Infedeltà patrimoniale e vantaggi compensativi di gruppo (art. 2634 c.c.) : spetta all’amministrare provarli, alla società basta provare la distrazione/lesione

Secondo l’art. 2634 (rubricato Infedelta’ patrimoniale) c. 3, c.c., <<non e’ ingiusto il profitto della societa’ collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo>>

La Corte di Cassazione (sez. I penale, n. 20494-2019, 12.06.2018, dep. 13.05.2019, rel. Vannucci) sul tema ha  precisato che, per invocare questa norma, l’amministratore deve (allegare) e provare gli ipotizzati benefici indiretti derivanti dall’appartenenza al gruppo. Aggiungerei che deve trattarsi di benefici specifici, cioè aventi una loro individualità e calcolabilità economica.

E’ vero secondo la S.C. che la razionalità delle operazioni economiche va accertata non in modo atomistico, ma tenendo conto della realtà del gruppo in cui la singola società è inserita. Va senz’altro ammessa <<la possibilità di tener conto di valutazioni afferenti alla conduzione del gruppo nel suo insieme, purché non vengano in tal modo pregiudicati ingiustificatamente gli interessi delle singole società. E, nel valutare se un siffatto pregiudizio in concreto sussista, è doveroso tener conto che la conduzione di un’impresa di regola non si estrinseca nel compimento di singole operazioni, ciascuna distaccata dalla precedente, bensì nella realizzazione di strategie economiche destinate spesso a prender forma e ad assumere significato nel tempo attraverso una molteplicità di atti e di comportamenti. Sicché è perfettamente logico che anche la valutazione di quel che potenzialmente giova, o invece pregiudica, l’interesse della società non possa
prescindere da una visione generale: visione in cui si abbia riguardo non soltanto
all’effetto patrimoniale immediatamente negativo di un determinato atto di gestione, ma altresì agli eventuali riflessi positivi che ne siano eventualmente derivati in conseguenza della partecipazione della singola società ai vantaggi che
quell’atto abbia arrecato al gruppo di appartenenza.>> (p. 6).

La Corte aggiunge però che il vantaggio non può essere posto in termini ipotetici. Dopo che la società ha dimostrato il danno cagionatole da una certa condotta distrattiva o lesiva dell’amministratore (anche questa allegazione -aggiungo- deve essere specifica), la prova di suoi paralleli effetti positivi tocca all’amministratore: in particolare, non può essere ritenuta presente per la mera appartenenza al gruppo. Questo è il passaggio più significativo della sentenza.

Precisamente si legge così: <<In un simile contesto, tuttavia, l’eventualità che un atto lesivo del patrimonio  della società trovi compensazione nei vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo non può essere posta in termini meramente ipotetici. Se si accerta che l’atto non risponde all’interesse diretto della società il cui amministratore lo ha compiuto e che ne è scaturito nell’immediato un danno al  patrimonio sociale, potrà ben ammettersi che il medesimo amministratore deduca e dimostri l’esistenza di una realtà di gruppo alla luce della quale anche quell’atto è destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi; ma occorre che una tal prova egli la dia. Non può, viceversa, sostenersi (…) che la mera appartenenza della società ad un gruppo renda plausibile l’esistenza dei suddetti “benefici compensativi” e che, pertanto, competa alla società, la quale abbia agito contro il proprio amministratore, l’onere di dimostrarne l’inesistenza. Viceversa, la società attrice esaurisce il proprio onere probatorio dimostrando l’esistenza di comportamenti dell’amministratore, che ledono il patrimonio dell’ente e perciò appaiono contrari al suo obbligo di perseguire lo specifico interesse sociale. È il medesimo amministratore, se del caso, che deve farsi carico di allegare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta>> (p. 6-7).

La Corte riassume così: <<In definitiva, anche in riferimento alla disciplina del  diritto delle società di capitali anteriore alla riforma alla stessa recata dal d.lgs. n. 6 del 2003, l’esistenza di rapporti di controllo ovvero di collegamento fra società non comporta in astratto un vantaggio, derivante dall’appartenenza al gruppo,  che compensi il pregiudizio arrecato al patrimonio sociale della società controllata o collegata,da atto dannoso posto in essere dal relativo amministratore ovvero che collochi l’atto a contenuto negoziale da questi posto in essere nei limiti dell’oggetto sociale proprio di tale società: l’esistenza in concreto di tale vantaggio, di natura compensativa del pregiudizio sofferto dalla società controllata ovvero collegata, deve essere allegata e provata da parte dell’amministratore che il fatto specifico deduca>>.

Il tenore della norma (“conseguiti o fondatamente prevedibili”) conforta tale conclusione.

La quale è confermata pure dalla norma civilistica corrispondente (art. 2497 c.1 ult. periodo, cc): <<Non vi e’ responsabilita’ quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attivita’ di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a cio’ dirette>>. Una volta provato il danno alla società, per affermare la mancanza di esso (sin da subito o dopo specifiche operazioni) bisogna analogamente individuare e provare specifici vantaggi: come avviene con l’istituto della compensazione civilistica. Si tratta infatti di un caso di compensatio lucri cum damno.

Individuazione che, secondo la regola generale dell’art. 2697 cc, costituisce fatto estintivo della pretesa risarcitoria avanzata dalla società: quindi gravante sull’amministratore.

