Abuso di maggioranza nella rimozione di clausola di prelazione in SRL

Cass. Sez. I, Ord. 14/02/2024, n. 4.034, rel. Perrino, in una impugnazione di delibera abolitiva di una clausola di prelazione statutaria  “interna” cioè solo tra soci (srl con tre soci):

<<4.- Col quarto motivo di ricorso si lamenta la violazione o falsa applicazione, per omesso esame di fatti decisivi, rilevanti in base agli artt. 2479, comma 2, n. 4, 2479-ter, 1175, 1375 e 2697 c.c., perché idonei a dimostrare l’intento di emarginare definitivamente dalla compagine sociale il socio di minoranza, senza consentirgli di aumentare la consistenza della propria partecipazione al capitale sociale con l’acquisto di una percentuale della quota della socia venditrice. In sostanza, col motivo il ricorrente evidenzia che la motivazione della corte d’appello è al di sotto del minimo costituzionale, perché la corte territoriale non mostra di aver percepito le conseguenze scaturenti dalla delibera di abolizione della prelazione interna.

Il motivo, oltre che ammissibile, in quanto basato su fatti pacifici nel loro accadimento della rilevanza dei quali si assume la pretermissione, è fondato, alla luce dei principi fissati da questa Corte nel delineare la fisionomia dell’abuso di maggioranza, ancorati alla regola della buona fede oggettiva, quale canone di valutazione della condotta dei soci in assemblea, esecutiva del contratto di società.

Secondo questa Corte sussiste abuso di maggioranza, che si riverbera sull’annullabilità della delibera con la quale esso si è espresso, qualora il voto non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società, perché volto a perseguire un interesse personale antitetico a quello sociale, oppure se sia il risultato di un’intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli (Cass. n. 27387/05; n. 15942/07; n. 15950/07; n. 23823/07; n. 20625/20; sez. un., n. 2767/23). [nb: la SC individua due casi tipici di abuso]

4.1.- Il ricorrente sostiene dunque che l’eliminazione della clausola di prelazione interna abbia determinato la lesione del proprio corrispondente diritto, che gli era stato conferito dallo statuto, e che questa lesione, rilevante di per sé, non sarebbe stato affatto valutata dal giudice d’appello.

È, invece, tramontata la prospettazione del perseguimento dell’interesse contrastante con quello sociale, posto che il ricorrente non ha aggredito le statuizioni contenute nella sentenza impugnata con le quali si è esclusa la fondatezza di questo profilo, in base, per un verso, all’approvazione unanime della delibera che ha procurato a Star Traders la provvista usata per acquistare parte della quota della socia B.B., e, per altro verso, all’irrilevanza della qualità di società estera della socia divenuta di maggioranza.

5.- Questione decisiva sta nello stabilire se l’attore, sul quale grava il relativo onere, abbia fornito, o non, la prova dell’abuso; e giova sottolineare che di regola abuso ed eccesso di potere non sono suscettibili di prova diretta, ma di una valutazione di tipo indiziario, presuntivo, nel rispetto dei canoni di gravità, precisione e concordanza (cfr., al riguardo, Cass. n. 26387/05).

A questa domanda la corte d’appello ha dato risposta negativa, perché, ha considerato, quel socio era già di minoranza e tale sarebbe rimasto anche se la clausola non fosse stata soppressa.

Questa statuizione è tautologica e inconferente, in quanto effettivamente non esamina la rilevanza del vulnus provocato dalla delibera alle prerogative del socio all’interno dell’organizzazione sociale.

5.1.- Si suole riconoscere alla clausola di prelazione rilevanza organizzativa, ossia funzione specificamente sociale, perché essa incide sul rapporto tra l’elemento capitalistico e quello personale della società, nel senso che accresce il peso del secondo elemento rispetto al primo nella misura che i soci ritengano di volta in volta più adatta alle esigenze dell’ente (Cass. n. 12370/14; n. 24559/15). È inevitabile, tuttavia, che la modifica delle regole organizzative alteri le posizioni organizzative dei soci o anche soltanto le posizioni dei soci nell’organizzazione; in particolare, la soppressione o la modifica di una clausola di prelazione inesorabilmente si riverbera sul deterioramento delle prerogative dei soci.

Il che è ancora più evidente nel caso in cui la clausola sia modificata nel senso di escluderne soltanto gli effetti all’interno della compagine societaria, ossia nel senso di escludere che uno dei soci possa valersene in relazione alle vendite delle quote degli altri soci: un tale ridimensionamento della portata della clausola è idonea a intaccare l’equilibrio dei rapporti interni alla compagine sociale, in quanto elide la parità di chances di ciascun socio, presidiata dalla clausola di prelazione interna, di acquistare la quota di un altro socio, o anche solo parte di essa, e, quindi, di rafforzare la propria posizione all’interno della società.

6.- Dunque, a fronte di un tale deterioramento, quel che rileva è verificare se, nel caso in esame, i soci di maggioranza, con l’adozione della delibera di abolizione della prelazione interna, abbiano agito in modo strumentale per recare un danno ingiustificato al socio di minoranza, eventualmente col proprio particolare e altrettanto ingiustificato vantaggio, in violazione del canone di buona fede oggettiva posto dall’art. 1375 c.c., per il quale ciascun socio ha l’obbligo di consentire che gli altri salvaguardino i propri interessi sociali, ossia le utilità protette dalle prerogative organizzative loro spettanti, se ciò non sia di apprezzabile detrimento per i propri interessi negoziali.

