La responsabilità per debiti della società scissa e le possibili azioni del creditore ipotecario della medesima

Cass. sez. I, ord. 30/12/2024  n. 35.087, est. Dongiacomo, sull’art. 2506 quater c. 3 c.c.:

<<3.4. In effetti, in caso di scissione, la responsabilità per i debiti non soddisfatti della società scissa (la quale ne risponde per l’intero), si estende, in forza dell’art. 2506-quater, comma 3, c.c., in via solidale (e sussidiaria), a tutte le società partecipanti all’operazione, ciascuna delle quali, tuttavia, ne risponde “nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato”.

3.5. La prova della sussistenza, in concreto, di tale limite e della sua esatta misura (vale a dire la quota di spettanza di “quanto al momento della scissione era effettivamente disponibile per il soddisfacimento dei creditori”: Cass. n. 4455 del 2016, in motiv.) quale fatto impeditivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione solidale (che, altrimenti, in quanto tale, si estenderebbe all’intera prestazione non eseguita), grava, peraltro, a norma dell’art. 2697, comma 2, c.c., su ciascuna delle società beneficiarie (e, quindi, in caso di fallimento, sul curatore), anche in ragione della vicinanza delle stesse all’oggetto della relativa dimostrazione (Cass. n. 36690 del 2021, in motiv.).

3.6. La società partecipante all’operazione, ove sia stata assegnataria di uno o più beni immobili della società scissa sui quali era stata iscritta ipoteca a garanzia dei debiti di quest’ultima, è, tuttavia, in qualità di terzo acquirente [nds: è un acquisto, tecnicamente? Direi di si, verificandosi nella scissione un trasferimento] del bene ipotecato, patrimonialmente responsabile di tali obbligazioni, nel senso che, pur non essendo “personalmente” obbligata, può subire (nei limiti, naturalmente, dell’immobile vincolato a garanzia di un debito altrui) l’azione esecutiva (artt. 602 c.p.c. ss.) del creditore ipotecario (art. 2808, comma 1, c.c.).

3.7. Il creditore munito di ipoteca (concessa a garanzia di un debito della società scissa), pertanto, come giustamente affermato dalla banca ricorrente, può, in via alternativa, far valere:

– o il suo diritto di ipoteca sull’immobile (e solo sullo stesso) nei confronti della società che ne sia stata l’assegnataria;

– o il suo diritto di credito nei confronti di ciascuna delle società partecipanti all’operazione (compresa, evidentemente, l’assegnataria dell’immobile ipotecato), che risponde, personalmente ed illimitatamente, del debito della società scissa, che si accolla ex lege ma “nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato”.

3.8. E se la società assegnataria, com’è accaduto nel caso in esame, è assoggettata a fallimento, il creditore ipotecario per un debito della società scissa:

– se fa valere il diritto di credito (sussidiario) relativo a tale debito, ha l’onere di insinuarsi al passivo della relativa procedura (artt. 52 e 55, comma 3, L.Fall.), limitato nel quantum (in deroga rispetto a quanto previsto dall’art. 61, comma 1, L.Fall.) al “valore effettivo del patrimonio netto … assegnato” alla società fallita ed accollataria per legge dello stesso, partecipando, entro tale limite, alla distribuzione dell’intero attivo concorsuale (oltre che dell’immobile ipotecato a garanzia del predetto debito, con prelazione, ove richiesta, sul relativo ricavato: artt. 54, commi 1 e 3, e 111 n. 2 L.Fall.);

– se, per contro, fa valere (solo) il diritto d’ipoteca sull’immobile assegnato, può limitarsi ad intervenire nel procedimento fallimentare onde partecipare alla distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione del bene (e solo del bene) compreso nella procedura ed ipotecato in suo favore>>.

Articolata decisione di Trib. Milano nel caso Vivendi v. TIM circa la impugnabilità da parte del socio di delibera del cda (art. 2388 cc): l’illegittima esclusione del voto , essendo questo mero strumento e non obiettivo, non permette di qualificarla come lesiva dei diritti di socio

Trib. Milano sez. spec. impr. 14.01.2025 n. 278, rel. Marconi:

<<Tuttavia, mentre non vi sono dubbi sulla ravvisabilità della situazione che legittima il socio all’impugnazione della delibera consiliare illegittima nella lesione del diritto di recesso e del conseguente diritto alla liquidazione da parte della società del valore della partecipazione sociale, la riconducibilità del diritto di voto in assemblea alla categoria dei diritti soggettivi individuali che ove lesi legittimano il socio all’impugnazione ai sensi dell’art. 2388 comma 4 c.c. è esclusa dalla giurisprudenza di legittimità, che lo annovera fra le posizioni che accomunano tutti i componenti della compagine sociale e che contrappongono le competenze dei due organi sociali e non la posizione individuale di un singolo socio alla società ( Cass. 11.12.2020 n. 28359).

Del resto, il diritto di voto è un potere strumentale alla formazione della deliberazione destinato ad esaurire la propria funzione all’interno del procedimento assembleare ed il suo esercizio da parte del socio concorre alla formazione in assemblea della volontà dell’ente e, di per sé, a meno che non ricorrano ipotesi di una sua peculiare connotazione, non gli assicura la realizzazione dell’interesse individuale perseguito.

