Dichiarato nullo l’accordo per il compenso di Musk in Tesla e il conseguente acquisto di quote

La Court of Chancery del Delaware 30.01.2024 , Tornetta v. Musk ed altri, C.A. No. 2018-0408-KSJM, dichiara nullo (rescission) l’accordo 2018 sul compenso di Musk  perchè eccessivo : o meglio M. non ha provato che era fair: <Defendants bore the burden of proving fair price. Given the conflicting testimony concerning the projections, Defendants failed to prove the factual predicate for their argument that all the milestones were “ambitious” and difficult to achieve. This argument does not support a finding of fair price>, p. 187.

Irrilevante il consenso degli azionisti, non essendo stati adeguatamente informati: <<Defendants argue that disinterested stockholder approval is “compelling evidence” that the price was fair.899 The stockholder vote is one component of the fair price analysis, but whether the vote represents a form of market evidence that can support a certain price depends on the sufficiency of the disclosure. Generally, a stockholder vote is only “compelling evidence” of fairness absent a disclosure violation.900 The Delaware Supreme Court in Weinberger held that an uninformed stockholder vote is totally “meaningless.”901 Under Weinberger, therefore, the stockholder vote is a meaningless indicator as to fair price. In SolarCity III, the high court took a more nuanced approach, affording a stockholder vote some weight despite a deficient proxy statement where the key issue was SolarCity’s value. The high court noted that there was significant public information available concerning that issue, “SolarCity traded in an efficient market,” and a strong independent fiduciary positively affected the process.902 Defendants did not establish those facts here.   Because the stockholder vote was not fully informed, it does not support a finding of fair price“, p. 190-191.

Rigettata l’eccezione di -in sostanza- arricchimento senza causa: le azioni già detenute son più che sufficienti. “Defendants argue that rescission is a harsh consequence that would leave Musk uncompensated. But Musk’s preexisting equity stake provided him tens of billions of dollars for his efforts. And Defendants have not offered a viable alternative short of leaving the Grant intact

Il punto più interessante è quello degli aspetti pratici di corporate governance e cioè della supremazia di Musk nel Board: nessuno ha seriamente negoziato il compenso da vera controparte, limitandosi invece a supinamente ratificarlo. V. il § “2.Boardroom And Managerial Supremacy” a p. . 115 ss.

Ad es. <<Based on this list alone, it could be said that Musk wields unusually expansive managerial authority, equaling or even exceeding the imperial CEOs of the 1960s>>, p. 121 (v. il rif. ai SuperstarCEOs p. 121 ss).

Oppure: <<The references to “supine servants” and “an overweening master” is hyperbolic, and no doubt deliberately so to give emphasis to the difficulty of the standard. But it hits home here. There is no greater evidence of Musk’s status as a transaction-specific controller than the Board’s posture toward Musk during the process that led to the Grant. Put simply, neither the Compensation Committee nor the Board acted in the best interests of the Company when negotiating Musk’s compensation plan. In fact, there is barely any evidence of negotiations at all. Rather than negotiate against Musk with the mindset of a third party, the Compensation Committee worked alongside him, almost as an advisory body.   Multiple aspects of the process reveal Musk’s control over it, including the timeline, the absence of negotiations over the magnitude of the Grant or its other terms, and the committee’s failure to conduct a benchmarking analysis. In the end, the key witnesses said it all by effectively admitting that they did not view the process as an arm’s length negotiation>>, 128-129.

Versamenti in conto futuro aumento di capitale e termine per deliberare l’aumento medesimo: quando ricorre la bancarotta da distrazione?

Considerazioni di interesse anche per il giuscommercialista in Cass. pen., Sez. V, Sent., (data ud. 23/06/2023) 26/09/2023, n. 39139, rel. Belmonte, circa i versamenti eseguiti senza (previa, direi) determinazione del termine entro cui l’aumento va deliberato.

Riporto i passaggi finali:

<<1.7. Tirando le fila del ragionamento e alla luce dei richiamati approdi giurisprudenziali, quel che emerge con chiarezza è che, in caso di crisi aziendale, il salvataggio attuato dai soci attraverso integrazioni del patrimonio, che possono avere diverse gradazioni, non può prescindere dalla garanzia di una informazione simmetrica tra soci e terzi sulle condizioni finanziarie della società. La ragione per la quale il conferimento destinato a coprire futuri aumenti di capitali deve essere assoggettato a un termine finale conoscibile anche dal ceto creditorio sta nella considerazione che i creditori confidano nel patrimonio dell’impresa per l’adempimento delle obbligazioni sociali. Diversamente ragionando, si trasferirebbe il rischio di impresa dalla società sui creditori, oltre a consentirsi la restituzione sine causa di somme conferite per altra ragione. 1.8. Il principio che deve essere affermato è quello che, in caso di un conferimento in conto di aumento futuro di capitale, esigenza di garanzie del ceto creditorio impongono l’individuazione di un termine finale a cui è correlato, in caso di mancata deliberazione dell’aumento, l’insorgenza del diritto di restituzione del conferimento; laddove la restituzione avvenga prima del termine (pattuito o fissato dal giudice), si realizza una distrazione da bancarotta societaria; nel caso in cui non sia stato concordato un termine a garanzia dei creditori, nè esso venga sollecitato al giudice, le somme non potranno essere restituite, in quanto destinate a coprire l’aumento di capitale (c.d. riserva targata). Diversamente, si avrebbe un rimborso sine causa, essendo correlata la relativa obbligazione alla mancata adozione della delibera entro un determinato termine.

