Responsabilità amministrativa della società ex d. lgs. 231/2001 e Organismo di Vigilanza (operazioni Alexandria e Santorini del Monte dei Paschi)

La ponderosa sentenza penale Trib. Milano 07.04.2021 n. 10748-2020, dib. 15.10.2020, contro i vertici di Banca Monte dei Paschi di Siena  (BMP) (leggibile nel sito giurisprudenzapenale.com) ha una parte dedicata alla responsabilità amministrativa della società (capitolo XVI , p. 287 ss) e soprattutto sull’Organismi di Vigilanza (OdV)..

La responsabilità è stata affermata , non essendo stati riscontrati i  requisiti per l’operatività dell’esimente posti dall’art. 6 d. lgs. 231/2001.

Riporto alcuni passaggi:

  • <<in merito ai compliance program, risulta pacificamente devoluto al giudice l’accertamento della postulata idoneità preventiva, secondo una valutazione di prognosi postuma e in concreto (avuto riguardo alle specificità del caso singolo).>>, p. 288: dato pacifico.
  • <<Non può, invero, dubitarsi della finalità – sottesa ai reati e quantomeno concorrente con altre proprie dei prevenuti – di garantire a B. ingiusti profitti (pure integrante il dolo specifico del delitto di false comunicazioni sociali): come già ampiamente dimostrato, l’alterazione dei bilanci mediante erronea contabilizzazione delle operazioni strutturate rispondeva alla necessità di offrire agli investitori un più florido e rasserenante scenario societario (che ispirasse affidabilità e fiducia), in termini di patrimonio contabile e di vigilanza nonché, più in generale, di stabilità (dovendosi evitare, a ogni costo, lo svelamento dei rischi connessi alla massiccia esposizione in derivati di credito, che avrebbe esposto la Banca alle imprevedibili oscillazioni di mercato, destinate a impattare sul risultato d’esercizio).>>, p. 290.
  • l’esito dell’analisi affidata nel 2012 a KPMG sul modello ex d. lgs. 231: <<all’esito dell’analisi, il consulente ha evidenziato plurime criticità e manchevolezze, suggerendo:

    1) l’integrazione del modello, mediante illustrazione delle modalità di possibile perpetrazione dei reati nonché indicazione dei presidi di controllo in essere per ogni attività c.d. sensibile;

    2) l’aggiomamento del codice etico, da rendere parte integrante del compliance program;

    3) la predisposizione di protocolli di parte speciale atti a prevenire la commissione dei reati presupposto, che chiarissero per ogni unità organizzativa gli illeciti teoricamente perpetrabili, i presidi di controllo in essere, i principi di comportamento da tenere e i riferimenti alla normativa interna aziendale di disciplina della materia.>>, p. 291.

  • <<in definitiva, sino all’ottobre 2013, come emerge dagli appunti formulati al precedente modello del 2004 (neppure allegato), la Banca è risultata sprovvista di accorgimenti organizzativi concretamente idonei a prevenire il rischio criminoso. Né valevano i richiamati complessi sistemi di regole interne a sanare il deficit riscontrato, difettando gli stessi delle puntuali previsioni contemplate dal decreto del 2001, in particolar modo in merito alla mappatura delle aree a rischio, alla predisposizione di specifici protocolli diretti alla prevenzione dei reati, agli indispensabili flussi informativi verso l’OdV nonché al sistema disciplinare>>, p. 292.
  • sull’OdV: è il punto più interessante, anche se pleonastico e trattato ad abundantiam, essendo già stato riscontrato carente il modello ex art. 6.1.a). I requisiti posti dall’ar’t. 6/1 d. lgs. 231, infatti, devono pacificametne ricorrere tutti, essendo cumulativamente richiesti: lo si desume pianamente già dal tenore della disposizione e comunque la dottrina l’ha chiarito (Scoletta, in Diritto penale delle società. Accertamento delle responsabilità individuali e processo alla persona giuridica a cura di Canzio-Cer2qua-Lupoaria, Cedam, 2016, 856). C’è una cronologia dei fatti, da cui il Trib. desume in sostanza una condotta omissiva e attendista.              La sintesi è questa: <<In definitiva, l’organismo di vigilanza – pur munito di penetranti poteri di iniziativa e controllo, ivi inclusa la facoltà di chiedere e acquisire informazioni da ogni livello e settore operativo della Banca, avvalendosi delle competenti funzioni dell’istituto (così il regolamento del luglio 2012) – ha sostanzialmente omesso i dovuti accertamenti (funzionali alla prevenzione dei reati, indisturbatamente reiterati), nonostante la rilevanza del tema contabile, già colto nelle ispezioni di B.I. (di cui l’OdV era a conoscenza) e persino assurto a contestazione giudiziaria, con l’incolpazione dei confronti di B. (circostanza che disvelava, per l’atteggiamento conservativo della Banca, il patente rischio di ulteriori addebiti, come poi avvenuto). Nel periodo d’interesse l’organismo di vigilanza ha assistito inerte agli accadimenti, limitandosi a insignificanti prese d’atto, nella vorticosa spirale degli eventi (dalle allarmanti notizie di stampa sino alla débâcle giudiziaria) che un più accorto esercizio delle funzioni di controllo avrebbe certamente scongiurato.>>, p. 294-5).

Il giudizio del Trib pare un pò frettoloso. Che i membri dell’OdV godessero di <<penetranti poteri di iniziativa e controllo, ivi inclusa la facoltà di chiedere e acquisire informazioni da ogni livello e settore operativo della Banca, avvalendosi delle competenti funzioni dell’istituto (così il regolamento del luglio 2012) >> è affermazione apodittica , per cui non costituisce motivazione sufficiente: doveva indicarli analiticamente e motivare sul come il loro esercizio avrebbe evitato i fatti illeciti.         D’altro canto, giudicare inadeguato tale passaggio motivatorio perchè i poteri dell’OdV sono “poteri di terzo livello”, come è stato osservato in dottrrina, non pare esattissimo:  la legge lascia all’ente la loro definizione , per cui ogni giudizio sul punto impone l’analisi analitica di ciascun potere e dell’effetto possibile/prevedibile che si sarebbe prodotto col suo esercizio. Il fatto che si tratti di poteri definiti in sede statutaria o di regolamento ad hoc, invece che dalla legge, non li fa diventare di secondo o terzo livello: potrebbero essere anche di primo livello, dipende da come sono disegnati.

Tuttavia, lo ripeto, l’analisi dell’OdV è ultronea, avendo poco prima il Trib. ravvisato l’insufficienza del modello. Forse però in questo modo la sentenza potrà meglio resistere ad eventuale impugnazione.

Responsabilità dell’amministratore di fatto e onere della prova per fatti di distrazione

Trib. Milano 01.02.2021 n. 711/2021, Rg 57943/2017, Fallimento P.G.P. srl c. Pecchioli ed altri, decide una causa in tema di responsabilità.