La norma penale (il c. 3 cit. ) però non è ben formulata . Da un lato pare riferire il profitto alla società collegata o al gruppo, invece che  all’amminstratore (o a terzi generici) ,  come avviene nel c. 1. Dall’altro lato, compensa questo fine di profitto per altra società (o gruppo) col danno della società da lui amministrata. Invece, stante l’autonomia delle società appartenenti al gruppo (ribadita dalla SC in esame), la compensazione, per escludere l’infedeltà patrimoniale, dovrebbe avvenire tra poste passive e attive riferite esclusivamente alla società da lui amministrata (come avviene nella formulazione della norma civilistica)

Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: modifiche al codice civile (art. 379 → art. 2477, art . 92 disp. att. c.c.

L’art. 379 del codice della crisi modifica in senso assai restrittivo la disciplina degli organi di controllo nelle s.r.l., di cui all’art. 2477.  In particolare vengono modificati i commi 2 e 5, e viene inserito un importante ultimo comma. C’è poi una previsione di diritto transitorio.

La modifica del secondo comma riguarda la lettera c). La nomina di un organo di controllo o del revisore, con la riforma, diventa obbligatoria quando è superato per due esercizi consecutivi almeno uno dei tre limiti posti dalla norma (attivo patrimoniale; ricavi; numero dipendenti) . L’obbligo scatterà -mi pare- anche se nei due anni vengano superati  due diversi limiti, non essendo necessario che il superamento riguardi il medesimo limite. Questa è la prima restrizione rispetto al passato: era necessario superare due limiti, ora ne basta uno.

In precedenza la norma rinviava ai limiti previsti per il bilancio abbreviato dall’art. 2435 bis c.c.. Oggi invece i limiti sono riscritti direttamente nell’articolo 2477 c.c. e sono significativamente abbassati rispetto ai precedenti: sono più che dimezzati, anche se sono assai più alti ad es. di quelli previsti per il bilancio delle microimprese dall’art. 2435 ter c.c. Questa è la seconda restrizione.

L’ampliamento della presenza di organi di controllo non è cosa da poco sia per la società, sia per l’organo medesimo. Questo infatti è gravato del duplice dovere di verifica e segnalazione posto dall’art 14 cod. crisi impr.: << … verificare  che l’organo amministrativo  valuti costantemente, assumendo  le conseguenti idonee iniziative,   se l’assetto organizzativo dell’impresa  e’ adeguato, se sussiste l’equilibrio economico  finanziario e quale e’ il prevedibile andamento della gestione, nonche’ di  segnalare immediatamente allo stesso organo amministrativo l’esistenza di fondati  indizi della crisi>> .

La tempestiva segnalazione agli amministratori esonera dalla responsabilità solidale secondo la regola posta dal co. 3 del predetto art. 14: <<costituisce  causa di esonero  dalla responsabilita’ solidale per le conseguenze pregiudizievoli delle omissioni o  azioni successivamente poste in essere dal predetto organo, che non siano conseguenza diretta di decisioni assunte prima della segnalazione,  a condizione che, nei casi previsti dal secondo periodo del comma 2, sia stata effettuata tempestiva segnalazione all’OCRI.>>. Responsabilità, ad es., per i danni conseguenti al non aver fruito delle misure premiali previste dall’art. 25 cod. crisi

Col che si generalizza un istituto (dovere di segnalazione) prima riservato ai sindaci e revisori di società in settori speciali (banche, assicurazioni, società quotate: ad es. art. 52 t.u. credito, art. 8 e art. 149 tuf, art. 7 e art. 12 del reg. UE 537/2014), anche se con ambito oggettivo più ampio (irregolarità riscontrate o fatti che possano costituire irregolarità di gestione …).

Anche la cessazione dell’obbligo viene modificata (ed è la terza restrizione). Prima cessava quando non venivano superati i limiti per due esercizi consecutivi; oggi invece il mancato superamento deve protrarsi per tre esercizi consecutivi (nuovo co. 3). La nuova formulazione precisa che non deve essere stato superato “alcuno” dei limiti di legge: precisazione prima assente, ma ricavabile senza particolari difficoltà.

La platea della s.r.l. interessate alle modifiche è esposta da Brodi-Orlando, Nomina dell’organo di controllo nelle s.r.l.: un esercizio di quantificazione alla luce dei nuovi parametri dimensionali, in www.ilcaso.it.

Nel co. 5, poi, è previsto che, quando l’assemblea dei soci non provvede alla nomina obbligatoria, può provvedervi sia il tribunale su richiesta di qualsiasi soggetto interessato (questo già prima) o anche su segnalazione del conservatore del registro delle imprese (questa la novità).

Viene in poi inserito un nuovo ultimo comma di una certa importanza: viene disposta l’applicazione dell’articolo 2409 Denunzia al Tribunale – anche alle s. r. l.  (questione assai controversa fino ad oggi) e pure nel caso in cui manchi un organo di controllo. Almeno è questa l’interpretazione più plausibile, dal momento che la formulazione non è perfetta. Infatti, dicendosi che il 2409 si applica “anche” se  la società è priva di organi di controllo, si presuppone che ci sia altra disposizione più sopra che imponga il 2409 alle s.r.l. in generale (solo così ha senso precisare che il 2049 si applica anche se manca l’organo di controllo): il che però non è, essendo questa l’unica disposizione che applica il 2409 alle srl (oltre all’art. 92 disp. att. di cui sotto).