E’ corretto, dunque, affermare che il socio conferente ha diritto alla restituzione, ove non segua la delibera dell’aumento di capitale, anche durante la vita della società, in quanto si tratta in questi casi di apporti destinati alla copertura anticipata di un determinato aumento di capitale non ancora deliberato, così da sostanziarsi in un’anticipazione della sottoscrizione del capitale destinata a perfezionarsi solo con la deliberazione societaria successiva (Cass. civ. Sez. 1 n. 31186 del 03/12/2018, Rv. 652065 – 01), ma il principio deve essere inteso nel senso che la somma anticipata resta vincolata fin quando non si verifica la condizione, sospensiva o risolutiva, della mancata delibera entro un termine che deve essere necessariamente determinato>>.

Applicato al caso de quo: <<1.9. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di tali principi: i giudici di merito hanno plausibilmente argomentato che nessun termine era stato stabilito; che neppure risulta sollecitata la fissazione giudiziaria di un termine per la restituzione; che non erano venuti meni i programmi legati all’aumento di capitale. Correttamente la Corte territoriale ha ritenuto integrata la bancarotta fraudolenta patrimoniale, contestualmente escludendo la configurabilità della bancarotta preferenziale, in coerenza con il principio affermato già dalla sentenza ‘Vesprinì, secondo cui “in tema di reati fallimentari, il prelievo di somme a titolo di restituzione di versamenti operati dai soci in conto capitale (o indicati con analoga dizione) integra la fattispecie della bancarotta fraudolenta per distrazione, non dando luogo tali versamenti ad un credito esigibile nel corso della vita della società; al contrario, il prelievo di somme quale restituzione di versamenti operati dai soci a titolo di mutuo integra la fattispecie di bancarotta preferenziale.”(Sez. 5 n. 8431/2019).

“Checklist di sostenibilità per le piccole imprese”

Il CNDEC ha curato la traduzione (eseguita da Elena Florimo) del documento “Small Business Sustainability Checklist” predisposto nel novembre 2023 dalla International Federation of Accountants.

Qui la pagine dell’originale e qui quella della traduzine nel sito CNDEC.

Documento interessante per l’analiticità e la concretezza delle proposte, divise -secondo l’acronimo ESG- in

i) ENVIRONMENTAL INITIATIVES

ii) SOCIAL RESPONSIBILITY INITIATIVES

iii) GOVERNANCE INITIATIVES

Significativo pure la “Small Business Continuity Checklist” ricordata nel documento (pur se non direttamente legata a temi ESG ma piuttoisto alla sostenibilità cd “interna” e cioè alla “continuità aziendale”

Regole di comportamento per i sindaci di società non quotate

I commercialisti presentano le <Norme di comportamento del collegio sindacale di società non quotate> 20.12.2023 (segnalazione di Ristrutturazioni Aziendali 21.12.2023)

Documento analitico ed interessante: sarà un riferimento nelle liti in materia ed anzi pure in quelle sulla diligenza dei soli amministratori (cioè senza interessamento dei sindaci).

Riporto solo dei passi su tre punti della parte “3.Doveri del collegio sindacale”.

  • “Norma 3.3. Vigilanza sul rispetto dei principi di corretta amministrazione:… La vigilanza sul rispetto dei principi di corretta amministrazione consiste nella verifica della conformità delle scelte di gestione ai generali criteri di razionalità economica”

e poi: <<La verifica in ordine alla ragionevolezza delle operazioni poste in essere dagli amministratori deve essere attuata ex ante, secondo i parametri propri della diligenza professionale, tenendo altresì in considerazione l’eventuale mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni
preventive che l’operazione da intraprendere richiede, specie in termini di margini di rischio>>

  • <<Norma 3.5. Vigilanza sull’adeguatezza e sul funzionamento dell’assetto organizzativo: … Per assetto organizzativo si intende: (i) il sistema di funzionigramma e di organigramma e, in particolare, il complesso delle direttive e delle procedure stabilite per garantire che il potere decisionale sia assegnato ed effettivamente esercitato a un appropriato livello di competenza e responsabilità, (ii) il complesso procedurale di controllo.
    Un assetto organizzativo è adeguato se presenta una struttura compatibile alle dimensioni della società, nonché alla natura e alle modalità di perseguimento dell’oggetto sociale, nonché alla rilevazione tempestiva degli indizi di crisi e di perdita della continuità aziendale e possa quindi consentire, agli amministratori preposti, una sollecita adozione delle misure più idonee alla sua rilevazione e alla sua composizione>>
  • <<Norma 3.7. Vigilanza sull’adeguatezza e sul funzionamento del sistema amministrativo-contabile: …. Il sistema amministrativo-contabile può definirsi come l’insieme delle direttive, delle procedure e delle prassi operative dirette a garantire la completezza, la correttezza e la tempestività di una informativa societaria attendibile, in accordo con i principi contabili adottati dall’impresa.
    Un sistema amministrativo-contabile risulta adeguato se permette: – la completa, tempestiva e attendibile rilevazione contabile e rappresentazione dei fatti di gestione; – la produzione di informazioni valide e utili per le scelte di gestione e per la salvaguardia del patrimonio aziendale; – la produzione di dati attendibili per la formazione dell’informativa societaria>

L’ex socio di s.n.c. non è responsabile per i canoni locatizi maturati dopo la sua uscita dalla società (anche se in base a contratto anteriore)

Cass . sez. III del 23/10/2023 n. 29.306, rel. Dell’Utri:

<<3. Osserva il Collegio come, ai sensi dell’art. 2290 c.c., “nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi sono responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento”.

La stessa norma precisa, di seguito, che “lo scioglimento deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza non è opponibile ai terzi che lo hanno senza colpa ignorato”.

4. Secondo il chiaro dettato della norma, la responsabilità del socio verso i terzi per le obbligazioni di una società di persone deve ritenersi temporalmente correlata alla durata del rapporto sociale e, conseguentemente, esclusa oltre la data dello scioglimento del rapporto tra il socio e la società, a condizione che lo scioglimento sia stato portato con mezzi idonei a conoscenza dei terzi che lo hanno incolpevolmente ignorato.