Non ci sono principi di diritto sconvolgenti: si tratta però di condotte frequentemente incontrate nella pratica,

Qui ricordo solo due questioni

1 – onere della prova per ammanchi e fatti distrattivi :

<<Con riferimento alla responsabilità dell’organo gestorio per le operazioni distrattive la violazione degli obblighi inerenti la conservazione dell’integrità del patrimonio sociale compromessa da prelievi di cassa o pagamenti a favore di terzi ingiustificati per la mancanza di idoneo riscontro nella contabilità e documentazione sociale della loro causa deve ritenersi dimostrata per presunzioni, ove l’ amministratore convenuto non provi la riferibilità all’attività sociale delle spese o la destinazione dei pagamenti all’estinzione di debiti sociali ( v. fra le molte Cass. 18.6.2014 n. 13907 in motivazione). ….  In mancanza della documentazione contabile che l’amministratore convenuto non ha tenuto o, comunque, non ha consegnato al Curatore, deve, dunque, presumersi l’avvenuta distrazione delle somme in questione dalpatrimonio sociale non avendo i convenuti, rimasti tutti contumaci, assolto all’onere di dimostrare che i prelievi fossero destinati ad estinguere debiti sociali fondati su comprovati titoli contrattuali>>p 10/11.

2  – amministratore di fatto.

<<Del danno derivato da tutte le distrazioni in questione devono rispondere, sotto il profilo soggettivo, l’amministratore di diritto Pecchioli ed il socio Poltronieri che, per quanto emerge dalla documentazione acquisita, ha assunto il ruolo di amministratore di fatto.   Con riguardo alla “ ripartizione” dei ruoli di gestione ed amministrazione fra i due è lo stesso amministratore Pecchioli a riferire al curatore nel corso della sua audizione che mentre lui si occupava della parte tecnica e operativa relativa allo smaltimento di farine: valutare i prezzi, stipulare i contratti, trasportare le farine” il socio Poltronieri si occupava di “ quella legale e amministrativa,  aveva la firma sui conti correnti della società..” ospitava la sede legale della società presso il suo studio ove “ arrivava tutta la documentazione fiscale e contabile, per cui era compito di Poltronieri occuparsi degli adempimenti ” relativi alla redazione dei bilanci ( v. doc. 11 a pag. 1,2,6).  Il fatto che il socio Poltronieri avesse la delega ad operare sui conti correnti sociali e che se ne avvalesse per gestire il denaro sociale anche attraverso l’emissione di assegni bancari trova conferma nella documentazione prodotta dal fallimento ( doc. 40 e doc. da 35 a 38) così come il ruolo cardine assunto nella gestione dei rapporti con gli istituti di credito ed in particolare con la banca Unicredit nell’operazione di finanziamento indiretto alla Via Lattea che va ben oltre la prestazione di assistenza legale per andare ad involgere l’assunzione stessa delle scelte gestorie come risulta dal tenore delle missive all’istituto di credito e ai soci ( v. doc. 23 e 25),  ove addirittura il Poltronieri consiglia all’amministratore di far difendere in giudizio la società da un altro legale per consentire a lui di testimoniare nel processo sulla vicenda.  Le dichiarazioni confessorie rese dal Pecchioli in ordine al fatto di aver irresponsabilmente demandato la funzione amministrativa al Poltronieri e le risultanze documentali evidenziate consentono di ritenere accertata l’assunzione da parte del Poltronieri del ruolo di amministratore di fatto della società fallita>>, p. 15-16.

Infatti <<non costituiscono circostanze di esonero dalla responsabilità civile dell’amministratore peril danno derivato alla società ed ai creditori dalla violazione degli obblighi imposti dalla carica, né l’essersi prestato ad assumere solo formalmente la carica di amministratore fungendo da prestanome del soggetto a cui è demandata di fatto la gestione né lo svolgimento del mandato nella completa ignoranza dell’operato del terzo incaricato dell’esecuzione delle attività proprie dell’amministratore>>, p. 16-17.

Impugnazione di delibera di società quotata: la sentenza nella lite (Vivendi-)Simon Fiduciaria c. Mediaset

E’ giunta a decisione la lite tra Simon Fiduciaria (SF) e Mediaset, a seguito della impugnazione da paate della prima della delibera adottata dalla seconda 27.06.2018 sulla non ammissione al voto della stessa SF

Si tratta di Trib. Milano 23.04.2021, n. 3396/2021,  RG 50173/2018, rel. Simonetti.

SF è la fiduciaria cui Vivendi (V.) trasferì la partecipazione in osseguio al provveduimenti del AGCom in quanto eccedente il lmite ex art. 43/11 TUSMAR

Il divieto di accesso era stato motivato così:

<< • che Vivendi SA avesse acquistato e detenuto la Partecipazione del 28,8% del c.s. di Mediaset in violazione del Contratto di partnership concluso l’8 aprile 2016 includente un implicito impegno di stand still e in violazione di una specifica norma di legge (quella di cui all’art. 43 Tusmar);
• che le suddette violazioni permanessero nonostante l’intestazione fiduciaria a Simon della Partecipazione Fiduciaria;
• che, relativamente alla Partecipazione Fiduciaria, fossero pur sempre opponibili ai sensi degli artt. 1993 c. c. e 83-septies TUF a Simon le eccezioni relative a Vivendi SA circa l’esercizio dei diritti amministrativi inerenti alla Partecipazione Vivendi, anche considerando che l’esercizio dei diritti amministrativi incorporati nelle azioni costituiva reiterazione dell’inadempimento contestato (cfr. doc. 17 citazione)>>.

Il T. afferma la legitimazione ad agire di SF e che la prova di resistenza ex art. 2377/5 cc non si applica al caso de quo : <<Può dunque affermarsi che è inammissibile la prova di resistenza con riferimento all’esclusione di un socio legittimato alla assemblea. La diversa opzione interpretativa di Mediaset spa legittimerebbe, come osservato anche dal Tribunale di Roma nella sentenza citata da Simon in comparsa conclusionale (Trib Roma 17 ottobre 2016 n. 19326), la sistematica esclusione senza sanzione alcuna della minoranza da ogni assemblea perché in ogni caso il voto della minoranza non supererebbe per definizione la prova di resistenza>> p. 7

Il divieto di accesso era stato basato sull’art. 83 septies TUF.

