Responsabiità degli amministratori non esecutivi e di quelli indipendenti

Cass. sez. II, sent. 05/06/2024  n.15.685, rel. Scarpa, in tema di opposizione a sanzioni Consob:

<<In primo luogo, a tutti i componenti del consiglio di amministrazione è attribuibile la predisposizione dei prospetti, approvati nelle riunioni del 29/9/2014 e del 31/12/2014. È pur vero che, all’esito delle stesse, fu delegato al presidente del consiglio di amministrazione e al direttore generale il compito di completare il documento in oggetto e/o di modificarlo e/o di integrarlo secondo necessità e/o opportunità. È anche vero, tuttavia, che, con il conferimento della delega, gli altri consiglieri non avrebbero potuto ritenersi esautorati da ogni doveroso intervento, restando a loro carico, quanto meno, il compito di vigilare e di informarsi sull’operato degli organi e funzionari delegati, al fine di assicurarsi che fosse dagli stessi portato a termine il compito affidato in maniera puntuale e corretta (in tal senso, cfr. Cass. Sez. 2, n. 2737/2013; Sez. 1, n. 17799/2014; Sez. 2, n. 18683/2014; Sez. 2 n. 5606/2019)>>.

Poi:

<< Quanto poi all’elemento soggettivo, la Corte d’appello ha fatto legittimo ricorso alla presunzione iuris tantum in ragione delle cariche societarie rivestite dai ricorrenti, le cui singole posizioni sono state analizzate nelle pagine 28 e segg. della sentenza impugnata, ed in assenza di dimostrazione della estraneità dei medesimi ai fatti o all’impossibilità di evitarli tramite un diligente espletamento dei compiti connessi alle rispettive cariche.

Invero, doveri di particolare pregnanza sorgono in capo al consiglio di amministrazione di una società bancaria, doveri che riguardano l’intero organo collegiale e, dunque, anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicché rispondono del mancato utile attivarsi (fra le tante, Cass. n. 24851, n. 24081 e n. 16323 del 2019).

Le attività oggetto di causa avrebbero dovuto indurre gli amministratori, pure non esecutivi, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo. Il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie, sancito dagli artt. 2381, commi 3 e 6, e 2392 c.c., non va, del resto, rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega. Questa interpretazione non vale ad accollare una responsabilità oggettiva agli amministratori non esecutivi, essendo gli stessi perseguibili ove ricorrano comunque sia la condotta d’inerzia, sia il fatto pregiudizievole antidoveroso, sia il nesso causale tra i medesimi, sia, appunto, la colpa, consistente nel non aver rilevato colposamente i segnali dell’altrui illecita gestione, pur percepibili con la diligenza della carica (anche indipendentemente dalle informazioni doverose ex art. 2381 c.c.), [ok, solo che non dice quali siano stati i segnali percepibili ulteriori rispetto alle informazioni ex 2381 cc] e nel non essersi utilmente attivati al fine di evitare l’evento. Sotto il profilo probatorio, ciò comporta che spetta al soggetto, il quale afferma la responsabilità, allegare e provare, a fronte dell’inerzia dei consiglieri non delegati, l’esistenza di segnali d’allarme (anche impliciti nelle anomale condotte gestorie) che avrebbero dovuto indurli ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo (con la richiesta di convocazione del consiglio di amministrazione rivolta al presidente, il sollecito alla revoca della deliberazione illegittima od all’avocazione dei poteri, l’invio di richieste per iscritto all’organo delegato di desistere dall’attività dannosa, l’impugnazione delle deliberazione, la segnalazione al p.m. o all’autorità di vigilanza, e così via); assolto tale onere, è, per contro, onere degli amministratori provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o la causa esterna, che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi condotta attiva mirante a scongiurare il danno.

Non costituisce dato di per sé decisivo nemmeno la circostanza, posta a fondamento di alcune censure, attinente alla qualità di “consiglieri indipendenti” rivestita in seno all’organo amministrativo. Anche, infatti, gli amministratori indipendenti sono comunque “amministratori”, dotati di tutte le prerogative e gravati dei doveri tipici di questo ufficio, muniti di una competenza generale sul governo della società, parimenti incaricati di funzioni di management, di direzione e anche di controllo interno, sicché la loro “indipendenza” non li rende per ciò solo estranei alle dinamiche gestionali. Anzi, gli amministratori indipendenti cumulano le tipiche attribuzioni gestorie stricto sensu alle precipue competenze di monitoraggio dell’attività degli esecutivi, al punto che il loro ruolo attivo essenziale attiene proprio alla verifica dell’operato degli altri amministratori e dei manager, per evitare che vengano commessi abusi da parte di chi esercita il potere all’interno della società ed assicurare che la medesima società persegua nello svolgimento della propria attività i principi di trasparenza e correttezza. Resta quindi confermata pure per gli “amministratori indipendenti” l’interpretazione giurisprudenziale in forza della quale “a fronte di una vicenda di assoluta rilevanza per la gestione della società” – quale un’offerta al pubblico finalizzata ad un aumento di capitale – sussiste “in capo all’intera compagine amministrativa il dovere di attivarsi, e perciò la connessa rilevanza della loro condotta omissiva nella causazione dell’illecito” (Cass. n. 18846 del 2018)>>.

Responsabilità penale dell’amministratore senza delega per fatti di bancarotta

Inusualmente riferisco di una sentenza penale per la sua importanza anche civilistica.

Si tratta di Cass. pen. sez. 5 n. 20153 del 12-04.2024 (data ud.), rel. Borrelli:

<< 4. Se il punto cruciale del ragionamento del Collegio della cautela e del ricorso del pubblico ministero è, dunque, la consapevolezza di Mo.Ca. circa il mendacio e se tale consapevolezza passa attraverso la verifica di quella dell’esistenza delle distrazioni taciute o dissimulate nei bilanci, allora un altro doveroso passaggio preliminare è quello di ricostruire, sia pur brevemente, gli approdi di questa Corte sul tema del versante soggettivo della responsabilità dell’amministratore senza delega, tale potendo ritenersi Mo.Ca. ancorché munito di delega per alcune attività, delega, tuttavia, non concernente l’ambito interessato dalle distrazioni.

