Le informazioni non finanziarie, obbligatorie per le grandi imprese, non modificano la ricostruzione dell’interesse sociale

La Direttiva UE 2014/95 del 22.10.2014 aveva introdotto l’obbligo per le imprese di maggiori dimensioni (“enti di interesse pubblico” e con almeno 500 dipendenti) di fornire annualmente alcune informazioni di carattere non finanziario, essenzialmente relative agli aspetti c.d  ESG (Environmental, Social, Governance).

Tale dir. modifica la Dir. 2013/34/UE del 26 giugno 2013 , relativa ai bilanci d’esercizio, ai bilanci consolidati e alle relative relazioni di talune tipologie di imprese.

la Direttiva è stata recepita con il decreto legislativo 254 del 2016.

In particolare secondo l’art. 3 del d. lgs. 254, <<1. La dichiarazione individuale di carattere non finanziario, nella misura necessaria ad assicurare la comprensione dell’attivita’ di impresa, del suo andamento, dei suoi risultati e dell’impatto dalla stessa prodotta, copre i temi ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione attiva e passiva, che sono rilevanti tenuto conto delle attivita’ e delle caratteristiche dell’impresa, descrivendo almeno: a) il modello aziendale di gestione ed organizzazione delle attivita’ dell’impresa, ivi inclusi i modelli di organizzazione e di gestione eventualmente adottati ai sensi  dll’articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, anche con riferimento alla gestione dei suddetti temi;b) le politiche praticate dall’impresa, comprese quelle di dovuta diligenza, i risultati conseguiti tramite di esse ed i relativi indicatori fondamentali di prestazione di carattere non finanziario;c) i principali rischi « ivi incluse le modalità di gestione degli stessi, generati o subiti, connessi ai suddetti temi e che derivano dalle attivita’ dell’impresa, dai suoi prodotti, servizi o rapporti commerciali, incluse, ove rilevanti, le catene di fornitura e subappalto(1); 2. In merito agli ambiti di cui al comma 1, la dichiarazione di carattere non finanziario contiene almeno informazioni riguardanti: a) l’utilizzo di risorse energetiche, distinguendo fra quelle prodotte da fonti rinnovabili e non rinnovabili, e l’impiego di risorse idriche;b) le emissioni di gas ad effetto serra e le emissioni inquinanti in atmosfera;c) l’ impatto, ove possibile sulla base di ipotesi o scenari realistici anche a medio termine, sull’ambiente nonche’ sulla salute e la sicurezza, associato ai fattori di rischio di cui al comma 1, lettera c), o ad altri rilevanti fattori di rischio ambientale e sanitario;d) aspetti sociali e attinenti alla gestione del personale, incluse le azioni poste in essere per garantire la parita’ di genere, le misure volte ad attuare le convenzioni di organizzazioni internazionali e sovranazionali in materia, e le modalita’ con cui e’ realizzato il dialogo con le parti sociali;e) rispetto dei diritti umani, le misure adottate per prevenirne le violazioni, nonche’ le azioni poste in essere per impedire atteggiamenti ed azioni comunque discriminatori;f) lotta contro la corruzione sia attiva sia passiva, con indicazione degli strumenti a tal fine adottati.>>

 Alcuni hanno sostenuto che questo modificasse il concetto di <<interesse sociale>> , al centro del diritto societario: lo scopo delle attività in comune non sarebbe più solamente quello di soddisfare i soci soddisfazione (che può prendere pieghe diverse come ad esempio shareholder value e/o livello dei profitti). Si è ipotizzato infatti che potessero rientrare tra gli interessi da perseguire da parte degli amministratori (in quanto pattuiti dai soci) anche interesse riconducibili a soggetti diversi.

Così però non è.

La Direttiva e la normativa di recepimento si limitano a porre dei limiti esterni all’autonomia privato-imprenditoriale dei soci (non rileva qui appurare se coincide ha sempre con questa iniziativa del management che potrebbe anche divergere). Non emergono soggetti diversi titolari di posizioni giuridiche, che gli amministratori debbano rispettare se non addirittura promuovere

Anzi,  come un recente studio evidenzia (Maugeri M., Informazione non finanziaria e interesse sociale, Rivista delle società, 2019, 5-6, 992 ss), la normativa vuole proprio tutelare l’interesse dell’investitore “tipologicamente istituzionale”.  Dato infatti che gli interessi socio-ambientali sono percepiti come sempre più decisivi per l’andamento dell’attività, la disclosure di informazioni in tal senso è finalizzata a rendere più informata e quindi efficace la scelta di investimento degli investitori (ivi, § 5, spt. 1024-1025).

Le relative scelte, che spetteranno agli amministratori, saranno governate dalla nota business judgment rule e cioè saranno censurabili solo se irragionevoli (in un’ottiva ex ante, naturalmente, per no nessere viziate dal senno di poi, hindsight bias) o se manchevoli di base informativa adeguata.

Incoraggiamento dell’impegno a lungo termine degli azionisti (attuzione dir. 2017/828)

l’art. 7 della l. 117/2019 aveva posto i seguenti principoi e criteri direttivi specificiper l’attuazione della dir. 2017/828, che modifica la direttiva 2007/36/CE per quanto riguarda l’incoraggiamento dell’impegno a lungo termine degli azionisti :

<<a) apportare al codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, le integrazioni alla disciplina del sistema di Governo societario per i profili attinenti alla remunerazione, ai requisiti e ai criteri di idoneita’ degli esponenti aziendali, dei soggetti che svolgono funzioni fondamentali e dei partecipanti al capitale, al fine di assicurarne la conformita’ alle disposizioni della direttiva 2009/138/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009, in materia di accesso ed esercizio delle attivita’ di assicurazione e di riassicurazione, alle disposizioni direttamente applicabili dell’Unione europea, nonche’ alle raccomandazioni, alle linee guida e alle altre disposizioni emanate dalle autorita’ di vigilanza europee in materia;

b) prevedere sanzioni amministrative efficaci, proporzionate e dissuasive ai sensi delle disposizioni di cui all’articolo 1, numero 5), della direttiva (UE) 2017/828, nel rispetto dei criteri e delle procedure previsti dalle disposizioni nazionali vigenti che disciplinano l’esercizio del potere sanzionatorio da parte delle autorita’ nazionali competenti a irrogarle. Le sanzioni amministrative pecuniarie non devono essere inferiori nel minimo a 2.500 euro e non devono essere superiori nel massimo a 10 milioni di euro.>>

Ora è data notizia dello schema di decreto legislativo di recepimento nel sito della Camera, atto del Governo 155 (ove il testo e la Relazione Illustrativa con tabella di concordanza)

Legittimazione del Fallimento alle azioni di responsabilità (art. 146 l. fall.): tra gli “organi di controllo” rientrano pure i revisori?