Anche a voler sorvolare sulla questione della riconducibilità del diritto di voto in assemblea alla categoria dei diritti soggettivi individuali la cui lesione legittima il socio all’impugnazione ai sensi dell’art. 2388 comma 4 c.c. la semplice prospettazione ipotetica ed eventuale delle posizioni soggettive lese dalla deliberazione consiliare impugnata evidenzia l’assenza di un concreto ed attuale interesse alla pronuncia di annullamento richiesta e la mera rilevanza accademica dei “quesiti” posti al giudice sull’accertamento della legittimità dell’operato del consiglio di amministrazione sotto il profilo dell’osservanza del perimetro dei poteri gestori nella situazione descritta.

Infatti, tanto in relazione alla lamentata lesione del diritto di voto tanto in relazione alla lesione dell’eventuale diritto di recesso a fronte della modificazione non condivisa dell’oggetto sociale, indispensabile ai fini dell’esistenza dell’interesse ad impugnare la deliberazione consiliare è che il socio prospetti come certa almeno l’espressione del suo voto in dissenso che, a voler seguire l’impostazione della socia attrice, è l’unica facoltà effettivamente compromessa dalla deliberazione del consiglio di amministrazione elusiva della competenza assembleare.

Solo l’espressione del diritto di voto in dissenso viene, infatti, preclusa dalla delibera consiliare elusiva del diritto del socio di esprimersi in assemblea sulla modificazione dell’oggetto sociale in modo tale da maturare il diritto di recesso che è, altrimenti, solo una prerogativa astratta riconosciuta dall’ordinamento ai soci al verificarsi delle condizioni previste dall’art. 2437 comma 1 lett. a).

Al riguardo, mai nel corso del giudizio OMISSIS ha prospettato la volontà di esprimere nell’eventuale assemblea indetta per la modificazione dell’oggetto sociale prodromica all’operazione di dismissione dell’infrastruttura di rete fissa un voto dissenziente e, anche nel corso dell’interrogatorio libero, il suo legale rappresentante si è limitato a ribadire che OMISSIS con l’introduzione del presente giudizio, mirava semplicemente ad ottenere la convocazione dell’assemblea per acquisire in quella sede maggiori informazioni sull’operazione (v. verbale dell’udienza del 21 maggio 2024).

La socia attrice si è ben guardata dal prospettare l’intento di esprimere un voto dissenziente alla modifica dell’oggetto sociale, preferendo lamentarsi della mancata celebrazione dell’assemblea straordinaria che, peraltro, ben avrebbe potuto richiedere ai sensi dell’art. 2367 c.c. e dell’art. 125 ter comma 3 del Tuf. Le norme richiamate consentono, infatti, al socio che rappresenti almeno un ventesimo del capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio di richiedere la convocazione dell’assemblea, con la previsione dell’onere di svolgere in luogo degli amministratori la relazione sulle materie all’ordine del giorno da trattare che la socia attrice ben avrebbe potuto assolvere attraverso l’illustrazione, sulla base degli elementi all’epoca noti, delle ragioni di incompatibilità dell’operazione di dismissione con l’oggetto sociale così come diffusamente esposte nel corso del presente giudizio.

In mancanza della prospettazione dell’intento di esprimere un voto dissenziente alla formale modificazione dell’oggetto sociale che sarebbe stato frustrato dalla delibera consiliare elusiva del dovere di sottoporre la questione all’assemblea, deve escludersi la configurabilità anche solo potenziale della prospettata lesione del diritto di recesso di cui all’art. 2437 comma 1 lett. a) c.c. e l’esistenza di un interesse giuridico della socia attrice, concreto e attuale, all’impugnazione e all’annullamento della deliberazione consiliare.

Nell’impossibilità di configurare in conseguenza della deliberazione consiliare impugnata la lesione anche solo potenziale di un diritto individuale attuale e concreto della socia attrice, l’interesse a che con il suo annullamento si ” fissi anche la regola di condotta degli amministratori per il futuro” in relazione al dovere di non dare corso agli impegni assunti dalla società con atti negoziali inefficaci ( v. memoria ex art. 171 ter n. 1 c.p.c. di parte attrice a pag. 30) sostanzialmente coincide con l’interesse sociale alla legittimità della gestione di cui, in questo contesto, sono depositari solo gli amministratori dissenzienti e il collegio sindacale e non vale, quindi, a sorreggere l’impugnazione proposta dall’attrice nella sua qualità di socia.

In sintesi la socia OMISSIS è priva di interesse giuridico attuale e concreto all’impugnazione della deliberazione del consiglio di amministrazione di Con sotto i profili descritti ai punti a) e b) non avendo neanche osato preannunciare la volontà di opporsi, nell’eventualità della convocazione dell’assemblea, all’adozione delle decisioni sull’oggetto sociale che ritiene prodromiche all’attuazione di un’operazione di dismissione dettata dalla incontestata necessità di ridurre drasticamente, riportandola entro limiti di sostenibilità, l’imponente esposizione debitoria gravante sul futuro dell’ex monopolista delle telecomunicazioni.