5. Rispetto a tale principio generale, non assume valore decisivo la circostanza che una determinata obbligazione sociale sia stata contratta in epoca anteriore allo scioglimento del rapporto con un singolo socio, e che gli effetti di tale obbligazione sociale siano destinati (come nel caso di specie, in ragione della relativa natura) a permanere nel tempo, oltre l’epoca dello scioglimento del rapporto tra il socio e la società.

Gli effetti di una simile obbligazione, infatti, pur pienamente operanti, sotto il profilo del vincolo, sin dall’originaria costituzione del rapporto negoziale (e la cui sola esigibilità risulta condizionata alla scadenza di termini convenuti), devono ritenersi tali, a far tempo dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto sociale, da non poter più coinvolgere, con riferimento alla prestazione non ancora esigibile, la responsabilità dei soci il cui rapporto con la società sia venuto meno.

6. A sostegno di tale interpretazione dell’art. 2290 c.c. varrà, in primo luogo, segnalare il valore significativo del dato letterale della norma, avendo il legislatore disposto una specifica limitazione nel tempo della responsabilità del socio per le obbligazioni sociali.

E’ vero che la norma non ha sancito una limitazione di detta responsabilità per le sole obbligazioni sociali contratte successivamente allo scioglimento. Ma l’uso del termine responsabilità implica l’intenzione del legislatore di non riferirsi al debito, ossia alla situazione obbligatoria come tale, cioè come fonte di vincolo per la società che l’ha contratta, bensì al momento in cui tale situazione dà luogo a responsabilità, ossia al momento in cui l’obbligazione sia divenuta esigibile e non sia stata adempiuta.

7. Dunque, benché le obbligazioni connesse a un contratto di locazione siano tutte direttamente riconducibili all’atto negoziale che ne costituì la fonte originaria (rimanendone unicamente condizionata la corrispondente esigibilità al tempo delle scadenze convenute), la responsabilità del singolo socio per dette obbligazioni (già esistenti e meramente soggette a termini di esigibilità) deve ritenersi, per legge, limitata nel tempo, ossia fino al giorno in cui si verifica l’eventuale scioglimento del rapporto sociale, sempre, naturalmente, sotto la condizione della regolare comunicazione ai terzi di detto scioglimento.

8. Sotto altro profilo, varrà sottolineare la coerenza dell’indicata interpretazione della norma con un intuitivo principio di elementare equità relazionale (o con un equilibrato contemperamento di interessi in conflitto), atteso che, a fronte della ragionevolezza dell’affidamento riposto dai terzi sulla (cor-)responsabilità dei singoli soci per le obbligazioni sociali, assume un preminente rilievo la decisiva considerazione dell’interruzione, attraverso lo scioglimento del rapporto sociale, di qualsivoglia forma di controllabilità, da parte del socio, del successivo corso dei rapporti della società con i terzi e, segnatamente, dell’adempimento delle relative obbligazioni ormai integralmente rimesse all’iniziativa, alla diligenza e alle scelte imprenditoriali dei soci superstiti, senza alcuna possibilità di interlocuzione per il socio uscente; là dove ai medesimi terzi, per converso, non può sfuggire, all’atto della contrazione di obbligazioni con una società, il rischio della sempre possibile variabilità nel tempo della struttura soggettiva della compagine sociale.

9. Le considerazioni che precedono, conseguentemente, inducono a ritenere pienamente legittima la decisione impugnata, avendo la corte territoriale correttamente evidenziato – una volta riscontrata la regolare comunicazione ai terzi dell’avvenuto scioglimento del rapporto del Q. con la società – la limitazione della responsabilità di quest’ultimo per le obbligazioni sociali fino alla data di scioglimento del rapporto (e dunque dei soli canoni maturati fino alla data dello scioglimento del rapporto sociale), dovendo escludersi, proprio ai sensi dell’art. 2290 c.c., l’invocabilità di una sua persistente responsabilità per le obbligazioni sociali relative ai canoni successivi (pur assunte in epoca anteriore allo scioglimento del vincolo sociale) a far data dalla cessazione del rapporto con la società>>.

Tutto esatto. Va aggiunto per scrupolo che la responsabilità per le obbligazioni anteriori dura oltre l’uscita del socio: nell’art. 2290 la limitazione temporale riguarda il fatto generatore dell’obbligo, non la sua azione in giudizio (nè cognitivo nè espropriativo). Non è cioè un termine analogo a quello posto dall’art. 1957 cc per l’azione del creditore verso il debitore principale.

Sul concetto di “finanziamento” dei soci ai sensi dell’art. 2467 cc

Cass. sez. I del 30/10/2023 n. 30.089, rel. Fidanzia:

<<Va preliminarmente osservato che questa Corte ha già avuto modo di affermare che il termine “finanziamento” non risulta assumere, “nel contesto del diritto vigente”, un “significato unico e costante;

soprattutto, non viene senz’altro a ridursi a formula equivalente a quella di “contratti di credito”” (cfr., in particolare, Cass. n. 14915/2019; Cass. n. 3017/2019; Cass., n. 2664/2019; Cass., n. 11878/2018), tanto che neppure la normativa dettata nel D.Lgs. n. 123 del 1998 (Testo Unico della Finanza) detta, o contiene, una definizione ad hoc del lemma “finanziamento” (vedi Cass. n. 2664/2019). Ne consegue, che, a maggior ragione, la nozione di “finanziamento dei soci a favore della società” di cui all’art. 2467 c.c. non comprende i soli contratti di credito, in quanto il comma 2 cit. norma prevede che rientrino in quella categoria i finanziamenti effettuati “in qualsiasi forma” e, quindi, ogni atto che comporti un’attribuzione patrimoniale accompagnata dall’obbligo della sua futura restituzione (vedi, ancora, Cass. n. 3017/2019; come anche Cass. n. 6104/2019, secondo cui è irrilevante la modalità di conferimento prescelta all’interno dell’ente).

