Impugnazione della delibera di SRL di ricostituzione del capitale e di promozione della azione sociale di responsabilità: ne ha legittimazione l’ex socio non più tale per non aver sottoscritto l’aumento di capitale (impugnato perchè abusivo)?

Interessante fattispecie decisa dalla sentenza veneziana Trib. Venezia 23.06.2023 , RG 8116/2020, rel. Boccuni, letta in giurisprudenzadelleimprese.it).

Ecco le massime tratte dalla cit. rivista a firma di Luigi Tambè (numerazione aggiunta da me):

<<1) Se di regola il difetto della qualità di socio in capo all’attore al momento della proposizione di una domanda di accertamento della nullità di una delibera assembleare, o a quello della decisione della controversia, esclude la sussistenza in lui dell’interesse ad agire per evitare la lesione attuale di un proprio diritto e per conseguire con il giudizio un risultato pratico giuridicamente apprezzabile, ciò tuttavia non può dirsi nel caso in cui il venir meno della qualità di socio sia diretta conseguenza della deliberazione la cui legittimità egli contesta. In tal caso, anche la stessa legittimazione dell’attore ad ulteriormente interferire con l’attività sociale sta o cade a seconda che la deliberazione impugnata risulti o meno legittima: la declaratoria della nullità della deliberazione può dunque condurre al ripristino della qualità di socio dell’attore, e tale risultato costituisce una delle ragioni per le quali la deliberazione viene impugnata. Sarebbe allora logicamente incongruo, e si porrebbe insanabilmente in contrasto con i principi enunciati dall’art. 24 Cost., co. 1, l’addurre come causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l’attore assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti. Analoghe considerazioni possono svolgersi quanto all’azione di annullamento.

2) Diversamente deve opinarsi in riferimento alla legittimazione dell’attore ad esercitare l’azione sociale di responsabilità a norma dell’art. 2476, co. 3, c.c. A differenza dell’azione di impugnazione delle delibere assembleari o delle decisioni dei soci, con l’azione di responsabilità sociale, il socio non esercitata diritti propri nel proprio interesse, ma diritti risarcitori che competono all’ente collettivo in ragione della violazione imputata all’organo gestorio degli obblighi di corretta amministrazione che detto organo ha, non direttamente nei confronti del socio, ma nei confronti della società. In effetti, la stessa disciplina dell’art. 2476 c.c., in tema di azione sociale di responsabilità esercitata dal socio, esplicita che il diritto fatto valere è appartenente alla società che, infatti, può transigere o rinunciare all’azione, competendo l’eventuale risarcimento unicamente alla stessa che è parte necessaria del giudizio in quanto beneficiaria del credito risarcitorio e titolare della relativa posizione giuridica pretensiva rispetto all’inadempimento degli obblighi amministrativi. Dal punto di vista processuale, se con l’azione di impugnazione il socio fa valere diritti ed interessi propri asseritamente lesi dalla delibera o decisione dei soci, con l’azione sociale di responsabilità si verifica una deroga al divieto di far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui, fuori dai casi espressamente previsti dalla legge come è quello che occupa, parlandosi così di legittimazione straordinaria del socio in termini di sostituzione, a norma dell’art. 81 c.p.c. che, essendo norma processuale, è di stretta applicazione.

3) Nel caso dell’impugnazione delle delibere dei soci che comportino come loro conseguenza la perdita dello status di socio, con conseguente perdita dei diritti partecipativi che allo stesso sono attribuiti, l’impugnante, pur non ricoprendo più al momento dell’impugnazione la qualità che lo legittimerebbe al rimedio, mantiene la legittimazione e l’interesse ad agire proprio perché, in forza dell’invalidazione della delibera egli tende a riacquisire i diritti partecipativi perduti in modo illegittimo, in altre parole permanendo al momento dell’impugnazione legittimazione ed interesse ad agire dell’impugnante quale socio. Diversa è la questione della legittimazione ad agire del socio in riferimento all’azione sociale di responsabilità. In effetti, è improcedibile l’azione di responsabilità promossa dal socio che non abbia sottoscritto l’aumento di capitale deliberato dall’assemblea dei soci ai sensi dell’art. 2482 ter, co. 1, c.c., in quanto tale evento determina la perdita della qualità di socio e, quindi, la perdita della legittimazione ad agire in giudizio contro gli amministratori in qualità di sostituto processuale della società onde esercitare diritti della società medesima e non propri.

4) Proprio per la natura derivata e straordinaria della legittimazione del socio, a nulla rileva il fatto che il medesimo abbia perduto la qualità in virtù della delibera che ha accertato la perdita del capitale e disposto la sua ricostituzione, anche là dove si obiettasse che la perdita sia stata illegittimamente determinata dagli amministratori con conseguente loro responsabilità risarcitoria, posto che il diritto che il socio fa valere riguarda il risarcimento alla lesione del patrimonio sociale di cui è titolare la società, e non un diritto proprio, essendo l’eventuale lesione del socio semplicemente indiretta e derivata dalla lesione sopportata dalla società>>.

Le massime 1 e 3 sono esatte ma anche tutto sommate ovvie. L’interesse è per quelle sub 2 e 4 e in particolare per la parte in rosso della 4, che destano perplessità.

La mass. 2 e (in parte qua) 4 non sembrano rilevanti sul tema , contrariamente a quanto opina il Trib.: la derivatività dell’azione nulla c’entra con la legittimazione straordinaria alla azione sociale di responsabuilità sub iudice-

La mass. 4 nellla parte rossa è rilevante ma errata. Se la delibera che fa perdere la qualità di socio è illegittima, allora anche la legittimazione assente all’azine ex 2476 cc  può tornare in gioco.  Semmai potrà parlarsi di un rapporto di subordinazione condizionale tra le due domande, nel senso che solo se la prima è accolta, la seconda potrà essere esaminata.

Legittimo il recesso statutario ad nutum nelle soc. (non quotate) a tempo determinato

Cass. sez. I, sent. 29/01/2024 n. 2.629, rel. Nazzicone, dopo una premessa/trattatello di eccessiva lunghezza sul recesso societario, così  motiva sul punto:

<<Ragionamenti, dunque, estranei alla questione ora all’esame, in cui al creditore non si richiede nessuna previa valutazione circa l’esistenza del diritto di recesso in quanto ancorata alla “vita del socio” o ad un “progetto imprenditoriale” più o meno specifico.

Ed invero, nell’intento di favorire l’accesso della società ai finanziamenti, il legislatore ha assicurato ai potenziali investitori la possibilità di uscire dalla società stessa con facilita e senza dover temere “sorprese”.

Nel ripercorrere le fattispecie dell’art. 2437 c.c., sopra ricordate, si nota che il legislatore, accanto alle ipotesi tipiche di attribuzione della facoltà di recesso di cui al primo, secondo e quinto comma, si è preoccupato – piuttosto – di slegare il socio dai vincoli e di preservarne l’autonomia negoziale, con il prevedere ad esempio il diritto di recesso nelle società contratte a tempo indeterminato.

Una logica non diversa, nella medesima prospettiva di autonomia negoziale dei soci e della società, connota il quarto comma della disposizione.

Come il legislatore, attuando la legge delega, ha mirato più in generale ad ampliare l’autonomia statutaria, cosi specificamente in materia di recesso, accanto all’aumento delle ipotesi legali inderogabili perché caratterizzate da esigenze di ordine pubblico, ha anche previsto la novità, consistente nel fatto che lo statuto possa prendere in considerazione ulteriori cause di recesso o non prevederne altre, pur indicate dalla legge, ma considerate derogabili.

La riforma del 2003 ha, quindi, a fronte dell’aumento dell’autonomia statutaria delle società e del rafforzamento dei poteri anche degli amministratori, attribuito alle minoranze tutela risarcitoria o, nella specie, un diritto di recesso di maggiore ampiezza. Dunque, come si rileva da molti, il recesso costituisce anche uno strumento di organizzazione dei rapporti endosocietari, spettando non più soltanto in presenza di decisioni assembleari non assentite dal socio, ma potendo le società che non fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio liberamente introdurre ulteriori cause di recesso per via statutaria, onde esso funge anche da strumento di negoziazione.

Sebbene, poi, proprio il procedimento di liquidazione previsto per legge, con il consegnare ai soci il valore tendenziale di mercato delle azioni, non escluda affatto che essi debbano accontentarsi di una perdita di valore del loro investimento e patirne un pregiudizio.

Per la maggioranza, vale la considerazione che, ove fosse non conveniente operare alla fine il rimborso della partecipazione al socio recedente, la società potrà decidere lo scioglimento.

Gli interessi che si fronteggiano in materia, pertanto, sono, da un lato, l’interesse della società a mantenere il conferimento conseguito, e, dall’altro lato, l’interesse del socio ad uscire dalla compagine societaria, una volta che abbia maturato tale intenzione.

Tuttavia, se è vero che il legislatore ha “bilanciato” egli stesso tali interessi – laddove ha attribuito al socio, con norme a volte derogabili ed a volte no, la facoltà di recedere a fronte di situazioni date (assunzione di deliberazioni non condivise, vicende di potere o di abuso nel gruppo con alterazione notevole delle condizioni economiche e patrimoniali dell’investimento) – e pur vero che egli ha, poi, espressamente riconosciuto all’autonomia statutaria la possibilità di contemplare “ulteriori cause di recesso”, con il solo limite che non si tratti di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.

È allora ragionevole ritenere che, anche in tal caso, il “bilanciamento” degli interessi sia stato compiuto dal legislatore, proprio rimettendo alla libertà statutaria la scelta di contemplare altre vicende, ivi compreso il caso che i soci, nell’esercizio della loro autonomia negoziale privata, abbiano ritenuto conforme al proprio programma imprenditoriale consentire a ciascuno, od anche solo a taluno di essi, di uscire dalla compagine societaria, e ciò non, necessariamente, soltanto in presenza dell’assunzione di deliberazioni assembleari, ma anche, come nella specie, semplicemente per volere del socio.