A tale riguardo, può affermarsi che la giurisprudenza di questa Corte – che il Collegio condivide e da cui non intende discostarsi – salvo qualche incertezza in tempi più risalenti, negli ultimi anni si è attestata su un’esegesi particolarmente rigorosa quanto alla responsabilità dell’amministratore senza delega e, in particolare, ai criteri in base ai quali ritenerlo consapevole e, quindi, responsabile di attività predatorie ai danni della società amministrata, commesse dall’amministratore munito di delega. Quello che oggi si richiede per ritenere dimostrato il dolo della distrazione in capo all’amministratore senza delega è che questi abbia “effettiva conoscenza” di fatti predatori ovvero di segnali di allarme di questi ultimi e non che le anomalie siano semplicemente “conoscibili”[a differenza dal civile in cui basta l’indempimento, irrilevante essendo l’elemento soggettivo. Semmai  il prob. quando ricorra inadempimento, in presenza di questo o quel segnala di allarme]

In questo senso va innanzitutto ricordato il recente approdo di Sez. 5, n. 33582 del 13/06/2022, Benassi, Rv. 284175, secondo cui “in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, il concorso per omesso impedimento dell’evento dell’amministratore privo di delega è configurabile quando, nel quadro di una specifica contestualizzazione delle condotte illecite tenute dai consiglieri operativi in rapporto alle concrete modalità di funzionamento del consiglio di amministrazione, emerga la prova, da un lato, dell’effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di “segnali di allarme” inequivocabili dai quali desumere, secondo i criteri propri del dolo eventuale, l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento illecito e, dall’altro, della volontà, nella forma del dolo indiretto, di non attivarsi per scongiurare detto evento, dovendosi infine accertare, sulla base di un giudizio prognostico controfattuale, la sussistenza del nesso causale tra le contestate omissioni e le condotte delittuose ascritte agli amministratori con delega”. La pronunzia, in particolare, ha preso in esame la figura dell’amministratore senza delega alla luce della riforma del diritto societario, evidenziando come questi non abbia più un generale obbligo di vigilanza sulla gestione attuata dagli organi delegati, ma, ai sensi dell’art. 2381, comma 6, cod. civ., un dovere di agire informato e di chiedere ragguagli al consiglio di amministrazione, dovere che si attualizza laddove vi sia la conoscenza o di fatti nocivi per la società oppure di indicatori di anomalie che riconducano ad attività nocive.

Tale pronunzia si pone sulla scia di altre decisioni che, per quanto di specifico interesse in questa sede, hanno sottolineato come la responsabilità dell’amministratore senza delega non possa prescindere dall’effettiva conoscenza dei fatti depauperativi o di segnali di allarme – inequivocabili – che ad essi riconducano e che siano stati volontariamente ignorati, scongiurando, così il rischio di un addebito del reato a titolo di colpa (per inettitudine, incapacità o imprudente fiducia nell’agire dell’organo delegato) o, addirittura, di responsabilità oggettiva da posizione (Sez. 1, n. 14783 del 09/03/2018, Lubrina e altri, Rv. 272614; Sez. 5, n. 42519 del 08/06/2012, Bonvino e altri, Rv. 253765; Sez. 5, n. 42568 del 19/06/2018, E. Rv. 273925; Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014, Tanzi e altri, Rv. 261938; Sez. 5 n. 21581 del 28/04/2009, Mare, Rv. 243889; Sez. 5, n. 23000 del 05/10/2012, dep. 2013, Berlucchi, Rv. 256939, concernente proprio la bancarotta impropria da reato societario; Sez. 5, n. 42519 del 08/06/2012, Bonvino, Rv. 253765)

Nella sentenza Tanzi, in particolare, oltre ad essere stato delineato il concetto di “segnale di allarme” – con la puntualizzazione che esso deve essere “conosciuto” e non meramente “conoscibile” e che deve essere eloquente della situazione critica sottesa – si è anche rimarcato il limite dello scrutinio di legittimità sulle valutazioni del Giudice di merito circa la responsabilità dell’amministratore senza delega in rapporto, appunto, alla conoscenza degli indicatori suddetti e al loro grado di significatività e di intellegibilità. “E’ dalla conoscenza dei segnali di allarme, intesi come momenti rivelatori, con qualche grado di congruenza, secondo massime di esperienza o criteri di valutazione professionale, del pericolo dell’evento” – così la pronunzia in discorso – “che può desumersi la prova della ricorrenza della rappresentazione dell’evento da parte di chi è tenuto – per la posizione di garanzia assegnatagli dall’ordinamento – ad uno specifico devoir d’alerte (che include in sé anche l’obbligo di una più pregnante sensibilità percettiva, oltre che il dovere di ostacolare l’accadimento dannoso). La sentenza richiamata ha anche precisato che “questa dimostrazione deve inquadrarsi nel bagaglio di esperienza e cognizione professionale proprio del preposto alla posizione di garanzia, la cui valutazione – in rapporto ai sintomo allarmante – deve esplicarsi in concreto, volta per volta: dal che consegue che la convinzione di questa percezione e del relativo grado di potenzialità informativa del fatto percepito, è rimessa alla valutazione del giudice di merito, insuscettibile di censura se accompagnata da adeguata giustificazione” >>.

La business judgment rule non copre le violazioni pubblicistiche (e quelle privatistiche?)

Cass. sez. I, ord. 25/03/2024 n. 8.069, rel. Nazzicone:

<<Merita appena di rimarcare, quanto ai confini della business judgement rule, che questa certamente non copre gli illeciti, tributari o no: trattandosi di regola non più invocabile in presenza di una valutazione di irragionevolezza, imprudenza o arbitrarietà palese dell’iniziativa economica (cfr. Cass. 6 febbraio 2023, n. 3552; Cass. 19 gennaio 2023, n. 1678; Cass. 21 dicembre 2022, n. 37440; Cass. 16 dicembre 2020, n. 28718; Cass. 22 ottobre 2020, n. 23171; Cass. 22 giugno 2017, n. 15470; Cass. 12 febbraio 2013, n. 3409; Cass. 28 aprile 1997, n. 3652), e, dunque, tantomeno in presenza di inequivoche violazioni di legge.

Certamente va confermato che all’amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 c.c. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società (per tutte, quanto al vecchio testo dell’art. 2392: Cass. n. 3652 del 1997, n. 3409 del 2013, n. 1783 del 2015).

Ma non è questo il caso nella vicenda concreta, in cui la corte d’appello ha ritenuto il ricorrente responsabile non per l’esito negativo dell’attività gestoria in sé considerata, ma per l’omesso versamento dell’i.v.a.: ciò vuol dire che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato è stato svolto non in rapporto alle scelte gestorie in quanto tali, ma all’omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive che (non solo normalmente, ma) finanche in base alla regola di condotta già perpetrata in passato dall’organo amministrativo si sarebbero dovute osservare ex ante. Nel caso di specie, dunque, la responsabilità dell’amministratore si ricollega alla violazione di doveri specifici, previsti dalla legge>>.

La SC pare riferirsi a violazioni pubblicistiche (nel caso sub iudice, tributarie) anche se usa termini lati. E l’inadempimento contrattuale, se conveniente, è censurabile o è coperto da b.j.r.? E’ censurabile, direi, non avendo dignità giuridica la tesi dell’inadempimeno efficiente (anche se il discorso è un poco complicato  dovendosi vedere le reali differenze pratiche tra il seguire o rigettare la tesi esposta).

Nella prima parte la Sc ribadisce noti arresti in tema di deterniazione del danno risarcibile a carico dell’amministratore.