6.1.- Come si è persuasivamente sottolineato in dottrina, qualora si contrappongano, da parte dei soci di maggioranza e di quelli di minoranza, interessi entrambi negoziali, o anche entrambi non negoziali, si dovrà lasciar operare la regola della maggioranza, posto che l’adesione al contratto sociale prestata all’inizio da ciascun socio comporta la disponibilità ad assoggettarsi alle regole del funzionamento dell’assemblea per consentire alla società di assumere tutte le decisioni che l’assemblea reputi idonee al conseguimento del suo scopo.

Proprio in ragione del fatto che il socio deve accettare le limitazioni dei propri diritti in quanto collegate e funzionali, nello spirito stesso del principio di maggioranza, al miglior perseguimento dell’interesse comune riassunto nell’interesse della società, solo quest’obiettivo legittima in radice il sacrificio di quei diritti; di modo che, al cospetto di decisioni limitative o soppressive, tanto più rilevante diventa la verifica della sussistenza di una corrispondenza della decisione di maggioranza al suo scopo “naturale” e proprio.

7.- Ma se a contrapporsi siano interessi negoziali e interessi non negoziali, perché volti a pregiudicare o ad escludere il singolo o una minoranza, il principio di maggioranza non riesce efficacemente ad operare. In tal caso, nel collegamento tra il principio di maggioranza e il suo atto di esercizio, esce alterata la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede.

7.1.– Come conseguenza di tale eventuale abuso, l’ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti -e i diritti connessi- attraverso atti di per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l’ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata (in termini, Cass. n. 26541/21).

8.- Nel caso in esame, come ha osservato la Procura generale, l’eliminazione della prelazione interna è avvenuta a ridosso della vendita di parte della quota di una delle socie all’altra socia, posto che la clausola di prelazione interna è stata soppressa con delibera dell’assemblea straordinaria del 28 marzo 2014 e la cessione di quota da B.B. a Star Traders è avvenuta appena diciotto giorni dopo, ossia il 15 aprile 2014.

Un conto è essere socio di minoranza insieme con altri soci, ciascuno di minoranza, il che impone ai soci il raggiungimento di un accordo; altro conto è restare l’unico socio di minoranza, mentre altro socio diviene di maggioranza e quindi in grado di determinare le sorti della società. La Corte d’appello è dunque chiamata a valutare e a spiegare se la successione cronologica degli eventi sia stata volta a impedire al ricorrente l’esercizio del diritto di prelazione e, in particolare, se sia stata volta a impedirgli d’interferire con la vendita delle quote all’altro socio.>>

RAgionamento condivisibile: solo che è difficile ravvisare abuso solo perchè anzichè vendere a seguito di offerta in prelazione gli altri soci hanno prima cancellato la clausola prelatizia. Il contratto sociale prevede appunto che le clausole siano modificabili senza spiegazione.

Sull’abuso di maggioranza

Cass. sez. 1 ord. 29.01.2024 n. 2660, rel. Catallozzi:

<<l’abuso della regola di maggioranza è causa di annullamento delle
deliberazioni assembleari allorquando la delibera non trovi alcuna
giustificazione nell’interesse della società – per essere il voto ispirato
al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse
personale antitetico a quello sociale – oppure sia il risultato di una
intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a
provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti
patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli (così, Cass. 12
dicembre 2005, n. 27387);
– è stato chiarito che ricorre tale ultima situazione quando il voto
determinante del socio (o dei soci) di maggioranza è stato espresso
allo scopo di ledere interessi degli altri soci oppure risulta in concreto
preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza
in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di
buona fede nell’esecuzione del contratto (cfr. Cass. 20 gennaio 2011,
n. 1361; Cass. 11 giugno 2003, n. 9353; Cass. 26 ottobre 1995, n.
11151)
– orbene, la Corte di appello ha escluso la ricorrente del dedotto vizio
in ragione del fatto che l’interesse perseguito dalla maggioranza con
tale delibera non si poneva in contrasto con quello sociale, avuto
riguardo, in particolare, alla circostanza che con essa era stato possibile
realizzare l’uscita dalla compagine sociale di Sergio Ferrando e, in tal
modo, porre fine a una situazione di disarmonie interne e di stallo, oltre
a eliminare «la non limpida chiarezza » della originaria previsione
statutaria concernente la clausola di mero gradimento e di prelazione;
– ha omesso, tuttavia, di verificare se la delibera in contestazione sia
stata approvata al fine pregiudicare gli interessi degli odierni ricorrenti,
soci di minoranza, non facendo corretta applicazione del richiamato
principio di diritto;
– la sentenza impugnata va, pertanto, cassata con riferimento ai motivi
accolti e rinviata, anche per le spese, alla Corte di appello di Firenze,
in diversa composizione>>

Dichiarato nullo l’accordo per il compenso di Musk in Tesla e il conseguente acquisto di quote

La Court of Chancery del Delaware 30.01.2024 , Tornetta v. Musk ed altri, C.A. No. 2018-0408-KSJM, dichiara nullo (rescission) l’accordo 2018 sul compenso di Musk  perchè eccessivo : o meglio M. non ha provato che era fair: <Defendants bore the burden of proving fair price. Given the conflicting testimony concerning the projections, Defendants failed to prove the factual predicate for their argument that all the milestones were “ambitious” and difficult to achieve. This argument does not support a finding of fair price>, p. 187.

Irrilevante il consenso degli azionisti, non essendo stati adeguatamente informati: <<Defendants argue that disinterested stockholder approval is “compelling evidence” that the price was fair.899 The stockholder vote is one component of the fair price analysis, but whether the vote represents a form of market evidence that can support a certain price depends on the sufficiency of the disclosure. Generally, a stockholder vote is only “compelling evidence” of fairness absent a disclosure violation.900 The Delaware Supreme Court in Weinberger held that an uninformed stockholder vote is totally “meaningless.”901 Under Weinberger, therefore, the stockholder vote is a meaningless indicator as to fair price. In SolarCity III, the high court took a more nuanced approach, affording a stockholder vote some weight despite a deficient proxy statement where the key issue was SolarCity’s value. The high court noted that there was significant public information available concerning that issue, “SolarCity traded in an efficient market,” and a strong independent fiduciary positively affected the process.902 Defendants did not establish those facts here.   Because the stockholder vote was not fully informed, it does not support a finding of fair price“, p. 190-191.