Mentre nel recesso per giusta causa l’accento è posto nella permanenza del c.d. rapporto fiduciario fra i soci, il recesso ad nutum non coinvolge necessariamente il rapporto fiduciario, potendo discendere anche semplicemente da una diversa valutazione circa le prospettive e scelte imprenditoriali.

Va pur detto che, peraltro, nel recesso ad nutum resta possibile – su eccezione della controparte – un controllo generale di buona fede, non diversamente che in tutti i negozi, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., trattandosi di clausole generali che regolano i rapporti interprivati (sulla sussistenza del controllo giudiziale alla stregua di tale clausole, si vedano, ad es.: Cass., sez. I, 21 settembre 2023, n. 27014; Cass., sez. I, 21 febbraio 2023, n. 5396; Cass., sez. I, 22 dicembre 2020, n. 29317 e Cass., sez. I, 24 agosto 2016, n. 17291, in materia di apertura di credito in conto corrente a tempo indeterminato; Cass., sez. III, 29 settembre 2022, n. 28395, sul contratto preliminare di vendita di quote societarie; Cass., sez. III, 3 giugno 2020, n. 10549 e Cass., sez. I, 12 ottobre 2018, n. 25606, in tema di recesso da parte della società concedente nella concessione di vendita di autoveicoli; Cass., sez. II, 29 maggio 2020, n. 10324); in particolare, questa Corte ha già avuto occasione di richiamare l’applicazione della clausola generale di buona fede all’esercizio del diritto di recesso nelle società (Cass., sez. I, 12 novembre 2018, n. 28987, in tema di recesso del socio di s.r.l.)>>.

E poi:

<>Resta fermo che le scelte statutarie potranno ricercare l’equilibrio tra queste esigenze e la preservazione del capitale sociale, ad esempio prevedendo un termine di preavviso anche superiore ai centottanta giorni ed il suo possibile allungamento statutario fino ad un anno, o un termine iniziale di preclusione dell’esercizio del diritto di recesso, sulla falsariga di quanto dispone l’art. 2328, comma 2, n. 13, c.c.>>

Insomma il principioo di diritto è:

“È lecita la clausola statutaria di una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, la quale, ai sensi dell’art. 2437, comma 4, c.c., preveda, quale ulteriore causa di recesso, la facoltà dei soci di recedere dalla società ad nutum con un termine congruo di preavviso”.

Avrebbe giovato per chiarezza precisare che ciò vale per le soc. a tempo determinato (pur se implicito visto il c. 3 del 2437 cc)

Motivazione comunque troppo lunga, bastando ad es. la parte in rosso, alla luce del disposto di legge,  che non permette rettrizioni applicative in sede ermeneutica

Doveri del sindaco di società ed eccezione di inadempimento sollevata dalla società fallita di fronte alla sua richiesta di ammissione al passivo per il compenso

Cass. ord. Sez. 1 n. 3459 del 07.02.2024, rel. DONGIACOMO GIUSEPPE:

Il giudice a quo:

<<Il tribunale, infatti, ha ritenuto la fondatezza
dell’eccezione d’inadempimento sollevata dal Fallimento sul
duplice rilievo per cui, da un lato, gli addebiti posti a fondamento
della stessa, vale a dire l’“omessa vigilanza della rilevazione
della causa di scioglimento della società amministrata, a causa
della perdita del capitale sociale … occultata tramite la falsa
esposizione nei bilanci … di valori fittizi degli assets immobiliari
…”, “risultano compiutamente descritti e trovano riscontro nella
abbondante documentazione prodotta in atti” e, dall’altro lato,
che l’opponente, a fronte di tale eccezione, non aveva
adempiuto all’onere di provare “l’esatto e completo
adempimento delle prestazioni contrattualmente dedotte”>>.

La SC:
<<4.3. Il tribunale, così ragionando, si è attenuto ai principi
ripetutamente esposti da questa Corte, e cioè che il curatore del
fallimento della società committente, nel giudizio di
verificazione conseguente alla domanda di ammissione del
credito vantato dal professionista (come il sindaco della società
poi fallita) al compenso asseritamente maturato nei confronti
della stessa, è legittimato a sollevare l’eccezione
d’inadempimento (anche nel caso in cui si fosse prescritta la
corrispondente azione: art. 95, comma 1°, l.fall.) secondo i
canoni diretti a far valere la responsabilità contrattuale: vale a
dire con il (solo) onere di contestare, in relazione alle
circostanze del caso (come “la falsa esposizione nei bilanci … di
valori fittizi degli assets immobiliari …” e il conseguente
l’occultamento “della perdita del capitale sociale”, che ha
specificamente dedotto e altrettanto doverosamente
documentato in giudizio quali fatti storici che avrebbero imposto
al sindaco la condotta che, in relazione al mandato ricevuto,
avrebbe dovuto tenere e non ha, invece, tenuto, e cioè la
tempestiva “rilevazione della causa di scioglimento della società
amministrata”), la negligente o incompleta esecuzione, ad
opera del professionista istante, della prestazione di vigilanza
dovuta, restando, per contro, a carico di quest’ultimo l’onere di
dimostrare, a fronte delle circostanze dedotte e provate dal
curatore, di aver, invece, esattamente adempiuto per la
rispondenza della sua condotta al modello professionale e
deontologico richiesto in concreto dalla situazione su cui è
intervenuto con la propria opera (cfr. Cass. SU n. 42093 del
2021).
4.4. In tema di prova dell’inadempimento di
un’obbligazione, infatti, il creditore che agisca per
l’adempimento (oltre che per la risoluzione contrattuale ovvero
per il risarcimento del danno) deve soltanto provare la fonte del
suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla
mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della
controparte [incongfruenza: poche righe sopra aveva detto “dedotte e provate”], mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere
della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito
dall’avvenuto adempimento (Cass. SU n. 13533 del 2001).
4.5. Si tratta, peraltro, di un criterio di riparto dell’onere
della prova applicabile anche al caso in cui il debitore convenuto
si avvalga, com’è accaduto nel caso in esame, dell’eccezione
d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. poiché il debitore
eccipiente può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento o
l’inesatto adempimento alle obbligazioni assunte dal creditore
(di cui deve dedurre e dimostrare il fatto costitutivo), spettando,
per contro, a chi ha agito in giudizio l’onere di provare di aver
esattamente adempiuto alle stesse (Cass. SU n. 13533 del
2001; Cass. n. 3373 del 2010; Cass. n. 826 del 2015; Cass. n.
3527 del 2021).
4.6. Pertanto, ove il preteso creditore (come il sindaco
della società fallita) proponga opposizione allo stato passivo,
dolendosi dell’esclusione di un credito (al compenso maturato)
del quale aveva chiesto l’ammissione, il Fallimento, dinanzi alla
pretesa creditoria azionata nei suoi confronti, può sollevare, per
paralizzarne l’accoglimento in tutto o in parte, l’eccezione di
totale o parziale inadempimento o d’inesatto adempimento da
parte dello stesso ai propri obblighi contrattuali (e cioè, com’è
accaduto nel caso in esame, l’“omessa vigilanza della
rilevazione della causa di scioglimento della società
amministrata, a causa della perdita del capitale sociale …
occultata tramite la falsa esposizione nei bilanci … di valori fittizi
degli assets immobiliari …”), con, appunto, il solo onere di
allegare, in relazione alle circostanze di fatto del caso (che ha
l’onere di provare), l’inadempimento del sindaco istante (al suo
dovere di vigilanza sull’attività di gestione della società: art.
2403, comma 1°, c.c.); spetta poi a quest’ultimo il compito di
provare il fatto estintivo di tale dovere, costituito dall’avvenuto
esatto adempimento, e cioè di aver adeguatamente vigilato
sulla condotta degli amministratori, attivando, con la diligenza
professionale dallo stesso esigibile in relazione alla situazione
concreta, i poteri-doveri inerenti alla carica (art. 2407, comma
1°, c.c.)>>.

Prosegue la SC:

<<4.7. I sindaci, in effetti, non esauriscono l’adempimento
dei proprio compiti con il mero e burocratico espletamento delle
attività specificamente indicate dalla legge avendo, piuttosto,
l’obbligo di adottare (ed, anzi, di ricercare lo strumento di volta
in volta più consono ed opportuno di reazione, vale a dire) ogni
altro atto (del quale il sindaco deve fornire la dimostrazione)
che, in relazione alle circostanze del caso (ed, in particolare,
degli atti o delle omissioni degli amministratori che, in ipotesi,
non siano stati rispettosi della legge, dello statuto o dei principi
di corretta amministrazione) fosse utile e necessario ai fini di
un’effettiva ed efficace (e non meramente formale) vigilanza
sull’amministrazione della società e le relative operazioni
gestorie (cfr., al riguardo, Cass. n. 18770 del 2019, in motiv.,
per cui “l’onere di allegazione e di prova nelle azioni di
responsabilità avverso l’organo sindacale si atteggia nel senso
che spetta all’attore allegare l’inerzia del sindaco e provare il
fatto illecito gestorio, accanto all’esistenza di segnali d’allarme
che avrebbero dovuto porre i sindaci sull’avviso; assolto tale
onere, l’inerzia del sindaco integra di per sé la responsabilità,
restando a carico del medesimo l’onere di provare di non aver
avuto nessuna possibilità di attivarsi utilmente, ponendo in
essere tutta la gamma di atti, sollecitazioni, richieste, richiami,
indagini, sino alle denunce alle autorità civile e penale”)>>

E subito dopo:

<<.Il decreto impugnato ha fatto corretta applicazione
degli esposti principi, dal momento che il Fallimento ha dedotto
un circostanziato inesatto adempimento (e cioè la mancata
“rilevazione della causa di scioglimento della società
amministrata, a causa della perdita del capitale sociale …
occultata tramite la falsa esposizione nei bilanci … di valori fittizi
degli assets immobiliari …”) ai compiti della carica, laddove, per
contro, il sindaco opponente (senza contestare l’insussistenza
di tali presupposti e i doveri giuridici che se conseguono), come
accertato in fatto dal tribunale, non ha, a sua volta, fornito la
prova di aver correttamente adempiuto.
4.9. Non può, in effetti, seriamente dubitarsi che i
sindaci (i quali, infatti, in caso d’inadempimento da parte degli
amministratori, sono legittimati ad agire in giudizio innanzi al
tribunale: artt. 2485, comma 2°, e 2487, comma 2°, c.c.)
abbiano (anche se si tratta di società quotate: cfr. l’art. 154,
comma 1, del d.lgs. n. 58/1998) il dovere di vigilare sul corretto
e tempestivo adempimento da parte degli amministratori
all’obbligo di rilevare tempestivamente la verificazione di una
causa di scioglimento della società, come la perdita del capitale
sociale (art. 2484, n. 4, c.c.), e di procedere alla relativa
iscrizione nel registro delle imprese (art. 2485, comma 1°, c.c.),
e che, in difetto, a prescindersi dalla dannosità o meno di tale
inosservanza, la società (o, in caso di fallimento, il suo curatore)
sia legittimata ad eccepire l’inadempimento a tale dovere per
escludere l’obbligo (e l’insinuazione al passivo del relativo
credito) al pagamento del compenso, in ipotesi, maturato.
4.10. Nelle società quotate, anzi, il dovere di vigilanza
sancito dall’art. 2403 c.c. non è circoscritto all’operato degli
amministratori ma si estende al regolare svolgimento dell’intera
gestione dell’ente in modo ancora più stringente, considerata
l’esigenza di garantire l’equilibrio del mercato (Cass. n. 1601 del
2021).
4.11. L’eccezione d’inadempimento, che può essere
dedotta anche in caso di adempimento solo inesatto, (salvo il
limite della buona fede: Cass. n. 1690 del 2006) non è, del
resto, subordinata alla presenza degli stessi presupposti
richiesti per la risoluzione del contratto e l’azione di risarcimento
dei danni conseguentemente arrecati, e cioè, rispettivamente la gravità e la dannosità dell’inadempimento dedotto (cfr. Cass.
n. 12719 del 2021).
4.12. Quanto al resto, non può che ribadirsi come la
violazione dell’art. 2697 c.c. si configura solo nell’ipotesi in cui
il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte
diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta
norma e non anche quando la censura abbia avuto ad oggetto,
com’è accaduto nel caso in esame, la valutazione che il giudice
abbia svolto delle prove proposte dalle parti lì dove ha ritenuto
(in ipotesi erroneamente) assolto (o non assolto) tale onere ad
opera della parte (e cioè, nel caso in esame, il creditore
opponente) che ne era gravata in forza della predetta norma,
che è sindacabile, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti
previsti dall’art. 360 n. 5 c.p.c. (cfr. Cass. n. 17313 del 2020;
Cass. n. 13395 del 2018)>>.

REsponsabilità dei sindaci di spa

Cass.  sez. I, Ord.  21/02/2024, n. 4.617, rel. Amatore:

<<2.7 Del resto, la motivazione impugnata risulta in linea con quanto affermato
dalla giurisprudenza di questa Corte, così non prospettandosi alcuna falsa
applicazione delle disposizioni normative sopra ricordate. Ed invero, in tema
di responsabilità degli organi sociali, la configurabilità dell’inosservanza del
dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall’art. 2407, comma 2, c.c. non
richiede l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano
espressamente in contrasto con tale dovere, ma reputa sufficiente che essi
non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano
in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così
da non assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede,
eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione
riscontrate o denunciando i fatti al Pubblico Ministero per consentirgli di
provvedere ai sensi dell’art. 2409 c.c. (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 16314 del
03/07/2017; n. 13517 del 2014; Sez. 1, Sentenza n. 20651 del 31/07/2019;
Sez. 1, Sentenza n. 20651 del 31/07/2019; Sez. 1, Sentenza n. 32397 del
11/12/2019)>>

Affermazione generica e comunque inesatta: non rilevare una macroscopica violazione e non  reagire di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità costiutiscono esattamente “specifici compoprtamenti in contrasto col dovere di vigilanza.

Piuttosto sarebbe stato ineressante leggere il decr del Tribunale d quo (Verona), parendo assai analitico nell’esame dei fatti, secondo quanto riferisce la SC

Sorte dei crediti verso società cancellata dal registro imprese e onere della prova

Cass. sez. III ord. 14/02/2024 n. 4.141, rel. Tassone:

“Questa Corte ha già avuto modo di affermare che in tema di effetti della cancellazione di società di capitali dal registro delle imprese nei confronti dei creditori sociali insoddisfatti, il disposto dell’art. 2495 cod. civ., comma 2, implica che l’obbligazione sociale non si estingue ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione, sicché grava sul creditore l’onere della prova circa la distribuzione dell’attivo sociale e la riscossione di una quota di esso in base al bilancio finale di liquidazione, trattandosi di elemento della fattispecie costitutiva del diritto azionato dal creditore nei confronti del socio (Cass., 13/12/2022, n. 36407 ; Cass., 22 giugno 2017, n.n. 15474; Cass., 6 dicembre 2019, n.n. 31933). [esatto ma … scontato]

Come emerge dalla lettura della sentenza impugnata (v. p. 9), la corte territoriale ha correttamente attribuito al Gi.Ma. l’onere della prova e lo ha ritenuto assolto, motivando in riferimento alle produzioni documentali offerte, tra cui la Relazione del liquidatore al bilancio finale di liquidazione con l’allegato prospetto di riparto, svolgendo dunque una motivazione congrua e scevra da vizi logico-giuridici; inconferenti sono dunque le ulteriori considerazioni delle ricorrenti, che finiscono per sollecitare un riesame del fatto e della prova precluso in sede di legittimità (v. tra le tantissime, Cass., 02/02/2022, n. 3119; Cass., 11/10/2018, n. 25348; Cass., 28/06/2018, n. 17036; Cass., Sez. Un., 07/04/2014, n. 8053 e n. 8054)”.

La SC poi ribadisce regole consolidate sulla transazione della obbligaizone solidale (dell’intero, sottoposto a regime diverso da quello proprio della transazione sulla quota)

Fallimento “in estensione” della società di fatto

Cass. sez. I ,ord. 29/12/2023 n. 36.378, rel. Dongiacomo:

premessa sull’estensione del fallimento ex c. 5 art. 147 l. fall. anche al caso di falliento di società di capitali:

<<4.5. In effetti, “una volta ammessa la configurabilità di una società di fatto partecipata da società di capitali e la conseguente sua fallibilità ai sensi dell’art. 147 l.fall., comma 1”, “non v’e’ alcuna ragione che, nell’ipotesi disciplinata dal ridetto comma 5 – in cui l’esistenza della società emerga in data successiva al fallimento autonomamente dichiarato di uno solo dei soci – possa giustificarne un differenziato trattamento normativo, ammettendone o escludendone la fallibilità a seconda che il socio già fallito sia un imprenditore individuale o collettivo”, non potendosi, infatti, concepire una “diversità di trattamento fra due fattispecie che presentano identità di ratio”, e dovendosi, d’altro canto, escludere che “il carattere eccezionale della disposizione (che, secondo quanto si legge nella relazione ministeriale di accompagnamento al D.Lgs. di riforma della legge fallimentare, ha recepito l’orientamento giurisprudenziale in tema di fallibilità della c.d. società occulta) ne impedisca un’applicazione più ampia di quella consentita dalla sua formulazione letterale” (Cass. n. 10507 del 2016; Cass. n. 12120 del 2016, in motiv.).

4.6. L’art. 147, comma 5, l.fall., come questa Corte ha ripetutamente affermato (Cass. n. 7903 del 2020; Cass. n. 3867 del 2020; Cass. n. 10507 del 2016; più di recente, Cass. n. 20552 del 2022, in motiv.), trova, invero, applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa e’, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito ed uno o più soci occulti, ma, in virtù di interpretazione estensiva (Cass. n. 366 del 2021, in motiv.), anche (come poi confermato dall’art. 256, comma 5, c.c.i.) nel caso in cui il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone (cd. “supersocietà” di fatto): “sia nel caso in cui dopo la dichiarazione di fallimento della società risulti l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili (art. 147, comma 4), sia in quello in cui (art. 147, comma 5) dopo la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore individuale – o della società, in base alla citata esegesi estensiva – risulti che l’impresa è riferibile a una società di cui il fallito (imprenditore individuale o società) sia socio illimitatamente responsabile (come tipicamente accade per la supersocietà di fatto), si procede sempre “allo stesso modo”: vale a dire ai sensi dell’art. 147, comma 4, in base alla specifica competenza del tribunale che ha già dichiarato il fallimento” (Cass. n. 4712 del 2021, in motiv.; conf., del resto, Corte Cost. n. 255/2017, secondo la quale “un’interpretazione dell’art. 147, comma 5, l.fall. che conducesse all’affermazione dell’applicabilità della norma al solo caso (di fallimento dell’imprenditore individuale) in essa espressamente considerato, risulterebbe in contrasto col principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.”).

4.7. Deve, tuttavia, evitarsi il rischio che l’art. 147, comma 5, l.fall. (il cui focus, appunto, “si volge… verso l’ipotesi in cui – una volta dichiarato il fallimento di un (singolo) imprenditore – successivamente emerga che, invece, si tratta di “impresa… riferibile a una società””, nel senso che mentre “il comma 4 riguarda il caso di successiva emersione di soci occulti di società palese”, “il comma 5”, invece, “si concentra sul caso della successiva emersione di una società… dapprima occulta e distinta dal soggetto già dichiarato fallito”: Cass. n. 366 del 2021, in motiv.) possa essere utilizzato per aggirare le separate disposizioni dettate dall’art. 2476 c.c., comma 7, e art. 2497 c.c. ed evitare l’esercizio di un’azione di responsabilità dai profili assai più complessi e dagli esiti incerti, ma di area non coincidente: “la norma non si presta… all’estensione al dominus (società o persona fisica) dell’insolvenza del gruppo di società organizzate verticalmente e da questi utilizzate in via strumentale, ma piuttosto all’estensione ad un gruppo orizzontale di società, non soggetto ad attività di direzione e coordinamento, che partecipano, eventualmente anche insieme a persone fisiche, e controllano una società di persone (la c.d. supersocietà di fatto)” (Cass. n. 10507 del 2016 cit., in motiv.), a condizione, naturalmente, che sussista la relativa affectio>>.