Disattendendo le ragioni di SF, il T. ritiene che le eccezioni addotte da Mediaset (M.) rientrino nella cit. disposizione TUF, di cui dà interptazione estesa: <<La nozione di eccezioni personali cui si riferisce l’art 83 septies tuf è dunque la medesima della disciplina del diritto comune dell’art. 1993 c.c., data l’identità di funzione tra le discipline, favorire una circolazione celere e sicura dei titoli; il riferimento nell’art 83 septies tuf alle eccezioni personali consente di comprendere nella categoria tutte quelle fondate sui rapporti personali che trovano la loro causa in una determinata relazione in cui si sono venuti a trovare l’emittente e il soggetto in favore del quale è avvenuta la registrazione ex art 83 quater e segg tuf e che possono trarre fondamento sia nel contratto c.d. causale (statutario) sottostante lo strumento finanziario, sia in rapporti extra e diretti tra emittente e titolare del conto, non statutari per quanto riguarda le azioni quali strumenti finanziari.
NOTA 3 : Infatti non può dubitarsi che sia sempre oggetto di possibile eccezione personale ex art 1993 comma 1 c.c. la compensazione fondata su un qualsiasi controcredito e non si dubita che l’art 1993 c.c. si applichi ad alcune eccezioni fondate sui rapporti personali extrastatutari tra azionista e società, anche; la compensazione non può esservi se non in caso di autonoma fonte delle reciproche e contrapposte obbligazioni pecuniarie>>

Ma anche qualora si volesse restringere il concetto di eccezioni personali, come prospettato dalla difesa di Simon, alle sole eccezioni che si riferiscono a quei rapporti che hanno avuto direttamente ad oggetto la pretesa che il possessore del titolo esige oppure a quei rapporti che costituiscono il fondamento o la giustificazione di quella pretesa, <<le due eccezioni sollevate da Mediaset ricadrebbero in questa nozione avendo ad oggetto in radice la contestazione sulla stessa titolarità delle azioni vuoi in relazione all’art. 43 co 11 Tusmar – la cui violazione era sanzionata da nullità dell’acquisto ex art 43 comma 4 Tusmar – vuoi alla dedotta violazione di un accordo contrattuale che, secondo la tesi di Mediaset, impegnava Vivendi a non acquistare azioni Mediaset in misura così rilevante come accaduto a dicembre 2016.>>

Infine, la difesa dell’attrice ha contestato la riconducibilità alla nozione di <eccezioni personali> delle eccezioni sollevate da Mediaset a Simon con riferimento alla alterità soggettiva tra Vivendi e Simon: <<Il Tribunale ritiene che alla società fiduciaria possono essere sollevate, per paralizzare l’esercizio dei diritti amministrativi, tutte quelle questioni inerenti i rapporti con il titolare sostanziale e che la società avrebbe potuto sollevare al titolare effettivo dell’azione se non vi fosse stato lo schermo del mandato fiduciario. Nel caso di specie l’intestazione fiduciaria a Simon del 19,19% del c.s. di Mediaset spa acquistato da Vivendi non si colloca nel tentativo di eludere norme di legge, bensì di ottemperare ad un ordine di AGCom, ma ciò non esclude che la titolarità sostanziale delle azioni è pacificamente di Vivendi, costituendo Simon lo strumento per l’esercizio del diritto di voto quanto al pacchetto del 19,19% di Vivendi in Mediaset, esercizio di voto che Vivendi ha ritenuto con sue scelte discrezionali di organizzare attraverso anche la conclusione di un contratto di consulenza con Ersel Sim, ma tutto ciò non osta alla chiara riconducibilità delle azioni alla titolarità sostanziale di Vivendi sicché le eccezioni sollevate da Mediaset a Simon, fondate su rapporti personali con Vivendi, sono eccezioni personali alla parte che vuole esercitare il diritto di voto, eccezioni rispetto alle quali assume rilievo la posizione propria di Simon quale fiduciaria di Vivendi titolare sostanziale delle azioni>>PP. 12-13

Nel merito, però , dà ragione a SG.

L’eccezione basata sulla violazine del art. 43/11 TUSMAr è infonddta, alla luce della nota Corte Giustizia 03.09.2020, C-719/18 e del conseguente TAR Lazio che ha disapplicato retroattivamente l’rat. 43 Tusmar.

Il T. precisa anche che <<la decisione della Corte di Giustizia sull’interpretazione dei Trattati sono vincolanti dunque non solo per il giudice del rinvio, il Tar del Lazio, nella controversia avente ad oggetto l’impugnazione della delibera AGCom 178/17 ma spiegano efficacia anche al di fuori del giudizio principale, data la loro portata generale ed astratta con efficacia vincolante erga omnes a garanzia dell’uniforme interpretazione del diritto dell’Unione Europea>>: efficacia su cui è lecito però dubitare.

Sula seconda eccezione (inadempimerno al contratto 08.04.2016), il T. premette che SF non può “chiamarsene fuori”. <<Il patto fiduciario non può comportare, quanto alla contestazione sulla legittimità stessa della titolarità delle azioni, alcuna frazione/separazione tra fiduciante e fiduciaria tale da consentire di ritenere che le questioni che attengono alla legittimità dell’acquisto delle azioni da parte del fiduciante non siano personali anche alla fiduciaria che esercita i diritti amministrativi inerenti quelle azioni su mandato della fiduciante>>.

Tuttavia nel merito l’eccezione di M. è infondata, visto che l’acquisto di azioni in eccesso è avvenuto quando il patto era già risolto per mancato averamento della condizone sospensiva entro il termine concordato.

Sulle spese di lite: <<Nonostante l’accoglimento della domanda ritiene il Tribunale che la novità delle questioni giuridiche trattate, con riferimento all’interpretazione dell’art 83 septies tuf rispetto alle quali le posizioni interpretative di Simon sono state disattese, la circostanza che la fondatezza della domanda è stata in parte ritenuta per effetto di fatti nuovi verificatisi dopo l’esercizio dell’azione, giustifichi ex art. 92 comma 2 cpc la compensazione integrale delle spese processuali della fase di merito e della fase cautelare.>>

Ancora sulla sorte delle poste attive “dimenticate” di una società cancellata dal registro imprese

la Cassazione torna ancora sul tema: Cass. n° 8521 del 25.03.2021, rel. Tatangelo.

La ex socia Maria Caprì si qualifica <<«già soda accomandataria e liquidatore della società Auto Elite Parnasso di Capri Maria & C. S.a.s.»>>.

Per la SC  ciò non basta a darle legittimazione (processuale) attiva e dichiara inammissibile il ricorso.

La SC riconosce la differenza di orientamento al proprio interno circa la sorte dei crediti azionati e di quelli incerti/illiquidi (se vadano ritenuti rinunciati implicitamente oppure no).

Ma dice che la questione esula nel caso specifico, dovendo il ricorso essere deciso sulla pregiudiziale di rito della lettitimazione preocessuaale.