Rigettata l’eccezione di -in sostanza- arricchimento senza causa: le azioni già detenute son più che sufficienti. “Defendants argue that rescission is a harsh consequence that would leave Musk uncompensated. But Musk’s preexisting equity stake provided him tens of billions of dollars for his efforts. And Defendants have not offered a viable alternative short of leaving the Grant intact

Il punto più interessante è quello degli aspetti pratici di corporate governance e cioè della supremazia di Musk nel Board: nessuno ha seriamente negoziato il compenso da vera controparte, limitandosi invece a supinamente ratificarlo. V. il § “2.Boardroom And Managerial Supremacy” a p. . 115 ss.

Ad es. <<Based on this list alone, it could be said that Musk wields unusually expansive managerial authority, equaling or even exceeding the imperial CEOs of the 1960s>>, p. 121 (v. il rif. ai SuperstarCEOs p. 121 ss).

Oppure: <<The references to “supine servants” and “an overweening master” is hyperbolic, and no doubt deliberately so to give emphasis to the difficulty of the standard. But it hits home here. There is no greater evidence of Musk’s status as a transaction-specific controller than the Board’s posture toward Musk during the process that led to the Grant. Put simply, neither the Compensation Committee nor the Board acted in the best interests of the Company when negotiating Musk’s compensation plan. In fact, there is barely any evidence of negotiations at all. Rather than negotiate against Musk with the mindset of a third party, the Compensation Committee worked alongside him, almost as an advisory body.   Multiple aspects of the process reveal Musk’s control over it, including the timeline, the absence of negotiations over the magnitude of the Grant or its other terms, and the committee’s failure to conduct a benchmarking analysis. In the end, the key witnesses said it all by effectively admitting that they did not view the process as an arm’s length negotiation>>, 128-129.

Versamenti in conto futuro aumento di capitale e termine per deliberare l’aumento medesimo: quando ricorre la bancarotta da distrazione?

Considerazioni di interesse anche per il giuscommercialista in Cass. pen., Sez. V, Sent., (data ud. 23/06/2023) 26/09/2023, n. 39139, rel. Belmonte, circa i versamenti eseguiti senza (previa, direi) determinazione del termine entro cui l’aumento va deliberato.

Riporto i passaggi finali:

<<1.7. Tirando le fila del ragionamento e alla luce dei richiamati approdi giurisprudenziali, quel che emerge con chiarezza è che, in caso di crisi aziendale, il salvataggio attuato dai soci attraverso integrazioni del patrimonio, che possono avere diverse gradazioni, non può prescindere dalla garanzia di una informazione simmetrica tra soci e terzi sulle condizioni finanziarie della società. La ragione per la quale il conferimento destinato a coprire futuri aumenti di capitali deve essere assoggettato a un termine finale conoscibile anche dal ceto creditorio sta nella considerazione che i creditori confidano nel patrimonio dell’impresa per l’adempimento delle obbligazioni sociali. Diversamente ragionando, si trasferirebbe il rischio di impresa dalla società sui creditori, oltre a consentirsi la restituzione sine causa di somme conferite per altra ragione. 1.8. Il principio che deve essere affermato è quello che, in caso di un conferimento in conto di aumento futuro di capitale, esigenza di garanzie del ceto creditorio impongono l’individuazione di un termine finale a cui è correlato, in caso di mancata deliberazione dell’aumento, l’insorgenza del diritto di restituzione del conferimento; laddove la restituzione avvenga prima del termine (pattuito o fissato dal giudice), si realizza una distrazione da bancarotta societaria; nel caso in cui non sia stato concordato un termine a garanzia dei creditori, nè esso venga sollecitato al giudice, le somme non potranno essere restituite, in quanto destinate a coprire l’aumento di capitale (c.d. riserva targata). Diversamente, si avrebbe un rimborso sine causa, essendo correlata la relativa obbligazione alla mancata adozione della delibera entro un determinato termine.

E’ corretto, dunque, affermare che il socio conferente ha diritto alla restituzione, ove non segua la delibera dell’aumento di capitale, anche durante la vita della società, in quanto si tratta in questi casi di apporti destinati alla copertura anticipata di un determinato aumento di capitale non ancora deliberato, così da sostanziarsi in un’anticipazione della sottoscrizione del capitale destinata a perfezionarsi solo con la deliberazione societaria successiva (Cass. civ. Sez. 1 n. 31186 del 03/12/2018, Rv. 652065 – 01), ma il principio deve essere inteso nel senso che la somma anticipata resta vincolata fin quando non si verifica la condizione, sospensiva o risolutiva, della mancata delibera entro un termine che deve essere necessariamente determinato>>.

Applicato al caso de quo: <<1.9. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di tali principi: i giudici di merito hanno plausibilmente argomentato che nessun termine era stato stabilito; che neppure risulta sollecitata la fissazione giudiziaria di un termine per la restituzione; che non erano venuti meni i programmi legati all’aumento di capitale. Correttamente la Corte territoriale ha ritenuto integrata la bancarotta fraudolenta patrimoniale, contestualmente escludendo la configurabilità della bancarotta preferenziale, in coerenza con il principio affermato già dalla sentenza ‘Vesprinì, secondo cui “in tema di reati fallimentari, il prelievo di somme a titolo di restituzione di versamenti operati dai soci in conto capitale (o indicati con analoga dizione) integra la fattispecie della bancarotta fraudolenta per distrazione, non dando luogo tali versamenti ad un credito esigibile nel corso della vita della società; al contrario, il prelievo di somme quale restituzione di versamenti operati dai soci a titolo di mutuo integra la fattispecie di bancarotta preferenziale.”(Sez. 5 n. 8431/2019).