Sulla prova del rapporto societario:

<<.8. La prova della sussistenza di tale società dev’essere, infatti, fornita attraverso la dimostrazione dei presupposti costituiti dall’esercizio in comune dell’attività economica dall’esistenza di un fondo comune (da apporti o attivi patrimoniali) e dall’effettiva partecipazione ai profitti e alle perdite e, dunque, da un agire nell’interesse, ancorché diversificato (ma non contro l’interesse) dei soci (Cass. n. 12120 del 2016, in motiv.; Cass. n. 4784 del 2023, in motiv.). Il fatto che le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo (anche solo di fatto) costituisce, piuttosto ed in via tendenziale, possibile prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto (Cass. n. 10507 del 2016; Cass. n. 12120 del 2016; più di recente, Cass. n. 7903 del 2020; Cass. n. 20552 del 2022, in motiv.) e, semmai, indice dell’esistenza di una holding di fatto (che può anche essere una società di fatto: Cass. n. 23344 del 2010; Cass. n. 3724 del 2003), nei cui confronti il curatore del fallimento della società che vi è assoggettata può eventualmente agire in responsabilità (art. 2497 c.c.) e che (al pari del caso in cui la società di fatto svolge un’attività d’impresa commerciale diversa da quella della società già fallita che ne è socia e che non e’, quindi, alla predetta società di fatto “riferibile”: art. 147, comma 5, l.fall., in relazione a quanto previsto dall’art. 149 l.fall.), può, se del caso, essere a sua volta dichiarata autonomamente fallita, in via principale (e cioè a norma degli artt. 6 e 15 e art. 147, comma 1, l.fall.) e non per estensione, a richiesta di uno dei soggetti legittimati, ove ne siano accertati i presupposti soggettivi (art. 1, comma 2, l.fall.) e lo stato d’insolvenza (art. 5 l.fall.) rispetto ai debiti alla stessa imputabili (Cass. n. 10507 del 2016; Cass. n. 12120 del 2016; Cass. n. 15346 del 2016; Cass. n. 5520 del 2017; Cass. n. 7903 del 2020; Cass. n. 20552 del 2022, in motiv.)>>

Correttamente applicato dalla sentenza di appello (purtroppo le sole iniziali rendono difficile la compremnsione ed è anche per questo  che la Banca Dati di Merito dovrebbe lasciare il posto al ripristino del precedente accesso completo alla giurisprudenza di merito):

<<4.9. La corte d’appello si è senz’altro attenuta agli esposti principi. La sentenza impugnata, infatti, con apprezzamento incensurabile in sede di legittimità salvo che per il vizio – senz’altro deducibile (pur a fronte della medesima ricostruzione dei fatti da parte del tribunale e della corte d’appello, trattandosi di giudizio al quale non si applica l’art. 348-ter c.p.c., comma 5: Cass. n. 5520 del 2017) ma nel caso in esame neppure articolato con la dovuta specificità – d’omesso esame da parte del giudice di merito di fatti decisivi risultanti dalla stessa sentenza o dagli atti del giudizio (e non anche, invece, come pretendono i ricorrenti, per l’omesso esame delle prove raccolte quando i fatti rilevanti ai fini della decisione sono stati, come ha fatto la corte d’appello, comunque presi in considerazione dal giudice di merito: Cass. SU n. 8053 del 2014), ha (tra l’altro) accertato, in fatto: – lo svolgimento, da parte tanto della (Omissis) s.r.l. e della (Omissis) s.r.l., quanto di R.C., T.R.P. e T.R.C., della (stessa) attività, già facente capo alla società fallita, e cioè l'”impresa afferente la clinica sita in (Omissis)”; – la comunanza tra i diversi compartecipi dell’organizzazione aziendale a tal fine utilizzata, come i locali, l’insegna e le utenze, con i relativi dipendenti, in ragione dell’esecuzione, da parte di ciascuno di essi, di apporti patrimonialmente rilevanti in favore della stessa, come beni aziendali, somme di denaro, prestazioni di servizi e rinunce a crediti maturati nei suoi confronti; – la distribuzione in favore dei partecipi dei benefici economici conseguenti, in termini di percezione di somme di denaro non corrispondenti alle prestazioni d’opera svolte ovvero di mancato versamento di somme giuridicamente dovute, all’esercizio in comune dell’impresa sanitaria; ed ha, in forza di tale accertamento, ritenuto, in via indiziaria, che, tra le indicate società e persone fisiche, sussistesse una società di fatto finalizzata all’esercizio dell’impresa già facente capo alla (Omissis) s.r.l., in precedenza fallita, vale a dire la gestione della predetta clinica, compreso “l’accreditamento per le prestazioni sanitarie rilasciato dal servizio sanitario regionale”.

4.10. La corte d’appello, così facendo, ha senz’altro accertato i presupposti necessari per l’affermato vincolo societario: la cui sussistenza, in effetti, se non richiede, semplicemente, che le società di capitali che ne fanno parte abbiano, direttamente o indirettamente, (come nella specie) gli stessi soci e gli stessi amministratori (trattandosi di fatti compatibili anche con il mero esercizio di un’attività di direzione e coordinamento sulle stesse da parte di questi ultimi), può ben essere affermata (a prescindere dalle forme giuridiche che i relativi atti abbiano assunto) tutte le volte in cui, com’e’ avvenuto nel caso in esame, le stesse società, al pari dei relativi soci e/o amministratori, abbiano conferito in un fondo comune – in termini (di volta in volta) di attribuzione in proprietà (art. 2254 c.c., comma 1), come le somme di denaro versate per il pagamento dei debiti, oppure in godimento di determinati beni (art. 2254 c.c., comma 2, e art. 2281 c.c.), come il complesso aziendale di proprietà della società inizialmente fallita, ovvero di esecuzione della propria opera (art. 2263 c.c., comma 2) e, più in generale, di attribuzione patrimonialmente rilevante, come la rinuncia a far valere crediti o diritti o il rilascio di fideiussioni e di finanziamenti che, per la loro sistematicità e per ogni altro elemento concreto, siano ricollegabili ad una costante opera di sostegno del garante o finanziatore all’attività di impresa, qualificabile in realtà come collaborazione di un socio al raggiungimento degli scopi sociali (Cass. n. 4385 del 2023) – “risorse umane e materiali” “per il conseguimento dell’oggetto sociale” (art. 2253 c.c., comma 2), vale a dire l’esercizio dell’impresa già facente capo alla (Omissis) s.r.l.: in modo da poter così presumere (in difetto di emergenze che possano deporre in senso contrario, come la ricezione di un compenso corrispondente agli apporti patrimoniali o ai servizi resi agli altri) che i risultati (positivi e negativi) dell’attività svolta dagli stessi siano destinati a ricadere, secondo le regole da loro fissate, su tutti (i soci, con l’unica particolarità che le operazioni sono compiute da chi agisce non già in nome della compagine sociale ma in nome proprio: Cass. n. 14365 del 2021; Cass. n. 17925 del 2016; Cass. n. 366 del 1998, la quale ha evidenziato come, in tale ipotesi, “in deroga ai principi desumibili dagli artt. 1388,1705 e 1706 c.c., la responsabilità verso i terzi, per il compimento di tali operazioni” grava anche “su coloro nel cui interesse esse siano state compiute senza tuttavia spenderne il nome”; Cass. n. 1106 del 1995) e che, in definitiva, l’attività comune così svolta, avendo natura sostanzialmente sociale, sia, conformemente all’interesse dei partecipanti, programmaticamente svolta, come nel caso in esame, al fine di trarne un vantaggio economico da dividersi e distribuire tra loro. E’, in effetti, emerso che: – le persone fisiche hanno “incamerato in proprio ingenti somme apparentemente versate a titolo di “pagamenti stipendi”, ma per importi non compatibili con l’attività lavorativa realmente espletata”; – la (Omissis) s.r.l. ha beneficiato della cessione dei crediti maturati e maturandi in capo alla società già fallita nei confronti della ASP di Cosenza e del “mancato pagamento del canone annuale” di Euro. 500.000,00 per l’affitto dell’azienda; – la società inizialmente fallita ha ricevuto, nel 2015, le “somme necessarie al pagamento dei debiti verso i dipendenti e fornitori” e, nel 2016, goduto del “pagamento delle morosità nei confronti del personale dipendente per retribuzioni e contributi” >>

Sull’insolvenza rilevante:

<<4.14. Ed invero questa Corte ha recentemente ribadito (Cass. n. 1234 del 2019, in motiv.) il principio per cui, nell’ipotesi (come in esame) contemplata dall’art. 147, comma, 5, l.fall., l’insolvenza da prendere in considerazione è quella già accertata nei confronti dell’imprenditore apparentemente individuale (o della società) ma in realtà fallito come socio di una società occulta, perché l’insolvenza della società occulta è la stessa insolvenza dell’imprenditore apparentemente individuale (o della società) già dichiarato fallito (conf., Cass. n. 1106 del 1995, in motiv., la quale ha osservato come l’indicata conseguenza “deriva ineluttabilmente dai patti sociali della società occulta, che si concretano, fra l’altro, (si fa, per attenersi alla specie, il caso dell’imprenditore individuale che agisce per conto di una società occulta) nell’autorizzare il suddetto imprenditore a non spendere il nome della suddetta società, agendo solo per suo conto” sicché, in deroga all’art. 1705 c.c., i soci assumono responsabilità personale ed illimitata, anche per gli atti compiuti dal socio che ha agito in proprio nome, ma per conto della società dagli stessi stipulata”: “la necessità di dare attuazione prioritaria al principio (che non può essere derogato nei confronti dei terzi: vedi art. 2291, comma 2) della responsabilità personale illimitata, stabilito dall’art. 2291, comma 1, deroga all’esigenza della spendita del nome (art. 2266 c.c.); altrimenti, verrebbe posta in forse la stessa figura della società occulta, il che sarebbe contrario alla realtà delle relazioni commerciali, prima ancora che ai principi di legge”).