La risposta data da Trib. Bologna-sez. imprese n. 2651/2019 del 12.12.2019, RG 7348/2016, è positiva: il Fallimento è legittimato ad agire in responsabilità anche verso i revisori.

Ecco il ragionamento sul punto condotto dal Collegio:

<<L’art. 146 l.f. è norma di natura processuale e meramente ricognitiva della legittimazione  del  Curatore  ad  esercitare  le  azioni  di  responsabilità  civilistiche, presentando  una  formulazione  ampia  rispetto  ai  soggetti  passivi  destinatari  della predetta azione. Inoltre trattasi di disposizione a carattere “normativo”, in quanto necessita  di  essere  letta  non  atomisticamente,  ma  alla  luce  delle  disposizioni codicistiche  di  natura  sostanziale.  Alla  luce  della  giurisprudenza  sul  punto  e  in sintonia  con  la ratio della  disposizione  in  esame,  l’ampia  nozione  di  organi  di controllo non può essere circoscritta solamente ai componenti dell’organo sindacale ma, tenuto conto della attività espletata, può ragionevolmente essere estesa anche ai revisori,  in  quanto  soggetti  deputati  al  controllo  contabile  della  società.  Tale interpretazione “estensiva” trova ulteriore conferma nel regime di responsabilità a cui  sono  assoggettati  i  revisori  ai  sensi  dell’art.  2409 sexies,  applicabile ratione temporis. Tale disposizione prevede che “i soggetti incaricati del controllo contabile sono  sottoposti  alle  disposizioni  dell’art.  2407  e  sono  responsabili  nei  confronti della  società, dei soci e dei terzi per i danni derivanti dall’inadempimento ai loro doveri.  Nel  caso  di  società  di  revisione  i  soggetti  che  hanno  effettuato  il  controllo contabile  sono  responsabili  in  solido  con  la  società  medesima”. E’  proprio  il richiamo  integrale  all’art.  2407  c.c.  e,  significativamente,  al  suo  terzo  comma, nonché  l’espresso  riferimento  ai  “terzi”,  da  leggersi  quali  “creditori  sociali”,  a radicare   la   legittimazione   della   Curatela   ad   agire   anche   a   tutela   dei   diritti patrimoniali  dei  creditori.  Pertanto, alla luce dell’art. 146 l.f. –norma  che,  giova ripeterlo,  riassume  in  sé  e  legittima  la  Curatela  ad  agire  tanto  a  tutela  della  società quanto della  massa creditoria -e sulla base della giurisprudenza  maturata sul tema, si  può  ragionevolmente  affermare  che  al  Curatore  spettano  tutte  le  azioni  di responsabilità esperibili nei confronti dei soggetti che a vario titolo abbiano operato all’interno  della  società.  Ne  deriva  che  l’eccezione  sollevata  dalle  convenute  è destituita di fondamento e, pertanto, va rigettata>>.

La tesi pare difficilmente contestabile

Responsabilità del socio per sottocapitalizzazione della società?

Una recente sentenza del tribunale di Milano affronta la questione della responsabilità dei soci per sottocapitalizzazione della società stessa ovverosia per inadeguatezza delle risorse patrimoniali destinate all’attività da essa condotta. Naturalmente si tratta di responsabilità nei confronti dei creditori.

La sentenza è Trib. Milano  3 dicembre 2019, n° 11105/2019, RG 57848/2015: si trattava di una srl semplificata con capitale sociale di euro 2000 interamente versati

Il giudice ha escluso la responsabilità  del socio, dicendo che dal 2012 è possibile srl anche con capitale inferiore € 10.000,00.

Qui però il ragionamento è fallace poiché il problema non è quello della capitalizzazione inferiore al minimo di legge, bensì inferiore a quanto necessario per un sostenibilità prospettica delle attività. Il che significa che si può porre anche quando il capitale è superiore al minimo esplicitato dalla legge.

Più centrata è semmai la considerazione per cio la tesi prospettata dall’attore porterebbe alla decadenza del beneficio della responsabilità limitata, <<almeno fino  al momento in cui la stessa non si sia dotata di “adeguate risorse patrimoniali”, cosicché i soci finirebbero per rispondere per le obbligazioni assunte dalla società fino al momento in cui non risultino accantonate risorse patrimoniali pari ad almeno 10.000 euro>> (p. 5). Solamente un po’ più centrata, però, dato che la tesi del giudice non viene correttamente recepita. Infatti l’insufficiente patrimonializzazione non opera solo al di sotto dei €10000, ma -come accennato- anche al di sopra: cioè opera sempre.

Secondo il giudice dunque la tesi della patrimonializzazione costituisce una <<conclusione evidentemente contraria all’attuale  assetto normativo ed ai principi generali che regolano tutti i tipi di società a responsabilità limitata ed in particolare  il principio cardine e imprescindibile in base al quale “per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società (a responsabilità  limitata) con il suo patrimonio”, anche nel caso in cui la partecipazione appartenga ad una sola persona, sempre che siano stati effettuati i conferimenti e sia stata attuata la dovuta pubblicità (art. 2462, secondo comma,c.c.)>>

La dottrina, prendendo soprattutto dall’ordinamento belga e tedesco, aveva già sollevato da tempo il problema: sono noti gli scritti di Portale ad es. ampiamente in Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, Tratt. delle s.p.a. a cura di Colombo Portale, 1**, Utet, 2004, spt. § 7, 112 segg. Questo a. ,  pur sostenendo questa teoria, non manca di ricordare l’obiezione secondo cui in tal modo si stravolge il principio della responsabilità limitata (p. 116). Egli si limita però a replicare che è poco giustificata sul piano effettuale, dal momento che nella prassi, se la società è sottocapitalizzata, i soci saranno costretti ad offrire garanzie personali ai finanziatori.

La replica dell’autore non raggiunge del tutto l’obiettivo, però, dal momento che un conto è l’estesa e generalizzata responsabilità da fatto illecito di tutti i soci (a meno di collegarla solo i soci in posizione dominante), mentre altro conto è limitarla solo a quelli che (pur se non sponteneamente!) offrono garanzia.

Il vero punctum dolens sta nel fatto che solo i creditori più forti riusciranno a farsi dare garanzie dai soci: ed è allora da chiedersi se questa discriminazione a danno dei creditori meno forti sia ragionevole oppure no : nel qual caso potrebbe riprendere vigore la tesi di Portale.

Il quale segnale che il fondamento a suo parere preferibile di tale responsabilità è la qualificazione come fatto illecito

 La sentenza Si segnala perché le decisioni sul punto sono pochissime.

La domanda decisa dal Tribunale era di responsabilità del socio unico. Ma può porsi pure quella degli amministratori, la quale allora è diversa dalla responsabilità ex articolo 2394 cc. Questo riguarda solamente la violazione dei doveri di conservazione dell’integrità del patrimonio e cioè di conservazione di un patrimonio che già esiste: mentre la tesi del qua riguarda l’insufficienza del patrimonio esistente. Si tratterebbe cioè di responsabilità non da mancata conservazione bensì’ da mancato incremento.

