni secondarie che disciplinano l’attività bancaria. Sotto tale profilo, l’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo deve essere valutato alla stregua della competenza professionale specifica richiesta ad ogni componente del Consiglio di amministrazione di una banca, tenuto conto che in tema di sanzioni amministrative, l’art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689, pone una presunzione relativa di colpa a carico dell’autore del fatto vietato, riservando a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa (cfr. Cass. n. 27432/2013)>>.

Seconda bocciatura del mega compenso di Musk accordatogli dal board di Tesla da parte del medesimo giudice della corte del Delaware

Richard J. Tornetta v. Elon Musk et al.Court of chancery of Delaware 2 dicembre 2024m C.A. No. 2018-0408-KSJM, giudice McCORMICK, C.

Ecco i quattro motivi supportanti la decisione, come li riassume all’inizio della stessa il giudice:

<<The motion to revise is denied. The large and talented group of defense firms
got creative with the ratification argument, but their unprecedented theories go
against multiple strains of settled law. There are at least four fatal flaws. First, the
defendants have no procedural ground for flipping the outcome of an adverse post-trial decision based on evidence they created after trial. Second, common-law ratification is an affirmative defense that must be timely raised, which means that, at a minimum, it cannot be raised for the first time after the post-trial opinion. Third, what the defendants call “common law ratification” has no basis in the common law— a stockholder vote standing alone cannot ratify a conflicted-controller transaction. Fourth, even if a stockholder vote could have a ratifying effect, it could not do so here due to multiple, material misstatements in the proxy statement. Each of these defects standing alone defeats the motion to revise>>

Quelli interessanti sono il 3 ° (sub C, p. 34 ss) e soprattutto il 4° (sub D, P. 41 SS) : ratifica invalda perchè senza basi nel common law e comunque perchè i soci erano disinformati (inesattezze nella delega di voto)

Riporto solo ciè che Tesla aveva detto ai suoi soci:

<<• Their vote could “extinguish claims for breach of fiduciary duty by
authorizing an act that otherwise would constitute a breach.”166
• “[T]he deficiencies, including disclosure deficiencies, procedural
deficiencies, and breaches of fiduciary duty, identified by the Delaware
Court in connection with the Board and our stockholders’ original
approval of the 2018 CEO Performance Award should be ratified and
remedied and any wrongs found by the Delaware Court in connection
with the 2018 CEO Performance award should be cured.”167
• “[I]f the 2018 CEO Performance Award is ratified, those options will be
restored to Mr. Musk. As a result, Mr. Tornetta may not be considered
to have rendered the ‘benefit’ to Tesla through his lawsuit that is
claimed by his attorneys.”168
• And “a new stockholder vote allows the disclosure deficiencies found by
the Tornetta court to be corrected, among other things>>.

Ebbene, dice il giudice, “All of this is materially false or misleading”.

Importanti studiosi di diritto societario USA pensano che i giudici del Delaware siano diventati un pò troppo pro-minoranze e troppo poco pro-amministratori:  ad es. Jonathan Macey e Stephen M. Bainbridge.. Di quest’ultimo v. il suo post 2 dicembre 2024 sulla seconda sentenza qui ricordata.

Ne parla ora il New York Times 8 febbraio u.s.

Ottima sintesi con suggerimenti pratici in Implications of Tornetta v. Musk II for Executive Compensation and for Stockholder Ratification by Gail Weinstein, Philip Richter, and Steven Epstein, Fried, Frank, Harris, Shriver & Jacobson LLP, Harvard law school Forum on Corpò Gov. , 15.02.2025 .

V mio precedente post sulla prima sentenza.

Negligenza dell’amministratore di società costituita da mancata messa a frutto degli immobili: a lui spetta l’onere di provarne la congruenza con l’interesse sociale

Cass. sez. II, ord. 20/09/2024, n. 25.260, rel. Giannaccari:

<<11.1. Come è noto, all’amministratore di una società non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può eventualmente rilevare come giusta causa di sua revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società: ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, e quindi, l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste l’adempimento dei suo doveri sociali previsti dall’art. 2392 c.c. (Cass. 12.2.2013, n. 3409; Cass. 2.2.2015, n. 1783; Cass. 22.6.2017, n. 15470).

11.2. L’azione di responsabilità sociale promossa contro amministratori e sindaci di società di capitali ha natura contrattuale, il che comporta che la società ha l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra queste ed il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori e sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro (Cassazione civile sez. I, 07/02/2020, n. 2975; Cass. 31.8.2016, n. 17441; Cass. 11.11.2010, n. 22911). [non esattissimo, tira dritto un pò troppo il collegio…]