Esaminando, in particolare, il caso esaminato dalla sopra citata Cass. n. 3017/2019, l’agevolazione finanziaria era consistita in un servizio di fornitura in esclusiva effettuato da un socio a favore della società e significativamente protrattosi nel tempo, senza che a fronte della sua continuativa esecuzione avesse fatto riscontro una qualche attività di pagamento da parte del soggetto societario che dei beni, via via così forniti, si era avvantaggiato.

Il caso di specie si differenzia da quello già esaminato (nei termini sopra illustrati) da questa Corte, atteso che la fornitura in esclusiva di merci da parte del socio (Azgard Nine ltd) – prima del mancato pagamento dei crediti di cui è stata richiesta l’ammissione al passivo – veniva usualmente sì pagata dalla società ((Omissis) s.r.l.), ma con la concessione alla medesima di sistematiche dilazioni di pagamento, abnormi rispetto a quelle mediamente praticate dagli altri fornitori e ai termini d’uso dei pagamenti del settore, che si aggiravano sui 1000 giorni (picco del (Omissis)), poi ridottesi negli anni successivi, ma mai sotto i 500 giorni (a fronte di termini di pagamento delle fatture che formalmente variavano da 90/100 giorni fino ad un massimo di 150 giorni).

Condivisibilmente, il giudice di merito ha ritenuto che anche la fornitura di merci, in esclusiva e di lungo corso, accompagnata da una sistematica ed abnorme dilazione di pagamento può integrare un finanziamento, rilevante ex art. 2467 c.c., in quanto non pagare sistematicamente un debito scaduto, o pagarlo comunque con un ritardo abnorme, palesemente difforme da ogni prassi commerciale, pur potendo continuare a beneficiare delle forniture del creditore, consente al debitore (nella fattispecie alla (Omissis) s.r.l.) di spostare la liquidità su altri pagamenti o investimenti, così potendo conservare un’operatività che, diversamente, la società non avrebbe.

In proposito, il Tribunale di Vicenza ha evidenziato, sulla scorta delle risultanze della CTU, che la (Omissis) s.r.l. aveva mantenuto la capacità di stare sul mercato proprio grazie alla prosecuzione delle forniture da parte della controllante, odierna ricorrente (nei cui confronti aveva un debito di ben 13,5 milioni di Euro a fronte di 17 del debito complessivo), associata alle dilazioni di pagamento alla stessa accordate, di cui la stessa non avrebbe potuto beneficiare se avesse dovuto rivolgersi ad altri operatori del mercato ad essa non collegati.

Coerentemente, ha osservato il giudice di merito che un operatore economico terzo e razionale, a fronte del sistematico mancato tempestivo pagamento delle forniture e della richiesta di continuazione delle medesime, avrebbe in ipotesi tollerato pagamenti ritardati (anche se non di 1000 giorni), senza però continuare a rifornire la debitrice o, viceversa, avrebbe continuato a rifornirla ma solo dietro pagamento di un consistente acconto e/o la stesura di un piano di rientro, o dietro costituzione di idonee garanzie, come sono soliti fare gli istituti di credito.

L’agevolazione sistematicamente concessa dalla ricorrente alla società poi fallita non era, pertanto, che il travestimento formale di quello che sarebbe dovuto essere un apporto di nuovo capitale di rischio da parte dei soci.

Il Collegio ritiene che l’articolato ragionamento del Tribunale di Vicenza abbia fatto corretta applicazione del principio già enunciato in sede di legittimità in ordine alla nozione di finanziamento, indiretto, anche cioè “in qualsiasi forma” effettuato; vi è stata infatti evidenza al finanziamento “anomalo” o “sostitutivo del capitale” nella misura in cui un creditore sul mercato del credito non lo avrebbe concesso, o non a quelle condizioni, a causa della situazione finanziaria della società (sul punto Cass. n. 12994/2019)>>.

Principio di diritto:

posto che rientra nella categoria dei finanziamenti effettuati “in qualsiasi forma”, a norma dell’art. 2467 c.c., ogni atto che comporti un’attribuzione patrimoniale accompagnata dall’obbligo della sua futura restituzione, la fornitura di merci, in esclusiva e di lungo corso, accompagnata da una sistematica dilazione di pagamento – abnorme rispetto a quelle mediamente praticate dagli altri fornitori e ai termini d’uso dei pagamenti del settore – può essere idonea ad integrare un finanziamento per il quale si applica al relativo credito di rimborso il regime civilistico della postergazione“.

La regola parrebbe esatta: resta solo da capire come dirimere l’incertezza sul se ricorra o meno tale situaizone nei singoli casi, in assenza di determinazioni quantitativo-temporali nella  legge

La mancanza di continuità aziendale è concetto diverso (più ridotto) dalla sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale (causa di scioglimento)

Interessanti (e condivisibili) osservazioni in  Trib. Milano 12.10.2023  n. 7973/2023, RG 35640/2019, pres. e rel. Mambriani:

<<Orbene, se si confronta la nozione di continuità aziendale quale risultante dalle fonti di prassi contabile sopra indicate e la fattispecie normativa di cui all’art. 2484, comma 1, n. 2 c.c., ci si avvede ben presto di quanto segue.
➢ La fattispecie di scioglimento attiene ad una valutazione circa una situazione attuale, definitiva ed irreversibile in cui versa la società, mentre la valutazione circa la sussistenza o la mancanza di continuità aziendale è di natura prospettica, cioè ha a che fare con previsioni circa il futuro della società in un determinato arco temporale (12 mesi), e, come tale, attiene ad una situazione
non definitivamente cristallizzata ed invece tipicamente reversibile. Si tratta di prospettive valutative all’evidenza non compatibili tra loro.
➢ Nella “fattispecie” di continuità aziendale rientrano fattori di natura e tipologia disparate, molti dei quali ictu oculi estranei al tema della possibilità/impossibilità di conseguire l’oggetto sociale.