La ragione sociale della s.n.c. deve contenere il nome del socio, inteso come prenome e cognome indicati per esteso ex art. 6 / 2 c.c.

Secondo il Tribunale di Udine, quale giudice del Registro Imprese, la ragione sociale di una s.n.c. deve contenere il nome del socio inteso come prenome e cognome, riportati per esteso.

In applicazione di ciò, ha ordinato la cancellazione ex art. 2191 c.c. dell’iscrizione di una delibera di modifica del contratto sociale che, se ben capisco (è stata anonimizzata), aveva sostituito il prenome per esteso con una sua abbreviazione.

Effettivamente l’art. 2292 cc menziona solo il “nome” , a differenza dell’art. 2563 c.2 c.c., il quale, a proposito della ditta, ritiene sufficiente  anche la sigla.

Si tratta del decreto 3 giugno 2019, RG 1337/2019.

Ancora sulla lite Vivendi-Mediaset: un’applicazione dell’art. 83 septies TUF

La lite tra Vivendi (in seguito : V.) e Mediaset (in seguito: M.) si arricchisce di un cautelare interessante, perchè applica l’art. 83 septies TUF: si tratta dell’ordinanza 31.08.2019 giudice Simonetti Amina, RG 33508, 2019-1, Trib. Milano sezione feriale civile.

Come ivi si legge , il giudizio di merito consiste nell’impugnazione da parte di Vivendi ex art. 2378 della delibera assembleare Mediaset 18 aprile 2019 con cui le è stato negato il diritto di voto (ma concesso quello di partecipazione).

In sede cautelare V. chiede che il giudice ordini a M. e a chi presiderà l’assemblea dei soci 4 settembre 2019 di ammetterla ad intervenirvi (per una certa percentuale di capitale e diritti di voto) e di consentirle l’esercizio dei pertinenti diritti amministrativi.

Avendo M. dichiarato che l’avrebbe esclusa pure all’assemblea del  4 settembre, V. ha proposto la domanda cautelare.

L’art. 83 septies TUF così recita:

<<Art. 83-septies (Eccezioni opponibili) 1. All’esercizio dei diritti inerenti agli strumenti finanziari da parte del soggetto in favore del quale e’ avvenuta la registrazione l’emittente puo’ opporre soltanto le eccezioni personali al soggetto stesso e quelle comuni a tutti gli altri titolari degli stessi diritti>>.

M. l’ha invocato affermando che V. <<ha acquistato (gli acquisti si sono concentrati negli ultimi 15 giorni del mese di dicembre 2016) e detiene la partecipazione in Mediaset in violazione:
a) delle obbligazioni assunte da Vivendi a favore di Mediaset con il contratto stipulato l’8 aprile 2016 avente ad oggetto la cessione di Mediaset Premium spa,
b) delle disposizioni di cui all’art 43 comma 11 Tusmar, come accertato da Agcom con delibera 178/17/Cons.(doc. 17 citazione).>> (p. 2).

Circa b) , il Tribunale ha ammesso V. al voto e ai diritti conseguenti per la parte di diritti che rispetta i limiti alla concentrazione ex art. 43 c. 11 Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici d. lgs. 177/2005 (la cui violazione è sanzionata da nullità negoziale: c. 4, ivi). La parte residua (eccedente il 10% in M.) era stata trasferita da V. ad una fiduciaria (Simon Fiduciaria spa)

Circa a), il caso offre un’interessante applicazione del concetto di “eccezioni personali” ex art. 83 septies cit. Nel caso specifico l’eccezione consisterebbe nella violazione di un patto di cristallizzazione della situazione societaria (c.d. standstill): cioè un patto di non modifica di essa assunto da V. verso M. nell’ambito delle trattative per l’acquisto di Mediaset Premium spa.

Questo è il punto che qui intendo ricordare. In altre parole, l’eccezione sollevata da M.  consiste nella violazione da parte di V. di un patto di non acquisto di azioni di M., stipulato con quest’ultima.

La dottrina ha osservato che il concetto di “eccezioni personali” è molto ampio, al pari della norma “madre” (art.  1993 c. 1 c.c.) e vi rientrano tutte quelle fondate su rapporti personali (Marano, art. 83 septies, Le soc. per az.-le fonti del dir. it., dir. da Abbadessa e Portale, Giuffrè, 2016, t. 2, § 2, p. 3750; e pure in Id., La circolazione delle azioni dematerializzate e la disciplina dei mercati, Giuffrè, 2013, nuova ed., 226).

Il punto è interessante. Altra dottrina afferma che, data l’ampiezza del dettato normativo, deve intedersi richiamato il diritto comune : cioè vi rientrano tutti quei rapporti che secondo il diritto comune possono reagire negativametne sul rapporto cartolare (F. Martorano, Titoli di credito, Tratt. dir. civ. comm. Cicu Messineo Mengoni, Giuffrè, 2002, p. 304: ma è forse tautologico, perchè resta da capure cosa possa incidere sul rapporto cartolare).

Secondo altri non ci si può richiamare solo alle eccezioni attinenti al fatto costitutivo dell’obbligazione, ma anche a quelle derivanti da un rapporto del tutto estraneo, purchè il possessore ne sia parte (F. De Vescovi, Tre dubbi sulla <<tutela cartolare>> nei tempi della dematerializzazione, BBTC, 2003, 715 ss, a p. 728).

Le ultime due opinioni paiono avere conseguenze diverse . La prima restringe l’ambito delle eccezioni sollevabili, la seconda l’amplia, permettendo anche la compensazione con qualsiasi controcredito.

Il Tribunale ha però ritenuto non sufficientemente fondata l’eccezione sollevata da M. sotto due profili:

1) le cause di merito promosse da M. (in cui verosimilmente si dibatteva il medesimo tema) erano state da poco rinviate a precisazione conclusione con esclusione di attività istruttoria: il che -direi- indica al giudice la scarsa plausibilità della tesi di M.;

2) anche ammettendo, prosegue il Tribunale, <<l’esistenza nel contratto 8.4.2016 di un implicito patto tra le parti di standstill funzionale al conseguimento degli obiettivi delle parti del Contratto di dar vita ad una partnership industriale paritetica[nota1 : “Patto contestato da Vivendi ed invero non espressamente contenuto nel contratto 8.4.2016, previsto solo in un patto parasociale tra Vivendi e Fininvest che si si sarebbe dovuto sottoscrivere dopo il closing, cui mai si è pervenuti”]>>,  anche ammesso ciò, il fatto però che  M. in quei giudizi abbia modificato la domanda da adempimento a risoluzione del contratto, col conseguente effetto retroattivo, impedisce di ritenere illegittimo [l’acquisto e dunque] il possesso attuale di azioni M. da parte di V.  Precisamente così dice il Tribunle: <<l’attuale pretesa di Mediaset verso Vivendi che questa dismetta tale partecipazione potrebbe non avere più ragione giuridica nella situazione presente, caratterizzata dal fatto che nei giudizi di merito riuniti RG 47205/2016 e 47575/2016 l’attrice Mediaset ha (alla udienza del 4.12.2018) modificato l’originaria domanda di adempimento del contratto 8 aprile 2016 in domanda di risoluzione, dichiarando di non avere più interesse al mantenimento dello Share Exchange Agreement. La risoluzione contrattuale, se pronunciata come richiesto da Mediaset, avrebbe come effetto quello di far venire meno con efficacia retroattiva ogni vincolo contrattuale, tra cui il patto di standstill (se sussistente). Con la conseguenza che il possesso attuale di azioni da parte di Vivendi risulterebbe legittimo, anche se eventualmente ab origine acquistato in violazione del contratto 8.4.2016.>>