“Checklist di sostenibilità per le piccole imprese”

Il CNDEC ha curato la traduzione (eseguita da Elena Florimo) del documento “Small Business Sustainability Checklist” predisposto nel novembre 2023 dalla International Federation of Accountants.

Qui la pagine dell’originale e qui quella della traduzine nel sito CNDEC.

Documento interessante per l’analiticità e la concretezza delle proposte, divise -secondo l’acronimo ESG- in

i) ENVIRONMENTAL INITIATIVES

ii) SOCIAL RESPONSIBILITY INITIATIVES

iii) GOVERNANCE INITIATIVES

Significativo pure la “Small Business Continuity Checklist” ricordata nel documento (pur se non direttamente legata a temi ESG ma piuttoisto alla sostenibilità cd “interna” e cioè alla “continuità aziendale”

Regole di comportamento per i sindaci di società non quotate

I commercialisti presentano le <Norme di comportamento del collegio sindacale di società non quotate> 20.12.2023 (segnalazione di Ristrutturazioni Aziendali 21.12.2023)

Documento analitico ed interessante: sarà un riferimento nelle liti in materia ed anzi pure in quelle sulla diligenza dei soli amministratori (cioè senza interessamento dei sindaci).

Riporto solo dei passi su tre punti della parte “3.Doveri del collegio sindacale”.

  • “Norma 3.3. Vigilanza sul rispetto dei principi di corretta amministrazione:… La vigilanza sul rispetto dei principi di corretta amministrazione consiste nella verifica della conformità delle scelte di gestione ai generali criteri di razionalità economica”

e poi: <<La verifica in ordine alla ragionevolezza delle operazioni poste in essere dagli amministratori deve essere attuata ex ante, secondo i parametri propri della diligenza professionale, tenendo altresì in considerazione l’eventuale mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni
preventive che l’operazione da intraprendere richiede, specie in termini di margini di rischio>>

  • <<Norma 3.5. Vigilanza sull’adeguatezza e sul funzionamento dell’assetto organizzativo: … Per assetto organizzativo si intende: (i) il sistema di funzionigramma e di organigramma e, in particolare, il complesso delle direttive e delle procedure stabilite per garantire che il potere decisionale sia assegnato ed effettivamente esercitato a un appropriato livello di competenza e responsabilità, (ii) il complesso procedurale di controllo.
    Un assetto organizzativo è adeguato se presenta una struttura compatibile alle dimensioni della società, nonché alla natura e alle modalità di perseguimento dell’oggetto sociale, nonché alla rilevazione tempestiva degli indizi di crisi e di perdita della continuità aziendale e possa quindi consentire, agli amministratori preposti, una sollecita adozione delle misure più idonee alla sua rilevazione e alla sua composizione>>
  • <<Norma 3.7. Vigilanza sull’adeguatezza e sul funzionamento del sistema amministrativo-contabile: …. Il sistema amministrativo-contabile può definirsi come l’insieme delle direttive, delle procedure e delle prassi operative dirette a garantire la completezza, la correttezza e la tempestività di una informativa societaria attendibile, in accordo con i principi contabili adottati dall’impresa.
    Un sistema amministrativo-contabile risulta adeguato se permette: – la completa, tempestiva e attendibile rilevazione contabile e rappresentazione dei fatti di gestione; – la produzione di informazioni valide e utili per le scelte di gestione e per la salvaguardia del patrimonio aziendale; – la produzione di dati attendibili per la formazione dell’informativa societaria>

L’ex socio di s.n.c. non è responsabile per i canoni locatizi maturati dopo la sua uscita dalla società (anche se in base a contratto anteriore)

Cass . sez. III del 23/10/2023 n. 29.306, rel. Dell’Utri:

<<3. Osserva il Collegio come, ai sensi dell’art. 2290 c.c., “nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi sono responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento”.

La stessa norma precisa, di seguito, che “lo scioglimento deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza non è opponibile ai terzi che lo hanno senza colpa ignorato”.

4. Secondo il chiaro dettato della norma, la responsabilità del socio verso i terzi per le obbligazioni di una società di persone deve ritenersi temporalmente correlata alla durata del rapporto sociale e, conseguentemente, esclusa oltre la data dello scioglimento del rapporto tra il socio e la società, a condizione che lo scioglimento sia stato portato con mezzi idonei a conoscenza dei terzi che lo hanno incolpevolmente ignorato.

5. Rispetto a tale principio generale, non assume valore decisivo la circostanza che una determinata obbligazione sociale sia stata contratta in epoca anteriore allo scioglimento del rapporto con un singolo socio, e che gli effetti di tale obbligazione sociale siano destinati (come nel caso di specie, in ragione della relativa natura) a permanere nel tempo, oltre l’epoca dello scioglimento del rapporto tra il socio e la società.

Gli effetti di una simile obbligazione, infatti, pur pienamente operanti, sotto il profilo del vincolo, sin dall’originaria costituzione del rapporto negoziale (e la cui sola esigibilità risulta condizionata alla scadenza di termini convenuti), devono ritenersi tali, a far tempo dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto sociale, da non poter più coinvolgere, con riferimento alla prestazione non ancora esigibile, la responsabilità dei soci il cui rapporto con la società sia venuto meno.

6. A sostegno di tale interpretazione dell’art. 2290 c.c. varrà, in primo luogo, segnalare il valore significativo del dato letterale della norma, avendo il legislatore disposto una specifica limitazione nel tempo della responsabilità del socio per le obbligazioni sociali.