4.15. La società, al pari dei suoi soci illimitatamente responsabili, può, naturalmente, dimostrare in giudizio, in sede di estensione ai sensi dell’art. 147, comma 5, l.fall., l’insussistenza dello stato d’insolvenza provando che la stessa e’, al contrario, in condizione di far fronte regolarmente e con mezzi normali alle proprie (nei termini esposti) obbligazioni (cfr. Cass. n. 4712 del 2021: “il fallimento della società…, finisce per costituire, secondo l’art. 147, l’occasione per ravvisare (o comunque per accertare) anche la distinta insolvenza della supersocietà di fatto”) ovvero che i debiti assunti in nome proprio dai soci (successivamente emersi come tali) non sono, in realtà, riferibili all’impresa (ad es., perché personali) e non sono, pertanto, debiti della società tali da integrarne, in caso d’impossibilità di farvi fronte con mezzi normali, lo stato d’insolvenza (cfr. Cass. n. 10507 del 2016: “all’insolvenza del socio già dichiarato fallito potrebbe non corrispondere l’insolvenza della s.d.f. (cui gli altri soci potrebbero, in tesi, conferire le liquidità necessarie al pagamento dei debiti)”).

4.1. La corte d’appello si è senz’altro attenuta anche ai principi esposti, dove, in particolare ed ancora, ha: – per un verso, desunto, quale fatto “indiziante” (ma, in realtà, come detto, direttamente dimostrativo dei debiti societari), le obbligazioni della (super) società di fatto da quelle assunte (in nome proprio) dal “socio cui era inizialmente imputabile l’attività economica”, e, precisamente, dall’ammontare del passivo della fallita (Omissis) s.r.l. (che, alla data della pronuncia di primo grado, ammontava ad Euro. 24.172.090,97, cui occorreva aggiungere le domande di ammissione tardiva relative a debiti erariali, non ancora esaminate, per complessivi Euro. 94.033.337,24, per un’esposizione debitoria complessiva pari ad oltre 118.000.000,00 di Euro); – per altro verso, rilevato come nessuno degli (altri) soci di fatto (e cioè la Cura T.R. s.r.l., R.C., T.R.C. e T.R.P.) risultava avere disponibilità finanziarie tali da garantire la completa copertura dei debiti liquidi ed esigibili riferibili alla società di fatto di cui fanno parte; ed ha, in conseguenza, correttamente affermato (in difetto di emergenze probatorie che potessero dimostrare che tali debiti, al pari di quelli degli altri soci, come la (Omissis) s.r.l., gravata da debiti iscritti a ruolo per oltre 2.760.000 Euro, non erano, in fatto, riferibili all’impresa comune e, quindi, non imputabili alla società di fatto tra gli stessi) che “l’ingente esposizione debitoria della società di fatto è di entità tale da rendere manifesto lo stato di insolvenza della società medesima che non è più in grado di far fronte regolarmente e con mezzi normali alle proprie obbligazioni”. D’altra parte, una volta accertata l’esistenza di una società di fatto insolvente della quale uno o più soci illimitatamente responsabili siano costituiti da società a responsabilità limitata, il fallimento in estensione di queste ultime costituisce una conseguenza ex lege prevista dall’art. 147, comma 1 (e comma 5), l.fall., senza necessità dell’accertamento della loro specifica insolvenza (Cass. n. 1095 del 2016)>>.

I doveri del sindaco di società e l’onere probatorio della loro violazione da parte della curatela fallimentare (anche solo come eccezione di inadempimento alla richiesta di pagamento del compenso)

Cass.  Sez. I del 24/01/2024, n. 2.350, rel. Dongiacomo, con passaggi di un certo interesse:

sul secondo punto:

<<4.2. Il tribunale, infatti, pur avendo (correttamente) affermato che la vigilanza dei sindaci non si estende alla verifica della convenienza delle scelte gestionali degli amministratori, dovendo, piuttosto, riguardare la legittimità delle scelte e la correttezza dei procedimenti decisionali seguiti dagli stessi, ha ritenuto l’infondatezza dell’eccezione d’inadempimento con la quale il Fallimento aveva dedotto la “carenza di vigilanza” da parte del sindaco opponente in ordine ad alcune operazioni gestorie compiute dagli organi di gestione, limitandosi a rilevare, per un verso, che non era emersa la necessaria incidenza causale tra le omissioni imputate allo stesso e l’evento lesivo consistito nell’aumento indebito della massa passiva, e, per altro verso, che il collegio sindacale, come si evince dal contenuto delle verifiche svolte e dalle relazioni periodiche predisposte dagli stessi, aveva preso effettivamente atto dell’incremento dell’indebitamento e degli insoluti via via maturati, invitando il consiglio di amministrazione ed il socio di maggioranza ad effettuare concreti interventi finanziari e manifestando sempre la propria preoccupazione per l’equilibrio finanziario della società.

4.3. Il tribunale, tuttavia, ha, in tal modo, illegittimamente omesso di considerare, così cadendo nel vizio di falsa applicazione delle norme invocate dal ricorrente, come in precedenza indicate, il principio, che questa Corte ha ripetutamente affermato, secondo il quale il curatore del fallimento della società committente, nel giudizio di verificazione conseguente alla domanda di ammissione del credito vantato dal professionista (come il sindaco della società poi fallita) al compenso asseritamente maturato nei confronti della stessa, è legittimato a sollevare l’eccezione d’inadempimento (anche nel caso in cui si fosse prescritta la corrispondente azione: art. 95, comma 1°, l.fall.) secondo i canoni diretti a far valere la responsabilità contrattuale: vale a dire con il (solo) onere di contestare, in relazione alle circostanze del caso (come le operazioni gestorie, asseritamente contrarie ai principi di corretta amministrazione, che ha specificamente dedotto e altrettanto doverosamente documentato in giudizio quali fatti storici che avrebbero imposto al sindaco la condotta che, in relazione al mandato ricevuto, avrebbe dovuto tenere e non ha, invece, tenuto), la negligente o incompleta esecuzione, ad opera del professionista istante, della prestazione di vigilanza dovuta, restando, per contro, a carico di quest’ultimo l’onere di dimostrare, a fronte delle circostanze dedotte e provate dal curatore, di aver, invece, esattamente adempiuto per la rispondenza della sua condotta al modello professionale e deontologico richiesto in concreto dalla situazione su cui è intervenuto con la propria opera (cfr. Cass. SU n. 42093 del 2021).

4.4. In tema di prova dell’inadempimento di un’obbligazione, infatti, il creditore che agisca per l’adempimento (oltre che per la risoluzione contrattuale ovvero per il risarcimento del danno) deve soltanto provare la fonte del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento (Cass. SU n. 13533 del 2001)

4.5. Si tratta, peraltro, di un criterio di riparto dell’onere della prova applicabile anche al caso in cui il debitore convenuto si avvalga, com’è accaduto nel caso in esame, dell’eccezione d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. poiché il debitore eccipiente può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento o l’inesatto adempimento alle obbligazioni assunte dal creditore (di cui deve dedurre e dimostrare il fatto costitutivo), spettando, per contro, a chi ha agito in giudizio l’onere di provare di aver esattamente adempiuto alle stesse (Cass. SU n. 13533 del 2001; Cass. n. 3373 del 2010; Cass. n. 826 del 2015; Cass. n. 3527 del 2021).

4.6. Pertanto, ove il preteso creditore (come il sindaco della società fallita) proponga opposizione allo stato passivo, dolendosi dell’esclusione di un credito (al compenso maturato) del quale aveva chiesto l’ammissione, il Fallimento, dinanzi alla pretesa creditoria azionata nei suoi confronti, può sollevare, per paralizzarne l’accoglimento in tutto o in parte, l’eccezione di totale o parziale inadempimento o d’inesatto adempimento da parte dello stesso ai propri obblighi contrattuali (e cioè, com’è accaduto nel caso in esame, la “carenza di vigilanza” da parte del sindaco opponente in ordine ad alcune operazioni compiute dagli amministratori, dal curatore eccipiente dedotte e documentate, in quanto, a suo dire, “contrarie al principio di corretta amministrazione”), con, appunto, il solo onere di allegare, in relazione alle circostanze di fatto del caso (che ha l’onere di provare), l’inadempimento del sindaco istante (al suo dovere di vigilanza sull’attività di gestione della società: art. 2403, comma 1°, c.c.); spetta poi a quest’ultimo il compito di provare il fatto estintivo di tale dovere, costituito dall’avvenuto esatto adempimento, e cioè di aver adeguatamente vigilato sulla condotta degli amministratori, attivando, con la diligenza professionale dallo stesso esigibile in relazione alla situazione concreta, i poteri-doveri inerenti alla carica (art. 2407, comma 1°, c.c.)>>.

sul primo punto:

<4.7. I sindaci, in effetti, non esauriscono l’adempimento dei proprio compiti con il mero e burocratico espletamento delle attività specificamente indicate dalla legge avendo, piuttosto, l’obbligo di adottare (ed, anzi, di ricercare lo strumento di volta in volta più consono ed opportuno di reazione, vale a dire) ogni altro atto (del quale il sindaco deve fornire la dimostrazione) che, in relazione alle circostanze del caso (ed, in particolare, degli atti o delle omissioni degli amministratori che, in ipotesi, non siano stati rispettosi della legge, dello statuto o dei principi di corretta amministrazione) fosse utile e necessario ai fini di un’effettiva ed efficace (e non meramente formale) vigilanza sull’amministrazione della società e le relative operazioni gestorie (cfr., al riguardo, Cass. n. 18770 del 2019, in motiv., per cui “l’onere di allegazione e di prova nelle azioni di responsabilità avverso l’organo sindacale si atteggia nel senso che spetta all’attore allegare l’inerzia del sindaco e provare il fatto illecito gestorio, accanto all’esistenza di segnali d’allarme che avrebbero dovuto porre i sindaci sull’avviso; assolto tale onere, l’inerzia del sindaco integra di per sé la responsabilità, restando a carico del medesimo l’onere di provare di non aver avuto nessuna possibilità di attivarsi utilmente, ponendo in essere tutta la gamma di atti, sollecitazioni, richieste, richiami, indagini, sino alle denunce alle autorità civile e penale”).