Il Tribunale invece nulla dice sulla questione a monte e cioè sulla  possibilità teorica che, tra le eccezioni personali ex art. 83 septies TUF, rientri pure la violazione di un divieto di acquisto di azioni stipulato con l’emittente stessa. Nulla dicendo su tale possibilità ed entrando nel merito, implicitamente l’afferma.

A conforto di questa supposizione si veda un precedente intervento del Tribunale di Milano nel procedimento cautelare per la sospensiva ex art. 2378 c. 2 c.c. relativametne alla impugnazione della delibera assembleare 27 giugno 2018 (Trib. Milano 23.11.2018, Simon fiduciaria spa c. Mediaset spr, giudice: d.ssa Amina Simonetti, RG 2018/50173). Qui non era in causa Vivendi ma solo la sua fiduciaria. Anche qui  << le parti in causa hanno discusso circa la riconducibilità alla nozione di eccezioni personali di cui all’art 83 septies tuf delle eccezioni sollevate da Mediaset a Simon Fiduciaria relative alla violazione dell’art 43 Tusmar e al dedotto inadempimento al contratto 8 aprile 2016 : * sia con riferimento al fatto che tali eccezioni, non traendo fondamento in questioni connesse al rapporto causale sottostante lo strumento finanziario azione (cioè extrastatutarie ed extra societarie) non sarebbero riconducibili alla nozione di eccezioni personali, * sia con riferimento alla diversa identità soggettiva tra la fiduciaria e la fiduciante Vivendi cui si riferiscono i fatti giuridici inerenti le eccezioni>>.

Infatti circa il primo profilo, qui di interesse, il Tribunale risponde così: <<può dirsi, per quanto rileva nel caso di specie, che la nozione di eccezioni personali cui si riferisce l’art 83 septies tuf può essere tratta da quella del diritto comune (art 1993 c.c.), data l’identità di funzione tra le discipline (favorire una circolazione celere e sicura); il riferimento nell’art 83 septies tuf alle eccezioni personali consente di comprendere nella categoria tutte quelle inerenti a colui che è legittimato in quanto titolare del conto (art 83 quinquies Tuf) e che traggano fondamento sia nel contratto c.d. causale (statutario) sottostante lo strumento finanziario, sia in rapporti extra e diretti tra emittente e titolare del conto ( non statutari per quanto riguarda le azioni quali strumenti finanziari). Nota 4: Infatti non può dubitarsi che sia sempre oggetto possibile come eccezione personale ex art 1993 comma 1 c.c. la compensazione fondata su un qualsiasi controcredito e non si dubita che l’art 1993 c.c. si applichi ad alcune eccezioni fondate sui rapporti personali extrastatutari tra azionista e società, anche; la compensazione non può esservi se non in caso di autonoma fonte delle reciproche e contrapposte obbligazioni pecuniarie>> (seguono interessanti osservazioni, su cui non si può qui fermare , in base alle quali il Tribunale afferma che: 1)  la società può opporre al fiduciario la natura elusiva del negozio di trasferimento fiduciario volto a eludere norme di legge o statutarie -si tratterà di abuso del dirito o di negozio in frode alla legge-;  2) la decisione di intestare fiduciariamente ad altri una parte delle azioni, in esecuzione della delibera Agcom per rispettare i tetti partecipativi (quindi con corretezza sotto il profilo amministrativo), non preclude una diversa valutazione di tale operazione sul piano civilistico).

Questa (implicita, nel caso più recente) soluzione pare corretta. La dottrina fa ad es. rientrare nel concetto di “eccezioni personali” ex art 1993 c.c. quelle basate su rapporti extrastatutari, come l’eccezione di compensazione [ma allora secondo il regime comune: art.  1241 ss cc] oppure un pactum de non petendo circa la riscossione dei  dividendi (Angelici C., art. 2354, in Le azioni-artt. 2346-2356, in Il cod. civ. Commentario dir. da Schlesinger, Giuffrè, 1992, 282-283). Quest’ultimo è equiparabile, per tornare al caso nostro, al patto di divieto di acquisto di azioni dell’emittente (stipulato con quest’ultima): non vedo ragione per differenziare i diritti amministrativi da quelli patrimoniali.

Restano da capire quali possano essere altri casi di applicabilità della norma, data la peculiarità della fattispecie. Può essere abbastanza semplice, quando si tratti di pretesa alla riscossione dei dividendi; può esserlo meno, quando la pretesa, paralizzata dalla norma, abbia natura non patrimoniale ma relativa alla partecipazione alla vita organizzativa interna dell’emittente. Ad es.:

– la violazione del medesimo divieto (di acquisto azioni dell’emittente) ma stipulato con terzi, anzichè con l’emittente (ad es. con alcuni soci), costituisce “eccezione personale”? Direi di no, stante la regola di relatività del vincolo contrattuale.

– la violazione di altri obblighi (di qualunque tipo ma non concernenti operazioni su azioni dell’emittente: la fantasia può sbizzarirsi) ma pur sempre con l’emittente, può costituire eccezione personale? Ad es. invocando la normativa comune inadimplenti non est adimplendum ex art. 1460 cc? Parrebbe di si, stante l’ampiezza dell’ambito applicativo riconosciuto dalla dottrina all’art. 83 septies TUF .