Per la SC, la ex socia non aveva allegato nè provato la sua qualità di avente causa rispetto al credito azionato:  <<ha quanto meno l’onere, in primo luogo, di allegare espressamente di essere l’avente causa della società, con riguardo a quella specifica situazione giuridica, sia che ne risulti assegnatario in base al bilancio finale di liquidazione, sia che assuma verificatosi il fenomeno successorio al di fuori del procedimento di liquidazione (laddove cioè la pretesa non sia stata inserita nel bilancio finale di liquidazione ma tale omissione non sia da intendere quale tacita rinunzia alla stessa) e, in secondo luogo, di dimostrare di essere effettivamente subentrato in quella posizione giuridica (allegando ed eventualmente dimostrando i relativi elementi della fattispecie).>>, p. 4.

Cioè non basta allegare e provare la qualità di ex socio, servendo quella di successore (avviso importante per i naviganti!!).

Il soggetto, che assuma di essere subentrato nella titolarità di posizioni giuridiche attive della società estinta e cancellata dal registro delle imprese, <<dovrà quindi sempre dedurre di essere stato uno dei soci o l’unico socio al momento della cancellazione e le ragioni per cui assume di essere succeduto alla stessa nella specifica pretesa azionata; in particolare, per quanto riguarda eventuali sopravvivenze e/o sopravvenienze attive, dovrà anche allegare che si tratta di posizioni attive non liquidate né attribuite ai soci in base al bilancio finale di liquidazione, nonché i motivi per cui ciò sia avvenuto senza però che debba ritenersi integrata alcuna rinunzia alle stesse>>.

In particolare, l’ex socio che intenda proseguire un giudizio nel corso della cui pendenza la società si è estinta ed è stata cancellata dal registro delle imprese, dovrà:
<< 1) qualificarsi espressamente come successore nella titolarità della pretesa creditoria oggetto del giudizio penden-te (e non semplicemente affermare di essere stato socio o liquidatore della società estinta e cancellata);
2) allegare e dimostrare che, sulla base del bilancio finale di liquidazione della società, la pretesa creditoria in questione sia stata a lui attribuita, ovvero che, laddove essa non sia stata affatto oggetto di liquidazione né sia stata presa in considerazione nel bilancio finale di liquidazione, ciò non sia avvenuto in conseguenza di una tacita rinunzia alla stessa, ma per altre ragioni (che dovrà,
ove occorra, indicare in modo puntuale e documentare)>>.

Il ragionamento non sembra persuasivo.

  1. Pare formalistico laddove afferma la mancanza di allegazione. Bisognerebbe, a dir il vero, esaminare la cocnreta domanda giudiziale: si può tuttavia ipotizzare che un’interpretazione in buona fede della stessa (applicabile anche a tali atti e non solo ai cotnratti) avrebbe portato a ravvisarla, in quanto implicita.
  2. Inoltre, che si debba dare prova positiva della ragione per cui sia stata omessa dal bilancio finale di liquidazione, non è scritto da nessuna parte. La successione opera ex lege nè tale omissione è  motivo di perdita del diritto e nemeno del quid minus costituito dalla sua tutelabilità giudiziale (come avviene se ne segue la soggezione all’inammissibilità del ricorso: il diritto sostanziale, senza azionabilità processale, non vale nulla).
  3. Inoltre emerge che non è vero che la divergenza dentro la Sc sia irrilevante. Questo collegio infatti la trasferisce nella questione della legittimazione processuale: onerare, di provare positivamente la causa dell’omessa menzione in bilancio, significa aderire alla opinione, per cui -nel silenzio-. si intende rinunciato il credito.  Posizione, quest’ultima,  non condivisibile.

La prestazione dei sindaci di s.p.a. è unitaria oppure frazionata per i vari esercizi?

Interessante questione (anche per i profili teorici: l’individuazione della  prestazione dovuta) decisa da Cass. 6027 del 04.03.2021, est. Dolmetta.

Sindaci di spa chiedono l’ammissione al passivo dei loro compensi per gli anni 2014-2017. Il fallimento rigetta, affermando un inadempimento ai loro doveri per tutto il 2014 (presumibilmente perchè inadimplenti non est adimplendum, art. 1460 cc).

Su opposizione dei sindaci, il Tribunale di Vicenza limita il rigetto dell’insinuazione al 2014 (unico esercizio per il quale erano state dedotte le inadempienze), e lo esclude invece per il 2015-2017. Ciò perchè le prestazioni dei sindaci via via erogate, esercizio per esercizio, sono da ritenere reciprocamente autonome.

La tesi è confermata dalla SC, adita dal Fallimento.

la Sc imposta così la questione dedottale: << Segue alle osservazioni appena compiute che il problema posto dal motivo di ricorso viene nella sostanza a focalizzarsi  sul punto se le obbligazioni di controllo – che l’ordinamento vigente pone, ex art. 2403 cod. civ., in capo ai sindaci di società per l’intera durata del loro ufficio – siano passibili di una considerazione solo «globale e unitaria», quanto al riscontro del loro adempimento ovvero inadempimento. Detto altrimenti, è da chiedersi, con diretto e immediato riferimento alla fattispecie che è qui concretamente in esame, se il riscontro di un inadempimento materialmente caduto nell’esercizio 2014 porti con sé (oppure no) una violazione degli obblighi di controllo sindacale per sua propria natura destinata a protrarsi per l’intera durata dell’ufficio commesso ai sindaci, sì che questi ultimi non abbiano diritto a percepire nessun compenso per l’attività loro affidata>>, § 9.

Ed ecco la risposta:

<<Al quesito si deve fornire risposta di segno negativo: l’adempimento della prestazione di controllo, a cui sono tenuti i sindaci, appare in effetti suscettibile di essere considerato partitamente, tempo per tempo. Con la conseguenza che, per la parte ora in esame, il motivo presentato dal ricorrente si manifesta infondato. – Per questo proposito è prima da tutto da rilevare, su un piano generale, che le obbligazioni di carattere continuativo ben possono rimanere – pure nel riflesso della loro dimensione temporale – in parte adempiute e in parte inadempiute. Sul piano del diritto positivo decisiva risulta, al riguardo, la constatazione che la norma dell’art. 1458, comma 1, cod. civ. stabilisce – con riguardo, appunto, allo specifico caso della risoluzione dei «contratti a esecuzione continuativa» – che l’«effetto della risoluzione non si estende alla prestazioni già eseguite». Questo – è anche opportuno per chiarezza esplicitare – tanto nel caso in cui a un primo periodo di adempimento si contrapponga seccamente un successivo periodo di solo inadempimento, quanto in quello in cui le due situazioni vengano intermittenti ad alternarsi. Il che, naturalmente, non significa che non possa assumere rilievo pure la specifica collocazione temporale in cui, nel concreto, viene a porsi il periodo di inadempimento di un’obbligazione continuativa. Ciò, tuttavia, è destinato a poter accadere per un profilo diverso da quello del mero riscontro di un avvenuto inadempimento: come rappresentato, in particolare, dalla valutazione dell’efficacia causale del medesimo e, dunque, pure sulla misura del danno risarcibile (v. già sopra, nel n. 8)>>, §§ 10-11.