11.3. Questa Corte ha affermato, sul tema dell’onere probatorio che, ove i comportamenti degli amministratori che si assumono illeciti non siano in sé vietati dalla legge o dallo statuto e l’obbligo di astenersi dal porli in essere discenda dal dovere di lealtà, coincidente col precetto di non agire in conflitto di interessi con la società amministrata, o dal dovere di diligenza, consistente nell’adottare tutte le misure necessarie alla cura degli interessi sociali a lui affidati, l’illecito è integrato dal compimento dell’atto in violazione di uno dei menzionati doveri. In tal caso, l’onere della prova da parte della società non si esaurisce nella dimostrazione dell’atto compiuto dall’amministratore, ma investe una serie di elementi dai quali è possibile dedurre che lo stesso implica violazione del dovere di lealtà o di diligenza [ovvio]. Il contenuto di siffatti obblighi di carattere generale può specificarsi solo con riferimento alle circostanze del caso concreto; pertanto, in relazione alla mancata osservanza, da parte dell’amministratore, dell’obbligo di diligenza, chi agisce in giudizio deve dare dimostrazione di una serie di indici dai quali è possibile inferire la violazione del predetto dovere, che è definito dall’art. 2932 c.c. (Cassazione civile sez. I, 09/11/2020, n. 25056; Cassazione civile sez. I, 07/02/2020, n. 2975).

11.4. Recentemente, questa Corte ha affermato che, in tema di responsabilità dell’amministratore per i danni cagionati alla società amministrata, il principio della insindacabilità del merito delle scelte di gestione (cd. business judgement rule, non si applica in presenza di irragionevolezza, imprudenza o arbitrarietà palese dell’iniziativa economica (Cassazione civile sez. I, 25/03/2024, n. 8069).

11.5. A tali principi di diritto non si è uniformata la Corte di merito, che si è limitata ad affermare l’insindacabilità delle scelte gestionali dell’amministratore, senza verificare se il non essersi attivato per concedere in locazione gli immobili della società, utilizzandoli gratuitamente, costituisse violazione del dovere di diligenza.

11.6. La società attrice aveva allegato che A.A. era rimasto inerte e non aveva a messo a frutto gli immobili e che tale comportamento aveva arrecato un danno costituito dalla mancata percezione dei canoni di locazione, considerato che si trattava di una società immobiliare, il cui scopo sociale è la reddittività degli immobili.

11.7. A fronte di tale condotta inerte, era onere dell’amministratore dimostrare le ragioni di tale scelta gestionale, non essendo legittimo opporre una scelta arbitraria, che, appare prima facie, irrazionale ed implausibile rispetto all’oggetto sociale.[questa è la parte più interessante: insegnamento ersatto]

11.8. La Corte di merito ha errato non solo nella ripartizione dell’onere probatorio ma, altresì, nell’affermare l’assoluta insindacabilità delle scelte gestionali anche nell’ipotesi in cui siano contrarie a principi di irragionevolezza, imprudenza o arbitrarietà. È stato omesso qualsiasi approfondimento in ordine all’utilizzo personale di tali immobili da parte dell’amministratore, al fine di stabilire se si trattasse di scelta gestionale prudente in considerazione dell’oggetto sociale della società>>.

Le azioni proprie vanno computate per il calcolo della maggioranza di qualunque delibera societaria: sia sul capitale totale che su quello presente in assemblea

Cass. sez. I, 03/09/2024 n. 23.557, rel. Falabella, sull’art. 2357 ter c. 2 cc, nella nota lite all’interno del grupppo Salini:

<<1.3. – La conformazione che ha assunto il secondo comma dell’art. 2357-ter, comma 2, a seguito della novella consente di affermare che, proprio muovendo dalla logica che informava la richiamata pronuncia, deve oggi pervenirsi a conclusioni opposte rispetto a quelle cui giunse la medesima. Infatti, nell’odierna versione della disposizione è venuto meno il riferimento al capitale e, come si è visto, le azioni proprie sono computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea, onde esse entrano nel conteggio di tutti i quorum costitutivi e deliberativi: anche quelli che dipendono dal capitale presente in assemblea (come è previsto per le delibera dell’assemblea ordinaria in seconda convocazione). Che il termine maggioranza possa essere riferito, come sostenuto dai ricorrenti, tanto al capitale intervenuto in assemblea quanto all’intero capitale sociale è da escludere, visto che una tale lettura è contrastante col dato letterale, specie se letto in una chiave diacronica, avendo riguardo al diverso tenore delle due versioni della medesima norma, e finisce per postulare l’obiettiva inutilità, e quindi la sostanziale irragionevolezza dell’intervento legislativo del 2010. (…)

La volontà espressa dal legislatore trova ragione nell’esigenza, ben evidenziata da Cass. 2 ottobre 2018, n. 23950 cit., di impedire, nelle società “chiuse”, che le azioni proprie modifichino i rispettivi poteri dei soci e, più in generale, che risulti alterata la c.d. funzione organizzativa del capitale sociale: la prospettiva funzionale associata alla norma vigente è dunque rovesciata rispetto a quella che poteva accostarsi alla precedente versione del testo legislativo, ove era dominante il fine di evitare situazioni di stallo, per l’impossibilità di formare una maggioranza, rispetto a decisioni dalle quali dipendesse la stessa sopravvivenza della società (Cass. 16 ottobre 2013, n. 23540 cit., in motivazione)”.