➢Le fattispecie descritte dall’art. 2484 c.c. sono tipiche e, come tali, esprimono un’esigenza di certezza che non pare compatibile con la natura stessa della valutazione sulla continuità aziendale come connotata nei principi contabili sopra indicati in termini di “dubbio  significativo”, connotazione peraltro che ben si accorda con la natura prognostica della valutazione.
➢ Può accadere che un evento considerato quale “indicatore” utilizzabile per la valutazione circa la sussistenza del presupposto della continuità aziendale possa, di fatto ed in concreto, determinare la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. Così è, ad esempio, per eventi catastrofici non adeguatamente assicurati o per la revoca di autorizzazioni amministrative a svolgere l’attività oggetto della società. Oppure, come nel caso di specie, per la risoluzione, da parte di Mercedes, del contratto di concessione dell’attività di distribuzione di
autovetture recanti qual marchio, avvenuta alla fine del 2015. Tuttavia, in tal caso, è giuridicamente irrilevante, ai fini qui considerati, che esso evento determini il venir meno della continuità aziendale, essendo invece rilevante che determini la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. E, come tale, esso deve essere specificamente allegato e provato dall’ attore che deduce il suo verificarsi come causa di scioglimento della società.
Cioè, a fronte di una fattispecie così ampia e tutt’altro che tassativa descritta dalle fonti di prassi contabile, è irrilevante o addirittura fuorviante riferirsi ad essa quando si pretenda l’applicazione di norme che assumono a fattispecie rilevante eventi determinati, linguisticamente designati da significanti diversi, la cui sussistenza o meno bensì rileva ma del tutto indipendentemente dalla circostanza che essi siano eventualmente qualificabili anche in
termini di “perdita di continuità aziendale”. Così è, ad esempio, per l’insufficienza patrimoniale di cui all’art. 2394 c.c., per la “discesa del capitale sociale sotto il minimo legale” di cui all’art. 2484 comma 1 n. 4 c.c., per il dissesto di cui art. 217, comma 1, n. 4 l.f. (art. 217, comma 1, n. 4 c.c.i.), per l’insolvenza di cui all’art. 5 l.f. (art. 2 let. b c.c.i.).
E così è anche per la situazione di “definitiva perdita della continuità aziendale”, di individuazione pratica e priva di referente normativo preciso, quando, come spesso accade, riferita ad un disequilibrio finanziario tale che l’attività svolta risulterebbe irreversibilmente programmata alla distruzione di ricchezza e alla traslazione del rischio di impresa sui creditori o sia fotografata da bilanci prospettici che presentano cash flow negativi e in presenza di indici economico-finanziari negativi dai quali emergerebbe che l’impresa non è più in condizioni di continuare a realizzare le proprie attività.
In tali casi la “definitiva perdita di continuità aziendale” o si risolve in realtà nelle diverse fattispecie normativamente previste di insufficienza patrimoniale, perdita del capitale sociale, insolvenza, dissesto, oppure, ma con diversa rilevanza rispetto al passato, si identifica in una manifestazione di quella prevista dall’art. 2086, comma 2, c.c. che tuttavia non riguarda lo
scioglimento della società.
➢ La sistematica del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza significativamente conferma il quadro interpretativo appena descritto.
Invero la fattispecie di perdita della continuità aziendale è posta dai principi fondanti previsti in materia – quelli stabiliti dal nuovo secondo comma dell’art. 2086 c.c. – a presupposto dell’  obbligo di reazione degli amministratori, in forma di adozione ed attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento, in vista del “recupero della continuità aziendale”. Con il ché è ribadita sia la natura prognostica del relativo giudizio che la sua reversibilità, connotati
questi propri anche del concetto di crisi aziendale, quale definito dall’art. 2, let. a) c.c.i.
A tal proposito, in ordine al rapporto tra “crisi” e “perdita di continuità aziendale” letto nel quadro della descrizione di quest’ultima situazione quale restituita dai citati principi contabili e di revisione, non si può mancare di osservare che la prima fattispecie, per come definita, assorbe in sé molti, se non tutti, i parametri finanziari che quei principi ascrivono invece alla
“continuità aziendale”. Se ne ricava che, sul piano normativo, la situazione di “perdita di continuità aziendale” è definibile per sottrazione dai parametri, criteri ed indicatori previsti dai principi contabili e di revisione, di tutte quegli eventi / situazioni di natura finanziaria che oggi vanno ricondotti alla fattispecie “crisi” di cui all’art. 2, let a) cit.
Ugualmente, situazioni “deficit patrimoniale” o “capitale ridotto al di sotto dei limiti legali” andranno ascritte non già alla fattispecie “perdita di continuità aziendale”, essendo piuttosto da ricondurre, per quel che qui rileva, alla fattispecie di cui all’art. 2484, comma 1, n. 4 c.c.
Né si tratta di distinzioni nominalistiche o inutili, poiché alle diverse fattispecie sopra indicate sono collegate discipline ben diverse in relazione ai poteri e doveri degli amministratori, dei sindaci, dei soci, con altrettanto diverse discipline delle loro responsabilità risarcitorie.