Il comma 3 dell’articolo  379 regola il profilo transitorio dicendo che:

i) le società già costituite alla data di entrata in vigore dell’art. 379 medesimo (30° giorno successivo alla pubblicazione in G.U., avvenuta il 14.02.2019: art. 389/2 del d. lgs. 14/2019), se ricorrono i requisiti nuovi, devono provvedere alle nomine entro nove mesi dalla predetta entrata in vigore;

ii) fino alla scadenza di questo termine, si applicheranno le disposizioni anteriori statutarie, anche se non conformi alle nuove regole;

iii) in sede di prima applicazione delle nomine secondo la nuova disciplina, si dovrà avere riguardo ai due esercizi anteriori alla [cioè conclusisi prima della] scadenza dei nove mesi (quindi: anteriori non alla entrata in vigore dell’art. 379, ma alla scadenza dei nove mesi successivi).

infine l’articolo 92 delle disposizioni di attuazione, che dispone la perdita dei poteri degli amministratori in caso di procedura ex articolo 2409 c.c., viene aggiornato tramite la menzione pure del capo VII sulle s.r.l. , oltre a quella già presente del capo V (spa) e capo VI (accomandita per azioni).

Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: modifiche al codice civile (art. 378 → art. 2476, art . 2486 c.c.)

L’articolo 378 rubricato <<Responsabilità  degli amministratori>> modifica l’art. 2476 sulla società a responsabilità limitata e l’art. 2486 sui doveri degli amministratori  in presenza di una causa di scioglimento nelle soc. di capitali.

L’art. 2476  estende alle s.r.l. l’azione di responsabilità dei creditori sociali, prevista per le società per azioni dall’art. 2394.  L’estensione non avviene tramite rinvio, ma riproponendone il contenuto in un nuovo sesto comma. La norma non è particolarmente innovativa, dal momento che la maggioranza di dottrina e giurisprudenza già si era espressa in tale senso. Però è utile perché toglie eventuali dubbi, fonti di contenzioso.

Ben più rilevante è l’innovazione dell’art. 2486.

Secondo il nuovo terzo comma di tale disposizione, quando è accertata la responsabilità degli amministratori ai sensi del medesimo articolo (meglio sarebbe stato dire: “quando è accertata la violazione dei loro doveri”: si può parlare di responsabilità solo quando un danno è accertato, il che costituisce un passaggio logicamente successivo),  il danno si presume pari alla differenza tra i patrimoni netti alla data di cessazione dalla carica/dell’apertura della procedura concorsuale, da una parte, e alla data di verificazione della causa di scioglimento, dall’altra.

Vanno tuttavia detratti i costi sostenuti o da sostenere “secondo un criterio di normalità” dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Ciò perchè sono costi, che sarebbero stati sostenuti anche con una pronta apertura della liquidazione: pertanto non possono essere considerati danno addebitabile all’amministratore (sarà da approfondire la portata della precisazione temporale: “fino al compimento della liquidazione”).

Probabilmente ci saranno anche altri criteri, in base ai quali rettificare in riduzione la differenza dei netti patrimoniali addebitabile agli amministratrori: ad es. la diminuzione di valore dei cespiti, che si sarebbe comunque verificata per il fatto in sè dell’apertura della liquidazione. In generale, andranno dedotte tutte le poste passive non addebitabili a negligenza (o dolo) degli amministratori (v. art. 1223 cc: “in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”) : cioè quelle che si sarebbero comunque manifestate.

Questa la regola di legge: è però data la possibilità di provare un diverso ammontare del danno. Il relativo onere incombe sugli amministratori.

Ancor più importante è la seconda parte  di questo nuovo terzo comma dell’articolo 2486. Qui si dice che, aperta una procedura concorsuale (quindi: solo in presenza di questa), se mancano le scritture contabili o comunque se -per irregolarità nelle stesse o per qualunque altra ragione- non siano determinabili i netti patrimoniali [basta che la indeterminabilità ne colpisca uno solo, direi], il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura.

Cioè in caso di non ricostruibilità della contabilità, la legge impone quel criterio che, seppur diffuso in passato, era ormai recessivo e in via di abbandono tra quelli adoperati dalle corti: e la ragione stava nel fatto che non rispetta le norme generali di determinazione e liquidazione del danno, enucleabili dal cit. art. 1223 c.c.

Tale criterio, essendo scollegato dalla prova di specifici inadempimenti (e delle relative conseguenze dannose), non ha struttura risarcitorio/compensativa. Dato però che non ha nemmeno struttura restitutoria nè di arricchimento ingiusto, assume una veste punitiva. La sua previsione esplicita, però, almeno ad una prima lettura, offre la copertura  di legge chiesta dall’articolo 25 Costituzione (o almeno dall’art. 23 Cost).

Resta un duplice dubbio, visto che si applica solo in presenza di procedure concorsuali:  i) cosa si intende per procedure concorsuali: il dubbio concerne soprattutto gli accordi di ristrtturazione ex art. 182 bis l.f., che per recente giurisprudenza (Cass. 21/06/2018, n. 16347, sub § 5.1, e altre Cass. ivi ricordate) sono “procedura concorsuale”, anche se molta dottrina ne dubita per più motivi, ad es. non esistendo il dovere di rispettare la par condicio creditorum (nemmeno nel nuovo art. 61 cod. crisi impr. insolv., che pure permette talora di estendere l’efficacia ai creditori non aderenti); ii) se è è giustificato che tale regola punitiva sia applicabile solo entro tale ambito applicativo, anzichè pure in questioni di responsabilità sorgenti al di fuori di una procedura concorsuale (salvo arrivarci per via analogica o per principio generale: operazione ermeneutica tuttavia implausibile, stante l’art. 14 prel.)

Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: modifiche al codice civile (art. 377 → art. 2257, art . 2380 bis, art. 2409 novies e art. 2475 c.c.)

L’articolo 377 “Assetti organizzativi societari” del Codice della crisi (ora pubblicato nel suppl. ord. n. 6/L  della G. U. n. 38 del 14.02.2019) introduce nei vari tipi societari la regola introdotta per l’impresa in generale dall’articolo 2086 co. 2, inserendo un richiamo nelle rispettive sedi.

Nell’art. 2086, come già visto in precedente post, è stato inserito un duplice dovere: i) di istituire un adeguato assetto organizzativo/amministrativo/contabile, anche in funzione della tempestiva rilevazione della crisi di impresa e della perdita di continuità aziendale; ii) di attivarsi senza indugio per adottare e attuare gli strumenti ad hoc previsti dalla legge.

Oltre a fare ciò, l’articolo 377 estende a società di persone e a  s.r.l. la regola, per cui la gestione spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per attuare l’oggetto sociale, già prevista per le s.p.a. (art. 2380 bis co. 1-art. 2409 novies co.1). Era però difficile dubitare di tale estendibilità già prima della novella.

Con la duplice precisazione che segue,  a proposito delle s.r.l. (art. 2475), legata al fatto che i poteri gestori in tale tipo sociale possono essere affidati (in tutto o solo in parte: la dottrina è divisa) ai soci in quanto tali :

i) il dovere di rispetto dell’art. 2086 graverà su chiunque godrà dei relativi poteri gestori: cioè anche sui soci, qualora fossero a loro affidati;

ii) la regola seguente (spettanza della gestione ai soli amministratori e loro dovere di fare il necessario per attuare l’oggetto sociale) può essere interpetata in duplice modo, in relazione all’uso del termine “amministratori”: 1° o si riferisce solo al caso di gestione attribuita non a soci ma ad amministratori (soci o terzi è irrilevante): ma bisognerebbe allora -per coerenza sistematica- capire come stanno le cose nell’opposto caso di gestione affidata ai soci in quanto tali; 2°  oppure il termine “amministratori” va inteso in senso ampio, non tecnico, e cioè come sinonimo di “titolari del potere gestorio” : il che non è però possibile, dato che la nuova disposizione distingue nettamente tra gestione ed amministratori. Per cui pare preferibile la prima interpetazione; e dunque ci si dovrà interrogare sulla possibilità di estendere la regola al caso di gestione affidata ai soci (in tutto o solo in parte: in tale ultimo caso, forse, con qualche difficoltà di coordinamento tra atti di competenza dei soci ed atti di competenze degli amministratori).

Infine, viene disposta l’applicabilità dell’intero art. 2381 anche alle s.r.l. (“in quanto compatibile”), aggiungendo un comma in coda all’art. 2475. Stante la complessità dell’art. 2381 (pur depurato della regola sugli assetti adeguati che vien inserita autonomamente nell’art. 2475 co.1), questa estensione andrà prudentemente vagliata

Le norme, il cui dettato è inciso dalla riforma, sono dunque: – l’art. 2257, per la società semplice e quindi -a cascata, in base ai noti rinvii- pure per la società in nome collettivo e quella in accomandita semplice; – l’art. 2380 bis co. 1, per la s.p.a. a sistema tradizionale (e a cascata per il c.d.a. del sistema monistico, stante il rinvio ad esso nell’art. 2409 noviesdecies); – art. 2409 novies, per il consiglio di gestione delle s.p.a. in sistema dualistico; – art. 2475, per le s.r.l.

La formulazione della novella insomma non è perspicua, come la dottrina ha già rilevato (v.  R. Guidotti, La governance delle società nel Codice della Crisi di Impresa, 9 marzo 2019, www.ilcaso.it)

Postergazione ex art. 2467 c.c. dei finanziamenti del socio anche per le s.p.a. chiuse? Pare di si.

La postergazione dei finanziamenti dei soci alla società, prevista per le srl dall’art. 2467 cc, è applicabile anche alle s.p.a. (se assomiglianti alle prime e dunque se s.p.a. chiuse): così pensa Cass. 20.06.2018 n. 16291

La Corte infatti si era già  posta in “tale ultimo solco interpretativo, previa sottolineatura che la ratio del principio di postergazione del rimborso del finanziamento dei soci, dettato dall’art. 2467 c.c. per le società a responsabilità limitata, consiste nel contrastare i fenomeni di sottocapitalizzazione nominale in società “chiuse”, determinati dalla convenienza dei soci a ridurre l’esposizione al rischio d’impresa, ponendo i capitali a disposizione dell’ente collettivo nella forma del finanziamento anzichè in quella del conferimento; e tale ratio – si è detto – è compatibile anche con altre forme societarie, come desumibile proprio dall’art. 2497-quinquies c.c., visto che siffatta norma ne estende l’applicabilità ai finanziamenti effettuati in favore di qualsiasi società da parte di chi vi eserciti attività di direzione e coordinamento. Sicchè in tal guisa è stato affermato il principio per cui l’art. 2467 è estensibile alle società azionarie a valle di una valutazione in concreto, dovendosi segnatamente valutare se la società, per modeste dimensioni o per assetto dei rapporti sociali (compagine familiare o, comunque, ristretta), sia idonea di volta in volta a giustificare l’applicazione della disposizione citata (v. Cass. n. 14056-15)“.