4.8. Né, d’altra parte, può rilevare il fatto il fatto che le obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, come quelle che gravano sui componenti del collegio sindacale, sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato.

4.9. È senz’altro vero, infatti, che il professionista, assumendo l’incarico, s’impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato (come, nel caso del sindaco, la legittimità e la correttezza dell’intera gestione sociale) ma non anche a conseguirlo e che l’inadempimento del professionista non può essere, pertanto, desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dalla società committente, dovendo essere, piuttosto, valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale ed, in particolare, al dovere di diligenza professionale fissato dall’art. 1176, comma 2°, c.c. (e, nel caso del sindaci, dall’art. 2407, comma 1°, c.c.).

4.10. È anche vero, tuttavia, che il diritto del professionista al compenso (che nel caso dei sindaci è previsto dall’art. 2402 c.c. e dev’essere corrisposto anno per anno: Cass. n. 6027 del 2021), se non implica il raggiungimento del risultato programmato con il conferimento del relativo incarico (e cioè la legittimità dell’intera gestione sociale e la sua conformità ai principi di corretta amministrazione: art. 2403, comma 1°, c.c.), richiede, nondimeno, che il giudice di merito accerti, in fatto, la concreta ed effettiva idoneità funzionale delle prestazioni svolte a conseguire tale risultato, essendo, in effetti, evidente che, in difetto, pur in difetto di una responsabilità contrattuale del professionista a tal fine incaricato (per la mancanza, ad esempio, di danno che ne sia conseguito), non potrebbe neppure parlarsi di atto di adempimento degli obblighi contrattualmente assunti dallo stesso (cfr. Cass. n. 36071 del 2022, in motiv.) e giustifica, quindi, il rifiuto del committente, a norma dell’art. 1460 c.c., al pagamento, in tutto o in parte, del compenso (in ipotesi) maturato.

4.11. L’eccezione d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. può essere, di conseguenza, opposta dal cliente (o dal curatore del relativo fallimento) al professionista (come il sindaco) che abbia violato l’obbligo di diligenza professionale quando le prestazioni svolte dallo stesso, a prescindere dal mancato conseguimento del risultato perseguito, non sono state, per la negligenza con cui sono state eseguite, oggettivamente funzionali, in tutto o in parte, alla soddisfazione degli interessi del primo, così come dedotti, per volontà delle parti o (come nel caso dei sindaci) della legge, nel contratto di prestazione d’opera professionale tra loro intercorso ed abbiano, di conseguenza, negativamente inciso sulla effettiva realizzazione(o possibilità di realizzazione) degli stessi (cfr. Cass. n. 13207 del 2021).

4.12. Il dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall’art. 2403 c.c. è, in effetti, configurato dalla legge con particolare ampiezza poiché non è circoscritto all’operato degli amministratori ma si estende al regolare svolgimento dell’intera gestione sociale in funzione della tutela non solo dell’interesse dei soci ma anche di quello concorrente dei creditori sociali (Cass. n. 2772 del 1999; Cass. n. 5287 del 1998; più di recente, in tema di sanzioni amministrative, Cass. n. 1601 del 2021): né, d’altra parte, riguarda solo il mero e formale controllo sulla documentazione messa a disposizione dagli amministratori, essendo conferito ai componenti del relativo collegio il potere-dovere di chiedere notizie sull’andamento generale e su specifiche operazioni quando queste possono suscitare perplessità, per le modalità delle loro scelte o della loro esecuzione.

4.13. Il compito essenziale dei sindaci, infatti, è di verificare il rispetto dei principi di corretta amministrazione, che la riforma del diritto societario ha esplicitato e che già in precedenza potevano ricondursi all’obbligo di vigilare sul rispetto della legge e dell’atto costitutivo, secondo la diligenza professionale prevista dall’art. 1176, comma 2°, c.c., e cioè di controllare in ogni tempo che gli amministratori, alla stregua delle circostanze del caso concreto, compiano la scelta gestoria nel rispetto di tutte le regole che disciplinano il corretto procedimento decisionale.

4.14. Se è pur vero, pertanto, che il sindaco non risponde automaticamente, in termini d’inadempimento ai propri doveri giuridici, per ogni fatto gestorio aziendale non conforme alla legge o allo statuto ovvero ai principi di corretta amministrazione, è, tuttavia, necessario, a fini del corretto adempimento dei propri obblighi, che abbia esercitato (o, quanto meno, tentato, con la dovuta diligenza professionale, di esercitare) l’intera gamma dei poteri istruttori ed impeditivi affidatigli dalla legge.

4.15. Come questa Corte ha di recente ribadito, infatti, da un lato, solo un più penetrante controllo, attuato mediante attività informative e valutative, a partire dalla richiesta di informazioni o di ispezione ai sensi dell’art. 2403-bis c.c., può dare concreto contenuto all’obbligo di tutela degli essenziali interessi affidati al collegio sindacale, cui non è consentito di rimanere acriticamente legato e dipendente dalle scelte dell’amministratore, quando queste collidano con i doveri imposti dalla legge, avendo, piuttosto, il dovere di individuarle e di segnalarle ad amministratori e soci, non potendo assistere nell’inerzia alle altrui condotte dannose: senza neppure potersi limitare alla richiesta di chiarimenti all’organo gestorio ma dovendosi spingere a pretendere dal medesimo le cd. azioni correttive necessarie. Così come, dall’altro lato, il sindaco dovrà fare ricorso agli altri strumenti previsti dall’ordinamento, come i reiterati inviti a desistere dall’attività dannosa, la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c. (ove omessa dagli amministratori, o per la segnalazione all’assemblea delle irregolarità di gestione riscontrate, dunque anche ex artt. 2446 e 2447 c.c.), il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite (ai sensi di tali disposizioni), i solleciti alla revoca delle deliberazioni assembleari o sindacali illegittime, l’impugnazione delle deliberazioni viziate, il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ex art. 2487 c.c., la denunzia (ove proponibile) al tribunale ex art. 2409 c.c. o all’autorità giudiziaria penale ed altre simili iniziative (Cass. n. 18770 del 2019, in motiv.).

4.16. La configurabilità dell’inosservanza del dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall’art. 2407, comma 2°, c.c. non richiede, del resto, l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere [invece si!!!, nds], essendo, piuttosto, sufficiente che gli stessi non abbiano rilevato una macroscopica violazione o, comunque, non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate o denunciando i fatti al pubblico ministero per consentirgli di provvedere, ove possibile, ai sensi dell’art. 2409 c.c. (cfr. Cass. n. 32397 del 2019; Cass. n. 16314 del 2017; Cass. n. 13517 del 2014).

4.17. D’altra parte, anche la semplice minaccia di ricorrere ad un’autorità esterna può costituire deterrente, sotto il profilo psicologico, al proseguimento di attività antidoverose da parte dei delegati: e senza trascurare, altresì, che la condotta impediente omessa va valutata nel contesto complessivo delle concrete circostanze in quanto l’inerzia del singolo nell’unirsi all’identico atteggiamento omissivo degli altri acquista efficacia causale dato che, all’opposto, una condotta attiva giova a “rompere il silenzio” sollecitando, con il richiamo agli obblighi imposti dalla legge e ai principi di corretta amministrazione, un analogo atteggiamento degli altri (Cass. n. 18770 del 2019, in motiv.).

4.18. A fronte di iniziative anomale da parte dell’organo amministrativo, i sindaci hanno, dunque, l’obbligo di porre in essere, con debita tempestività, tutti gli atti necessari all’assolvimento dell’incarico con la dovuta diligenza, correttezza e buona fede, attivando ogni loro potere (se non di intervento sulla gestione, che non compete se non in casi eccezionali) di sollecitazione e denuncia, diretta, interna ed esterna, doveroso per un organo di controllo (Cass. n. 18770 del 2019, in motiv.).

4.19. Né del resto può rilevare il fatto che il collegio sindacale abbia in tutto o in parte ignorato le operazioni gestorie compiute dagli amministratori; la colpa, infatti, può consistere tanto in un difetto di conoscenza, quanto in un difetto di attivazione: – sotto il primo profilo, il sindaco è in colpa per non aver colposamente rilevato l’altrui illecita gestione: dove, però, non è affatto decisivo che nulla traSpaia da formali relazioni degli amministratori, perché l’obbligo di vigilanza impone, ancor prima, la ricerca di adeguate informazioni; – sotto il secondo profilo, il sindaco è tenuto a conoscere i doveri specifici posti dalla legge e ad attivarsi perché l’organo amministrativo compia al meglio il proprio dovere gestorio, vigilando per impedire il verificarsi ed il protrarsi della situazione illecita: l’inerzia, a fronte dell’illecito altrui, è dunque in sé colpevole: e il disinteresse è già indice di colpa [vero ma scontato, nds] (Cass. n. 18770 del 2019, in motiv.; Cass. n. 24170 del 2022, la quale, in materia di sanzioni amministrative, ha osservato come il comportamento inerte dei sindaci integra la mancata adeguata vigilanza da parte degli stessi sulla condotta degli amministratori tutte le volte in cui fosse esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e porvi rimedio, di modo che l’attivazione dei poteri sindacali, conformemente ai doveri della carica, avrebbe potuto permettere di scoprire le condotte illecite e reagire ad esse).

4.20. E neppure è sufficiente per escludere l’inadempimento dei sindaci il fatto di essere stati tenuti all’oscuro o di avere assunto la carica dopo l’effettiva realizzazione di alcuni dei fatti dannosi ove gli stessi abbiano mantenuto un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta degli amministratori, sebbene fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e porvi rimedio, di modo che l’attivazione dei poteri sindacali, conformemente ai doveri della carica, avrebbe potuto permettere di scoprire le condotte illecite e reagire ad esse, prevenendo danni ulteriori: nello stesso modo in cui le dimissioni presentate, ove non fossero accompagnate anche da concreti atti volti a contrastare, porre rimedio o impedire il protrarsi degli illeciti gestori, non escludono l’inadempimento del sindaco posto che, per la pregnanza degli obblighi assunti proprio nell’ambito della vigilanza sull’operato, la diligenza richiesta al sindaco impone, piuttosto, un comportamento alternativo e le dimissioni diventano, anzi, sotto questo profilo, esemplari della condotta colposa tenuta dal sindaco, rimasto indifferente ed inerte nel rilevare una situazione di reiterata illegalità (Cass. n. 18770 del 2019).