Anche in una società con due soci che sono pure gli unici amministratori, il bilancio va prima approvato dal CdA e non può essere portato direttamnente in assemblea da uno dei due

Cass. sez. I, ord. 22/03/2024 n. 7.874, rel . Campese:

<<3.3.1. Sulla base di questa disciplina (normativa e statutaria), dunque, l’affermazione della corte distrettuale secondo cui “nulla vieta”, anzi, l’art. 2479, comma 1, cod. civ. (“I soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione”) “espressamente ammette che l’amministratore sottoponga direttamente all’approvazione dell’assemblea non solo il bilancio ma anche la redazione del relativo progetto” non può essere condivisa.

3.3.2. Invero, come del tutto correttamente dedotto dalla difesa del ricorrente, gli artt. 2475, comma 5, cod. civ. e 30.2. dello statuto di Alpengas Holding Srl sono palesemente finalizzati ad attribuire all’organo amministrativo, nel suo complesso, la paternità di alcuni specifici atti ritenuti dal legislatore di maggiore portata, anche in funzione, evidentemente, delle correlate responsabilità solidali dagli stessi derivanti (cfr. artt. 2434,2392,2621 cod. civ.). Diversamente opinando, dunque, si otterrebbe l’irragionevole risultato di vanificare l’effettiva ratio delle citate previsioni.

3.3.3. Pertanto, la corretta applicazione delle norme di legge e di statuto sopra richiamate induce a concludere che il voto contrario espresso dal Bu.Mi. nel corso dell’assemblea dei soci del 25.8.2016, lungi dal potersi apprezzare “come sicuro indice della scorrettezza della condotta serbata dal socio dissenziente”(cfr. pag. 17 della sentenza oggi impugnata), risultava legittimamente giustificato, in realtà, proprio perché l’appellante aveva ivi lamentato che il progetto di bilancio posto in discussione in quella sede non era stato approvato (contrariamente a quanto imposto dallo statuto, oltre che dall’art. 2475, comma 5, cod. civ.) dall’organo amministrativo prima di essere portato all’assemblea.

(…) 3.3.5. Né, in contrario, può darsi seguito all’assunto della corte territoriale per cui, essendo il Bu.Mi. e lo St.Ha. gli unici soci, peraltro entrambi amministratori di Alpengas Holding Srl, ciò comportava, dal punto di vista sostanziale, che la redazione del bilancio e l’approvazione dello stesso in assemblea si sarebbero risolti “in un atto unitario”(cfr. pag. 16 della sentenza impugnata).

3.3.6. Una tale affermazione, infatti, si rivela in palese contrasto con il consolidato principio – più volte confermato anche da questa Corte – di “separazione” tra attività gestoria (demandata all’organo amministrativo) e quella deliberativa (propria dell’assemblea dei soci), sicché non è predicabile alcuna immedesimazione tra consiglio di amministrazione ed assemblea dei soci, trattandosi di organi diversi, con funzioni tra loro distinte e tipizzate per legge>>

Nella prima parte dell’ordinanza, poi, c’è un approfndimento della SC circa la impugnabilità delle delibere cd negative, anche se per mero obiter dictum . Infatti l’impugnante la delibera di omessa approvaizone del bilancio, aveva chiesto sia l’annullamento della delbiera che a cascata una sentenza costitutiva, che tenesse luogo dell’approvazione mancata.

REspinte però in primo grado , non erano state appellate

La corte del Delaware in una ponderosa sentenza sul purpose della company (McRitchie v. Zuckerberg, et al.)

La court of chancery , giudice Leister, C.A. No. 2022-0890-JTL , 30 aprile 2024, (qui la pag. web della corte con lelenco  perlomeno ad oggi e qui link diretto al testo dell’opinion) ragiona sull’altgenrativca single-firm model (or firm-specific model) vs. Modern Modern Portfolio Theory diversification.

Segnalata dal prof.  Bainbridge.

Curiosa causa petendi: gli attori allegano la negligenza xcostituita dall’aver Zuck Sandbert etc. condotto Meta etc. con riguardo all’itneresse della società medesima e non deglio azionisti che hanno portafoglio diversidicati: i quali preferirebbero che Meta internalizzasse le esternalità prodotte per valorizzare al meglio i loro portafogli.

Forse mi sfugge qualcosa, ma ha dell’incredibile che si impegni una corte e che questa risponda con una setnenza di 101 opagg. su un punto che dovrebbe essere pacifico: gli amministgratori devono occuparsi di far rendere gli investimenti nella loro societò, non in eventuali altre in cui alcuni soci avessero per caso investito per diversificare (nemmeno nella modalità light di evitare loro dannosità facendosene carico in proprio).   Così facendo, al contrario, si renderebbero inadempienti al loro incarico.

Trattandosi di contratto, infatti, chi lo gestisce deve far fruttare quel contratto, non altri.

A parte il ns art. 2247 cc, la logica lo impone. Sarebbe invece giuridicamente illogico onerare gli amministratori di far fruttare investimenti in altri contratti sociali: a meno che i patti sociali questo dicano e che lo dicano in modo sufficientemente determinato.

Sintesi iniziale offerta dalla Corte:

<<Under the standard Delaware formulation, directors owe fiduciary duties to the corporation and its stockholders. Implicitly, the “stockholders” are the stockholders of the specific corporation that the directors serve, i.e., “its” stockholders.
The standard Delaware formulation thus contemplates a single-firm model (or firm-specific model) in which directors of a corporation owe duties to the stockholders as investors in that corporation. That point is so basic that no Delaware decisions have felt the need to say it. Fish don’t talk about water.
The plaintiff takes a different view. Capitalizing on the word “stockholders,” the plaintiff observes that stockholders are investors. The plaintiff then argues that under Modern Portfolio Theory, prudent investors diversify. Therefore, says the plaintiff, the law must operate on the assumption that a corporation’s stockholders are diversified. The plaintiff concludes that owing fiduciary duties to the corporation and its stockholders must mean owing duties that run to the corporation and its stockholders as diversified equity investors>>.

REsponsabilità anche degli amministratori non esecutivi per negligenze dell’amministratore delegato

Cass. sez. I, ord. 22/04/2024  n. 10.739, rel. Dongiacomo:

la corte di appello:

<<7.2. La corte d’appello, invero, per quanto ancora importa, dopo aver rilevato, in fatto, che: – il consiglio di amministrazione, composto da Br.Gi., quale presidente, e da Mo.Pi., Mo.Al. e Ri.Fe., aveva provveduto a designare quest’ultimo quale amministratore delegato; -” l’amministratore delegato aveva l’obbligo di “riferire periodicamente” al consiglio di amministrazione in merito all’attività svolta”; – gli amministratori non operativi, tuttavia, pur “a fronte dei segnali d’allarme emersi nel periodo di svolgimento dell’incarico”, non hanno provveduto a “verificare l’operato del consigliere delegato”, non avendo mai richiesto all’amministratore delegato “informazioni” in merito all’attività svolta, “chiedendogli chiarimenti circa l’operatività del conto corrente della società” e le “operazioni bancarie compiute” dallo stesso (come il mutuo di scopo stipulato con la società slovacca Nisaya per Euro. 600.000,00 e l’accreditamento del relativo importo su un conto corrente intestato alla società poi fallita) né hanno mai “sollecitato la convocazione” del consiglio di amministrazione per fare il punto sulla “situazione della società” e, dunque, le operazioni compiute per conto della stessa; ha, in sostanza, ritenuto che gli amministratori non esecutivi, anziché reagire alle “condotte distrattive del Ri.Fe.” (incontestatamente compiute dallo stesso attraverso “indebiti prelievi” dal conto corrente intestato alla società) e denunciarne l’operato, si erano limitati, con missiva del 23/11/2011, a rassegnare le loro dimissioni dalle cariche consiliari ricoperte, e che gli stessi avevano, pertanto, negligentemente omesso di attivarsi “per evitare gli effetti pregiudizievoli derivanti dal comportamento dell’amministratore delegato” ai danni del patrimonio della società poi fallita, il cui dissesto, in definitiva, essendo “conseguente alla mancata restituzione del mutuo Nisaya”, la cui provvista era stata distratta dal Ri.Fe., trovava, pertanto, “giustificazione causale anche nella condotta omissiva dei convenuti”.>>

Valutazione corretta secondo la SC:

<<7.3. Tale statuizione è giuridicamente corretta. Non v’è dubbio, invero, che l’amministratore non operativo di una società di capitali che abbia conosciuto (o avrebbe dovuto diligentemente conoscere) un fatto pregiudizievole che abbia compiuto o stia per compiere l’amministratore delegato nell’esercizio delle prerogative gestorie allo stesso attribuite (vale a dire, nel caso in esame, gli “indebiti prelievi” operati dal Ri.Fe. dal conto corrente bancario intestato alla società poi fallita), ha il dovere giuridico di fare, secondo la diligenza professionale cui è tenuto, tutto quanto è possibile per impedirne il compimento o, se già compiuto, di evitarne o attenuarne, anche solo in parte, le conseguenze dannose.[esatto ma ovvietà]

7.4. Questa Corte, in effetti, ha condivisibilmente ritenuto che, tanto nella società per azioni, quanto nella società a responsabilità limitata, “gli elementi costitutivi della fattispecie integrante la responsabilità solidale degli amministratori non esecutivi sono, sotto il profilo oggettivo, la condotta d’inerzia, il fatto pregiudizievole antidoveroso altrui ed il nesso causale tra i medesimi, e, sotto il profilo soggettivo, almeno la colpa”, la quale, a sua volta, “può consistere”, a seconda dei casi, “o nell’inadeguata conoscenza del fatto di altri” “il quale in concreto abbia cagionato il danno”, o, più radicalmente, “nella colposa ignoranza del fatto altrui, per non avere adeguatamente rilevato i segnali d’allarme dell’altrui illecita condotta, percepibili con la diligenza della carica”, ovvero “nell’inerzia colpevole, per non essersi utilmente attivato al fine di scongiurare l’evento evitabile con l’uso della diligenza predetta” (Cass. n. 2038 del 2018).

7.5. L’amministratore delegante, pertanto, tutte le volte in cui abbia rilevato (o avrebbe dovuto diligentemente rilevare) l’insufficienza, l’incompletezza o l’inaffidabilità delle relazioni informative che gli amministratori delegati hanno (come nel caso in esame) il dovere di trasmettergli e, più in generale, quando abbia percepito (o avrebbe dovuto diligentemente percepire) la sussistenza di una qualsivoglia circostanza idonea ad evidenziare la sussistenza di un fatto illecito già compiuto o in itinere (i cd. “segnali di allarme”), a partire dalla mancata trasmissione di qualsivoglia informazione ancorché richiesta o comunque imposta (dalla legge, dallo statuto o, come nella specie, da una delibera consiliare), ha il potere (e, quindi, il dovere) [si badi: se c’è il potere, ne segue il dovere di esercitarlo] di attivarsi per chiedere agli amministratori delegati di fornire le informazioni dagli stessi dovute; e ciò senza poter, in mancanza, invocare a propria discolpa il fatto che le informazioni fornite dagli organi delegati siano state lacunose o insufficienti o, come nel caso in esame, siano state addirittura omesse del tutto, e di avere, per l’effetto, ignorato il fatto o i fatti pregiudizievoli che gli stessi avevano compiuto o stavano per compiere.

7.6. Il dovere di agire in modo informato e il corrispondente diritto individuale di chiedere informazioni escludono, in effetti, che i componenti del consiglio di amministrazione siano autorizzati ad assumere un atteggiamento, per così dire, “inerte” e possano, dunque, limitarsi semplicemente ad attendere la trasmissione delle informazioni gestorie da parte degli organi delegati e a verificare il relativo contenuto solo se e nella misura in cui tali informazioni siano state effettivamente fornite, avendo, piuttosto, proprio in virtù di quel dovere, l’obbligo (da esercitarsi, a seconda dei casi e delle reazioni, sia in forma individuale, sia in forma collegiale) di sindacare la tempestività delle informazioni eventualmente ricevute e di verificarne la completezza e l’attendibilità e, in difetto, di attivarsi, con la diligenza imposta dalla natura della carica (e cioè quanto meno la diligenza professionale richiesta dall’art. 1176, comma 2°, c.c.), per ottenere le informazioni mancanti e, se del caso, di adottare o proporre i rimedi giuridici più adeguati alla situazione, come la revoca della delega gestoria o dell’amministratore delegato, l’avocazione al consiglio del compimento delle operazioni rientranti nella delega, la proposizione nei confronti dello stesso e dei relativi atti delle necessarie iniziative giudiziali anche a carattere cautelare ed altre misure reattive idonee a costituire o ripristinare almeno un quadro informativo sufficientemente aggiornato alla effettiva gestione.

7.7. Ne consegue che, in caso d’inadempimento (o d’incompleto o inesatto o intempestivo adempimento) a tale dovere, l’amministratore privo di delega che, pur a fronte di segnali di allarme, come la mancata trasmissione di qualsivoglia informazione dovuta nel periodo considerato (e cioè, quanto meno, nel termine minimo di sei mesi previsto dall’art. 2381, comma 5°, c.c.: come i ricorrenti hanno, del resto, espressamente affermato: v. il ricorso principale, p. 14 e 17, e il ricorso incidentale, p. 11), abbia per negligenza trascurato di chiedere ulteriori o più dettagliate informazioni ai delegati o che, prima ancora, abbia omesso di denunciare l’inadempimento degli amministratori delegati al dovere di fornire le relazioni informative periodicamente dovute, risponde, in solido con chi l’ha compiuto, dei danni arrecati alla società ed ai suoi creditori dall’atto illecito (dallo stesso, per l’effetto, colpevolmente ignorato) commesso dall’amministratore delegato nell’esercizio delle prerogative gestorie conferitegli (come la stipulazione del mutuo e la distrazione delle relative somme).