➢ La lettera delle innovazioni apportate dal “codice della crisi” all’art. 2484, comma 1, c.c., non fa confermare ulteriormente, a contrario (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit), la superiore ricostruzione ermeneutica. E’ stata aggiunta una fattispecie ulteriore di scioglimento della società data dalla apertura delle procedure di liquidazione giudiziale e controllata (n. 7 bis).
Orbene, considerata l’importanza conferita alla situazione di perdita della continuità aziendale nella sistematica del diritto della crisi e la considerazione della liquidazione come extrema ratio, sembra ovvio inferirne che, se il legislatore avesse voluto fare anche della prima una causa di scioglimento della società l’avrebbe detto, inserendo un’altra ipotesi oltre l’unica invece aggiunta.
➢ Lungi dal rivelarsi nominalistico, l’argomento da ultimo espresso ben si accorda con l’intenzione del legislatore, essendo del tutto disfunzionale, in vista del “recupero della continuità aziendale”, prevedere che quando essa fosse persa, la società versi in stato di scioglimento, con il conseguente sorgere, in capo
agli amministratori, non solo dell’obbligo di attuazione di uno degli strumenti di soluzione della crisi previsti a quel fine, ma anche dell’innesco della fase liquidatoria ex artt. 2485 e ss. c.c., comportante di  per sé dissoluzione di ricchezza ed assai più difficilmente reversibile ex art. 2487 ter c.c>>.

La responsabilità dei soci per i debiti della società cancellata opera anche quando sono loro assegnati beni (partecipazione societaria) diversi dal danaro

Sul tema in oggetto (art. 2495 c.3 c.c) v. Cass. n. 31.109 del 8 novembre 20232, rel. Caponi:

<<La questione di diritto che essi sollevano si innesta sulla seguente situazione di fatto così come accertata nei giudizi di merito. Il bilancio di liquidazione della società a responsabilità limitata ha ripartito pro quota ai due soci una partecipazione in un’altra società della quale era titolare la s.r.l. poi estinta ed ha quantificato il controvalore in denaro delle due quote ripartite. La tesi dei due soci ricorrenti è che essi non sono tenuti a rispondere del debito sociale (la restituzione della caparra nella misura del doppio), poiché ai sensi dell’art. 2495 c.c., comma 3, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione.

Vi è in effetti qualche precedente, come Cass. 15474/2017 citato dal P.M. nelle sue osservazioni, che sembra rimanere ancorato al tenore letterale dell’art. 2495 c.c. (allora) comma 2, per cui tra “la società cancellata dal registro delle imprese e i suoi soci può configurarsi una vicenda successoria, giacché, come è stato osservato, il successore intra vires dei debiti trasmessigli non cessa, per questo, di essere un successore (Cass. SU 6070/2013, in motivazione); ma è altrettanto vero che la successione ha luogo solo se ricorra la condizione posta dall’art. 2495 c.c., comma 2, e, quindi, se vi siano state somme riscosse dai soci in base al bilancio finale di liquidazione” (così Cass. 15474/2017, cit., p. 6 s.).

Tuttavia, “beni” (e non solo “somme”) è la parola con cui il sistema normativo, nelle sue disposizioni di portata più generale (a partire dall’art. 2740 c.c.), contrassegna l’oggetto della responsabilità patrimoniale del debitore. Se è vero, come è vero, che si ha a che fare con un fenomeno di responsabilità patrimoniale (dei soci, pur limitata da quanto da loro ricevuto) per adempimento di obbligazioni (contratte dalla società estinta), l’onere di addurre ragioni giustificative ricade sulle spalle di chi intende sostenere un’interpretazione che restringe, in questa ipotesi, alle somme di denaro riscosse l’oggetto della responsabilità patrimoniale, piuttosto che sulle spalle di chi argomenta che il tenore letterale dell’art. 2495 c.c. (oggi) comma 3, non può frapporre ostacoli ad un’applicazione, anche in questa ipotesi, della nozione di beni come oggetto generale della responsabilità patrimoniale.

La conferma si ritrae proprio da una rilettura della parte di Cass. SU 6070/2013, relativa all’interpretazione dell’art. 2495 c.c. (allora) comma 2 (p. 8 s.) da cui si cita nel proseguimento, con una scrittura in corsivo di alcune parole che è appunto vivificata dalla prospettiva interpretativa qui accolta: “Il dissolversi della struttura organizzativa su cui riposa la soggettività giuridica dell’ente collettivo fa naturalmente emergere il sostrato personale che, in qualche misura, ne è comunque alla base e rende perciò del tutto plausibile la ricostruzione del fenomeno in termini successori (…) Persuade di ciò anche il fatto che il debito del quale, in situazioni di tal genere, possono essere chiamati a rispondere i soci della società cancellata dal registro non si configura come un debito nuovo, quasi traesse la propria origine dalla liquidazione sociale, ma s’identifica col medesimo debito che faceva capo alla società, conservando intatta la propria causa e la propria originaria natura giuridica. (…) Nessun ingiustificato pregiudizio viene arrecato alle ragioni dei creditori, del resto, per il fatto che i soci di società di capitali rispondono solo nei limiti dell’attivo loro distribuito all’esito della liquidazione. Cass. SU 6070/2013 prosegue poi (p. 10 ss.) con la parte più ardua, tesa a recuperare i “residui attivi non liquidati” e le “sopravvenienze attive” alla responsabilità patrimoniale per l’adempimento dei debiti della società estinta, attraverso il subingresso dei soci, entro il limite menzionato dei beni e/o utilità da loro ricevuti. In definitiva, è la stessa Cass. SU 6070/2013 che muove da una nozione di oggetto della responsabilità patrimoniale in termini di elementi “attivi”, cioè di beni, in coerenza con la disciplina generale della responsabilità patrimoniale. Tali sono ovviamente anche le partecipazioni societarie di cui era titolare la società estinta. Talché s’impone il rigetto di una interpretazione dell’art. 2495 c.c. (oggi) comma 3, rigidamente ancorata alla lettera di “somme… riscosse”, incompatibile con tale cornice generale.