Responsabilità dell’amministratore di società eterodiretta

Cass. 5795 del 03.03.2021, rel. Mercolini , decide su un’azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare contro amminstratore di società eterodiretta per aver violato il (prevgigente) art. 22449cc (divieto di nuove operazioni in presenza di causa di scioglimento, corrispondente all’attuale art. 2486 cc)

La corte di appello aveva rigettato l’impugnazine dell’amministratore, ritenendo irrilevante -sul punto qui di interesse- <<l’appartenenza della società ad un gruppo imprenditoriale ed il carattere meramente formale e fittizio dell’am-ministrazione affidata al Casà, osservando che egli aveva colposamente omesso qualsiasi controllo sull’attività del gruppo, consentendo il compi-mento di iniziative di gestione in violazione dei doveri di diligenza e degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del capitale sociale. Ha escluso che la predetta condotta potesse trovare giustificazione in quelle at-tribuite a soggetti diversi, rilevando che egli era perfettamente in grado dì accorgersi delle gravi irregolarità che venivano commesse, ed aggiungendo che non risultava provato che egli si fosse diligentemente attivato e non avesse potuto esercitare la vigilanza a causa del comportamento ostativo di altri soggetti >>.

La SC sostanzialmente conferma.

Col quarto motivo di ricorso , infatti, la ricorrente aveva denunciato  <<l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impu-gnata per aver addebitato al Casà l’omissione di qualsiasi controllo in ordine all’attività del gruppo imprenditoriale, senza tener conto delle differenze esi-stenti tra la relativa disciplina e quella del gruppo di società. Premesso che nella specie proprio l’accertamento dell’appartenenza della società ad un gruppo imprenditoriale aveva consentito di estendere la responsabilità a soggetti diversi dalle società di capitali formalmente operanti, sostiene che in tal caso la società capogruppo costituisce lo strumento operativo delle persone fisiche che ne hanno il governo, le quali esercitano anche il control-lo sulle società del gruppo, mediante la gestione diretta delle stesse o l’ado-zione di prescrizioni imperative, con la conseguenza che la fattispecie risulta incompatibile con l’affermazione della responsabilità degli amministratori delle singole società, a meno che gli stessi non siano consapevoli della si-tuazione patrimoniale e finanziaria del gruppo e conniventi con le persone che lo gestiscono. Afferma che nella specie l’appartenenza della società al gruppo d’imprese era comprovato da un contratto di  finanziamento individuato nella procedura fallimentare e dall’ingerenza esercitata nella gestione da Anselmo e Biagio Manganaro, la quale aveva comportato la perdi-ta di qualsiasi autonomia da parte delle singole società, con il conseguente venir meno della responsabilità dei rispettivi amministratori>>, § 4.

In breve, par di capire (ma il motivo è un pò confuso), allegava una sorta di legittima deresponsabilizzazione dell’amminstratore dela società , quando fosse inserita in un gruippo.

La SC palesa l’errore di tale  tesi.

La circostanza che l’amministratore sia rimasto di fatto estraneo alla gestione della società, avendo consentito ad altri di ingerirsi nella conduzione dell’impresa sociale o essendosi limitato ad eseguire decisioni prese in altra sede, dice la SC, <<non è sufficiente ad escludere la sua responsabilità, riconducibile all’inosservanza dei doveri posti a suo carico dalla legge e dall’atto costitutivo, la cui assunzione, collegata all’accettazio-ne dell’incarico, gl’imponeva di vigilare sull’andamento della società e di at-tivarsi diligentemente per impedire il compimento di atti pregiudizievoli.

Tale responsabilità non è esclusa dall’appartenenza della società ad un gruppo d’imprese, la quale, in mancanza di un accordo fra le varie società, diretto a creare una impresa unica, con direzione unitaria e patrimoni tutti destinati al conseguimento di una finalità comune e ulteriore, non esclude la necessità di valutare il comportamento degli amministratori alla stregua dei doveri specificamente posti a loro carico, della cui inosservanza essi sono tenuti pur sempre a rispondere nei confronti della società di appartenenza (cfr. Cass., Sez. I, 8/05/1991, n. 5123).  In tema di società di capitali, que-sta Corte ha infatti affermato costantemente che il fenomeno del collega-mento societario, anche laddove implichi la gestione di attività economiche coordinate, l’utilizzazione di sedi comuni e la proprietà in capo ad una o più società di parte delle azioni delle altre, pur essendo stato preso in conside-razione dal legislatore, per fini specifici e determinati, quale causa di una configurazione unitaria del gruppo, non è idoneo a determinare l’esistenza di un nuovo soggetto di diritto o di un centro d’imputazione di rapporti di-verso dalle società collegate, le quali conservano la propria distinta persona-lità giuridica (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. I, 18/11/2010, n. 23344; Cass., Sez. lav., 9/ 01/2019, n. 267; 14/11/2005, n. 22927). La riprova è costitui-ta dalla disciplina dettata dalla legge 8 luglio 1999, n. 270, che in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi conferisce rilievo alla nozione di gruppo d’imprese, prevedendo la possibilità di estendere la  procedura alle imprese controllanti, controllate o soggette ad una direzione comune a quella dell’impresa sottoposta alla procedura madre: indipenden-temente dalla considerazione che le speciali regole dettate per l’amministra-zione straordinaria sono ritenute non estensibili al di fuori delle peculiari ipotesi da esse contemplate, trattandosi di norme eccezionali che non auto-rizzano una diversa configurazione del gruppo (cfr. Cass., Sez. I, 14/04/ 1992, n. 4550; 2/07/1990, n. 6769; 8/02/1989, n. 795), occorre infatti ri-levare che proprio in tema di responsabilità l’art. 90 conferma l’operatività dei principi generali, prevedendo, in caso di direzione unitaria delle imprese del gruppo, la responsabilità solidale degli amministratori delle società che hanno abusato del relativo potere, senza però escludere la responsabilità di quelli della società dichiarata insolvente. Nella medesima ottica, l’art. 2497 cod. civ. (introdotto dal d.lgs. n. 6 del 2003, e quindi inapplicabile ratione temporis alla fattispecie in esame) prevede, in caso di sottoposizione della società a direzione o coordinamento, che la società o l’ente che nell’esercizio di tale potere abbiano agito nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui o in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, ri-spondono direttamente nei confronti dei soci e dei creditori sociali, per il pregiudizio arrecato rispettivamente alla redditività ed al valore della parte-cipazione o alla integrità del patrimonio della società, ma senza escludere, in linea di principio, la responsabilità degli amministratori. Benvero, si è anche precisato che la formale esistenza di un gruppo, con conseguente assetto giuridico predisposto per una direzione unitaria, non è incompatibile con l’amministrazione di fatto di singole società del gruppo stesso, poiché mentre la prima corrisponde ad una situazione di di-ritto nella quale la controllante svolge l’attività di direzione della società controllata nel rispetto della relativa autonomia e delle regole che presiedo-no al suo funzionamento, la seconda dà invece luogo ad una situazione di fatto in cui i poteri di amministrazione sono esercitati direttamente da chi sia privo di una qualsivoglia investitura, ancorché irregolare o implicita: tale considerazione, peraltro, se per un verso può giustificare l’affermazione del-la responsabilità concorrente del soggetto cui siano attribuiti poteri di dire-zione, in quanto amministratore di una holding, ove abbia di fatto esercitato  anche poteri di amministratore delle società controllate, disattendendo l’au-tonomia delle stesse e riducendo i relativi amministratori a meri esecutori dei suoi ordini, non consente per altro verso di escludere la responsabilità di questi ultimi, ove siano venuti meno al diligente adempimento dei loro do-veri nei confronti della società di appartenenza (cfr. Cass., Sez. I, 13/02/ 2015, n. 2952).>>, § 4.1.