Poi:

><<1.4. – Oppone la parte ricorrente che accogliendo la soluzione dalla stessa avversata si conferisce ai soci di minoranza un peso maggiore rispetto a quello che avrebbero se le azioni proprie fossero distribuite proporzionalmente tra tutti i soci: è vero, però, che il mancato computo delle azioni proprie può consentire al socio di maggioranza relativa, in situazioni particolari, quale quella in esame, una prevalenza nei processi deliberativi, convertendo, di fatto, quella maggioranza relativa in una maggioranza assoluta; si deve quindi semplicemente prendere atto che il legislatore, facendo uso della propria discrezionalità, di fronte a più soluzioni astrattamente ipotizzabili, ha inteso optare per il criterio che più si mostrava capace di preservare, in seno all’assemblea, gli equilibri preesistenti all’acquisto delle azioni proprie da parte della società. Tale discrezionalità, merita aggiungere, è stata spesa differenziando le società “chiuse” da quelle “aperte” ed escludendo per queste ultime che le azioni proprie fossero incluse nel quorum deliberativo: ciò al fine evidente di consentire che in queste ultime, in cui l’azionariato è diffuso, la maggioranza si formasse in modo più agevole>>.

Dovere di agire informato e segnali di allerta per l’amministratore (bancario) non esecutivo

Segnali di allerta sono la natura strategica dell’operazione programmata e l’eccessiva sinteticità delle comunicazioni fornite dagli amministratori delegati.

In tali casi , cumulatisi i due segnali , il non esecutivo avrebbe dovuto mettersi in moto esercitando i poteri spettantigli.

Così Cass. sez. II, sent. 23/07/2024 n. 20.398, rel. Caponi: anche se a sua volta con eccessiva sinteticità, limitandosi a giudicare esatto questo passaggio della corte di appello ma senza motivare (<<L’orientamento è stato correttamente applicato al caso attuale, giacché “due circostanze avrebbero dovuto allertare il componente del consiglio di amministrazione non titolare di deleghe (…) ad esercitare in maniera pregnante il potere ispettivo interno, richiedendo dettagliate informazioni: in primo luogo la natura strategica dell’operazione Fresh; in secondo luogo le comunicazioni eccessivamente sintetiche fornite dagli organi delegati”>>).

Onere della prova della responsabilità dei sindaci azionata in via di eccezione da aprte della curatela

Non chiarissimo insegnamento in Cass. sez. I, ord. 24/01/2024  n. 2.343, rel. Terrusi:

<<I.- Ora nella giurisprudenza di questa Corte è invalsa la sottolineatura che nell’ipotesi dell’eccezione formulata per motivare l’esclusione di un credito professionale dal passivo di un fallimento non è dato al curatore prospettare l’eccezione solo sommariamente, senza indicare i fatti di inadempimento da imputare al creditore escluso (v. Cass. Sez. 6-1 n. 24794-18).

La ragione è che per i componenti del collegio sindacale di una società l’eccezione di inadempimento finisce col riprodurre la distinzione basica dell’art. 2407 cod. civ. tra responsabilità esclusiva e responsabilità concorrente dei sindaci con quella degli amministratori, per omessa vigilanza sui comportamenti di questi. E in questa seconda ipotesi implica doversi declinare l’ambito dei fatti alla luce del necessariamente variegato apporto che i sindaci, col proprio contegno di volta in volta integrante l’inosservanza dei doveri primari di cui all’art. 2403 cod. civ., possano aver dato nelle altrettante variegate situazioni gestorie caratterizzanti gli inadempimenti degli amministratori.

Poiché l’allegazione di un comportamento specifico e negligente, secondo quanto espresso appunto dalla proposizione di un’eccezione effettiva e non sommaria di inadempimento, si manifesta come fatto modificativo del diritto al compenso del creditore, non sarebbe coerente ipotizzarne l’esito senza che sull’eccipiente gravi anche la prova di quei fatti storici, attinenti alla gestione ovvero al concreto assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, sui quali si innesta la deviazione della condotta di vigilanza esigibile dal sindaco; quella condotta, cioè, che il sindaco, che poi agisce in sede concorsuale per l’adempimento del proprio credito stante il pregresso inadempimento del corrispettivo, avrebbe dovuto tenere – e non ha tenuto – in relazione al suo mandato. Solo, dunque, per essa appare sufficiente, nella ripartizione dell’onere della prova, che il creditore della prestazione di vigilanza (nella fattispecie, e per la società, il curatore fallimentare) possa anche limitarsi a eccepire, nei segnalati termini di specificità, l’inesatto adempimento, allegato come difetto di vigilanza rispetto a fatti specifici invece non solo descritti ma anche provati>>.

Sembra che la specificità dell’eccezione, così descritta, riguardi non solo  l’allegazione ma anche la prova delle negligenze amministrative, rimaste prime di reazione sindacale.