Gli argomenti addotti dai ricorrenti non sono in grado di minare queste osservazioni, che confermano la correttezza dell’interpretazione adottata dalla Corte di appello, dal momento che ha chiamato a rispondere i due soci della società estinta dell’adempimento dell’obbligo di restituzione della caparra nella misura del doppio, il cui ammontare non esorbita dal controvalore quantificato né in relazione all’una, né in relazione all’altra delle quote dell’originaria partecipazione sociale, ripartite tra i due soci>>.

La soluzione è probabilmente esatta. La ratio dovrebbe tuttavia piuttosto appoggiarsi al  pregiudizio che subirebbero i creditori ogni volta che la debitrice in via di cancellazione assegnasse ai soci beni divesi dal denaro: lasciare a tale assegnazione la tutela o meno dei creditori genera disparità ingiustficate di trattamento.

Non è poi chiaro , se ben capisco, come mai i soci assegnatari siano personalmente responsabili e non la socieà partecipata.

Azione contro Walmart: cenno alla business judgment rule

Giunge notizia della Corte del Delaware 26 aprile 2023 , C.A. No. 2021-0827-JTL, ONTARIO PROVINCIAL COUNCIL OF CARPENTERS’ PENSION TRUST FUND e altri fondi c. Walmart e alcuni suo amministratori.  nella triste vicenda facente parte della cd opioid epidemic connessa al suo ruolo come distributori di oppiacedi nelle sue farmaceie

Gli attori azionisti <<seek to shift responsibility for the harm that Walmart has suffered to the fiduciaries whom they say caused it. They maintain that the directors and officers of Walmart breached their fiduciary duties to the corporation and its stockholders by (i) knowingly causing Walmart to fail to comply with a settlement between the U.S. Drug Enforcement Agency (“DEA”) and Walmart (the “DEA Settlement”); (ii) knowingly causing Walmart to fail to comply with its obligations under the federal Controlled Substances Act and its implementing regulations (collectively, the “Controlled Substances Act”) when acting as a dispenser of opioids through its retail pharmacies, and (iii) knowingly causing Walmart to fail to comply with its obligations under the Controlled Substances Act when acting as a wholesale distributor of opioids for its retail pharmacies>>.

Allegano l’esisstenza di specifici red flags.

Qui ricordo solo il passso per cui mai la busienss judgment rule può coprire violazioni di legge

<< Some projects involve more legal risk than others and, depending on the
outcome, can expose the corporation to civil liability. When directors make a business decision that carries legal risk, but which otherwise involves legally compliant conduct, then the business judgment rule protects that decision. The same principle applies to a board’s decision to act or not act in response to red flags. “Simply alleging that a board incorrectly exercised its business judgment and made a ‘wrong’ decision in response to red flags, however, is insufficient to plead bad faith.” Melbourne Mun. Firefighters’ Pension Tr. Fund v. Jacobs, 2016 WL 4076369, at *9 (Del. Ch. Aug. 1, 2016), aff’d, 158 A.3d 449 (Del. 2017). To establish the requisite inference of bad faith, a plaintiff would have to plead
(and later prove) that the directors knew from the red flags that the corporate trauma was coming and nevertheless forged ahead for reasons unrelated to the best interests of the corporation. “The decision about what to do in response to a red flag is one that an officer or director is presumed to make loyally, in good faith, and on an informed basis, so unless one of those presumptions is rebutted, the response is protected by the business judgment rule.” McDonald’s Directors, 2023 WL 2293575, at *17.
What a corporate fiduciary cannot do, however, is make a business judgment to
cause or allow the corporation to break the law. “Delaware law does not charter law breakers.” In re Massey Energy Co., 2011 WL 2176479, *20 (Del. Ch. May 31, 2011). As the Massey decision explains, Delaware law allows corporations to pursue diverse means to make a profit, subject to a critical statutory floor, which is the requirement that Delaware corporations only pursue “lawful business” by “lawful acts.” As a result, a fiduciary of a Delaware corporation cannot be loyal to a Delaware corporation by knowingly causing it to seek profit by violating the law. Id. at *20 (footnoted omitted). “[I]t is utterly inconsistent with one’s duty of fidelity to the corporation to consciously cause the corporation to act unlawfully. The knowing use of illegal means to pursue profit for the corporation is director misconduct.” Desimone v. Barrows, 924 A.2d 908, 934–35 (Del. Ch. 2007) (cleaned up). “[A] fiduciary may not choose to manage an entity in an illegal fashion, even if the fiduciary believes that the illegal activity will result in profits for the entity.” Metro Commc’n Corp. BVI v. Advanced Mobilecomm Techs. Inc., 854 A.2d 121, 131 (Del. Ch. 2004).
The business judgment rule plays no role in a decision to proceed in a way that
violates the law. As a result, there is a fundamental difference between the following two scenarios, each involving a legal assessment.
• In one hypothetical scenario, the lawyers say: “Although there is some room for
doubt and hence some risk that our regulator may disagree, we believe the company is complying with its legal obligations and will remain in compliance if you make the business decision to pursue this project.”
• In the other hypothetical scenario, the lawyers say: “The company is not currently in compliance with its legal obligations and faces the risk of enforcement action, and if you make the business decision to pursue this project, the company is likely to remain out of compliance and to continue to face the risk of an enforcement action. But the regulators are so understaffed and overworked that the likelihood of an enforcement action is quite low, and we can probably settle anything that comes at minimal cost and with no admission of wrongdoing.”
In the former case, the directors can make a business judgment to pursue the project. In the latter case, the decision to pursue the project would constitute a conscious decision to violate the law, the business judgment rule would not apply, and the directors would be acting in bad faith>>.