Nulla di nuovo .

Resta dubbio il significato dell’importante limitazione <<in mancanza di un accordo fra le varie società>: la SC deplorevolmente butta lì con noncuranza questo inciso, senza spiegarlo (intendeva forse riferirsi alla teoria e al principio dei vantaggi compensativi ex art. 2497 c.1 cc e art .2634 c. 3 cod. pen.)

“Subentro” degli eredi del socio defunto in società in nome collettivo (sull’art. 2284 cc)

In assenza di pattuizione ad hoc, nel caso di decesso di socio di SNC, opera l’art. 2284 cc: va liquidata la quota agli eredi salvo che i soci decidano di sciogliere la società o di continuarla con gli eredi e questi acconsentano.

Ma l’ultima ipotesi non costituisce una successione nella posizione contrattuale del deceduto: c’è infatti soluzione di continuità tra la posizione contrattuale/sociale di questultimo e quella degli eredi , che non rimane la medesima.

Questi ultimi pertanto non possono vedersi fiscalmente riconosciute le perdite come avrebbe potuto farlo il deceduto, che non è  loro dante causa.

Così Cass. , V, 21.01.2021 n. 1216, rel. Fasano.

Il punto infatti è stabilire <<se i detti eredi, una volta aderito alla proposta di continuazione (e conclusosi, così, il negozio inter vivos con i soci superstiti) possano in qualche maniera sostituirsi al loro originario dante causa, nella identica posizione che faceva capo al medesimo nel momento della sua morte e, quindi, in definitiva, subentrare nella stessa quota di partecipazione, senza che vi sia alcuna frattura temporale tra il momento della morte (ovverosia della apertura della successione) e quello (successivo) della manifestazione del consenso alla continuazione della società da parte degli stessi.

La risposta è negativa>>.

L’accettazione dell’eredità del de cuius, infatti, comporta <<solo il diritto alla liquidazione della proporzionale quota del capitale sociale spettante e non dà diritto a subentrare nella società al posto del defunto, in quanto il rapporto sociale non si trasmette mortis causa (Cass. n. 3671 del 2001). Sul presupposto che la quota di partecipazione sociale non sia suscettibile di un trasferimento per causa di morte, ne consegue che nel patrimonio ereditario del socio defunto non potrà, in nessun caso, esistere, con riferimento alla partecipazione di cui lo stesso in vita risultava titolare, una entità nei confronti della quale possa verificarsi quel meccanismo di sostituzione di un soggetto ad un altro, nella medesima posizione, e del quale, pertanto, si va a prendere il posto.

Ciò in ragione della intrasmissibilità iure successionis della partecipazione del socio a responsabilità illimitata, sicchè in caso di accordo di continuazione della società tra i soci superstiti e gli eredi del socio defunto non potrà darsi luogo ad una successione, in senso tecnico, dei suoi eredi nella partecipazione di cui lo stesso era titolare.

Il vincolo sociale che faceva capo al socio defunto dovrà ritenersi, anche in questo caso, immediatamente e definitivamente estinto al momento della sua morte, sicchè l’accettazione dell’eredità da parte degli eredi del socio defunto non potrà comportare per gli stessi l’acquisto della qualità di soci, cosa che sarà invece riconducibile esclusivamente al perfezionamento dell’accordo di continuazione.>>

Secondo l’indirizzo della dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, <<apertasi la successione del socio e definito il suo oggetto per quanto riguarda il rapporto societario, è solo il valore economico della sua partecipazione che viene trasmesso agli eredi mediante l’accettazione dell’eredità.

Nel patrimonio ereditario entra a far parte esclusivamente il valore della partecipazione sociale del de cuius, che poi attraverso l’attività di liquidazione si concretizzerà in un eventuale credito. La fattispecie così definita impedisce agli eredi del socio di assumere, in ogni caso, la qualità di soci della società di cui faceva parte il loro dante causa, e di subentrare, comunque, nella sua quota di partecipazione. Nè a seguito dell’accordo di continuazione è consentito riaprire la vicenda successoria, ormai definita in ogni suo elemento, facendo così rivivere ex post un rapporto sociale che si deve ritenere immediatamente e definitivamente estinto con la morte del socio. In caso di accordo di continuazione, come nella specie è avvenuto, si verifica solo una modificazione soggettiva del contratto sociale che non presenta nulla di diverso da ogni altra ipotesi di adesione di nuove parti al contratto di società, la cui efficacia decorre dal momento in cui l’accordo viene stipulato (nella specie il (OMISSIS)) sicchè la morte del socio anche in ipotesi di continuazione, non determina il trapasso mortis causa della partecipazione agli eredi.

Secondo il principio affermato da questa Corte, che si condivide: “l’erede del socio defunto diventa socio non iure successionis, ma ad opera di un accordo che è atto inter vivos” (Cass. n. 6849 del 1986). Nè assume rilievo nella fattispecie il richiamo all’istituto dell’eredità giacente, tenuto conto che gli eredi hanno provveduto ad accettare l’eredità, non configurandosi alcuna situazione di incertezza al momento della apertura della successione. Sicchè è inconferente anche il richiamo all’art. 187 TUIR, la cui previsione serve per procedere alla liquidazione provvisoria e definitiva delle imposte dovute in riferimento ai periodi di imposta di vigenza dell’eredità giacente>>

La soluzione è condivisibile, mancando spunti normativi del tipo di quello costituito dall’art. 757 cc per la divisione (la quale pure non cancella la situazione mediotempore creatasi, sicchè  è costitutiva: Cass. sez. un. 25021/2019).

Sulla responsabilità dei sindaci di cooperativa s.r.l.