La Corte dunque conferma l’orientamento: “Simile approdo deve essere ulteriormente confermato, poichè è vero che la regola di postergazione tende a sanzionare la cosiddetta “sottocapitalizzazione nominale” delle società, nella quale l’impresa che necessita di mezzi propri viene invece finanziata dai soci attraverso l’erogazione di strumenti di debito, con conseguente artificiosa precostituzione – in situazione di squilibrio patrimoniale della società – di posizioni omogenee a quella dei creditori.

Essendo l’art. 2467 c.c. espressamente richiamato dall’art. 2497-quinquies rispetto ai rapporti di finanziamento infragruppo tra società controllanti e controllate, qualunque ne sia il tipo, non se ne può sostenere un’esegesi legata al mero specifico ambito del tipo della s.r.l., come in pratica assume il tribunale di Udine.

Alla medesima conclusione porta d’altronde anche l’art. 182-quater, comma 3, L. Fall., che, quanto alla prededucibilità dei crediti nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione in deroga alle citate norme, non procede per distinzioni a seconda del tipo societario.

Nè il principio appare contraddetto dall’ulteriore arresto col quale questa sezione ha escluso la postergazione a proposito dei crediti dei soci finanziatori di società cooperative, alle quali in generale si applica la disciplina delle s.p.a. (Cass. n. 10509-16). Simile conclusione è difatti ancorata essenzialmente all’ambito applicativo della L. 27 febbraio 1985, n. 49, art. 17 (cd. legge Marcora), come novellata dalla L. 5 marzo 2001, n. 57, art. 12 (Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati), che ha previsto l’erogazione di denaro pubblico in favore delle cooperative, e che, in quanto norma eccezionale, assume prevalenza, ai sensi dell’art. 14 prel., sulla previsione dettata dall’art. 2467 c.c.. Non può farsi a meno di sottolineare d’altronde che l’eccezionalità delle previsioni dettate per le società cooperative trova oggi definitiva conferma nella L. 27 dicembre 2017, n. 205 (recante il bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), nella quale è specificato (art. 1, comma 239) che l’art. 2467 c.c. non si applica alle somme versate dai soci alle cooperative a titolo di prestito sociale.”

Interessante è il ragionamento sulla eadem ratio: “6 – Vale la pena di puntualizzare in qual senso l’interpretazione estensiva (o anche analogica) della disposizione postuli la verifica di somiglianza della condizione concreta afferente. Tale condizione, che certo può esser dedotta su base presuntiva in ragione delle ridotte dimensioni della società, si sostanzia in ultima analisi nell’essere i soci finanziatori della s.p.a. in posizione concreta simile a quelle dei soci finanziatori della s.r.l.

L’identità di posizione può pacificamente affermarsi tutte le volte che l’organizzazione della società finanziata consenta al socio di ottenere informazioni paragonabili a quelle di cui potrebbe disporre il socio di una s.r.l. ai sensi dell’art. 2476 cod. civ.; e dunque di informazioni idonee a far apprezzare l’esistenza (art. 2467, comma 2) dell’eccessivo squilibrio dell’indebitamento della società rispetto al patrimonio netto ovvero la situazione finanziaria tale da rendere ragionevole il ricorso al conferimento, in ragione delle quali è posta, per i finanziamenti dei soci, la regola di postergazione.

In questa prospettiva la condizione del socio che sia anche amministratore della società finanziata può essere considerata alla stregua di elemento fondante una presunzione assoluta di conoscenza della situazione finanziaria appena detta“.

Nel caso specifico si trattava di sottoscrizione di prestito obbligazionario non convertibile per € 200.000,00, garantito da ipoteca, da parte di chi era socio di maggioranza  e presidente del consiglio di amministrazione.

Sull’azione di risarcimento del danno (extracontrattuale) del creditore sociale verso i revisori legali della società fallita

Il Tribunale di Roma  con sentenza 26.09.2018, relativa al fallimento Deiulemar, tra le altre cose afferma che:

i) <<Rientra nella competenza della sezione specializzata del tribunale delle imprese la controversia nella quale si agisce in responsabilità contro la società di revisione incaricata della certificazione del bilancio di una s.p.a.>>: soluzione piana, visto il tenore dell’art. 3 co. 2 lett. a) del d. lgs. 168/2003.

2)<<I singoli creditori di società per azioni fallita sono legittimati ad agire nei confronti della società di revisione incaricata della certificazione del bilancio della società e della Consob per il risarcimento del danno ad essi direttamente causato da omessa vigilanza>> : cioè non rientra nelle azioni c.d. di massa, per le quali è legittimato il Curatore. Anche questa regola è tutto sommato sicura, alla luce dell’art. 15 , d. lgs. 39/2010 sulla revisione legale (probabilmente ricavabile pure dal previgente art. 2409 sexies c.c.)