In conclusione, l’impugnazione della delibera consiliare in relazione ai motivi di illegittimità dedotti ai punti a) e b) proposta dalla socia attrice deve essere dichiarata inammissibile per difetto di interesse giuridico attuale e concreto alla pronuncia di annullamento>>.

Però è un poco arbitrario pensare che l’espressione lesive dei loro diritti si riferisca solo a diritti finali e non a quelli strumentali

(da Onelegale)

Responsabilità aggravata per l’amministratore non esecutivo di società bancaria rispetto a quello di società non bancaria?

Cass. sez. II, ord.  20/11/2024  n. 29.844. rel. Giannaccari, sull’annosa questione sempre sollevata in tema di opposizione a sanzioni Banca di Italia:

premessa genrale, poco interessante perchè scontata:

<<E’ stato affermato che l’obbligo imposto dall’art. 2381, ultimo comma del codice civile agli amministratori delle società per azioni di “agire in modo informato”, pur quando non siano titolari di deleghe, si declina, da un lato, nel dovere di attivarsi, esercitando tutti i poteri connessi alla carica, per prevenire o eliminare ovvero attenuare le situazioni di criticità aziendale di cui siano, o debbano essere, a conoscenza, dall’altro, in quello di informarsi, affinché tanto la scelta di agire quanto quella di non agire risultino fondate sulla conoscenza della situazione aziendale che gli stessi possano procurarsi esercitando tutti i poteri di iniziativa cognitoria connessi alla carica, con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze>>.

Più interessante il prosieguo sul settore bancario:

<<Tali obblighi si connotano in termini particolarmente incisivi per gli amministratori di società che esercitano l’attività bancaria, prospettandosi, in tali ipotesi, non solo una responsabilità di natura contrattuale nei confronti dei soci della società, ma anche quella, di natura pubblicistica, nei confronti dell’Autorità di vigilanza.

Il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie – inoltre – non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega.

A prescindere dalla qualità di consigliere esecutivo o meno, tutti gli amministratori, che vengono nominati in ragione della loro specifica competenza anche nell’interesse dei risparmiatori, devono svolgere i compiti loro affidati dalla legge con particolare [perchè particolare??]  diligenza e, quindi, anche in presenza di eventuali organi delegati, sussiste il dovere dei singoli consiglieri di valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo e contabile, nonché il generale andamento della gestione della società, e l’obbligo, in ipotesi di conoscenza o conoscibilità [come al solito, è proprio questo il punto: quando ricorre la conoscibilità?] di irregolarità commesse nella prestazione dei servizi di investimento, di assumere ogni opportuna iniziativa per assicurare che la società si uniformi ad un comportamento diligente, corretto e trasparente (Cass. n. 2620/2021).

Ne consegue che il consigliere di amministrazione non esecutivo di società per azioni, in conformità al disposto dell’art.2932 comma 2 del codice civile, è solidalmente responsabile della violazione commessa quando non intervenga al fine di impedirne il compimento o attenuarne le conseguenze dannose (Cass. n. 19556/2020; Cass. n. 24851/2019; Cass. n. 5606/2019).

A tali principi si è uniformata la Corte d’Appello che, con motivazione non apparente (Cass. Sez. Unite n. 8054/2014), ha ritenuto che le mere richieste di informazioni e di chiarimenti da parte di Ca.Fr., prive di alcun intervento diretto a manifestare il dissenso in ordine alle criticità dell’assetto organizzativo e alle scelte strategiche dell’azienda, non fossero sufficienti ad elidere le sue responsabilità, considerazione questa che è riferibile anche alla autosospensione.[questo è il passo piùinterssante]

La Corte d’Appello, con apprezzamento di fatto [NOOO: è giudizio, non accert. di fatto], incensurabile in sede di legittimità ha ritenuto che non fossero sufficienti pochi e segmentati interventi dell’opponente in consiglio di amministrazione per escludere la responsabilità nelle scelte gestionali della banca, nel dovere di vigilanza sull’organizzazione in quanto da detti interventi non era riscontrabile alcun fattivo interessamento del ricorrente al fine di informarsi e, successivamente, di offrire concreti spunti tecnici per correggere le problematiche inerenti ai rischi ed oggetto dei rilievi. Secondo la Corte di merito, si è trattato di generiche richieste di chiarimenti o di ricognizioni o di raccomandazioni, prive di incisività e specificità in relazione ai temi trattati, prive di motivazione congrua e prive quindi di concreta attitudine a indirizzare ed orientare il Consiglio di amministrazione ad una migliore e più prudente valutazione dei rischi medesimi.[prenda adeguata nota l’oepratore]

Contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, non si configura, nel caso di specie, una forma di responsabilità oggettiva, ma una responsabilità per colpa, correlata ad una condotta negligente ed inerte rispetto agli obblighi di vigilanza sanciti dalle disposizioni secondarie che disciplinano l’attività bancaria. Sotto tale profilo, l’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo deve essere valutato alla stregua della competenza professionale specifica richiesta ad ogni componente del Consiglio di amministrazione di una banca, tenuto conto che in tema di sanzioni amministrative, l’art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689, pone una presunzione relativa di colpa a carico dell’autore del fatto vietato, riservando a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa (cfr. Cass. n. 27432/2013)>>.