La Cassazione interviene sul tema con sentenza condivisibile (Cass. sez. I – 11/12/2020, n. 28357, rel. Terrusi), anche se priva di spunti di reale interesse

L’addebito consisteva nel non aver curato che la somma, pur incassata dal liquidatore nel conto corr. sociale, andasse poi effettivamente “a buon fine” e cioè restasse a disposizione per l’attività sociale. Infatti il fallimento successivo non aveva più reperita  detta somma (oltre 80 mln euro),  pur transitata (versata) sul conto bancario sociale.

La corte eroga i soliti e condivisibili insegnamenti sulla responsabilità dei sindaci:

  • <<I doveri di controllo imposti ai sindaci sono certamente contraddistinti da una particolare ampiezza, poichè si estendono a tutta l’attività sociale, in funzione della tutela e dell’interesse dei soci e di quello, concorrente, dei creditori sociali>>, sub IV
  • Questo accade, in particolare, <<quando i sindaci non abbiano rilevato una macroscopica violazione o non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità (ex aliis Cass. n. 13517-14, Cass. n. 23233-13), poichè in tal caso il mantenimento di un comportamento inerte implica che non si sia vigilato adeguatamente sulla condotta degli amministratori (o dei liquidatori) pur nella esigibilità di un diligente sforzo per verificare la situazione anomala e porvi rimedio, col fine di prevenire eventuali danni (cfr. di recente Cass. n. 18770-19)>>, ivi
  • La condanna richiede la prova <<di tutti gli elementi costitutivi del giudizio di responsabilità. E quindi: (i) dell’inerzia del sindaco rispetto ai propri doveri di controllo; (ii) dell’evento da associare alla conseguenza pregiudizievole derivante dalla condotta dell’amministratore (o, come nella specie, del liquidatore); (iii) del nesso causale, da considerare esistente ove il regolare svolgimento dell’attività di controllo del sindaco avrebbe potuto impedire o limitare il danno>>, sub V.
  • Il nesso di causa , in particolare, <<va provato da chi agisce in responsabilità nello specifico senso che l’omessa vigilanza è causa del danno se, in base a un ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione del controllo lo avrebbe ragionevolmente evitato (o limitato). Il sindaco non risponde, cioè, in modo automatico per ogni fatto dannoso che si sia determinato pendente societate, quasi avesse rispetto a questo una posizione generale di garanzia. Egli risponde ove sia possibile dire che, se si fosse attivato utilmente (come suo dovere) in base ai poteri di vigilanza che l’ordinamento gli conferisce e alla diligenza che l’ordinamento pretende, il danno sarebbe stato evitato>>, ivi

Nel caso , il sindaco , essendosi dimesso l’11 luglio mentre la somma era stata messa in banca a fine maggio e a fine giugno precedenti, non aveva avuto il tempoi di raccogliere camapanelli di allarme sul fatto che dalla banca poi non sia stata concretamente messa a disposizione dell’impresa sociale (ma di terzi sine titulo).

O meglio, non è stata data prova di tali negligenze. Infatti <<il difetto di consequenzialità è infatti evidente, in quanto è pacifico che la T. aveva cessato dalla carica dopo pochi giorni dalla riscossione delle somme (l’11-7-1995) e niente è indicato, in motivazione, onde potersi sostenere che, medio tempore, le somme, regolarmente versate in conto, fossero state distratte, o alternativamente che vi fossero stati pagamenti cui associare ipotetiche anomalie d’impiego suscettibili di essere rilevate dal sindaco ancora in carica.   Tutto questo mina dalle fondamenta il ragionamento della corte del merito, poichè, ai sensi dell’art. 2407, non consente di giustificare – se non in termini assolutamente apodittici – il concorso nell’illecito del liquidatore>>, sub VI.

Si notino i tempi processuali: – fatti del 1995; – notifica della citazione di primo grado del maggio 2003; – sentenza di appello del 2014; – sentenza di Cassazione del dicembre 2020.

Utili (anche se non sorprendenti) chiarimenti per i sindaci per evitare il concorso -omissivo- in bancarotta con gli amministratori

Cass. pen, V, n. 156 del 05.01.2021 (ud. 24.11.2020), rel. Scordamaglia,  fornisce qualche chiarimento ai sindaci per evitare il concorso omissivo in bancarotta con gli amministratori.

Questa la fattispoecie concreta: <<limitatamente alla condotta di distrazione avente ad oggetto il conferimento, in data 4 dicembre 2009, di tre complessi immobiliari di proprietà della fallita (quelli ubicati in (OMISSIS)) alla GPI Srl, a fronte del riconoscimento in favore della cedente di una partecipazione nel capitale sociale della cessionaria pari al 68,25 %, per un valore di circa 13 milioni di Euro a fronte di un valore dei beni ceduti non inferiore a 20 milioni di Euro, partecipazione che, in data 21 gennaio 2010, veniva ceduta alla MILLENNIUM Capital Partecipation SA, società capogruppo della “holding” G., a fronte della compensazione con crediti inesistenti vantati nei confronti della “(OMISSIS)”. Operazione complessiva, questa, che aveva luogo allorchè i tre imputati rivestivano simultaneamente il ruolo di revisori contabili della “(OMISSIS)” ed erano anche componenti del collegio sindacale di altre società del gruppo ” G.”, segnatamente la BMC e la MILLENNIUM Italia Spa>>, § 1.

Appello MIlano aveva osservato, rigettando l’impugnazione dei sindaci: <<gli imputati, per via di tale risalente osservatorio privilegiato, non potevano non accorgersi del programma illecito, ordito da G.G. e da G.I.F., domini del gruppo, per depauperare il patrimonio della “(OMISSIS)”, essendo stata l’operazione negoziale, che aveva portato a tale risultato, contrassegnata da indici di sospetto di tale conclamata evidenza da non lasciare loro alcuna discrezionalità nell’adempimento dell’obbligo di predisporre una pronta ed efficace reazione. Il conferimento (in data 4 dicembre 2009) del patrimonio immobiliare della “(OMISSIS)” in favore della GPI aveva avuto luogo, infatti, previa svalutazione del valore dello stesso nell’ordine del 31 % in assenza di giustificazioni e nonostante che il collegio sindacale avesse certificato (in data 1 dicembre 2009) una perdita di esercizio pari a circa 2 milioni di Euro; inoltre, nel verbale di assemblea del 29 novembre 2009, nel quale l’operazione era stata messa a punto, non solo non si faceva cenno alla finalità di quotazione in borsa della GPI, indicata come causa concreta del negozio, ma era anche espressamente previsto che entro poco tempo (40 giorni) il pacchetto azionario della GPI, detenuto dalla “(OMISSIS)”, sarebbe stato ceduto alla capogruppo lussemburghese MILLENNIUM Capital Partecipation SA, di modo che “(OMISSIS)” Srl. non avrebbe potuto neppure conseguire il vantaggio di “un’accresciuta capacità di reddito dell’impresa nei confronti del sistema bancario”, indicato come scopo sottostante dell’operazione.>>, § 1.1.