E’ vero che la norma non ha sancito una limitazione di detta responsabilità per le sole obbligazioni sociali contratte successivamente allo scioglimento. Ma l’uso del termine responsabilità implica l’intenzione del legislatore di non riferirsi al debito, ossia alla situazione obbligatoria come tale, cioè come fonte di vincolo per la società che l’ha contratta, bensì al momento in cui tale situazione dà luogo a responsabilità, ossia al momento in cui l’obbligazione sia divenuta esigibile e non sia stata adempiuta.

7. Dunque, benché le obbligazioni connesse a un contratto di locazione siano tutte direttamente riconducibili all’atto negoziale che ne costituì la fonte originaria (rimanendone unicamente condizionata la corrispondente esigibilità al tempo delle scadenze convenute), la responsabilità del singolo socio per dette obbligazioni (già esistenti e meramente soggette a termini di esigibilità) deve ritenersi, per legge, limitata nel tempo, ossia fino al giorno in cui si verifica l’eventuale scioglimento del rapporto sociale, sempre, naturalmente, sotto la condizione della regolare comunicazione ai terzi di detto scioglimento.

8. Sotto altro profilo, varrà sottolineare la coerenza dell’indicata interpretazione della norma con un intuitivo principio di elementare equità relazionale (o con un equilibrato contemperamento di interessi in conflitto), atteso che, a fronte della ragionevolezza dell’affidamento riposto dai terzi sulla (cor-)responsabilità dei singoli soci per le obbligazioni sociali, assume un preminente rilievo la decisiva considerazione dell’interruzione, attraverso lo scioglimento del rapporto sociale, di qualsivoglia forma di controllabilità, da parte del socio, del successivo corso dei rapporti della società con i terzi e, segnatamente, dell’adempimento delle relative obbligazioni ormai integralmente rimesse all’iniziativa, alla diligenza e alle scelte imprenditoriali dei soci superstiti, senza alcuna possibilità di interlocuzione per il socio uscente; là dove ai medesimi terzi, per converso, non può sfuggire, all’atto della contrazione di obbligazioni con una società, il rischio della sempre possibile variabilità nel tempo della struttura soggettiva della compagine sociale.

9. Le considerazioni che precedono, conseguentemente, inducono a ritenere pienamente legittima la decisione impugnata, avendo la corte territoriale correttamente evidenziato – una volta riscontrata la regolare comunicazione ai terzi dell’avvenuto scioglimento del rapporto del Q. con la società – la limitazione della responsabilità di quest’ultimo per le obbligazioni sociali fino alla data di scioglimento del rapporto (e dunque dei soli canoni maturati fino alla data dello scioglimento del rapporto sociale), dovendo escludersi, proprio ai sensi dell’art. 2290 c.c., l’invocabilità di una sua persistente responsabilità per le obbligazioni sociali relative ai canoni successivi (pur assunte in epoca anteriore allo scioglimento del vincolo sociale) a far data dalla cessazione del rapporto con la società>>.

Tutto esatto. Va aggiunto per scrupolo che la responsabilità per le obbligazioni anteriori dura oltre l’uscita del socio: nell’art. 2290 la limitazione temporale riguarda il fatto generatore dell’obbligo, non la sua azione in giudizio (nè cognitivo nè espropriativo). Non è cioè un termine analogo a quello posto dall’art. 1957 cc per l’azione del creditore verso il debitore principale.

Sul concetto di “finanziamento” dei soci ai sensi dell’art. 2467 cc

Cass. sez. I del 30/10/2023 n. 30.089, rel. Fidanzia:

<<Va preliminarmente osservato che questa Corte ha già avuto modo di affermare che il termine “finanziamento” non risulta assumere, “nel contesto del diritto vigente”, un “significato unico e costante;

soprattutto, non viene senz’altro a ridursi a formula equivalente a quella di “contratti di credito”” (cfr., in particolare, Cass. n. 14915/2019; Cass. n. 3017/2019; Cass., n. 2664/2019; Cass., n. 11878/2018), tanto che neppure la normativa dettata nel D.Lgs. n. 123 del 1998 (Testo Unico della Finanza) detta, o contiene, una definizione ad hoc del lemma “finanziamento” (vedi Cass. n. 2664/2019). Ne consegue, che, a maggior ragione, la nozione di “finanziamento dei soci a favore della società” di cui all’art. 2467 c.c. non comprende i soli contratti di credito, in quanto il comma 2 cit. norma prevede che rientrino in quella categoria i finanziamenti effettuati “in qualsiasi forma” e, quindi, ogni atto che comporti un’attribuzione patrimoniale accompagnata dall’obbligo della sua futura restituzione (vedi, ancora, Cass. n. 3017/2019; come anche Cass. n. 6104/2019, secondo cui è irrilevante la modalità di conferimento prescelta all’interno dell’ente).

Esaminando, in particolare, il caso esaminato dalla sopra citata Cass. n. 3017/2019, l’agevolazione finanziaria era consistita in un servizio di fornitura in esclusiva effettuato da un socio a favore della società e significativamente protrattosi nel tempo, senza che a fronte della sua continuativa esecuzione avesse fatto riscontro una qualche attività di pagamento da parte del soggetto societario che dei beni, via via così forniti, si era avvantaggiato.

Il caso di specie si differenzia da quello già esaminato (nei termini sopra illustrati) da questa Corte, atteso che la fornitura in esclusiva di merci da parte del socio (Azgard Nine ltd) – prima del mancato pagamento dei crediti di cui è stata richiesta l’ammissione al passivo – veniva usualmente sì pagata dalla società ((Omissis) s.r.l.), ma con la concessione alla medesima di sistematiche dilazioni di pagamento, abnormi rispetto a quelle mediamente praticate dagli altri fornitori e ai termini d’uso dei pagamenti del settore, che si aggiravano sui 1000 giorni (picco del (Omissis)), poi ridottesi negli anni successivi, ma mai sotto i 500 giorni (a fronte di termini di pagamento delle fatture che formalmente variavano da 90/100 giorni fino ad un massimo di 150 giorni).