Seconda bocciatura del mega compenso di Musk accordatogli dal board di Tesla da parte del medesimo giudice della corte del Delaware

Richard J. Tornetta v. Elon Musk et al.Court of chancery of Delaware 2 dicembre 2024m C.A. No. 2018-0408-KSJM, giudice McCORMICK, C.

Ecco i quattro motivi supportanti la decisione, come li riassume all’inizio della stessa il giudice:

<<The motion to revise is denied. The large and talented group of defense firms
got creative with the ratification argument, but their unprecedented theories go
against multiple strains of settled law. There are at least four fatal flaws. First, the
defendants have no procedural ground for flipping the outcome of an adverse post-trial decision based on evidence they created after trial. Second, common-law ratification is an affirmative defense that must be timely raised, which means that, at a minimum, it cannot be raised for the first time after the post-trial opinion. Third, what the defendants call “common law ratification” has no basis in the common law— a stockholder vote standing alone cannot ratify a conflicted-controller transaction. Fourth, even if a stockholder vote could have a ratifying effect, it could not do so here due to multiple, material misstatements in the proxy statement. Each of these defects standing alone defeats the motion to revise>>

Quelli interessanti sono il 3 ° (sub C, p. 34 ss) e soprattutto il 4° (sub D, P. 41 SS) : ratifica invalda perchè senza basi nel common law e comunque perchè i soci erano disinformati (inesattezze nella delega di voto)

Riporto solo ciè che Tesla aveva detto ai suoi soci:

<<• Their vote could “extinguish claims for breach of fiduciary duty by
authorizing an act that otherwise would constitute a breach.”166
• “[T]he deficiencies, including disclosure deficiencies, procedural
deficiencies, and breaches of fiduciary duty, identified by the Delaware
Court in connection with the Board and our stockholders’ original
approval of the 2018 CEO Performance Award should be ratified and
remedied and any wrongs found by the Delaware Court in connection
with the 2018 CEO Performance award should be cured.”167
• “[I]f the 2018 CEO Performance Award is ratified, those options will be
restored to Mr. Musk. As a result, Mr. Tornetta may not be considered
to have rendered the ‘benefit’ to Tesla through his lawsuit that is
claimed by his attorneys.”168
• And “a new stockholder vote allows the disclosure deficiencies found by
the Tornetta court to be corrected, among other things>>.

Ebbene, dice il giudice, “All of this is materially false or misleading”.

Importanti studiosi di diritto societario USA pensano che i giudici del Delaware siano diventati un pò troppo pro-minoranze e troppo poco pro-amministratori:  ad es. Jonathan Macey e Stephen M. Bainbridge.. Di quest’ultimo v. il suo post 2 dicembre 2024 sulla seconda sentenza qui ricordata.

Ne parla ora il New York Times 8 febbraio u.s.

Ottima sintesi con suggerimenti pratici in Implications of Tornetta v. Musk II for Executive Compensation and for Stockholder Ratification by Gail Weinstein, Philip Richter, and Steven Epstein, Fried, Frank, Harris, Shriver & Jacobson LLP, Harvard law school Forum on Corpò Gov. , 15.02.2025 .

V mio precedente post sulla prima sentenza.

Negligenza dell’amministratore di società costituita da mancata messa a frutto degli immobili: a lui spetta l’onere di provarne la congruenza con l’interesse sociale

Cass. sez. II, ord. 20/09/2024, n. 25.260, rel. Giannaccari:

<<11.1. Come è noto, all’amministratore di una società non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può eventualmente rilevare come giusta causa di sua revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società: ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, e quindi, l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste l’adempimento dei suo doveri sociali previsti dall’art. 2392 c.c. (Cass. 12.2.2013, n. 3409; Cass. 2.2.2015, n. 1783; Cass. 22.6.2017, n. 15470).

11.2. L’azione di responsabilità sociale promossa contro amministratori e sindaci di società di capitali ha natura contrattuale, il che comporta che la società ha l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra queste ed il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori e sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro (Cassazione civile sez. I, 07/02/2020, n. 2975; Cass. 31.8.2016, n. 17441; Cass. 11.11.2010, n. 22911). [non esattissimo, tira dritto un pò troppo il collegio…]

11.3. Questa Corte ha affermato, sul tema dell’onere probatorio che, ove i comportamenti degli amministratori che si assumono illeciti non siano in sé vietati dalla legge o dallo statuto e l’obbligo di astenersi dal porli in essere discenda dal dovere di lealtà, coincidente col precetto di non agire in conflitto di interessi con la società amministrata, o dal dovere di diligenza, consistente nell’adottare tutte le misure necessarie alla cura degli interessi sociali a lui affidati, l’illecito è integrato dal compimento dell’atto in violazione di uno dei menzionati doveri. In tal caso, l’onere della prova da parte della società non si esaurisce nella dimostrazione dell’atto compiuto dall’amministratore, ma investe una serie di elementi dai quali è possibile dedurre che lo stesso implica violazione del dovere di lealtà o di diligenza [ovvio]. Il contenuto di siffatti obblighi di carattere generale può specificarsi solo con riferimento alle circostanze del caso concreto; pertanto, in relazione alla mancata osservanza, da parte dell’amministratore, dell’obbligo di diligenza, chi agisce in giudizio deve dare dimostrazione di una serie di indici dai quali è possibile inferire la violazione del predetto dovere, che è definito dall’art. 2932 c.c. (Cassazione civile sez. I, 09/11/2020, n. 25056; Cassazione civile sez. I, 07/02/2020, n. 2975).