Gli odierni attori lamentavano <<il danno subìto per aver riposto fiducia nelle certificazioni dei revisori che li hanno spinti a sottoscrivere delle obbligazioni ritenute sicure e a non dismettere i titoli, cosi ledendo la loro libertà negoziale, confidando gli stessi nel pagamento degli interessi e nella restituzione del capitale versato sulla base della falsa percezione della solidità della società oggetto di revisione>> (c. 4090, sub § 4)

(massime tratte da Il Foro Italiano, 2018/12, I, 4085 ss)

Questioni di governance nelle società quotate: clausola simul stabunt simul cadent, abusività delle dimissioni dei consiglieri e impugnabilità delle delibere del collegio sindacale

I media hanno dato risalto ad un provvedimento cautelare del 24 aprile 2018 del tribunale di Milano concernente il contenzioso  all’interno della governance di Tim spa (cioè soprattutto tra il socio Vivendi e il socio Elliott).

E’ accaduto che -dopo una  convocazione dell’assemblea sociale per il 24 Aprile 2018- alcuni soci avessero formulato una richiesta di integrazione dell’ordine del giorno (ex art. 126 bis t.u.f.), avente ad oggetto la revoca di sei amministratori e la loro sostituzione.  Alla luce di questa istanza, detti sei amministratori più un altro (tutti di nomina Vivendi) si dimettevano “con decorrenza dal 24 aprile 2018” (non è chiara la data di invio e di ricezione dell’atto unilaterale di rinuncia), mentre un ottavo ed ultimo amminstratore (sempre di nomina Vivendi) si dimetteva con decorrenza immediata e cioè dalla chiusura dei lavori di quella di riunione consiliare.

Ciò secondo il CDA faceva scattare l’operatività della clausola statutaria simul stabunt simul cadent, dato che le dimissioni avevano riguardato la maggioranza degli amministratori (otto su quindici). Pertanto il CDA, con delibera 22 marzo 2018, si asteneva dall’integrare l’agenda dei lavori assembleari del seguente 24 aprile, ritenendo “superata” la richiesta in tal senso del socio Elliott, e convocava una separata assemblea per il rinnovo totale del CDA da tenersi il successivo 4 maggio.

La clausola statutaria predetta così recita: “Ogni qualvolta la maggioranza dei componenti del CDA venga meno per qualsiasi causa o ragione, i restanti Consiglieri si intendono dimissionari e la loro cessazione ha effetto dal momento in cui il CDA è stato ricostituito per nomina assembleare

Il socio, che aveva chiesto l’integrazione dell’ordine del giorno (Elliott), non si dava per vinto e indirizzava la richiesta di integrazione al collegio sindacale (ex art. 126 bis comma 5 t.u.f., verosimilmente) , affermando l’inapplicabilità’ della clausola simul stabunt simul cadent per la <<abusività manifesta>> delle dimissioni dei consiglieri,  “in quanto volte ad impedire agli azionisti di Tim Spa il voto sulle proposte di Elliot”.

Il collegio sindacale accoglieva l’istanza e provvedeva ad integrare  l’ordine del giorno come richiesto dal socio Elliot (presumibilmente ravvisando i propri poteri sempre nel comma 5 del predetto art. 126 bis tuf , che implicitamente ma sicuramente li prevede).

A sua volta però nemmeno il CDA si dava per vinto e deliberava a maggioranza di dissociarsi dalla decisione del collegio sindacale e di intraprendere azioni legali, impugnando proprio la delibera del collegio sindacale. L’impugnazione era proposta sia dal consiglio di amministrazione che da alcuni amministratori in proprio che, infine, dal socio Vivendi

I profili di maggior rilievo riguardanti il provvedimento sono i seguenti:

1) Sulla non operatività della clausola simul stabunt simul cadent per abusività delle dimissioni – Il tribunale pare ammettere la possibilità teorica di ravvisare abusività nelle dimissioni, anche se non la ravvisa nel caso specifico. Afferma infatti che <<non  paiono ravvisabili i presupposti per configurare quale abusiva la condotta in discussione vale a dire … l’insussistenza dell’interesse per il quale è riconosciuto il diritto e il perseguimento di interessi diversi lesivi di altrui posizioni>> .

Il tribunale non dà importanza al fatto che la sostituzione parziale avrebbe comportato la votazione col sistema  maggioritario, mentre l’innesco della clausola simul stabunt simul cadent avrebbe comportato l’innesco del sistema c.d. di lista.

Per un precedente, nel quale invece è stata accertata l’abusività delle dimissioni in presenza di clausola simul stabunt simul cadent , v. Trib. Bologna sez. spec. 19.12.2017 n. 2788/2017, RG 8639/2015 (v. i sette <<elementi indiziari>> ritenuti gravi, precisi e concordanti: p. 4). Qui il giudice, però, ha concesso tutela obbligatoria, non reale. L’effetto giuridico valorizzato, infatti, è stato solo quello del risarcimento del danno per revoca priva di giusta causa, avendo ravvisato nelle dimissioni un aggiramento dell’obbligo risarcitorio ex art. 2383 co. 3 c.c. Tuttavia, se di abusività si fosse realmente trattato, avrebbe dovuto essere annullato o dichiarato nullo (o comunque espunto dal mondo giuridico) l’effetto estintivo del rapporto di amministrazione, proprio dell’atto di rinuncia combinato con la clausola statutaria. Effetto estintivo, che è invece rimasto (la statuzione giudiziale non l’ha toccato) : semplicemente, si è ad esso aggiunto l’effetto risarcitorio. Allora le dimissioni concordate, più che un abuso del relativo istituto (e della clausola statutaria), paiono da inquadrare nella figura del procedimento indiretto in frode alla legge. Infatti la predetta  norma, fonte dell’obbligo risarcitorio, va ritenuta, da un lato, imperativa ex art. 1344 c.c. e, dall’altro, applicabile anche agli atti unilaterali quali sono le dimissioni (ex art. 1324 c.c.; salvo addirittura ravvisare, anzichè atti unilaterali isolati, un complessivo concerto e quindi un contratto) . 