Condivisibilmente, il giudice di merito ha ritenuto che anche la fornitura di merci, in esclusiva e di lungo corso, accompagnata da una sistematica ed abnorme dilazione di pagamento può integrare un finanziamento, rilevante ex art. 2467 c.c., in quanto non pagare sistematicamente un debito scaduto, o pagarlo comunque con un ritardo abnorme, palesemente difforme da ogni prassi commerciale, pur potendo continuare a beneficiare delle forniture del creditore, consente al debitore (nella fattispecie alla (Omissis) s.r.l.) di spostare la liquidità su altri pagamenti o investimenti, così potendo conservare un’operatività che, diversamente, la società non avrebbe.

In proposito, il Tribunale di Vicenza ha evidenziato, sulla scorta delle risultanze della CTU, che la (Omissis) s.r.l. aveva mantenuto la capacità di stare sul mercato proprio grazie alla prosecuzione delle forniture da parte della controllante, odierna ricorrente (nei cui confronti aveva un debito di ben 13,5 milioni di Euro a fronte di 17 del debito complessivo), associata alle dilazioni di pagamento alla stessa accordate, di cui la stessa non avrebbe potuto beneficiare se avesse dovuto rivolgersi ad altri operatori del mercato ad essa non collegati.

Coerentemente, ha osservato il giudice di merito che un operatore economico terzo e razionale, a fronte del sistematico mancato tempestivo pagamento delle forniture e della richiesta di continuazione delle medesime, avrebbe in ipotesi tollerato pagamenti ritardati (anche se non di 1000 giorni), senza però continuare a rifornire la debitrice o, viceversa, avrebbe continuato a rifornirla ma solo dietro pagamento di un consistente acconto e/o la stesura di un piano di rientro, o dietro costituzione di idonee garanzie, come sono soliti fare gli istituti di credito.

L’agevolazione sistematicamente concessa dalla ricorrente alla società poi fallita non era, pertanto, che il travestimento formale di quello che sarebbe dovuto essere un apporto di nuovo capitale di rischio da parte dei soci.

Il Collegio ritiene che l’articolato ragionamento del Tribunale di Vicenza abbia fatto corretta applicazione del principio già enunciato in sede di legittimità in ordine alla nozione di finanziamento, indiretto, anche cioè “in qualsiasi forma” effettuato; vi è stata infatti evidenza al finanziamento “anomalo” o “sostitutivo del capitale” nella misura in cui un creditore sul mercato del credito non lo avrebbe concesso, o non a quelle condizioni, a causa della situazione finanziaria della società (sul punto Cass. n. 12994/2019)>>.

Principio di diritto:

posto che rientra nella categoria dei finanziamenti effettuati “in qualsiasi forma”, a norma dell’art. 2467 c.c., ogni atto che comporti un’attribuzione patrimoniale accompagnata dall’obbligo della sua futura restituzione, la fornitura di merci, in esclusiva e di lungo corso, accompagnata da una sistematica dilazione di pagamento – abnorme rispetto a quelle mediamente praticate dagli altri fornitori e ai termini d’uso dei pagamenti del settore – può essere idonea ad integrare un finanziamento per il quale si applica al relativo credito di rimborso il regime civilistico della postergazione“.

La regola parrebbe esatta: resta solo da capire come dirimere l’incertezza sul se ricorra o meno tale situaizone nei singoli casi, in assenza di determinazioni quantitativo-temporali nella  legge

La mancanza di continuità aziendale è concetto diverso (più ridotto) dalla sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale (causa di scioglimento)

Interessanti (e condivisibili) osservazioni in  Trib. Milano 12.10.2023  n. 7973/2023, RG 35640/2019, pres. e rel. Mambriani:

<<Orbene, se si confronta la nozione di continuità aziendale quale risultante dalle fonti di prassi contabile sopra indicate e la fattispecie normativa di cui all’art. 2484, comma 1, n. 2 c.c., ci si avvede ben presto di quanto segue.
➢ La fattispecie di scioglimento attiene ad una valutazione circa una situazione attuale, definitiva ed irreversibile in cui versa la società, mentre la valutazione circa la sussistenza o la mancanza di continuità aziendale è di natura prospettica, cioè ha a che fare con previsioni circa il futuro della società in un determinato arco temporale (12 mesi), e, come tale, attiene ad una situazione
non definitivamente cristallizzata ed invece tipicamente reversibile. Si tratta di prospettive valutative all’evidenza non compatibili tra loro.
➢ Nella “fattispecie” di continuità aziendale rientrano fattori di natura e tipologia disparate, molti dei quali ictu oculi estranei al tema della possibilità/impossibilità di conseguire l’oggetto sociale.