Responsabilità dei sindaci (di s.r.l.): messa a punto della Cassazione (n. 18770 del 12.07.2019 e n. 20.651 del 31.07.2019)

In una sentenza di Cassazione di metà 2019  (n. 18.770 del 12.07.2019, sez. I,  rel. Nazzicone) ci sono alcune utili precisazioni sulla disciplina della responsabilità dei sindaci, governata dall’art. 2407 c.c.  Leggiamo ad esempio:

<<Da un lato, solo un più penetrante controllo, attuato mediante attività informative e valutative — in primis, la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403-bis c.c. – può dare concreto contenuto all’obbligo di tutela degli essenziali interessi affidati al collegio sindacale, cui non è consentito di rimanere acriticamente legato e dipendente dalle scelte dell’amministratore, quando queste collidano con i doveri imposti dalla legge, al contrario avendo il primo il dovere di individuarle e di segnalarle ad amministratori e soci, non potendo assistere nell’inerzia alle altrui condotte dannose: senza neppure potersi limitare alla richiesta di chiarimenti all’organo gestorio, ma dovendosi spingere a pretendere dal medesimo le cd. azioni correttive necessarie. Dall’altro lato, il sindaco dovrà fare ricorso agli altri strumenti previsti dall’ordinamento, come i reiterati inviti a desistere dall’attività dannosa, la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c. (ove omessa dagli amministratori, o per la segnalazione all’assemblea delle irregolarità di gestione riscontrate, dunque anche ex artt. 2446 e 2447 c.c.), il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite (ai sensi di tali disposizioni), i solleciti alla revoca delle deliberazioni assembleari o sindacali illegittime, l’impugnazione delle deliberazioni viziate, il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ex art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. o all’autorità giudiziaria penale, ed altre simili iniziative.

Dovendosi ribadire che, come questa Corte ha già osservato, anche la semplice minaccia di ricorrere ad un’autorità esterna può costituire deterrente, sotto il profilo psicologico, al proseguimento di attività antidoverose da parte dei delegati (Cass. 29 dicembre 2017, n. 31204; Cass. 11 novembre 2010, n. 22911).

Senza trascurare, altresì, che la condotta impediente omessa va valutata nel contesto complessivo delle concrete circostanze, in quanto l’inerzia del singolo nell’unirsi all’identico atteggiamento omissivo degli altri acquista efficacia causale, dato che, all’opposto, una condotta attiva giova a “rompere il silenzio” sollecitando, con il richiamo agli obblighi imposti dalla legge ed ai principi di corretta amministrazione, un analogo atteggiamento degli altri (così, in sede penale, Cass. pen. 7 marzo 2014, n. 32352, Tanzi)>> (sub 3.4 Nesso causale, pp.12-13).

Ed inoltre: <<l’onere di allegazione e di prova nelle azioni di responsabilità avverso l’organo sindacale si atteggia nel senso che spetta all’attore allegare l’inerzia del sindaco e provare il fatto illecito gestorio, accanto all’esistenza di segnali d’allarme che avrebbero dovuto porre i sindaci sull’avviso; assolto tale onere, l’inerzia del sindaco integra di per sè la responsabilità, restando a carico del medesimo l’onere di provare di non aver avuto nessuna possibilità di attivarsi utilmente, ponendo in essere tutta la gamma di atti, sollecitazioni, richieste, richiami, indagini, sino alle denunce alle autorità civile e penale>> (sub 3.6 Riparto dell’onere probatorio, p. 16).

Nel caso specifico era stata accertata una <<situazione di altissima illiceità, quale rumoroso “campanello di allarme” e macroscopico “segnale” circa la condizione di illegalità diffusa del gruppo>> , costituita da un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza: la quale nel 2006 aveva dettagliatamente segnalato una  gravissima situazione di illiceità fiscale, della cui ricezione da parte della società i sindaci erano a conoscenza (p. 16-17).

Principi di diritto indicati dalla Corte:

<<Ricorre il nesso causale tra la condotta inerte antidoverosa dei sindaci di società e l’illecito perpetrato dagli amministratori ai fini della responsabilità dei primi – secondo la probabilità e non necessariamente la certezza causale – se, con ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione lo avrebbe ragionevolmente evitato, tenuto conto di tutta la possibile gamma di iniziative che il sindaco può assumere, esercitando i poteri-doveri della carica (quali la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403-bis c.c., la segnalazione all’assemblea delle irregolarità riscontrate, i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima, l’impugnazione della deliberazione viziata ex artt. 2377 c.c. e ss., la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c., il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite ex artt. 2446 e 2447 c.c., il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ex art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c., ed ogni altra attività possibile ed utile)>>.

<<Ove i sindaci abbiano mantenuto un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta illecita gestoria contraria alla corretta gestione dell’impresa, non è sufficiente ad esonerarli da responsabilità la dedotta circostanza di essere stati tenuti all’oscuro dagli amministratori o di avere essi assunto la carica dopo l’effettiva realizzazione di alcuni dei fatti dannosi, allorchè, assunto l’incarico, fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e di porvi rimedio, onde l’attivazione conformemente ai doveri della carica avrebbe potuto permettere di scoprire tali fatti e di reagire ad essi, prevenendo danni ulteriori>>.

SULLE DIMISSIONI: <<Le dimissioni presentate non esonerano il sindaco da responsabilità, in quanto non integrano adeguata vigilanza sullo svolgimento dell’attività sociale, per la pregnanza degli obblighi assunti proprio nell’ambito della vigilanza sull’operato altrui e perchè la diligenza impone, piuttosto, un comportamento alternativo, allora le dimissioni diventando anzi esemplari della condotta colposa tenuta dal sindaco, rimasto indifferente ed inerte nel rilevare una situazione di reiterata illegalità>>”.

Sull’ultima affermazione della Suprema Corte si può in linea di massima concordare. E’ stato però segnalato in senso parzialmente critico che la stessa non può essere ritenuta valida sempre e comunque: cioè non si può sempre comunque dichiarare insufficienti le dimissioni per esonerare il sindaco (De Luca, Collegio sindacale: non bastano le dimissioni per evitare la responsabilità? , nota a Cass. 18770 del  12.07.2019 e a Cass. 20.651 del 31.07.2019, Il foro it., 2019, 11, 3547/8). Per questo a. bisogna distinguere tra il sindaco lungamente connivente, che si dimette, e il sindaco, che invece si dimette dopo aver intimato la rimozione di irregolarità.

Il punto però è proprio questo: un’intimazione di rimozione delle irregolarità con successive dimissioni costituisce esatto adempimento dei doveri sindacali? la risposta in linea di massima è positiva, perlomeno se la diffida individua in modo preciso le irregolarità e i comportamenti da adottare a rimedio, secondo l’opinione dei sindaci. A conferma di quest’ultimo punto si veda  l’art. 14 c. 2 cod. crisi (v. sotto), secondo cui <<in caso di omessa o inadeguata risposta, ovvero di mancata adozione nei successivi sessanta giorni delle misure ritenute necessarie per superare lo stato di crisi, i soggetti di cui al comma 1 informano senza indugio l’OCRI>>: se ne ricava che le “misure ritenute necessarie” sono quelle che sindaci e revisori ritengono tali, essendo costoro obbligati ad informare l’OCRI se non sono poi adottate (conf. Cian M., Crisi dell’impresa e doveri degli amministrtori: i principi riformati e il loro possibile impatto, Nuove leggi civili commentate, 2019/5, 1173).  In altre parole, non è necessaria la denuncia di gravi irregolarità ex art. 2409 (di certo non lo è quando le irregolarità non sono “gravi”).