2) Sulla inutilità del rinnovo parziale, dovendosi provvedere al rinnovo totale del cda – Il tribunale, alla luce della non abusività delle dimissioni e quindi riconoscendo l’operatività della clausola simul stabunt simul cadent, condivide la tesi degli impugnanti (CdA , singoli amministratori e socio Vivendi). Secondo tale tesi, è da ritenere “superata” l’istanza di integrazione dell’ordine del giorn (volta alla sostituzione parziale del cda) , dato che si deve procedere alla sostituzione dell’intero CDA nella successiva delibera di maggio (cioè pochi giorni dopo la data dell’assemblea prima convocata). Dice infatti il Tribunale che  “tale innesco [della clausola statutaria] comporta la necessità di integrale rinnovo del cda, senza la possibilità di procedere a sostituzioni parziali interinali”.

L’affermazione è però di dubbia esattezza. Infatti, rimuovere gli amministratori con efficacia immediata, come avviene con la revoca, anziché lasciarli in carica quantomeno fino all’assemblea convocata per seconda (cioè per 11 giorni) in regime di prorogatio (che non riduce minimamente i poteri ordinari, secondo l’opinione prevalente), può fare una notevole differenza in pratica.

Questo naturalmente presuppone aver risolto in una precisa direzione la questione della data di efficacia delle dimissioni : presuppone cioè che sia esatto individuarla nella data dell’assemblea seconda convocata, anzichè della prima (o magari ancor prima: efficacia immediata?) , questione non semplicissima (v. sotto). Nella seconda ipotesi, infatti, la delibera di revoca di chi è già cessato avrebbe un oggetto impossibile.

3) Sulla impugnabilità delle delibere del collegio sindacale – Altro punto importante è l’affermazione  di impugnabilità delle delibere del collegio sindacale. Pur mancando norma ad hoc , la corte milanese la afferma , seppure limitatamente  <<a specifici casi eccezionali rispetto alle normali manifestazioni del potere di controllo, produttive di effetti diretti rispetto alla organizzazione societaria ovvero rispetto alla posizione di singoli soci>>.  Questo tipo di delibere, infatti, avendo [eccezionalmente] “un contenuto propriamente gestorio”, non potrebbero sottrarsi alla regola generale della impugnabilità.

Sorge allora il problema di capire chi vi sia legittimato. Il Tribunale afferma la legittimazione in capo sia al consiglio di amministrazione, che ai suoi membri [individualmente],  che al socio Vivendi. In particolare l’impugnabilità del socio viene affermata ravvisando la lesività di un suo diritto ex art. 2388 penult. co. c.c., ritenuto applicabile al caso sub iudice. La lesività della delibera sindacale concernerebbe “l’esercizio del proprio diritto di voto in tema di nomina degli amministratori secondo il metodo di lista, previsto per il caso di rinnovo dell’intero CDA, esercizio che, sempre secondo l’attrice, sarebbe appunto impedito dalla delibera impugnata, indebitamente ammissiva di un odg assembleare invece comportante la sostituzione di una parte degli amministratori con il metodo maggioritario”.

Sì osservi che la rilevanza del  cambio di metodo di votazione viene riconosciuta a quest’ultimo proposito (legittimazione del socio Vivendi ad impugnare la delibera sindacale), mentre viene disconosciuta in relazione alla abusività delle dimissioni consiliari allegata da Elliott (come accennato sopra).

4) Sulla data di decorrenza della cessazione dalla carica –  Altra questione importante è quella della individuazione della data di decorrenza della cessazione degli amministratori, sia dei dimissionari (dimissionari “diretti”) che di quelli rimanenti, i quali però cessano per l’efficacia riflessa prodotta dal congiunto operare delle dimissioni dei primi e del patto  simul stabunt simul cadent (dimissionari “di riflesso”).

È curioso che i dimissionari “diretti” abbiano indicato una data di decorrenza delle proprie dimissioni e l’abbiano indicata in quella della prima assemblea cioè del 24 aprile , quando :  da un lato essi non hanno certo il potere di scegliere la data di decorrenza (dipendendo dalla disciplina legale o statutaria); dall’altro, il momento esatto è eventualmente quello della ricostituzione del CdA, che sarebbe dovuta in ipotesi avvenire in occasione (anzi, al fruttuoso termine) dell’assemblea del 24 aprile, più che nel giorno 24 aprile in sè.  