7.8. La sentenza impugnata, pertanto, lì dove ha accertato che gli amministratori non operativi convenuti in giudizio, pur “a fronte dei segnali d’allarme emersi nel periodo di svolgimento dell’incarico”, come la mancata trasmissione delle relazioni informative periodiche dovute dall’amministratore delegato, non avevano mai sollecitato l’amministratore delegato a fornire le dovute “informazioni” in merito all’attività gestoria svolta, “chiedendogli chiarimenti circa l’operatività del conto corrente della società” e le “operazioni bancarie compiute” dallo stesso, ed ha, per l’effetto, ritenuto che ciascuno dei convenuti, avendo negligentemente omesso di attivarsi “per evitare gli effetti pregiudizievoli derivanti dal comportamento dell’amministratore delegato” ai danni del patrimonio sociale, vale a dire i prelievi indebiti dai conti correnti della società compiuti da quest’ultimo, doveva essere condannato, in solido con gli altri, al risarcimento dei danni conseguentemente arrecati, si è senz’altro uniformata ai principi esposti e, come tale, si sottrae alle censure svolte sul punto dai ricorrenti.

7.9. Non può, invero, escludersi, in mancanza di elementi fattuali che inducano a ritenere il contrario (come la sussistenza, la cui prova spettava ai convenuti, di una causa esterna “che abbia reso impossibile qualsiasi condotta attiva mirante a scongiurare il danno”: Cass. n. 22848 del 2015, in motiv.), che (a prescindere dalla necessità di ulteriori segnali d’allarme, come l’eccedenza dell’operazione Sh. rispetto ai limiti della delega gestoria conferita al Ri.Fe.) il completo e tempestivo esercizio della vigilanza, così come in precedenza intesa, fosse non solo realmente possibile ma anche concretamente efficace, nel senso che, se diligentemente svolta (con la pretesa di ottenere dall’amministratore delegato le informazioni sull’attività gestoria svolta alla scadenza del secondo semestre a far data dalla delibera consiliare del 15/11/2010, e cioè alla metà di novembre del 2011) avrebbe, appunto, consentito agli amministratori non operativi (i quali, ancorché dimissionari, sono rimasti, rispetto ai terzi, come i creditori della società, senz’altro in carica fino a quando, in data 20/12/2011, è stata incontestatamente iscritta nel registro delle imprese la delibera di nomina del Ri.Fe. quale amministratore unico della società) non solo di venire a conoscenza, in tutto o in parte, dei fatti illeciti (commessi o in itinere) dell’amministratore delegato (come la stipula del mutuo Nisaya, con l’accreditamento in data 9/9/2011 della relativa provvista su un conto corrente bancario della società, e i prelievi indebiti dallo stesso da parte del Ri.Fe.) ma anche di reagire adeguatamente, anche solo in parte, al relativo compimento (“nell’autunno 2011”, come rilevato dal tribunale: v. il ricorso principale, p. 7) con i necessari rimedi giuridici preventivi (rispetto ai prelievi indebiti successivi) e/o successivi (rispetto a quelli già effettuati).

[è il punto più importante: il nesso di causa]

7.10. E non solo: una volta accertato, come ha fatto la sentenza impugnata, che il dissesto della società, essendo “conseguente alla mancata restituzione del mutuo Nisaya”, “trova(va)”, pertanto, la propria “giustificazione causale anche nella condotta omissiva dei convenuti, che sono stati gravemente inadempienti ai doveri di verifica del rispetto della delega conferita al Ri.Fe.”, non si presta, evidentemente, a censure, per violazione di legge, la decisione che la corte d’appello, sulla base di questo accertamento, ha, di conseguenza, assunto, vale a dire la pronuncia di condanna degli amministratori deleganti al risarcimento dei danni che gli stessi “ove avessero tempestivamente attivato i loro doveri di controllo, ben avrebbero potuto evitare”, nella misura corrispondente al passivo accertato in sede fallimentare (pari ad Euro. 660.434,29) e alle residue spese stimate per la procedura concorsuale (pari ad Euro. 30.000,00), per la somma complessiva di Euro. 690.423,81. Le Sezioni Unite di questa Corte, infatti, con la sentenza n. 9100 del 2015, hanno, come ha correttamente ricordato il Fallimento, affermato che l’amministratore della società può essere senz’altro chiamato a rispondere di un danno corrispondente all’intero deficit patrimoniale accumulato dalla società fallita, così come accertato nell’ambito della procedura concorsuale (comprese, dunque, le passività in prededuzione, che inevitabilmente conseguono alla sua stessa apertura), soltanto per “quei comportamenti che (come quelli accertati, in fatto, dalla sentenza impugnata) possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza”>>.

Va però segnalata ancora una volta la scarsa attenzione ai fatti specifici da parte dei nostri giudici (a differenza ad es da quelli inglesi). Capisco che ciò porti loro via molto tempo:; ma il controllo della sentenza presuppone che siano esposti e esamuabnti in dettaglio.

Successione dei soci nella titolarità del credito spettante alal società estinta con cancellazione dal R.I. e legititmazione processuale

Cass. sez. I, sent. 02/04/2024 n. 8.633, rel. Scotti (con le consuete pregevoli sinteticità e chiarezza di questo relatore):

<<13. Secondo il noto orientamento che risale alle sentenze delle Sezioni Unite del 12.3.2013, n. 6070 e 6072, la cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società medesima, impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio.

Se l’estinzione della società cancellata dal registro interviene in pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dagli art. 299 e ss. cod. proc. civ., con possibile successiva eventuale prosecuzione o riassunzione del medesimo giudizio da parte o nei confronti dei soci. Ove invece l’evento estintivo non sia stato fatto constare nei modi previsti dagli articoli appena citati o si sia verificato quando il farlo constare in quei modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta.

Qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale:

(a) le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali;

(b) si trasferiscono del pari ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato.

Secondo l’indirizzo giurisprudenziale prevalente i soci sono destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata, ma non definiti all’esito della liquidazione, indipendentemente dalla circostanza che essi abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione.

Secondo questa giurisprudenza, formatasi in tema di contenzioso tributario, qualora l’estinzione della società di capitali, all’esito della cancellazione dal registro delle imprese, intervenga in pendenza del giudizio di cui la stessa sia parte, l’impugnazione della sentenza resa nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta in quanto il limite di responsabilità degli stessi di cui all’art. 2495 c.c. non incide sulla loro legittimazione processuale ma, al più, sull’interesse ad agire dei creditori sociali, interesse che, tuttavia, non è di per sé escluso dalla circostanza che i soci non abbiano partecipato utilmente alla ripartizione finale, potendo, ad esempio, sussistere beni e diritti che, sebbene non ricompresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, si sono trasferiti ai soci. (Sez. 5, n. 9094 del 7.4.2017; Sez. 5 , n. 15035 del 16.6.2017; Sez. 5, n. 897 del 16.1.2019; Sez.5, n. 1713 del m21.1.2018; Sez.5, n. 14446 del 5.6.2018; Sez.5, n. 23730 del 29.7.2022; Sez.5. n. 13247 del 28.4.2022; Sez. 5, n. 22692 del 26.7.2023).