11.4. Recentemente, questa Corte ha affermato che, in tema di responsabilità dell’amministratore per i danni cagionati alla società amministrata, il principio della insindacabilità del merito delle scelte di gestione (cd. business judgement rule, non si applica in presenza di irragionevolezza, imprudenza o arbitrarietà palese dell’iniziativa economica (Cassazione civile sez. I, 25/03/2024, n. 8069).

11.5. A tali principi di diritto non si è uniformata la Corte di merito, che si è limitata ad affermare l’insindacabilità delle scelte gestionali dell’amministratore, senza verificare se il non essersi attivato per concedere in locazione gli immobili della società, utilizzandoli gratuitamente, costituisse violazione del dovere di diligenza.

11.6. La società attrice aveva allegato che A.A. era rimasto inerte e non aveva a messo a frutto gli immobili e che tale comportamento aveva arrecato un danno costituito dalla mancata percezione dei canoni di locazione, considerato che si trattava di una società immobiliare, il cui scopo sociale è la reddittività degli immobili.

11.7. A fronte di tale condotta inerte, era onere dell’amministratore dimostrare le ragioni di tale scelta gestionale, non essendo legittimo opporre una scelta arbitraria, che, appare prima facie, irrazionale ed implausibile rispetto all’oggetto sociale.[questa è la parte più interessante: insegnamento ersatto]

11.8. La Corte di merito ha errato non solo nella ripartizione dell’onere probatorio ma, altresì, nell’affermare l’assoluta insindacabilità delle scelte gestionali anche nell’ipotesi in cui siano contrarie a principi di irragionevolezza, imprudenza o arbitrarietà. È stato omesso qualsiasi approfondimento in ordine all’utilizzo personale di tali immobili da parte dell’amministratore, al fine di stabilire se si trattasse di scelta gestionale prudente in considerazione dell’oggetto sociale della società>>.

Le azioni proprie vanno computate per il calcolo della maggioranza di qualunque delibera societaria: sia sul capitale totale che su quello presente in assemblea

Cass. sez. I, 03/09/2024 n. 23.557, rel. Falabella, sull’art. 2357 ter c. 2 cc, nella nota lite all’interno del grupppo Salini:

<<1.3. – La conformazione che ha assunto il secondo comma dell’art. 2357-ter, comma 2, a seguito della novella consente di affermare che, proprio muovendo dalla logica che informava la richiamata pronuncia, deve oggi pervenirsi a conclusioni opposte rispetto a quelle cui giunse la medesima. Infatti, nell’odierna versione della disposizione è venuto meno il riferimento al capitale e, come si è visto, le azioni proprie sono computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea, onde esse entrano nel conteggio di tutti i quorum costitutivi e deliberativi: anche quelli che dipendono dal capitale presente in assemblea (come è previsto per le delibera dell’assemblea ordinaria in seconda convocazione). Che il termine maggioranza possa essere riferito, come sostenuto dai ricorrenti, tanto al capitale intervenuto in assemblea quanto all’intero capitale sociale è da escludere, visto che una tale lettura è contrastante col dato letterale, specie se letto in una chiave diacronica, avendo riguardo al diverso tenore delle due versioni della medesima norma, e finisce per postulare l’obiettiva inutilità, e quindi la sostanziale irragionevolezza dell’intervento legislativo del 2010. (…)

La volontà espressa dal legislatore trova ragione nell’esigenza, ben evidenziata da Cass. 2 ottobre 2018, n. 23950 cit., di impedire, nelle società “chiuse”, che le azioni proprie modifichino i rispettivi poteri dei soci e, più in generale, che risulti alterata la c.d. funzione organizzativa del capitale sociale: la prospettiva funzionale associata alla norma vigente è dunque rovesciata rispetto a quella che poteva accostarsi alla precedente versione del testo legislativo, ove era dominante il fine di evitare situazioni di stallo, per l’impossibilità di formare una maggioranza, rispetto a decisioni dalle quali dipendesse la stessa sopravvivenza della società (Cass. 16 ottobre 2013, n. 23540 cit., in motivazione)”.

Poi:

><<1.4. – Oppone la parte ricorrente che accogliendo la soluzione dalla stessa avversata si conferisce ai soci di minoranza un peso maggiore rispetto a quello che avrebbero se le azioni proprie fossero distribuite proporzionalmente tra tutti i soci: è vero, però, che il mancato computo delle azioni proprie può consentire al socio di maggioranza relativa, in situazioni particolari, quale quella in esame, una prevalenza nei processi deliberativi, convertendo, di fatto, quella maggioranza relativa in una maggioranza assoluta; si deve quindi semplicemente prendere atto che il legislatore, facendo uso della propria discrezionalità, di fronte a più soluzioni astrattamente ipotizzabili, ha inteso optare per il criterio che più si mostrava capace di preservare, in seno all’assemblea, gli equilibri preesistenti all’acquisto delle azioni proprie da parte della società. Tale discrezionalità, merita aggiungere, è stata spesa differenziando le società “chiuse” da quelle “aperte” ed escludendo per queste ultime che le azioni proprie fossero incluse nel quorum deliberativo: ciò al fine evidente di consentire che in queste ultime, in cui l’azionariato è diffuso, la maggioranza si formasse in modo più agevole>>.