Più complesso è il tema -poco frequentato- dell’eventuale dovere di impugnativa delle delibere del CdA ex art. 2388 c.4 (se non di quelle dei soci).

Il codice della crisi (d. lgs. 14/2019) interviene sull’argomento obbligando i sindaci sia a segnalare agli amministratori l’esistenza di “fondati indizi della crisi” sia -in caso di mancata loro reazione- ad informare l’OCRI. Sul primo punto non ci sono grosse novità , in quanto il dovere di segnalare le irregolarità agli amministratori era già desumibile dal sistema ed anzi sorgeva ben prima che assurgessero a “fondati indizi della crisi”. Il secondo punto invece è nuovo . Qui però la responsabilità è disciplinata in negativo e cioè come esonero da responsabilità dei sindaci se si attengono alle prescrizioni di legge. Nulla si dice in positivo e cioè se vi siano responsabilità nel caso in cui non si sia provveduto in tal modo.

Soccorrerà allora la norma generale dell’articolo 2407 con il giudizio controfattuale chiesto dal c. 2, e <<la prova del nesso eziologico, da dimostrarsi secondo il criterio della prognosi postuma (“più probabile che non”)(vedi la recente Cass. 3704/2018), può essere fornita mediante presunzioni semplici, laddove possa ragionevolmente presumersi che la tempestiva segnalazione all’assemblea delle irregolarità riscontrate o la denuncia al P.M. sarebbe risultata idonea ad impedire le conseguenze dannose (del protrarsi) della condotta gestoria.>> (Cass. 31.07.2019 n. 20.651, p. 15-16).

In questo senso potrebbe allora trarre in inganno l’affermazione, secondo cui “si deve partire da un dato, costituito dalla mancata previsione nel decreto legislativo che ha introdotto il codice della crisi, e a monte nella legge delega, di sanzioni in caso di inadempienze da parte degli organi di controllo e dei revisori dell’obbligo su questi gravante di avvisare immediatamente l’organo amministrativo circa l’esistenza di fondati indizi della crisi e su quello, insorgente nel caso di omessa o inadeguata risposta, ovvero di mancata adozione nei successivi sessanta giorni delle misure ritenute necessarie per superare lo stato di crisi, di informare tempestivamente l’organismo di composizione della crisi>> (Brizzi, Procedure di allerta e doveri degli organi di gestione e controllo: tra nuovo diritto della crisi e diritto societario, in Orizz. del dir. comm., 2019/2, 361). Le sanzioni ci sono e son quelle di diritto comune (lasciando da parte l’approprietezza o meno dell’uso del termine “sanzione” in tali casi); ciò che manca, semmai, è una nuova e diversa “sanzione” (rectius: rimedio) per la violazione dei nuovi doveri introdottti o esplicitati dal codice della crisi.

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Meno utili le osservazioni della cit. Cass. 31.07.2019 n. 20.651, sez. I, rel. Fedderico, secondo cui <<in tema di responsabilità degli organi sociali, la configurabilità dell’inosservanza del dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall’art. 2407, comma 2, c.c. non richiede l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere, ma è sufficiente che essi non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate o denunciando i fatti al Pubblico Ministero per consentirgli di provvedere ai sensi dell’art. 2409 c.c.(Cass. 22911/2010; 16314/2017)>> (p. 16)

Climate Corporate Governance: principi guida dal World Economic Forum

Il World Economic Forum il 17.01.2019 ha emanato dei guiding principles sulla corporate governance relativamente alle questioni climatiche: How to Set Up Effective Climate Governance on Corporate Boards: Guiding principles and questions.

Sono otto principi estrapolati da interviste a managers di diverse società.

Sono un pò generici, ma interessanti. V. ad es.:

– l’esplicitazione del principio di sostenibilità , che ora riguarda pure l’ambiente (Pr. 1, 4 e 6);

– la necessità di competenze e professionalità specifiche nel board  (Pr.2);

– la necessità che il profilo del clima informi gli investimenti strategici e sia inserito nella gestione di rischi e opportutnità (Pr. 5)

– la disclosure in tema deve essere diretta a tutti gli stakeholders e soprattutto ad investitori e regolatori (Pr. 7; v. pure Pr. 8); non si menzionano però specificamente le comunità locali ove sono collocate le unità operative aziendali. Sul punto v. ora da noi il d. lgs. 254/2016, ad es. art. 3, in attuazione della Dir. 2014/95/UE sulla comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità da parte delle grandi imprese (gli obblighi curiosamente gravano solo sugli amministratori -art. 3 c. 7- e dunque non sull’ente).

Circa  gli obblighi sorti da quest’ultima normativa, si è osservato che -tramite il riferimento alla correttezza della gestione imprenditoriale  imposta alle società dall’art. 2497 cc- potrebbe ravvisarsi un affidamento negli stakeholders a più stretto contatto con l’impresa tutelabile tramite azione contrattuale nella forma dell’obbligo di protezione in capo all’impresa stessa (L. Papi, Crisi del sistema “volontaristico” e nuova frontiere europee della responsabilità sociale di impresa, Riv. dir. comm., 2019, 109 ss, § 5, 144 ss e spt. 159-163) .

Gli intervistati hanno portato dei motivi per cui sino ad oggi è stato difficile tener conto dei rischi climatici. Tra questi spicca il profilo temporale: mentre i manager sono schiacciati dalla necessità di portare risultati nel breve periodo, il cambiamento climatico presetna rischi nel lungo periodo (p. 10).

Molto interessante è l’Appendix 1 Legal perspectives e ivi il cenno ai Trends in climate litigation.  Su quest’ultimo aspetto esiste un approfondito documento delle Nazioni Unite: UN Enviroment The Status of Climate Change Litigation : A Global Review, maggio 2017.

Questi guiding principles si basano anche su un precedente ampio lavoro del giugno 2017 inerente i Climate-Related Risks and Potential Financial Impacts promosso da una Task Force del Financial Stability Bord (Recommendations of the Task Force on Climate related Financial Disclosures June 2017- Final Report).

E’ stato scritto di recente che dai codici di condotta in tema di corporate governance si desume un cambiamento verso la gestione del rischio. In particolare <<il rischio cessa di essere una nebulosa indistinta. Il rischio può e deve essere declinato nei suoi molteplici aspetti. Il rischio in qualche misura è riportato- sembra paradossalmente-  alla prevedibilità. Il rischio va gestito, e non solo attraverso l’assicurazione (in fondo ultima) ratio. La rilevanza e gestione del rischio, di ciò che pareva esterno alla condotta, diventano componente essenziale della corretta amministrazione. Ed ancora -in  definitiva si tratta di profilo assai vicino a quello del rischio- i codici di comportamento danno un forte contributo ad una concezione dei sistemi di controllo come componente dell’azione gestoria (concezione, intendiamoci, presente a livello di sistema, che le best practices potenziano)>> (P. Marchetti,  Codici di condotta, Corporate governance e diritto commerciale, in Riv. di dir, comm., 2019, 1, 33 /34).