4.21. E neppure, infine, può rilevare il fatto che, come invece affermato dal tribunale, l’inadempimento contestato al sindaco non abbia arrecato un danno alla società committente: l’eccezione d’inadempimento, che può essere dedotta anche in caso di adempimento solo inesatto, si limita, infatti, a consentire alla parte che la solleva il legittimo rifiuto di adempiere (in tutto o in parte) in favore dell’altro contraente che a sua volta non ha adempiuto (o ha adempiuto inesattamente) la propria obbligazione e, dunque, (salvo il limite della buona fede: Cass. n. 1690 del 2006) non è subordinata alla presenza degli stessi presupposti richiesti per la risoluzione del contratto e l’azione di risarcimento dei danni conseguentemente arrecati, e cioè, rispettivamente, la gravità e la dannosità dell’inadempimento dedotto (cfr. Cass. n. 12719 del 2021)>>.

Sfasatura temporale tra la negligenza del sindaco di SRL e il suo diritto al compenso: è legittimo sollevare eccezione di inadempimento da parte della società?

Cass. Sez. I, Ord. 15/02/2024, n. 4.168, rel. Crolla, esamina l’interessante caso in oggetto.

In breve se l’inadempimento attiene ad esercizi precedenti quello di cui il sindco chiede il compenso (il presupposto è ovviamente che sia stato medio rinnovato nell’incarico), può essergli sollevata exceptio inadimplenti non est adimplendum (nella modalità di rigetto della domanda di ammissione al passivo fallimentare)? Risponde di sì  la SC.

<<2.1 Secondo quanto affermato da questa Corte “in tema di società di capitali, l’adempimento dei doveri di controllo, gravanti sui sindaci per l’intera durata del loro ufficio, può essere valutato non solo in modo globale e unitario ma anche per periodi distinti e separati, come si desume dalla disciplina generale, contenuta nell’art. 1458, comma 1, c.c., riferita a tutti i contratti ad esecuzione continuata, pertanto, poiché l’art. 2402 c.c. prevede una retribuzione annuale in favore dei sindaci, è in base a questa unità di misura che l’inadempimento degli obblighi di controllo deve essere confrontato con il diritto al compenso” (Cass. 6027/2021).

2.2 Ciò in quanto il testo della norma dell’art. 2402 c.c. risulta univoco nell’indicare che quella spettante ai sindaci è, propriamente, una “retribuzione annuale”, secondo quanto è coerente, del resto, con la durata che connota, come scansione dell’attività di impresa, l'”esercizio sociale” (così, sulla base di questa constatazione, la giurisprudenza di questa Corte ritiene che il credito del sindaco goda del privilegio ex art. 2751-bis c.c. non già in relazione agli ultimi due mandati, ma unicamente per le due ultime annualità del più recente incarico: cfr. Cass., 4 dicembre 1972, n. 3496; Cass., 9 aprile 2019, n. 15828, che appunto discorrono di “distinti crediti annuali”). Ne segue, allora, che è con questa unità di misura (della singola annualità) che l’inadempimento degli obblighi di controllo deve venire a confrontarsi in relazione al riconoscimento del diritto al compenso del sindaco.

2.3 Nel caso in esame il Tribunale fiorentino ha accertato che la nomina avvenuta il 27 luglio 2018 del nuovo Collegio sindacale, che confermava quale componente la A.A., aveva riguardato gli esercizi relativi agli anni 2018, 2019 e 2020, con la conseguenza che la responsabilità dell’opponente, a fronte del rinnovo della nomina, concerneva tutte le vicende societarie occorse nell’anno solare 2018 e quindi vi rientravano anche i profili di carente vigilanza sui fatti inerenti all’operazione di fusione conclusasi il 15 marzo 2018.

2.4 L’impugnato decreto ha, inoltre, soggiunto che le conseguenze pregiudizievoli scaturite dalla suddetta operazione straordinaria di fusione, correlate alle gravose passività accumulate dalla società incorporanda, la cui effettiva situazione economico-patrimoniale i sindaci avrebbero dovuto disvelare e denunciare con una più accorta e diligente condotta professionale, si sono palesate solo in sede di elaborazione del bilancio relativo all’anno 2018, e dunque nel corso dell’anno 2019.

2.5 La consapevolezza, grazie all’avvertimento del danno-conseguenza, della presenza dell’inadempimento a monte e della correlata responsabilità dell’organo societario ha indotto il Tribunale a riconoscere il carattere sinallagmatico dell’eccezione di inadempimento anche sull’unità temporale dell’annualità 2019.

2.6 Tali conclusioni vanno condivise, in quanto proprio il precedente giurisprudenziale sopra richiamato, nell’affermare che l’inadempimento di un componente del collegio sindacale “può essere apprezzato non solo in modo globale e unitario ma anche per periodi distinti e separati”, fa salva la possibilità che l’eccezione di inadempimento si ponga in rapporto di corrispettività con le richieste di compensi avanzate dal professionista per l’attività riferite al periodo, da considerarsi unitariamente, comprensivo dell’annualità nel corso del quale si è realizzata la condotta antigiuridica del professionista e della successiva annualità in cui si sono palesate le conseguenze dannose>>.

Come si nota , però, nel caso specifico la risposta positiva si è basata sul fatto che la sfasatura temporale non era totale , essendoci invece una sovrapposizione parziale di tre mesi.

Eventi di questo tipo non sono semplicissimi da governare. Sorgono dei dubbi:

1) se la sovrapposizione fosse stata solo di pochissimi giorni, sarebbe cambiato qualcosa?

2) l’incarico rinnovato ogni tre annni è un incarico unico oppure son tanti incarichi quante le delibere di incarico?

3) se la sfasatura fosse stata assoluta (ad es. fusione negligentemente non ostacolata nel 2017 e rinnovo nel 2018), sarebbe cambiato qualcosa?

Sub 2, direi che ogni delibera dà luogo ad un nuovo incarico.

Ma da ciò, circa sub 3) , non ne segue necessariamente  un dovere di pagare il compenso per il nuovo incarico in presenza di danni cagionati nel precedente. Solo che non si potrà adoperare l’exceptio, bensì la -più ardua, per la stima del danno- via della compensazione tra crediti (al compenso vs. risarcitorio).

In caso di cancellazione della società conduttrice, l’azione di risoluzione contrattuale può essere rivolta ai soci che succedono ex art. 2495 cc

Così Cass. sez. III, ord. 06/11/2023 n. 30.832, rel. Condello.

Questa la massima di Giustizia Civile in DeJure.

<<In tema di locazione, in caso di estinzione della società conduttrice conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, l’azione di risoluzione del contratto e restituzione del bene locato è esperibile nei confronti dei soci, in quanto, ai sensi dell’art. 2495 c.c., a seguito dell’estinzione i soci succedono in tutti i rapporti obbligatori aventi natura patrimoniale, e, quindi, anche nel contratto di locazione stipulato dalla società estinta dal quale deriva un fascio di obbligazioni che comprende, non solo quella di corrispondere i canoni pattuiti, ma anche quella di restituire l’immobile alla cessazione del rapporto>>.

Ma è meglio andare alla motivazione, dicendo nulla la massima sul punto di interesse:

<<4.2. La questione che si prospetta con la censura in esame è quello di stabilire entro che limiti operi il fenomeno successorio sui generis che consegue alla cancellazione della società dal registro delle imprese.

Ritiene il Collegio che l’art. 2495 c.c., come interpretato dalle Sezioni Unite [sentenza n. 6070 del 12 marzo 2013, NDS] , non abbia una portata limitata alle obbligazioni pecuniarie, ma debba trovare applicazione con riguardo a tutti i rapporti obbligatori aventi natura patrimoniale.

Le Sezioni Unite, con la nota sentenza del 2013, nel riferirsi genericamente alle “obbligazioni”, tanto attive quanto passive, hanno lasciato intendere che nel fenomeno successorio debba farsi rientrare qualsiasi obbligazione e che la dizione “creditori sociali non soddisfatti”, contenuta nell’art. 2495 c.c., comma 2 non possa che ricomprendere qualsiasi pretesa derivante da rapporti pendenti già facenti capo alla società, e, quindi, anche quelle che traggono origine da contratti di cui la società era parte, non diversamente da quanto accade a seguito della morte della persona fisica.

Ciò porta a ritenere l’applicabilità dell’art. 2495 c.c. anche al contratto di locazione ad uso diverso da quello abitativo, dal momento che da esso deriva un fascio di obbligazioni, che comprende non solo quella di corrispondere i canoni pattuiti, ma anche quella di restituire l’immobile alla cessazione del rapporto.

Varrà rilevare, sul punto, che nel caso di decesso di persona fisica, che rivesta la qualità di conduttore nell’ambito di un contratto di locazione ad uso diverso da quello abitativo, contro gli eredi è sicuramente azionabile il diritto, vantato dal locatore, al pagamento dei relativi canoni ed alla riconsegna del bene immobile alla scadenza del contratto, dato che gli eredi subentrano nella stessa posizione del de cuius e ne assumono i relativi obblighi.

Allo stesso modo nell’ipotesi in cui a rivestire la qualità di conduttore sia una società che successivamente viene cancellata dal registro delle imprese, le obbligazioni originariamente da essa assunte non possono che essere trasferite ai soci della medesima società, nei cui confronti i creditori possono agire, ai sensi dell’art. 2495 c.c., qualora esse attengano a rapporti ancora pendenti e non ancora definiti al momento della cancellazione, proprio perché le obbligazioni derivanti dal contratto non ancora adempiute si atteggiano alla stregua di crediti non soddisfatti.