In particolare, si è detto che “La possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono, dunque, di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti”.

14. Il limite di responsabilità dei soci ex art. 2495 c.c., comma 2, non incide sulla loro legittimazione processuale, ma, al più, sull’interesse ad agire dei creditori sociali, interesse che, tuttavia, non è di per sé escluso dalla circostanza che i soci non abbiano partecipato utilmente alla ripartizione finale, perché ben possono, ad esempio, sussistere beni e diritti che, sebbene non ricompresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, si sono trasferiti ai soci.

Se quindi dal lato passivo dei rapporti facenti capo alla società estinta questa Corte predica la non necessaria correlazione tra titolarità in capo agli ex soci di beni o diritti e la loro legittimazione processuale, tale principio deve anche valere anche con riferimento alla situazione simmetrica, ossia alla legittimazione processuale attiva in caso di trasferimento del diritto controverso, che determina, agli effetti dell’art. 111 cod. proc. civ., la prosecuzione del processo tra le parti originarie, non venendo meno la legitimatio ad causam della parte cedente.

Vale a dire: come l’assenza di beni o diritti ripartiti non incide sulla legittimazione processuale passiva dei soci, giacché non configura una condizione da cui dipende la possibilità di proseguire nei loro confronti l’azione originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società, così le stesse circostanze non precludono l’assunzione da parte loro della qualità di successori processuali e correlativamente, la loro legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo.

L’effettiva liquidazione e ripartizione dell’attivo e, prima ancora, ovviamente, la sua sussistenza se costituisce fondamento sostanziale e misura (nonché limite) della titolarità sostanziale del rapporto in capo a ciascuno dei successori, non può però anche ritenersi presupposto della assunzione, in capo al socio, della qualità stessa di successore e, correlativamente, della legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo ai sensi dell’art. 111 cod. proc. civ.

16. La legittimazione processuale dei soci, dunque, si pone su un piano preliminare e distinto da quello concernente la concreta titolarità sostanziale del rapporto.

Gli ex soci pertanto sono legittimati a proseguire il processo incardinato nei confronti della società estinta, a prescindere dalla titolarità effettiva del credito, trasferita per atto inter vivos ad altro soggetto, e quindi possono parteciparvi al processo quale mero sostituto processuale, sì come sono legittimati passivamente all’azione dei creditori sociali, ancorché non abbiano ricevuto beni in sede di liquidazione.

Da questa premessa discende l’irrilevanza della attribuzione del credito in sede di bilancio finale di liquidazione, cosa che in una situazione del genere di quella sopra illustrata neppur teoricamente poteva avvenire, visto che il credito era già stato trasferito a terzi in precedenza.

In altri termini, gli ex soci sono legittimati ex art.111 cod. proc. civ. a proseguire la controversia intrapresa dalla società estinta e da essa proseguita quale sostituto processuale del successore a titolo particolare nel rapporto controverso ex art.110 cod. proc. civ. e in questo caso non sono tenuti a dimostrare di essere subentrati nel credito in precedenza ceduto>>.

Dunque il principio di diritto:

“Nel caso di trasferimento a titolo particolare per atto inter vivos del diritto controverso in corso di causa, gli ex soci della società cedente estinta sono successori a titolo universale ai sensi dell’art.110 cod. proc. civ. nella posizione meramente processuale della società estinta, parte originaria legittimata ex art.111 cod.proc.civ a proseguire il giudizio, e perciò essi pure legittimati, indipendentemente dalla circostanza che essi abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione.”

(Super)Società di fatto tra soci oppure holding di fatto?

Cass. sez. I, ord. 02/01/2024 n. 74, rel. Fidanzia:

<<3. Il primo e il secondo motivo, da esaminarsi unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, sono fondati. Va preliminarmente osservato che, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte (vedi Cass. n. 10507/2016, n. 7903/2020, n. 4784/2023), l’art. 147, comma 5, l.fall. – che trova applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito e uno o più soci occulti, ma, in virtù di sua interpretazione estensiva, anche laddove il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone (cd. supersocietà di fatto), non assoggettata ad altrui direzione e coordinamento -postula la rigorosa dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che dev’essere tendenzialmente conforme, e non contrario, all’interesse dei soci. E’ stato quindi sovente ritenuto che la circostanza che le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche solo di fatto, costituisca, piuttosto, una prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto, essendo, semmai, indice dell’esistenza di una holding di fatto (che può anche essere una società di fatto: Cass. n. 23344 del 2010; Cass. n. 3724 del 2003).

Va, tuttavia, osservato che il fatto che vi possa essere l’abuso di una società da parte di una o più persone (fisiche e giuridiche) che ne hanno il controllo (anche solo di fatto) nell’interesse proprio delle stesse, non esclude, comunque, la possibile sussistenza tra le stesse persone e la società così abusata (cioè piegata ai fini d’interesse dei suoi soci o soggetti che di fatto la governano) di un rapporto societario di fatto, almeno tutte le volte in cui alla iniziale affectio tra tali persone e la società, sia subentrato, in forza di una modifica ed evoluzione in concreto degli originari accordi o per effetto di essi (art. 2497-septies c.c.), l’esercizio di un abuso su quest’ultima, e cioè la violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale della stessa, da parte di chi, tra gli originari partecipi di un rapporto societario di fatto con la società abusata, era, per una ragione o per l’altra, in condizione di farlo (cfr. gli artt. 2497-sexies e 2359 c.c.).

Non è, peraltro, incompatibile con la sussistenza del rapporto societario non formalizzato tra persone fisiche e una o più società di capitali (e la sua prosecuzione tra le stesse fino al recesso di fatto di una delle stesse o alla sua esclusione in conseguenza del suo fallimento ovvero alla cessazione in fatto dell’attività d’impresa comune), il fatto che queste ultime, sin dall’inizio oppure in seguito, siano state, in concreto, programmaticamente volte a farsi carico dei debiti conseguenti all’attività comune in misura superiore rispetto agli utili ad esse riservati o comunque ricevuti (e le persone fisiche, simmetricamente, ad assumere debiti in misura inferiore rispetto ai vantaggi patrimoniali ricevuti).