Dovere di agire informato e segnali di allerta per l’amministratore (bancario) non esecutivo

Segnali di allerta sono la natura strategica dell’operazione programmata e l’eccessiva sinteticità delle comunicazioni fornite dagli amministratori delegati.

In tali casi , cumulatisi i due segnali , il non esecutivo avrebbe dovuto mettersi in moto esercitando i poteri spettantigli.

Così Cass. sez. II, sent. 23/07/2024 n. 20.398, rel. Caponi: anche se a sua volta con eccessiva sinteticità, limitandosi a giudicare esatto questo passaggio della corte di appello ma senza motivare (<<L’orientamento è stato correttamente applicato al caso attuale, giacché “due circostanze avrebbero dovuto allertare il componente del consiglio di amministrazione non titolare di deleghe (…) ad esercitare in maniera pregnante il potere ispettivo interno, richiedendo dettagliate informazioni: in primo luogo la natura strategica dell’operazione Fresh; in secondo luogo le comunicazioni eccessivamente sintetiche fornite dagli organi delegati”>>).

Onere della prova della responsabilità dei sindaci azionata in via di eccezione da aprte della curatela

Non chiarissimo insegnamento in Cass. sez. I, ord. 24/01/2024  n. 2.343, rel. Terrusi:

<<I.- Ora nella giurisprudenza di questa Corte è invalsa la sottolineatura che nell’ipotesi dell’eccezione formulata per motivare l’esclusione di un credito professionale dal passivo di un fallimento non è dato al curatore prospettare l’eccezione solo sommariamente, senza indicare i fatti di inadempimento da imputare al creditore escluso (v. Cass. Sez. 6-1 n. 24794-18).

La ragione è che per i componenti del collegio sindacale di una società l’eccezione di inadempimento finisce col riprodurre la distinzione basica dell’art. 2407 cod. civ. tra responsabilità esclusiva e responsabilità concorrente dei sindaci con quella degli amministratori, per omessa vigilanza sui comportamenti di questi. E in questa seconda ipotesi implica doversi declinare l’ambito dei fatti alla luce del necessariamente variegato apporto che i sindaci, col proprio contegno di volta in volta integrante l’inosservanza dei doveri primari di cui all’art. 2403 cod. civ., possano aver dato nelle altrettante variegate situazioni gestorie caratterizzanti gli inadempimenti degli amministratori.

Poiché l’allegazione di un comportamento specifico e negligente, secondo quanto espresso appunto dalla proposizione di un’eccezione effettiva e non sommaria di inadempimento, si manifesta come fatto modificativo del diritto al compenso del creditore, non sarebbe coerente ipotizzarne l’esito senza che sull’eccipiente gravi anche la prova di quei fatti storici, attinenti alla gestione ovvero al concreto assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, sui quali si innesta la deviazione della condotta di vigilanza esigibile dal sindaco; quella condotta, cioè, che il sindaco, che poi agisce in sede concorsuale per l’adempimento del proprio credito stante il pregresso inadempimento del corrispettivo, avrebbe dovuto tenere – e non ha tenuto – in relazione al suo mandato. Solo, dunque, per essa appare sufficiente, nella ripartizione dell’onere della prova, che il creditore della prestazione di vigilanza (nella fattispecie, e per la società, il curatore fallimentare) possa anche limitarsi a eccepire, nei segnalati termini di specificità, l’inesatto adempimento, allegato come difetto di vigilanza rispetto a fatti specifici invece non solo descritti ma anche provati>>.

Sembra che la specificità dell’eccezione, così descritta, riguardi non solo  l’allegazione ma anche la prova delle negligenze amministrative, rimaste prime di reazione sindacale.

Cessione di quota sociale e vizi nel bene appartanente alla società

Aperture (non nuove) alla rilevanza dei vizi nei beni appartanenti alla società, di cui è venduta una quota (del 51%), in  Cass. Sez. II, Ord., 18/07/2024, n. 19.833, rel. Picaro:

<<Osserva la Corte che un proprio primo indirizzo, prevalente (Cass. n.5053/2024; Cass.n. 21590/2019; Cass. n. 7183/2019; Cass. n.16963/2014;Cass. n. 17948/2012; Cass. n. 16031/2007; Cass. n.26690/2006), afferma che la cessione delle azioni, o delle quote, di una società di capitali, ha come oggetto immediato la partecipazione sociale, e solo quale oggetto mediato, la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta. Pertanto, le carenze o i vizi relativi alle caratteristiche e al valore dei beni ricompresi nel patrimonio sociale e, di conseguenza, alla consistenza economica della partecipazione possono giustificare la sua risoluzione o la riduzione del prezzo pattuito solo se il cedente abbia fornito, a tale riguardo, specifiche garanzie contrattuali.