➢Le fattispecie descritte dall’art. 2484 c.c. sono tipiche e, come tali, esprimono un’esigenza di certezza che non pare compatibile con la natura stessa della valutazione sulla continuità aziendale come connotata nei principi contabili sopra indicati in termini di “dubbio  significativo”, connotazione peraltro che ben si accorda con la natura prognostica della valutazione.
➢ Può accadere che un evento considerato quale “indicatore” utilizzabile per la valutazione circa la sussistenza del presupposto della continuità aziendale possa, di fatto ed in concreto, determinare la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. Così è, ad esempio, per eventi catastrofici non adeguatamente assicurati o per la revoca di autorizzazioni amministrative a svolgere l’attività oggetto della società. Oppure, come nel caso di specie, per la risoluzione, da parte di Mercedes, del contratto di concessione dell’attività di distribuzione di
autovetture recanti qual marchio, avvenuta alla fine del 2015. Tuttavia, in tal caso, è giuridicamente irrilevante, ai fini qui considerati, che esso evento determini il venir meno della continuità aziendale, essendo invece rilevante che determini la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. E, come tale, esso deve essere specificamente allegato e provato dall’ attore che deduce il suo verificarsi come causa di scioglimento della società.
Cioè, a fronte di una fattispecie così ampia e tutt’altro che tassativa descritta dalle fonti di prassi contabile, è irrilevante o addirittura fuorviante riferirsi ad essa quando si pretenda l’applicazione di norme che assumono a fattispecie rilevante eventi determinati, linguisticamente designati da significanti diversi, la cui sussistenza o meno bensì rileva ma del tutto indipendentemente dalla circostanza che essi siano eventualmente qualificabili anche in
termini di “perdita di continuità aziendale”. Così è, ad esempio, per l’insufficienza patrimoniale di cui all’art. 2394 c.c., per la “discesa del capitale sociale sotto il minimo legale” di cui all’art. 2484 comma 1 n. 4 c.c., per il dissesto di cui art. 217, comma 1, n. 4 l.f. (art. 217, comma 1, n. 4 c.c.i.), per l’insolvenza di cui all’art. 5 l.f. (art. 2 let. b c.c.i.).
E così è anche per la situazione di “definitiva perdita della continuità aziendale”, di individuazione pratica e priva di referente normativo preciso, quando, come spesso accade, riferita ad un disequilibrio finanziario tale che l’attività svolta risulterebbe irreversibilmente programmata alla distruzione di ricchezza e alla traslazione del rischio di impresa sui creditori o sia fotografata da bilanci prospettici che presentano cash flow negativi e in presenza di indici economico-finanziari negativi dai quali emergerebbe che l’impresa non è più in condizioni di continuare a realizzare le proprie attività.
In tali casi la “definitiva perdita di continuità aziendale” o si risolve in realtà nelle diverse fattispecie normativamente previste di insufficienza patrimoniale, perdita del capitale sociale, insolvenza, dissesto, oppure, ma con diversa rilevanza rispetto al passato, si identifica in una manifestazione di quella prevista dall’art. 2086, comma 2, c.c. che tuttavia non riguarda lo
scioglimento della società.
➢ La sistematica del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza significativamente conferma il quadro interpretativo appena descritto.
Invero la fattispecie di perdita della continuità aziendale è posta dai principi fondanti previsti in materia – quelli stabiliti dal nuovo secondo comma dell’art. 2086 c.c. – a presupposto dell’  obbligo di reazione degli amministratori, in forma di adozione ed attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento, in vista del “recupero della continuità aziendale”. Con il ché è ribadita sia la natura prognostica del relativo giudizio che la sua reversibilità, connotati
questi propri anche del concetto di crisi aziendale, quale definito dall’art. 2, let. a) c.c.i.
A tal proposito, in ordine al rapporto tra “crisi” e “perdita di continuità aziendale” letto nel quadro della descrizione di quest’ultima situazione quale restituita dai citati principi contabili e di revisione, non si può mancare di osservare che la prima fattispecie, per come definita, assorbe in sé molti, se non tutti, i parametri finanziari che quei principi ascrivono invece alla
“continuità aziendale”. Se ne ricava che, sul piano normativo, la situazione di “perdita di continuità aziendale” è definibile per sottrazione dai parametri, criteri ed indicatori previsti dai principi contabili e di revisione, di tutte quegli eventi / situazioni di natura finanziaria che oggi vanno ricondotti alla fattispecie “crisi” di cui all’art. 2, let a) cit.
Ugualmente, situazioni “deficit patrimoniale” o “capitale ridotto al di sotto dei limiti legali” andranno ascritte non già alla fattispecie “perdita di continuità aziendale”, essendo piuttosto da ricondurre, per quel che qui rileva, alla fattispecie di cui all’art. 2484, comma 1, n. 4 c.c.
Né si tratta di distinzioni nominalistiche o inutili, poiché alle diverse fattispecie sopra indicate sono collegate discipline ben diverse in relazione ai poteri e doveri degli amministratori, dei sindaci, dei soci, con altrettanto diverse discipline delle loro responsabilità risarcitorie.

➢ La lettera delle innovazioni apportate dal “codice della crisi” all’art. 2484, comma 1, c.c., non fa confermare ulteriormente, a contrario (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit), la superiore ricostruzione ermeneutica. E’ stata aggiunta una fattispecie ulteriore di scioglimento della società data dalla apertura delle procedure di liquidazione giudiziale e controllata (n. 7 bis).
Orbene, considerata l’importanza conferita alla situazione di perdita della continuità aziendale nella sistematica del diritto della crisi e la considerazione della liquidazione come extrema ratio, sembra ovvio inferirne che, se il legislatore avesse voluto fare anche della prima una causa di scioglimento della società l’avrebbe detto, inserendo un’altra ipotesi oltre l’unica invece aggiunta.
➢ Lungi dal rivelarsi nominalistico, l’argomento da ultimo espresso ben si accorda con l’intenzione del legislatore, essendo del tutto disfunzionale, in vista del “recupero della continuità aziendale”, prevedere che quando essa fosse persa, la società versi in stato di scioglimento, con il conseguente sorgere, in capo
agli amministratori, non solo dell’obbligo di attuazione di uno degli strumenti di soluzione della crisi previsti a quel fine, ma anche dell’innesco della fase liquidatoria ex artt. 2485 e ss. c.c., comportante di  per sé dissoluzione di ricchezza ed assai più difficilmente reversibile ex art. 2487 ter c.c>>.