Ciò significa che si trasferiscono ai soci anche i rapporti diversi dai debiti pecuniari. Precisamente in base al fenomeno di tipo successorio che consegue alla cancellazione, sono trasferiti ai soci le obbligazioni ancora inadempiute ed i beni o i diritti non compresi nel bilancio finale di liquidazione, con esclusione, invece, delle mere pretese, ancorché azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi necessitanti dell’accertamento giudiziale non concluso (Cass. Sez. U, n. 29108 del 18/12/2020; Cass., sez. 1, n. 19302 del 19/07/2018; Cass., sez. 1, 15/11/2016, n. 23269).

Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, seppure con riferimento alla diversa fattispecie dell’obbligo di concludere il contratto definitivo ex art. 2932 c.c., assunto da una società promittente alienante successivamente estinta per intervenuta cancellazione dal registro delle imprese (Cass., sez. 2, 2023, n. 15762), “dall’estinzione della società, derivante dalla sua volontaria cancellazione dal registro delle imprese, non discende l’estinzione degli obblighi di facere ancora insoddisfatti che ad essa facevano capo, poiché diversamente si riconoscerebbe al debitore di disporre unilateralmente del diritto altrui, con conseguente ingiustificato sacrificio dei creditori. Invece, all’esito dell’estinzione della società tali debiti insoddisfatti si trasferiscono in capo ai suoi soci. Per l’effetto, gli ex soci sono sempre destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società estinta, ma non definiti al termine della liquidazione, fermo restando il loro diritto di opporre il limite di responsabilità ex art. 2495 c.c. per i debiti pecuniari”; cosicché “i soci della società estinta possono essere convenuti in giudizio (oppure il giudizio già pendente nei confronti della società può continuare verso i soci), qualora la causa abbia ad oggetto obbligazioni della società diverse da quelle riguardanti somme di denaro (vedi, con riferimento alle azioni revocatorie ordinarie, Cass., sez. 3, Ordinanza n. 6598 del 06/03/2023; Sez. 3, n. 5816 del 27/02/2023; Sez. 3, Sentenza n. 21105 del 19/10/2016)>>.

Abuso di maggioranza nella rimozione di clausola di prelazione in SRL

Cass. Sez. I, Ord. 14/02/2024, n. 4.034, rel. Perrino, in una impugnazione di delibera abolitiva di una clausola di prelazione statutaria  “interna” cioè solo tra soci (srl con tre soci):

<<4.- Col quarto motivo di ricorso si lamenta la violazione o falsa applicazione, per omesso esame di fatti decisivi, rilevanti in base agli artt. 2479, comma 2, n. 4, 2479-ter, 1175, 1375 e 2697 c.c., perché idonei a dimostrare l’intento di emarginare definitivamente dalla compagine sociale il socio di minoranza, senza consentirgli di aumentare la consistenza della propria partecipazione al capitale sociale con l’acquisto di una percentuale della quota della socia venditrice. In sostanza, col motivo il ricorrente evidenzia che la motivazione della corte d’appello è al di sotto del minimo costituzionale, perché la corte territoriale non mostra di aver percepito le conseguenze scaturenti dalla delibera di abolizione della prelazione interna.

Il motivo, oltre che ammissibile, in quanto basato su fatti pacifici nel loro accadimento della rilevanza dei quali si assume la pretermissione, è fondato, alla luce dei principi fissati da questa Corte nel delineare la fisionomia dell’abuso di maggioranza, ancorati alla regola della buona fede oggettiva, quale canone di valutazione della condotta dei soci in assemblea, esecutiva del contratto di società.

Secondo questa Corte sussiste abuso di maggioranza, che si riverbera sull’annullabilità della delibera con la quale esso si è espresso, qualora il voto non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società, perché volto a perseguire un interesse personale antitetico a quello sociale, oppure se sia il risultato di un’intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli (Cass. n. 27387/05; n. 15942/07; n. 15950/07; n. 23823/07; n. 20625/20; sez. un., n. 2767/23). [nb: la SC individua due casi tipici di abuso]

4.1.- Il ricorrente sostiene dunque che l’eliminazione della clausola di prelazione interna abbia determinato la lesione del proprio corrispondente diritto, che gli era stato conferito dallo statuto, e che questa lesione, rilevante di per sé, non sarebbe stato affatto valutata dal giudice d’appello.

È, invece, tramontata la prospettazione del perseguimento dell’interesse contrastante con quello sociale, posto che il ricorrente non ha aggredito le statuizioni contenute nella sentenza impugnata con le quali si è esclusa la fondatezza di questo profilo, in base, per un verso, all’approvazione unanime della delibera che ha procurato a Star Traders la provvista usata per acquistare parte della quota della socia B.B., e, per altro verso, all’irrilevanza della qualità di società estera della socia divenuta di maggioranza.

5.- Questione decisiva sta nello stabilire se l’attore, sul quale grava il relativo onere, abbia fornito, o non, la prova dell’abuso; e giova sottolineare che di regola abuso ed eccesso di potere non sono suscettibili di prova diretta, ma di una valutazione di tipo indiziario, presuntivo, nel rispetto dei canoni di gravità, precisione e concordanza (cfr., al riguardo, Cass. n. 26387/05).

A questa domanda la corte d’appello ha dato risposta negativa, perché, ha considerato, quel socio era già di minoranza e tale sarebbe rimasto anche se la clausola non fosse stata soppressa.

Questa statuizione è tautologica e inconferente, in quanto effettivamente non esamina la rilevanza del vulnus provocato dalla delibera alle prerogative del socio all’interno dell’organizzazione sociale.

5.1.- Si suole riconoscere alla clausola di prelazione rilevanza organizzativa, ossia funzione specificamente sociale, perché essa incide sul rapporto tra l’elemento capitalistico e quello personale della società, nel senso che accresce il peso del secondo elemento rispetto al primo nella misura che i soci ritengano di volta in volta più adatta alle esigenze dell’ente (Cass. n. 12370/14; n. 24559/15). È inevitabile, tuttavia, che la modifica delle regole organizzative alteri le posizioni organizzative dei soci o anche soltanto le posizioni dei soci nell’organizzazione; in particolare, la soppressione o la modifica di una clausola di prelazione inesorabilmente si riverbera sul deterioramento delle prerogative dei soci.

Il che è ancora più evidente nel caso in cui la clausola sia modificata nel senso di escluderne soltanto gli effetti all’interno della compagine societaria, ossia nel senso di escludere che uno dei soci possa valersene in relazione alle vendite delle quote degli altri soci: un tale ridimensionamento della portata della clausola è idonea a intaccare l’equilibrio dei rapporti interni alla compagine sociale, in quanto elide la parità di chances di ciascun socio, presidiata dalla clausola di prelazione interna, di acquistare la quota di un altro socio, o anche solo parte di essa, e, quindi, di rafforzare la propria posizione all’interno della società.

6.- Dunque, a fronte di un tale deterioramento, quel che rileva è verificare se, nel caso in esame, i soci di maggioranza, con l’adozione della delibera di abolizione della prelazione interna, abbiano agito in modo strumentale per recare un danno ingiustificato al socio di minoranza, eventualmente col proprio particolare e altrettanto ingiustificato vantaggio, in violazione del canone di buona fede oggettiva posto dall’art. 1375 c.c., per il quale ciascun socio ha l’obbligo di consentire che gli altri salvaguardino i propri interessi sociali, ossia le utilità protette dalle prerogative organizzative loro spettanti, se ciò non sia di apprezzabile detrimento per i propri interessi negoziali.

6.1.- Come si è persuasivamente sottolineato in dottrina, qualora si contrappongano, da parte dei soci di maggioranza e di quelli di minoranza, interessi entrambi negoziali, o anche entrambi non negoziali, si dovrà lasciar operare la regola della maggioranza, posto che l’adesione al contratto sociale prestata all’inizio da ciascun socio comporta la disponibilità ad assoggettarsi alle regole del funzionamento dell’assemblea per consentire alla società di assumere tutte le decisioni che l’assemblea reputi idonee al conseguimento del suo scopo.

Proprio in ragione del fatto che il socio deve accettare le limitazioni dei propri diritti in quanto collegate e funzionali, nello spirito stesso del principio di maggioranza, al miglior perseguimento dell’interesse comune riassunto nell’interesse della società, solo quest’obiettivo legittima in radice il sacrificio di quei diritti; di modo che, al cospetto di decisioni limitative o soppressive, tanto più rilevante diventa la verifica della sussistenza di una corrispondenza della decisione di maggioranza al suo scopo “naturale” e proprio.

7.- Ma se a contrapporsi siano interessi negoziali e interessi non negoziali, perché volti a pregiudicare o ad escludere il singolo o una minoranza, il principio di maggioranza non riesce efficacemente ad operare. In tal caso, nel collegamento tra il principio di maggioranza e il suo atto di esercizio, esce alterata la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede.

7.1.– Come conseguenza di tale eventuale abuso, l’ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti -e i diritti connessi- attraverso atti di per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l’ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata (in termini, Cass. n. 26541/21).

8.- Nel caso in esame, come ha osservato la Procura generale, l’eliminazione della prelazione interna è avvenuta a ridosso della vendita di parte della quota di una delle socie all’altra socia, posto che la clausola di prelazione interna è stata soppressa con delibera dell’assemblea straordinaria del 28 marzo 2014 e la cessione di quota da B.B. a Star Traders è avvenuta appena diciotto giorni dopo, ossia il 15 aprile 2014.

Un conto è essere socio di minoranza insieme con altri soci, ciascuno di minoranza, il che impone ai soci il raggiungimento di un accordo; altro conto è restare l’unico socio di minoranza, mentre altro socio diviene di maggioranza e quindi in grado di determinare le sorti della società. La Corte d’appello è dunque chiamata a valutare e a spiegare se la successione cronologica degli eventi sia stata volta a impedire al ricorrente l’esercizio del diritto di prelazione e, in particolare, se sia stata volta a impedirgli d’interferire con la vendita delle quote all’altro socio.>>

RAgionamento condivisibile: solo che è difficile ravvisare abuso solo perchè anzichè vendere a seguito di offerta in prelazione gli altri soci hanno prima cancellato la clausola prelatizia. Il contratto sociale prevede appunto che le clausole siano modificabili senza spiegazione.