E’ giusta l’ultima osservazione del prof. Marchetti. La gestione dei rischi (tutti: anche ambientali) fa già parte dei doveri degli amministratori: rientrano infatti nella diligenza dovuta ex art. 2392 cc (e in quella ex artt. 2394-2395 nel caso di violazione verso creditori, soci e terzi, eventualmente). L’esplicitazione di alcuni di essi nelle best practices favorisce (meglio: rende probabilmente incontestabile) il loro inserimento nella diligenza dovuta, secondo la ricostruzione diffusa del del concetto di clausola generale.

Sulla postergazione del rimborso dei finanziamenti erogati dal socio di SRL alla soceità: precisazioni utili dalla Cassazione

La S.C. (sez. I civ., 15.05.2019, n. 12994, rel. Nazzicone) interviene sulla postergazione del rimborso dei finanziamenti concessi dal socio di SRL alla società (art. 2467 c.c.).

E’ chiamata a rispondere a due quesiti:

1)  se la postergazione operi automaticamente e quindi sempre oppure solo in occasione di procedura concorsuale;

2) se nel corso del giudizio di recupero del credito, promosso dal socio, l’eccezione di postergazione costituisca eccezione in senso stretto  oppure lato.

Circa il quesito sub 1), la SC risponde in senso affermativo : la postergazione opera automaticamente (concezione “sostanziale”). La ratio legis dell’art. 2467 cc <<consiste (..) nell’intento di contrastare la non infrequente sottocapitalizzazione delle società, quale tecnica di traslazione sui creditori e sui terzi del rischio da continuazione dell’attività in regime di crisi, con eventuale profitto dei soci ed aggravamento del dissesto a scapito dei creditori: fenomeno determinato dalla convenienza dei soci a ridurre l’esposizione al rischio d’impresa, apportando nuove risorse a disposizione dell’ente collettivo nella forma del finanziamento, anzichè in quella appropriata del conferimento (cfr. Cass. 20 maggio 2016, n. 10509; Cass. 7 luglio 2015, n. 14056)>> (§ 3.3).

Ne segue che il credito del socio, <<in presenza di un finanziamento concesso nelle condizioni di eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto o laddove sarebbe stato ragionevole un conferimento, subisce una postergazione legale, la quale non opera una riqualificazione del prestito da finanziamento a conferimento con esclusione del diritto al rimborso, ma incide sull’ordine di soddisfazione dei crediti. Il legislatore, tra le tecniche disponibili al riguardo, ha escluso invero la riqualificazione del prestito ed optato per la postergazione: non muta ex lege la causa della dazione, che resta quella del mutuo (art. 1813 c.c.) e non diventa causa di conferimento (art. 2343 c.c.). I finanziamenti de quo, pertanto, costituiscono prestiti e non apporti di capitale, alla cui disciplina – rimborsabilità solo all’esito della liquidazione e, quindi, dopo la restituzione anche dei prestiti anomali – non sono soggetti>> (§ 3.4).

Dato tale contesto, <<l’effetto della postergazione è automatico, non dipendendo da una conoscenza effettiva dello stato della società o dall’intenzione delle parti, ed impone al giudice, richiesto del rimborso, di accertare, sulla base delle risultanze processuali in atti, se la situazione sociale ricada in una delle fattispecie ex art. 2467 c.c., comma 2.  Ne deriva che l’integrazione delle fattispecie indicate nel comma 2 dell’art. 2467 c.c., produce effetti negoziali sul diritto del socio alla restituzione della somma finanziata: il credito restitutorio, sebbene eventualmente sia anche scaduto il termine previsto per l’adempimento ex art. 1813 c.c., non è esigibile. La postergazione prevista dalla norma finisce, così, per operare come una condizione legale integrativa del regolamento negoziale circa il rimborso, la quale statuisce l’inesigibilità del credito in presenza di una delle situazioni previste dall’art. 2467 c.c., comma 2, con un impedimento (solo temporaneo) alla restituzione della somma mutuata.>> (§ 3.4).

Ne segue ancora <<l’ulteriore conseguenza che la società e, per essa, l’organo amministrativo può, ed anzi deve rifiutare il rimborso del prestito, sino a quando non siano venute meno le predette condizioni: evento, quest’ultimo, che rende nuovamente la società immediatamente tenuta al pagamento al socio di quanto dovutogli in restituzione. Quando, invero, sia stato superato lo squilibrio patrimoniale e, quindi, la situazione di rischio per i creditori sociali che ne discende e che la norma pone a fondamento della regola di postergazione – il credito del socio ritorna ordinariamente esigibile, sebbene non fossero stati a quel momento adempiuti tutti gli altri debiti sociali: potendosi allora ritenere realizzata una situazione di soddisfazione, sia pure “astratta”, dei creditori esterni e dunque esistente uno status di regolare esigibilità. Se, pertanto, la situazione di squilibrio sia venuta meno al momento in cui alla società sia richiesto il rimborso da parte del socio (ovvero al momento in cui il giudice del merito sia chiamato a decidere, come si dirà), essa è tenuta a provvedervi, non attenendo la postergazione all’esistenza in sè del credito, ma alle condizioni per l’esazione, onde il venir meno di detta situazione, dapprima esistente e quindi atta a rendere il credito non esigibile, comporta il superamento dello stato di inesigibilità>> (§ 3.5).

La risposta dovrebbe ragionevolmente essere uguale per la fase di liquidazione: non è necessario attenderla perchè l’art. 2467 diventi  applicabile.

Utile infine la precisazione processuale: <<Occorre aggiungere come, nel giudizio avente ad oggetto la condanna della società renitente alla restituzione del prestito in favore del socio, il giudice dovrà accertare se sussista, in concreto, una delle situazioni ex art. 2467 c.c., comma 2: non solo al momento del prestito (dies storico statico), ma anche al momento della richiesta di rimborso e sino alla pronuncia, trattandosi di una condizione di inesigibilità del credito.>> In altre parole l’esigibilità, come condizione dell’azione, <<può maturare in corso di causa e fino al momento della sentenza, chiamata ad accertare se si sia ripristinata, sia pure solo in pendenza del giudizio, la condizione di piena esigibilità del credito azionato in giudizio per l’inattualità della situazione di crisi>> (§ 3.7) (ciò entro i c.d. limiti cronologici del giudicato).

Circa il quesito sub 2), la Corte risponde che si tratta di eccezione in senso lato, rilevabile pure dal giudice.

Ricorda infatti che <<secondo principio consolidato, costituiscono eccezioni in senso stretto, rilevabili ad istanza di parte, quelle che possono essere sollevate soltanto dalle parti per espressa disposizione di legge, ovvero quelle il cui fatto integratore corrisponda all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio dal titolare e, quindi, presupponga una manifestazione di volontà di quest’ultimo>> (§ 4).