Tale interpretazione si fonda sull’individuazione dell’oggetto del negozio di modificazione della partecipazione sociale. Un bene, la partecipazione sociale, che attribuisce al titolare diritti amministrativi e diritti patrimoniali da esercitare nella società per effetto dell’acquisizione della qualità di socio. Un bene, la partecipazione sociale, che non si limita, quindi, ad attribuire al socio diritti patrimoniali parametrati al valore del patrimonio della società, ma che, in relazione a ciascun tipo societario prescelto, attribuisce anche diritti amministrativi, che consentono al socio di partecipare alla vita della società, esercitando tutte le facoltà concesse dalla legge e dallo statuto, rispetto alle quali l’aspettativa di redditività connessa all’esercizio dei diritti patrimoniali costituisce non più che un aspetto del complessivo status di socio. L’assetto patrimoniale del valore della partecipazione, in quanto corrispondente all’esercizio dei diritti patrimoniali spettanti al socio, è solo una parte dell’utilità che l’acquirente della partecipazione riceve per effetto del suo acquisto.

Lo status di socio attribuisce, quindi, diritti più ampi e ulteriori rispetto a quelli legati al concorso alla distribuzione degli utili, ipotesi nella quale potrebbe sussistere un interesse ad attribuire sempre e comunque rilevanza all’effettivo valore dei beni che costituiscono il patrimonio della società, in dipendenza di vizi che ne diminuiscano il valore, con conseguente ammissibilità delle azioni contrattuali a difesa dell’effettivo valore del bene mediato, in assenza di specifiche garanzie.

La sentenza impugnata ha richiamato l’orientamento minoritario di questa Corte (Cass. ord. 12.9.2019 n. 22790; Cass. 9.9.2004 n. 18181), secondo cui le azioni (e le quote) delle società di capitali costituiscono beni di “secondo grado”, in quanto non sono del tutto distinti e separati da quelli compresi nel patrimonio sociale, e sono rappresentative delle posizioni giuridiche spettanti ai soci in ordine alla gestione ed alla utilizzazione di detti beni, funzionalmente destinati all’esercizio dell’attività sociale.

Tale orientamento, che comunque non è in contrasto con quello prevalente, evidenzia che comunque le azioni esperibili a tutela dell’effettivo valore della partecipazione discendono da un’applicazione del generale canone di buona fede, e sono limitate alle ipotesi in cui la differenza tra l’effettiva consistenza quantitativa del patrimonio sociale rispetto a quella indicata nel contratto, incida sulla solidità economica e sulla produttività della società, e quindi sul valore delle azioni o delle quote, che sono l’oggetto immediato della cessione, potendo per tale via integrare una mancanza delle qualità essenziali della cosa, ovvero essere indizio del fatto che i beni confluiti nel patrimonio siano assolutamente privi della capacità funzionale a soddisfare i bisogni dell’acquirente, quindi “radicalmente diversi” da quelli pattuiti (vedi in tal senso Cass. n. 3370/2004 richiamata nella sentenza impugnata e Cass. n.2843/1996).

La decisione impugnata, in linea con tale ultima giurisprudenza, non si è limitata a fare derivare la mancanza di qualità ex art. 1497 cod. civ. dall’esistenza sull’immobile adibito a palestra, l’unico ricompreso nel patrimonio della società cedenda, dei vincoli di destinazione non dichiarati (secondo le prove testimoniali valutate) connessi ai contributi ed alle agevolazioni finanziarie concesse alla SFC Srl dalla Regione Sardegna, in quanto alle pagine 19, 20 e 21 ha correttamente considerato le specifiche ripercussioni da cio derivate, secondo la CTU espletata, sul valore della stessa quota societaria cedenda (diminuzione di valore del 25%), ossia dell’oggetto immediato della cessione, ha evidenziato che nel preliminare di cessione delle quote era stato fatto all’art. 3 uno specifico riferimento alla determinazione del prezzo in Euro1.600.000,00 in considerazione della situazione contabile dell’unico immobile, di circa 1250 mq su due livelli e di tutte le attrezzature, avente primaria importanza per le parti, ed ha ritenuto che pertanto la TIB avesse legittimamente fatto affidamento, secondo i canoni della buona fede, in tale valutazione, risultata frustrata dall’omessa dichiarazione dei soci della SFC Srl, in fase precontrattuale, circa il vincolo di destinazione e circa i limiti soggettivi di trasferibilità della stessa quota, che derivavano dalla celata fruizione delle contribuzioni e dei finanziamenti agevolati regionali.