La difesa dei sindaci, per cui non avrebbero potuto percepure nulla circa le frodi in atto, viene così respinta: <<ai sensi dell’art. 2403 c.c. e ss., i poteri-doveri dei sindaci delle società di capitali non si esauriscono nella mera verifica contabile della documentazione messa a disposizione dagli amministratori, ma, pur non investendo in forma diretta le scelte imprenditoriali, si estendono al contenuto della gestione sociale (Sez. 5, n. 12186 del 18/02/2019, Tritto, non massimata; Sez. 5, n. 18985 del 14/01/2016, A T, Rv. 267009; Sez. 5, n. 14045 del 22/03/2016, De Cuppis, Rv. 266646; Sez. 5, n. 17393 del 13/12/2006 – dep. 08/05/2007, Martone, Rv. 236630), comprendendo, in effetti, il riscontro tra la realtà effettiva e la sua rappresentazione contabile (Sez. 5, n. 14045 del 22/03/2016, De Cuppis, Rv. 266646; Sez. 5, n. 8327 del 22/04/1998, Bagnasco, Rv. 211368). Ciò, ulteriormente, comporta che la loro responsabilità penale è stata correttamente ravvisata a titolo di concorso omissivo secondo il disposto di cui all’art. 40 c.p., comma 2, cioè sotto il profilo della violazione del dovere giuridico di controllo che, inerisce alla loro funzione, sub specie dell’equivalenza giuridica, sul piano della causalità, tra il non impedire un evento che si ha l’obbligo di impedire ed il cagionarlo. Controllo che, invero, non era circoscritto all’operato degli amministratori, ma si doveva estendere a tutta l’attività sociale, con funzione di tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello, concorrente, dei creditori sociali, e non poteva non ricomprendere anche l’obbligo di segnalare tempestivamente tutte le situazioni suscettibili di mettere a repentaglio la prosecuzione dell’attività di impresa e l’assicurazione della garanzia dei creditori (Sez. 1 civ., n. 2772 del 24/03/1999, Rv. 524490)>>, § 1.3 (si legge 13 nella banca dati ma dovrebbe essere 1.3).

Circa le blande iniziative (mere richieste di chiarimenti agli amministratori) assunte a fronte di campaneli di allarme gravi, la SC osserva: <<ai propri compiti il Collegio sindacale avrebbe dovuto adempiere non solo con il potere di denuncia al Tribunale di cui all’art. 2409 c.c., u.c., (previsto in ipotesi di fondato sospetto di gravi irregolarità compiute dagli amministratori nella gestione della società suscettibili di arrecare danno alla società stessa), ma anche, e prim’ancora, con l’attivazione degli altri poteri d’intervento all’uopo previsti dalla legge: segnatamente, con il compimento di “atti di ispezione e controllo”, oltre che con la richiesta di informazioni agli amministratori, (art. 2403-bis c.c.) e con la convocazione dell’assemblea societaria (art. 2406 c.c.) (Sez. 5, n. 44107 del 11/05/2018, M, Rv. 274014).>>, § 2.

Infatti ricordano i giudici <<per la configurabilità della responsabilità dei sindaci ex art. 2407 c.c., comma 2, “per i fatti o le omissioni degli amministratori, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica”, non è richiesta l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tali doveri, ma è sufficiente che essi non abbiano rilevato una macroscopica violazione o, comunque, non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate o denunciando i fatti al Tribunale per consentirgli di provvedere ai sensi dell’art. 2409 c.c. (Sez. 1 civ., n. 16314 del 03/07/2017, Rv. 644767; Sez. 1 civ., n. 13517 del 13/06/2014, Rv. 631305), in quanto può ragionevolmente presumersi che il ricorso a siffatti rimedi, o anche solo la minaccia di farlo per l’ipotesi di mancato ravvedimento operoso degli amministratori, avrebbe potuto essere idoneo ad evitare (o, quanto meno, a ridurre) le conseguenze dannose della condotta gestoria.>>, § 2.

Si può però osservare che l’art. 2409 non era applicabile alle SRL all’epoca dei fatti, essendolo solo ora dopo il d. lgs. 14 del 2019, art. 379/2 (quindi tornandosi al regime ante 2003)

TUSMAR e SIC: rilevanti novità sulla lite Vivendi / Mediaset

Il TAR Lazio ha annullato la delibera AGCOM del 2017 che aveva ritenuto che Vivendi avesse superato la doppia soglia posta dal testo unico radiotelevisione 2005 n. 177 (TUSMAR), art. 43 c. 11, costringendo quindi Vivendi a trasferire/parcheggiare le azioni in Mediaset presso la fiduciaria SImon (§ 8).

Si tratta di TAR Lazio sez. III, 23.12.2020, n. 5880/2017 Reg. Ric.-13958/2020 reg. prov. coll., Vivendi c. AGCM nei confronti di Mediaset.

Sul punto però è decisiva la chiara risposta al quesito pregiudiziale data dalla Corte di Giustizia 03-.09.23030, C‑719/18: <<l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro che ha l’effetto di impedire ad una società registrata in un altro Stato membro, i cui ricavi realizzati nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai fini di tale normativa, siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore, di conseguire nel SIC ricavi superiori al 10% di quelli del sistema medesimo>> (l’art. 49 TFUE pone la libertà di stabilimento; non rileva invece la libertà di circolazione dei capitali , pur dedotta, § 8.3).

Per cui, stante la incompatibilità predetta, esperita senza successo il tentativo di interpretazione conforme alla disciplina europea, non resta che disapplicare (§ 6 e § 7.8 DIRITTO): <<Pertanto, occorre concludere che la delibera gravata poggia le proprie basi su di una norma interna di cui la sentenza della Corte di Giustizia del 3 settembre 2020 impone la disapplicazione, con conseguente applicazione dell’art. 49 del TFUE alla fattispecie>> (§ 8.5).

In breve le restrizioni posta dalla norma suv iudice non sarebbero ragionevoli e proporzionate : <L’art. 43(11) TUSMAR, come interpretato dalla Delibera, impone restrizioni alla libertà di circolazione dei capitali, prestazione dei servizi e stabilimento incompatibili con il diritto UE in quanto (i) inidonee a raggiungere gli obiettivi perseguiti e (ii) non limitate a quanto necessario a tal fine. 2> (così il ricorso Vivendi secondo quanto riporta il TAR al § 8.1).

Il TAR ha dunque annullato la delibera AGCOM impgunata; per la novità della questione, che ha richiesto la pronuncia pregiudiziale della Corte europea,  ha però compensato le spese di lite (§ 11).