E dunque <<l’eccessivo squilibrio nell’indebitamento o la situazione finanziaria in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento, quali situazioni previste dal comma 2, della norma in esame – da verificare sia al momento del prestito, sia della richiesta di rimborso e, quindi, in caso di controversia, della decisione giudiziale costituiscono fatto impeditivo del diritto al rimborso oggetto di eccezione in senso lato, non risultando, con riguardo ad esse, nessuna delle fattispecie, che possano fondarne la qualificazione come eccezione in senso proprio. La qualificazione di “credito postergato” discende dalla sussistenza di oggettive circostanze previste dalla legge e non dall’esercizio di un diritto potestativo della società finanziata, con la conseguenza che si deve escludere la sussistenza di un’eccezione in senso proprio.>> (§ 4, p. 12).

Infine si noti il passaggio sull’onere della prova: tocca alla società, richiesta del rimborso, eccepire (fatto impeditivo) l’esistenza delle condizioni giustificanti la postergazione.

Infedeltà patrimoniale e vantaggi compensativi di gruppo (art. 2634 c.c.) : spetta all’amministrare provarli, alla società basta provare la distrazione/lesione

Secondo l’art. 2634 (rubricato Infedelta’ patrimoniale) c. 3, c.c., <<non e’ ingiusto il profitto della societa’ collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo>>

La Corte di Cassazione (sez. I penale, n. 20494-2019, 12.06.2018, dep. 13.05.2019, rel. Vannucci) sul tema ha  precisato che, per invocare questa norma, l’amministratore deve (allegare) e provare gli ipotizzati benefici indiretti derivanti dall’appartenenza al gruppo. Aggiungerei che deve trattarsi di benefici specifici, cioè aventi una loro individualità e calcolabilità economica.

E’ vero secondo la S.C. che la razionalità delle operazioni economiche va accertata non in modo atomistico, ma tenendo conto della realtà del gruppo in cui la singola società è inserita. Va senz’altro ammessa <<la possibilità di tener conto di valutazioni afferenti alla conduzione del gruppo nel suo insieme, purché non vengano in tal modo pregiudicati ingiustificatamente gli interessi delle singole società. E, nel valutare se un siffatto pregiudizio in concreto sussista, è doveroso tener conto che la conduzione di un’impresa di regola non si estrinseca nel compimento di singole operazioni, ciascuna distaccata dalla precedente, bensì nella realizzazione di strategie economiche destinate spesso a prender forma e ad assumere significato nel tempo attraverso una molteplicità di atti e di comportamenti. Sicché è perfettamente logico che anche la valutazione di quel che potenzialmente giova, o invece pregiudica, l’interesse della società non possa
prescindere da una visione generale: visione in cui si abbia riguardo non soltanto
all’effetto patrimoniale immediatamente negativo di un determinato atto di gestione, ma altresì agli eventuali riflessi positivi che ne siano eventualmente derivati in conseguenza della partecipazione della singola società ai vantaggi che
quell’atto abbia arrecato al gruppo di appartenenza.>> (p. 6).

La Corte aggiunge però che il vantaggio non può essere posto in termini ipotetici. Dopo che la società ha dimostrato il danno cagionatole da una certa condotta distrattiva o lesiva dell’amministratore (anche questa allegazione -aggiungo- deve essere specifica), la prova di suoi paralleli effetti positivi tocca all’amministratore: in particolare, non può essere ritenuta presente per la mera appartenenza al gruppo. Questo è il passaggio più significativo della sentenza.

Precisamente si legge così: <<In un simile contesto, tuttavia, l’eventualità che un atto lesivo del patrimonio  della società trovi compensazione nei vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo non può essere posta in termini meramente ipotetici. Se si accerta che l’atto non risponde all’interesse diretto della società il cui amministratore lo ha compiuto e che ne è scaturito nell’immediato un danno al  patrimonio sociale, potrà ben ammettersi che il medesimo amministratore deduca e dimostri l’esistenza di una realtà di gruppo alla luce della quale anche quell’atto è destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi; ma occorre che una tal prova egli la dia. Non può, viceversa, sostenersi (…) che la mera appartenenza della società ad un gruppo renda plausibile l’esistenza dei suddetti “benefici compensativi” e che, pertanto, competa alla società, la quale abbia agito contro il proprio amministratore, l’onere di dimostrarne l’inesistenza. Viceversa, la società attrice esaurisce il proprio onere probatorio dimostrando l’esistenza di comportamenti dell’amministratore, che ledono il patrimonio dell’ente e perciò appaiono contrari al suo obbligo di perseguire lo specifico interesse sociale. È il medesimo amministratore, se del caso, che deve farsi carico di allegare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta>> (p. 6-7).

La Corte riassume così: <<In definitiva, anche in riferimento alla disciplina del  diritto delle società di capitali anteriore alla riforma alla stessa recata dal d.lgs. n. 6 del 2003, l’esistenza di rapporti di controllo ovvero di collegamento fra società non comporta in astratto un vantaggio, derivante dall’appartenenza al gruppo,  che compensi il pregiudizio arrecato al patrimonio sociale della società controllata o collegata,da atto dannoso posto in essere dal relativo amministratore ovvero che collochi l’atto a contenuto negoziale da questi posto in essere nei limiti dell’oggetto sociale proprio di tale società: l’esistenza in concreto di tale vantaggio, di natura compensativa del pregiudizio sofferto dalla società controllata ovvero collegata, deve essere allegata e provata da parte dell’amministratore che il fatto specifico deduca>>.

Il tenore della norma (“conseguiti o fondatamente prevedibili”) conforta tale conclusione.

La quale è confermata pure dalla norma civilistica corrispondente (art. 2497 c.1 ult. periodo, cc): <<Non vi e’ responsabilita’ quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attivita’ di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a cio’ dirette>>. Una volta provato il danno alla società, per affermare la mancanza di esso (sin da subito o dopo specifiche operazioni) bisogna analogamente individuare e provare specifici vantaggi: come avviene con l’istituto della compensazione civilistica. Si tratta infatti di un caso di compensatio lucri cum damno.

Individuazione che, secondo la regola generale dell’art. 2697 cc, costituisce fatto estintivo della pretesa risarcitoria avanzata dalla società: quindi gravante sull’amministratore.

La norma penale (il c. 3 cit. ) però non è ben formulata . Da un lato pare riferire il profitto alla società collegata o al gruppo, invece che  all’amminstratore (o a terzi generici) ,  come avviene nel c. 1. Dall’altro lato, compensa questo fine di profitto per altra società (o gruppo) col danno della società da lui amministrata. Invece, stante l’autonomia delle società appartenenti al gruppo (ribadita dalla SC in esame), la compensazione, per escludere l’infedeltà patrimoniale, dovrebbe avvenire tra poste passive e attive riferite esclusivamente alla società da lui amministrata (come avviene nella formulazione della norma civilistica)