A parte ciò, l’importante è individuare la predetta decorrenza. Normalmente ed auspicabilmente verrà disciplinata in sede statutaria, ciò che è certamente possibile. Il problema è individuarla quando lo statuto nulla dica in proposito. La regola di legge (art. 2386 co. 4), circa gli amministratori dimissionari “di riflesso”, prevede il regime della prorogatio, toccando quindi ad essi convocare l’assemblea dei soci e provvedere alla ordinaria amministrazione. Lo statuto però può derogarvi e prevedere (v. il richiamo al comma quinto presente nel comma quarto dell’art. 2386) l’immediata cessazione di tutto il cda, provvedendo in tale caso i sindaci a convocare l’assemblea   e alla ordinaria amministrazione.

Per gli amministratori dimissionari “diretti” invece – in mancanza di regola statutaria- la soluzione potrebbe astrattamente e alternativamente porsi nell’estendere loro lo stesso regime dei dimissionari in via riflessa oppure nell’applicare il regime proprio delle dimissioni, posto dall’art. 2385 cc. E’ più persuasiva la seconda alternativa (anche se è da vedere quanto diversi sarebbero gli esiti adottando la prima). Così ragionando allora, si nota che l’art. 2385 distingue tra permanenza o meno in carica della maggioranza del cda , a seguito delle dimissioni. Ne segue che, nel caso sub iudice, ricorrendo l’ipotesi negativa, l’efficacia della rinuncia per i dimissionari “diretti” si produrrebbe a partire dalla ricostituzione della maggioranza del cda con l’accettazione dei nuovi amministratori (art. 2385 co.1 ult. parte):  il che avverrebbe nell’assemblea convocata per seconda (4 maggio 2018) e non il 24 aprile, data della assemblea inizialmente convocata e data indicata nell’atto di dimissioni.

Questo come disciplina legale di default; resta però da capire se sul punto dica qualcosa la pattuizione statutaria citata.

5) Sulla legittimità dell’intervento dei sindaci – Il loro intervento è di dubbia legittimità. L’art. 126 bis. co. 5 t.u.f. , infatti, lo prevede per il caso di “inerzia” dell’organo di amministrazione; nel caso in esame, però , il CDA non è stato inerte, ma ha esaminato e rigettato motivatamente l’istanza del socio. E’ difficile far rientrare questa condotta attivo/commissiva nel concetto di “inerzia”, che si riferisce ad una condotta passiva/omissiva.

La dottrina non ha mancato di rilevare questo profilo: lo solleva ad es. V. Pettirossi, Configurabilità e limiti del dovere di reazione dei sindaci di società per azioni, Riv. dir. comm., 2018/3, 515 ss. a p. 541, che richiama in tale senso il parere pro veritate  09.04.2018 fornito al CdA di  TIM  da prof. Portale-avv. Purpura-prof. Frigeni (§ 5 e spt. p. 21; vedilo nel sito di TIM) , sub <<Pareri legali acquisiti dal Consiglio di Amministrazione>>).

Si potrebbe forse pensare ad una estensione del concetto di “inerzia” per comprendervi pure: i) il rifiuto esternato ma non motivato; ii) il rifiuto sì motivato ma con motivazione palesemente inconsistente (e così pure, tra l’altro, per il “non provvedono” dei Sindaci, che dà titolo per adire il Tribunale, sempre nel medesimo co. 5).  L’ipotesi, però, ad una prima riflessione non è particolarmente convincente, soprattutto per il secondo caso (palese inconsistenza): ciò sia per il tenore letterale della norma, sia perchè rimarrebbe a difesa dei soci istanti l’impugnabilità della seguente delibera assembleare perchè non presa in conformità alla legge (art. 2377 c.c.; anche se -va detto- le due possibilità sono assai diverse nei rispettivi effetti pratici). Se il legislatore avesse voluto comprendere anche i due casi ipotizzati, è lecito pensare che l’avrebbe esplicitato: soprattutto tenendo conto del fatto che negli scorsi anni ci sono state più occasioni per introdurre novelle legislative sul punto (ad es. quella generale del 2003 -v. infatti l’analoga norma del’art. 2367/2 c.c. Convocazione su richiesta dei soci- e quella più settoriale del 2012, con riferimento all’art. 126 bis  t.u.f.).

Si potrebbe in ogni caso esaminare l’intepretazione del concetto di “omissione o ingiustificato ritardo” degli amministratori nel convocare l’assemblea , che fa scattare il dovere sostitutivo dei sindaci (art. 2406 c.c.). Quello qui esaminato, in fondo, ne è un’applicazione.

6) è strano che nessuno abbia impugnato la delibera del CDA 22.03.2018, come ci si sarebbe aspettati.

potere-dovere degli amministratori ad impugnare delibera invalida ma approvata alla unanimità

Anche se approvata dai soci all’unanimità, gli amministratori hanno il potere-dovere di impugnare la delibera invalida, alla luce dell’esigenza di tutela dell’interesse generale alla legalità societaria (Trib. Roma 26.06.2018, sez. specializz. in m. di i., RG 74636/2015, rel. Guido Romano).

La sentenza riguarda una s.r.l. ma il ragionamento può essere applicato pure ad una s.p.a.

 

legittimazione degli amministratori ad impugnare delibera approvata alla unanimità

Anche se approvata dai soci all’unanimità, gli amministratori hanno il potere-dovere di impugnare la delibera invalida, alla luce dell’esigenza di tutela dell’interesse generale alla legalità societaria (Trib. Roma 26.06.2018, sez. specializz. in m. di i., RG 74636/2015, rel. Guido Romano).

La sentenza riguarda una s.r.l. ma il ragionamento può essere applicato pure ad una s.p.a.