Se è pur vero che la partecipazione agli utili ed alle perdite, in relazione al conferimento eseguito, costituisce duplice elemento essenziale ed inscindibile della partecipazione sociale, differenziando il socio dal semplice associato, resta, nondimeno, fermo il principio per cui “l’esclusione dalle perdite o dagli utili, in quanto qualificante lo status del socio nei suoi obblighi e nei suoi diritti verso la società e la sua posizione nella compagine sociale, secondo la previsione dell’art. 2265 c.c., viene integrata quando il singolo socio venga per patto statutario escluso in toto dall’una o dall’altra situazione o da entrambe”; “quando, per contro, sussista una regolamentazione” (che può essere assunta anche in via tacita e nella stessa forma modificata nel corso della società) “della partecipazione al rischio ed agli utili in misura non coerente al capitale conferito, ci si troverebbe in presenza di espressione di autonomia statutaria nella regolamentazione della partecipazione al rischio, non rientrante nella previsione della nullità in esame” (in questi precisi termini, Cass. n. 8927 del 1994; Cass. n. 642 del 2000). Esulano, pertanto, dal divieto tanto le pattuizioni intercorse tra i soci (anche di fatto) di una società di persone che regolano la partecipazione degli stessi al rischio e agli utili in misura difforme dall’entità della partecipazione del singolo socio, quanto gli accordi che si esprimano in una misura di partecipazione difforme da quella inerente ai poteri amministrativi o che condizionino in alternativa la partecipazione o la non partecipazione agli utili o alle perdite al verificarsi di determinati eventi giuridicamente rilevanti.

La Corte d’Appello non si è attenuta agli esposti principi, atteso che, astenendosi dall’esame della situazione concreta sottoposta alla sua attenzione – non essendo certo sufficiente, ai fini di ricostruzione del rapporto e della organizzazione economica fra i soggetti, il generico riferimento, in alcun modo circostanziato, ai “dati fattuali indicati dalla curatela” -ha escluso la sussistenza di una società di fatto sulla base della superficiale lettura della massima di questa Corte, che richiede, in linea di principio e però sulla base di un criterio di osservazione empirica, la conformità del comune intento sociale perseguito dalla supersocietà di fatto all’interesse dei soci; la Corte d’Appello non ha minimamente indagato se l’eventuale abuso fosse stato programmato sin dall’origine, da quando i soggetti della invocata (dalla curatela) supersocietà di fatto avevano iniziato ad interagire o fosse stato solo il frutto della violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale da parte di chi, tra gli originari partecipi di un rapporto societario di fatto con la società abusata, era, per una ragione o per l’altra, in condizione di farlo. Così operando, il giudice di secondo grado ha omesso un approfondito esame dei requisiti richiesti dall’art. 2247 cod. civ. e per come intesi in giurisprudenza per poter accertare l’esistenza di una supersocietà di fatto>>.

Sfasatura temporale tra atto di malagestio degli amministratori e omissiva negligenza dei sindaci, unità temporale dell’incarico affidato a questi ultimi e cenno all’onere della prova

Cass. sez. I, ord. 13/02/2024 n. 3.922, rel. Crolla, affronta un caso di malagestio degli anni 2013-2014 rispetto a compensi chiesti dal sindaco per gli anni 2018-2019 (incarico triennnale 2017-2019).

<<4.1 Il motivo è fondato. 4.2 I giudici circondariali hanno accertato che i rilievi relativi alla carente vigilanza dei sindaci si riferiscono agli esercizi 2013 e 2014; ciò nondimeno, secondo Tribunale, l’eccezione di inadempimento del collegio sindacale paralizzerebbe il diritto al compenso per l’intero triennio della durata del mandato atteso che, secondo quanto previsto dall’art 2402 c.c., il corrispettivo per l’opera prestata dal sindaco, seppur corrisposto annualmente, deve essere determinato all’atto di nomina per l’intero periodo di durata dell’ufficio.

4.3 Le conclusioni raggiunte dal Tribunale non sono in linea con l’orientamento di questa Corte che ha affermato il principio secondo il quale “in tema di società di capitali, l’adempimento dei doveri di controllo, gravanti sui sindaci per l’intera durata del loro ufficio, può essere valutato non solo in modo globale e unitario ma anche per periodi distinti e separati, come si desume dalla disciplina generale, contenuta nell’art. 1458, comma 1, c.c., riferita a tutti i contratti ad esecuzione continuata, pertanto, poiché l’art. 2402 c.c. prevede una retribuzione annuale in favore dei sindaci, è in base a questa unità di misura che l’inadempimento degli obblighi di controllo deve essere confrontato con il diritto al compenso” (cfr. Cass. 6027/2021). Ciò in quanto il testo della norma dell’art. 2402 c.c. risulta univoco nell’indicare che quella spettante ai sindaci è, propriamente, una “retribuzione annuale”, secondo quanto è coerente, del resto, con la durata che connota, come scansione dell’attività di impresa, l'”esercizio sociale” (così, sulla base di questa constatazione, la giurisprudenza di questa Corte ritiene che il credito del sindaco goda del privilegio ex art. 2751-bis c.c. non già in relazione agli ultimi due mandati, ma unicamente per le due ultime annualità del più recente incarico: cfr. Cass., 4 dicembre 1972, n. 3496; Cass., 9 aprile 2019, n. 15828, che appunto discorrono di “distinti crediti annuali”). Ne segue, allora, che è con questa unità di misura (della singola annualità) che l’inadempimento degli obblighi di controllo deve venire a confrontarsi in relazione al riconoscimento del diritto al compenso del sindaco.

4.4 Hanno, quindi, errato i giudici lariani nel non aver riconosciuto il carattere sinallagmatico delle prestazioni sull’unità temporale dell’annualità, ferme restando le considerazioni sopra svolte in ordine alla configurazione delle condotte inerti antidoverose dei sindaci anche per i periodi successivi agli atti di mala gestio degli amministratori sino al Fallimento, nell’ipotesi di permanenza dei loro effetti dannosi, che sarà accertata in sede di giudizio di rinvio per effetto dunque dell’accoglimento dei primi due motivi del Fallimento.>>

Non concordo. L?ary. 2402 regola solo la scadenza del pagAMENTO (rateale); ma l’incarico è unitariamente determinato in tre anni.

CEnno sull’onere della prova:

<<

5.2 In ogni caso la censura è inammissibile ex art. 360 bis nr 1 c.p.c. in quanto, per consolidata giurisprudenza, il curatore che solleva nel giudizio di verifica l’eccezione d’inadempimento, secondo i canoni diretti a far valere la responsabilità contrattuale, ha (solo) l’onere di allegare e provare l’esistenza del titolo negoziale, contestando, in relazione alle circostanze del singolo caso, la non corretta (e cioè negligente) esecuzione della prestazione o l’incompleto adempimento, restando, per contro , a carico del professionista (al di fuori di una obbligazione di risultato, pari al successo pieno della procedura) l’onere di dimostrare l’esattezza del suo adempimento per la rispondenza della sua condotta al modello professionale e deontologico richiesto in concreto dalla situazione su cui è intervenuto con la propria opera ovvero l’imputazione a fattori esogeni, imprevisti e imprevedibili, dell’evoluzione negativa della procedura, culminata nella sua cessazione (anticipata o non approvata giudizialmente) e nel conseguente fallimento (Cass. 18705/2016, 25584/2018 con riferimento alle prestazioni professionali del sindaco; Cass. S.U. n. 42093 del 2021, in motiv. e 35489/2023).