La responsabilità dei soci per i debiti della società cancellata opera anche quando sono loro assegnati beni (partecipazione societaria) diversi dal danaro

Sul tema in oggetto (art. 2495 c.3 c.c) v. Cass. n. 31.109 del 8 novembre 20232, rel. Caponi:

<<La questione di diritto che essi sollevano si innesta sulla seguente situazione di fatto così come accertata nei giudizi di merito. Il bilancio di liquidazione della società a responsabilità limitata ha ripartito pro quota ai due soci una partecipazione in un’altra società della quale era titolare la s.r.l. poi estinta ed ha quantificato il controvalore in denaro delle due quote ripartite. La tesi dei due soci ricorrenti è che essi non sono tenuti a rispondere del debito sociale (la restituzione della caparra nella misura del doppio), poiché ai sensi dell’art. 2495 c.c., comma 3, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione.

Vi è in effetti qualche precedente, come Cass. 15474/2017 citato dal P.M. nelle sue osservazioni, che sembra rimanere ancorato al tenore letterale dell’art. 2495 c.c. (allora) comma 2, per cui tra “la società cancellata dal registro delle imprese e i suoi soci può configurarsi una vicenda successoria, giacché, come è stato osservato, il successore intra vires dei debiti trasmessigli non cessa, per questo, di essere un successore (Cass. SU 6070/2013, in motivazione); ma è altrettanto vero che la successione ha luogo solo se ricorra la condizione posta dall’art. 2495 c.c., comma 2, e, quindi, se vi siano state somme riscosse dai soci in base al bilancio finale di liquidazione” (così Cass. 15474/2017, cit., p. 6 s.).

Tuttavia, “beni” (e non solo “somme”) è la parola con cui il sistema normativo, nelle sue disposizioni di portata più generale (a partire dall’art. 2740 c.c.), contrassegna l’oggetto della responsabilità patrimoniale del debitore. Se è vero, come è vero, che si ha a che fare con un fenomeno di responsabilità patrimoniale (dei soci, pur limitata da quanto da loro ricevuto) per adempimento di obbligazioni (contratte dalla società estinta), l’onere di addurre ragioni giustificative ricade sulle spalle di chi intende sostenere un’interpretazione che restringe, in questa ipotesi, alle somme di denaro riscosse l’oggetto della responsabilità patrimoniale, piuttosto che sulle spalle di chi argomenta che il tenore letterale dell’art. 2495 c.c. (oggi) comma 3, non può frapporre ostacoli ad un’applicazione, anche in questa ipotesi, della nozione di beni come oggetto generale della responsabilità patrimoniale.

La conferma si ritrae proprio da una rilettura della parte di Cass. SU 6070/2013, relativa all’interpretazione dell’art. 2495 c.c. (allora) comma 2 (p. 8 s.) da cui si cita nel proseguimento, con una scrittura in corsivo di alcune parole che è appunto vivificata dalla prospettiva interpretativa qui accolta: “Il dissolversi della struttura organizzativa su cui riposa la soggettività giuridica dell’ente collettivo fa naturalmente emergere il sostrato personale che, in qualche misura, ne è comunque alla base e rende perciò del tutto plausibile la ricostruzione del fenomeno in termini successori (…) Persuade di ciò anche il fatto che il debito del quale, in situazioni di tal genere, possono essere chiamati a rispondere i soci della società cancellata dal registro non si configura come un debito nuovo, quasi traesse la propria origine dalla liquidazione sociale, ma s’identifica col medesimo debito che faceva capo alla società, conservando intatta la propria causa e la propria originaria natura giuridica. (…) Nessun ingiustificato pregiudizio viene arrecato alle ragioni dei creditori, del resto, per il fatto che i soci di società di capitali rispondono solo nei limiti dell’attivo loro distribuito all’esito della liquidazione. Cass. SU 6070/2013 prosegue poi (p. 10 ss.) con la parte più ardua, tesa a recuperare i “residui attivi non liquidati” e le “sopravvenienze attive” alla responsabilità patrimoniale per l’adempimento dei debiti della società estinta, attraverso il subingresso dei soci, entro il limite menzionato dei beni e/o utilità da loro ricevuti. In definitiva, è la stessa Cass. SU 6070/2013 che muove da una nozione di oggetto della responsabilità patrimoniale in termini di elementi “attivi”, cioè di beni, in coerenza con la disciplina generale della responsabilità patrimoniale. Tali sono ovviamente anche le partecipazioni societarie di cui era titolare la società estinta. Talché s’impone il rigetto di una interpretazione dell’art. 2495 c.c. (oggi) comma 3, rigidamente ancorata alla lettera di “somme… riscosse”, incompatibile con tale cornice generale.

Gli argomenti addotti dai ricorrenti non sono in grado di minare queste osservazioni, che confermano la correttezza dell’interpretazione adottata dalla Corte di appello, dal momento che ha chiamato a rispondere i due soci della società estinta dell’adempimento dell’obbligo di restituzione della caparra nella misura del doppio, il cui ammontare non esorbita dal controvalore quantificato né in relazione all’una, né in relazione all’altra delle quote dell’originaria partecipazione sociale, ripartite tra i due soci>>.

La soluzione è probabilmente esatta. La ratio dovrebbe tuttavia piuttosto appoggiarsi al  pregiudizio che subirebbero i creditori ogni volta che la debitrice in via di cancellazione assegnasse ai soci beni divesi dal denaro: lasciare a tale assegnazione la tutela o meno dei creditori genera disparità ingiustficate di trattamento.

Non è poi chiaro , se ben capisco, come mai i soci assegnatari siano personalmente responsabili e non la socieà partecipata.