La sentenza impugnata, inoltre, ha evidenziato che i soci della SFC Srl nel preliminare avevano dichiarato che le quote della società non solo erano nella loro esclusiva proprietà, circostanza veritiera, ma anche nella loro “libera disponibilità”, fornendo quindi sul punto una garanzia specifica alla TIB, che viceversa, solo dopo la firma del preliminare, in base alla documentazione in seguito consegnatale, ha potuto scoprire che la quota societaria, a seguito dei contributi a titolo gratuito e dei finanziamenti agevolati fruiti dalla SFC Srl, non poteva esserle trasferita senza la preventiva comunicazione ed autorizzazione della Regione Sardegna, e senza il rispetto dei requisiti soggettivi della normativa regionale sui beneficiari (partecipazione come soci di almeno tre soggetti, di cui almeno il 60% di età compresa tra 18 e 35 anni non compiuti, iscritti nelle liste di collocamento), la cui violazione avrebbe comportato la decadenza immediata dai benefici a suo tempo concessi alla cedente, con conseguente obbligo di restituzione in un’unica soluzione dell’intero importo fruito, ben superiore alle rate di mutuo altrimenti da restituire delle quali era stata edotta. La sentenza impugnata ha poi escluso, a pagina 16, che la circostanza che la TIB avesse la mera possibilità di nominare un altro soggetto come acquirente della quota, potesse rendere ininfluente la circostanza che il cessionario definitivo della quota societaria dovesse presentare i suddetti requisiti soggettivi, essendo stato fissato un termine di appena 25 giorni dal preliminare per la cessione definitiva, nel quale evidentemente sarebbe stato pressoché impossibile, per l’ignara TIB, soddisfare i requisiti soggettivi necessari ad evitare la decadenza dalle agevolazioni concesse alla SFC Srl dalla Regione Sardegna, e comunque non è invocabile l’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., in quanto la circostanza in questione è stata già considerata, anche se sinteticamente, dalla Corte d’Appello>>.

La delibera della SRL sul compenso amministratori è viziata da conflitto di interessi?

Cass. sez. I, 23/04/2024, ord. n. 10.889, rel. Catallozzi:

<<- con particolare riferimento al primo requisito si osserva che il conflitto di interessi, da accertarsi non in termini astratti e ipotetici, ma con riferimento alla singola delibera, sussiste quando vi è, di fatto, un conflitto tra un interesse non sociale – quindi un interesse che non è in alcun modo riconducibile al contratto di società – e uno qualsiasi degli interessi che sono riconducibili a tale contratto e, quindi, che sono comuni ai soci (cfr. Cass. 13 marzo 2023, n. 7279; Cass. 12 dicembre 2005, n. 27387)

– la situazione di conflitto di interessi tra socio e società presuppone, dunque, che il primo si trovi nella condizione di essere portatore, con riferimento a una specifica delibera, di un duplice e contrapposto interesse – da un lato il proprio interesse di socio [NO: di persona non socia: come socio può perseguire solo l’interesse sotteso al contratto sociale] e dall’altro l’interesse della società – e che questa duplicità di interessi sia tale per cui il socio non possa realizzare l’uno se non sacrificando l’altro;

– pertanto, la circostanza che una siffatta delibera consenta al socio il conseguimento (anche) di un suo personale interesse non comporta, di per sé, un pregiudizio all’interesse sociale (cfr. Cass. 21 marzo 2000, n. 3312);

– in applicazione di tale principio è stato affermato che la deliberazione determinativa del compenso dell’amministratore non può considerarsi invalida per il mero fatto che essa sia stata adottata col voto determinante espresso dallo stesso amministratore che abbia preso parte all’assemblea in veste di socio, se non ne risulti altresì pregiudicato l’interesse sociale (così, Cass. 3 dicembre 2008, n. 28748);

– ne consegue che, con riferimento al caso in esame, la mera circostanza che il socio privato, per il tramite dell’amministratore della società, abbia votato la delibera avente a oggetto la determinazione del compenso dell’amministratore medesimo non è idonea a dare luogo a una situazione di conflitto di interesse, rilevante ai fini che qui interessano, non avendo la Corte territoriale accertato – né la parte ricorrente dedotto di aver allegato – la presenza di elementi significativi di una incompatibilità dell’interesse sociale con l’interesse individuale perseguito;

– al contrario, il giudice di appello, nell’argomentare l’insussistenza della denunciata situazione di conflitto di interesse, ha valorizzato il fatto che con la impugnata delibera di approvazione del compenso degli amministratori l’assemblea ha disposto la riduzione dello stesso – da Euro 58.800,00 a Euro 41.040,00 – per il periodo decorrente dal 1° aprile 2015 al 31 dicembre dello stesso anno, in ragione delle difficoltà economiche della società;

– si osserva, inoltre, che non risulta decisiva la dedotta ripetuta sollecitazione rivolta dal socio privato al socio pubblico ad alienare la propria quota, ritenuta dal ricorrente strumentale a determinare un deprezzamento del valore della quota medesima e un suo più conveniente acquisto della stessa, atteso che la Corte di appello ha accertato che il socio privato si è limitato a chiedere al socio pubblico di procedere alla indizione di una gara a evidenza pubblica per la cessione di tale quota, in conformità con gli obblighi di legge, e che, dunque, la riferita finalità di deprimere il valore della quota per poi acquistarla a trattativa diretta non era ipotizzabile, stante l’incertezza dell’esito di una procedura a evidenza pubblica;

– con il secondo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 2477 e 2479-ter, secondo comma, cod. civ. e degli artt. 2,3 e 4D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, per avere la sentenza impugnata ritenuto insussistente il danno alla società e il conflitto di interessi del socio privato in relazione alla mancata nomina dell’organo di controllo;>>