4.2 In verità tale orientamento va specificato con riferimento alla ipotesi, prevista dall’art 24072 ° comma c.c., di responsabilità concorrente e solidale dei sindaci con quella degli amministratori, per omessa vigilanza sui comportamenti di questi.

4.3 In tale evenienza, secondo il recente insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. 2343/2024), l’eccipiente deve fornire “la prova di quei fatti storici, attinenti alla gestione ovvero al concreto assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, sui quali si innesta la deviazione della condotta di vigilanza esigibile dal sindaco; quella condotta, cioè, che il sindaco, che poi agisce in sede concorsuale per l’adempimento del proprio credito stante il pregresso inadempimento del corrispettivo, avrebbe dovuto tenere – e non ha tenuto – in relazione al suo mandato. Solo, dunque, per essa appare sufficiente, nella ripartizione dell’onere della prova, che il creditore della prestazione di vigilanza (nella fattispecie, e per la società, il curatore fallimentare) possa anche limitarsi a eccepire, nei segnalati termini di specificità, l’inesatto adempimento, allegato come difetto di vigilanza rispetto a fatti specifici invece non solo descritti ma anche provati”  >>.

Impugnazione della delibera di SRL di ricostituzione del capitale e di promozione della azione sociale di responsabilità: ne ha legittimazione l’ex socio non più tale per non aver sottoscritto l’aumento di capitale (impugnato perchè abusivo)?

Interessante fattispecie decisa dalla sentenza veneziana Trib. Venezia 23.06.2023 , RG 8116/2020, rel. Boccuni, letta in giurisprudenzadelleimprese.it).

Ecco le massime tratte dalla cit. rivista a firma di Luigi Tambè (numerazione aggiunta da me):

<<1) Se di regola il difetto della qualità di socio in capo all’attore al momento della proposizione di una domanda di accertamento della nullità di una delibera assembleare, o a quello della decisione della controversia, esclude la sussistenza in lui dell’interesse ad agire per evitare la lesione attuale di un proprio diritto e per conseguire con il giudizio un risultato pratico giuridicamente apprezzabile, ciò tuttavia non può dirsi nel caso in cui il venir meno della qualità di socio sia diretta conseguenza della deliberazione la cui legittimità egli contesta. In tal caso, anche la stessa legittimazione dell’attore ad ulteriormente interferire con l’attività sociale sta o cade a seconda che la deliberazione impugnata risulti o meno legittima: la declaratoria della nullità della deliberazione può dunque condurre al ripristino della qualità di socio dell’attore, e tale risultato costituisce una delle ragioni per le quali la deliberazione viene impugnata. Sarebbe allora logicamente incongruo, e si porrebbe insanabilmente in contrasto con i principi enunciati dall’art. 24 Cost., co. 1, l’addurre come causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l’attore assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti. Analoghe considerazioni possono svolgersi quanto all’azione di annullamento.

2) Diversamente deve opinarsi in riferimento alla legittimazione dell’attore ad esercitare l’azione sociale di responsabilità a norma dell’art. 2476, co. 3, c.c. A differenza dell’azione di impugnazione delle delibere assembleari o delle decisioni dei soci, con l’azione di responsabilità sociale, il socio non esercitata diritti propri nel proprio interesse, ma diritti risarcitori che competono all’ente collettivo in ragione della violazione imputata all’organo gestorio degli obblighi di corretta amministrazione che detto organo ha, non direttamente nei confronti del socio, ma nei confronti della società. In effetti, la stessa disciplina dell’art. 2476 c.c., in tema di azione sociale di responsabilità esercitata dal socio, esplicita che il diritto fatto valere è appartenente alla società che, infatti, può transigere o rinunciare all’azione, competendo l’eventuale risarcimento unicamente alla stessa che è parte necessaria del giudizio in quanto beneficiaria del credito risarcitorio e titolare della relativa posizione giuridica pretensiva rispetto all’inadempimento degli obblighi amministrativi. Dal punto di vista processuale, se con l’azione di impugnazione il socio fa valere diritti ed interessi propri asseritamente lesi dalla delibera o decisione dei soci, con l’azione sociale di responsabilità si verifica una deroga al divieto di far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui, fuori dai casi espressamente previsti dalla legge come è quello che occupa, parlandosi così di legittimazione straordinaria del socio in termini di sostituzione, a norma dell’art. 81 c.p.c. che, essendo norma processuale, è di stretta applicazione.

3) Nel caso dell’impugnazione delle delibere dei soci che comportino come loro conseguenza la perdita dello status di socio, con conseguente perdita dei diritti partecipativi che allo stesso sono attribuiti, l’impugnante, pur non ricoprendo più al momento dell’impugnazione la qualità che lo legittimerebbe al rimedio, mantiene la legittimazione e l’interesse ad agire proprio perché, in forza dell’invalidazione della delibera egli tende a riacquisire i diritti partecipativi perduti in modo illegittimo, in altre parole permanendo al momento dell’impugnazione legittimazione ed interesse ad agire dell’impugnante quale socio. Diversa è la questione della legittimazione ad agire del socio in riferimento all’azione sociale di responsabilità. In effetti, è improcedibile l’azione di responsabilità promossa dal socio che non abbia sottoscritto l’aumento di capitale deliberato dall’assemblea dei soci ai sensi dell’art. 2482 ter, co. 1, c.c., in quanto tale evento determina la perdita della qualità di socio e, quindi, la perdita della legittimazione ad agire in giudizio contro gli amministratori in qualità di sostituto processuale della società onde esercitare diritti della società medesima e non propri.

4) Proprio per la natura derivata e straordinaria della legittimazione del socio, a nulla rileva il fatto che il medesimo abbia perduto la qualità in virtù della delibera che ha accertato la perdita del capitale e disposto la sua ricostituzione, anche là dove si obiettasse che la perdita sia stata illegittimamente determinata dagli amministratori con conseguente loro responsabilità risarcitoria, posto che il diritto che il socio fa valere riguarda il risarcimento alla lesione del patrimonio sociale di cui è titolare la società, e non un diritto proprio, essendo l’eventuale lesione del socio semplicemente indiretta e derivata dalla lesione sopportata dalla società>>.

Le massime 1 e 3 sono esatte ma anche tutto sommate ovvie. L’interesse è per quelle sub 2 e 4 e in particolare per la parte in rosso della 4, che destano perplessità.

La mass. 2 e (in parte qua) 4 non sembrano rilevanti sul tema , contrariamente a quanto opina il Trib.: la derivatività dell’azione nulla c’entra con la legittimazione straordinaria alla azione sociale di responsabuilità sub iudice-

La mass. 4 nellla parte rossa è rilevante ma errata. Se la delibera che fa perdere la qualità di socio è illegittima, allora anche la legittimazione assente all’azine ex 2476 cc  può tornare in gioco.  Semmai potrà parlarsi di un rapporto di subordinazione condizionale tra le due domande, nel senso che solo se la prima è accolta, la seconda potrà essere esaminata.