Versamenti in conto capitale e versamenti in conto futuro aumento di capjtale

Cass. sez. I dell’ 8 agosto 2023 n. 24.093, rel. Fidanzia:

la censura:

<<Lamenta il ricorrente che la Corte d’Appello ha erroneamente condiviso l’impostazione del CTU nel ritenere che la somma di Euro 1.156.724,20 costituisse un debito, o comunque un’acquisizione patrimoniale condizionata ad una futura delibera di aumento del capitale, come tale non diversamente disponibile.

In particolare, la Corte d’Appello ha violato l’art. 2424 c.c., nell’affermare che la chiara indicazione di “versamenti in conto di capitale” dimostrasse che si trattasse di versamenti finalizzati all’eventuale futuro aumento di capitale considerando. In proposito, evidenzia il ricorrente che nei bilanci precedenti al 2007 quella posta era stata indicata come semplice “riserva”, che sarebbe divenuta successivamente “riserva da versamenti in conto capitale”, e, nel bilancio 2007, “riserva da versamento in conto futuro aumento di capitale”. Gli stessi bilanci non facevano riferimento né a pretese restitutorie dei soci eroganti, né ad un vincolo di destinazione della riserva in oggetto, né a un qualsivoglia futuro, programmato e ben determinato aumento di capitale.

Ad avviso del ricorrente, la Corte d’Appello ha erroneamente indicato il collegamento della riserva al socio erogante nella semplice dicitura utilizzata in bilancio “versamenti in conto capitale” ed ha, nel contempo, violato l’art. 1362 c.c. laddove ha dato rilievo non già alla comune volontà delle parti (da valutare sulla base delle modalità con cui si era svolto il rapporto, delle finalità perseguite dalle parti e degli interessi sottesi) bensì alla mera denominazione contabile della posta>>.

La risposta della SC:

<<7. Il motivo è fondato.

Va preliminarmente osservato che questa Corte ha in modo dettagliato ed esaustivo illustrato la distinzione tra “versamenti in conto capitale” e “versamenti in conto futuro aumento di capitale” nell’ordinanza n. 29325/2020, nella quale, inquadrando, più in generale, le diverse figure delle dazioni del socio tra: a) i conferimenti; b) i finanziamenti dei soci; c) i versamenti a fondo perduto o in conto capitale; d) i versamenti finalizzati ad un futuro aumento di capitale, si è espressa nei seguenti termini:

“…..I versamenti del terzo tipo sono privi della natura del mutuo, in quanto non ne è pattuito il diritto al rimborso; vanno, quindi, iscritti nel passivo dello stato patrimoniale tra le riserve, che l’assemblea può discrezionalmente utilizzare, con le ordinarie modalità, per ripianare le perdite o per aumentare gratuitamente il capitale, imputandole a ciascun socio proporzionalmente alla partecipazione al capitale sociale (senza che occorra obbligatoriamente tener conto del soggetto che abbia operato il versamento, proprio in ragione dell’inesistenza vuoi di un credito alla restituzione delle somme, vuoi di una anticipata dazione a titolo di conferimento).

L’apporto del socio produce l’acquisizione definitiva al patrimonio della società delle somme versate, da assimilare al capitale di rischio, cui vanno equiparate agli effetti sostanziali; la riserva così formata, al pari delle riserve ordinarie o facoltative per la quota eccedente la riserva legale, ha dunque di regola carattere disponibile, ma una eventuale distribuzione non costituisce un diritto soggettivo del socio.

d) Nell’ultima categoria, la dazione del denaro è finalizzata a liberare il debito da sottoscrizione di un futuro aumento del capitale sociale mediante successiva rinuncia, che il socio porrà in essere dopo la deliberazione assembleare di aumento e la sua sottoscrizione.

Si è parlato di una riserva “personalizzata” o “targata”, in quanto di esclusiva pertinenza dei soci che abbiano effettuato il versamento in relazione all’entità delle somme da ciascuno erogate (Cass. 24 luglio 2007, n. 16393; Cass. 19 marzo 1996, n. 2314). Ove l’aumento non sia operato, il socio avrà diritto alla restituzione di quanto versato: non a titolo di rimborso di somma data a mutuo, ma per essere venuta successivamente meno la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale da lui eseguita in favore della società, quale ripetizione dell’indebito.

Dunque, va precisato che, perché la “dazione” del socio sia ricondotta a tale categoria, è necessario che la subordinazione ad un aumento di capitale sia chiara ed inequivoca, mediante l’indicazione ex ante di elementi sufficientemente specifici e dettagliati, i quali inducano a ritenere effettivamente convenuta tra i soci l’effettuazione non di un versamento tout court a favore delle casse sociali, ma di un versamento avente titolo e causa concreta proprio nella partecipazione al capitale sociale mediante un futuro conferimento, che, sebbene meramente rinviato rispetto al momento della dazione materiale della somma, sia nondimeno sin dall’inizio volto, secondo la complessiva operazione programmata dai soci, ad aumentare la rispettiva quota di partecipazione sociale, in termini assoluti.

Ciò, per il principio generale di determinatezza o determinabilità ex art. 1346 c.c., secondo cui deve essere sempre individuabile con sufficiente certezza l’oggetto del contenuto precettivo di un accordo negoziale.

Le sole parole usate non sono, dunque, di per sé esaustive, ben potendo un versamento essere denominato, nei documenti societari e contabili, come eseguito “in conto futuro aumento del capitale sociale”, ma non essere affatto, nel contempo, accompagnato da quegli indici di dettaglio (ad es., il termine finale entro cui verrà deliberato l’aumento, ma anche altre caratteristiche dello stesso), che soli qualificano la dazione come da ricondurre alla categoria in esame.[precisazione importante: il termine è essenziale]

In tal caso, pertanto, l’iscrizione in bilancio avviene sempre come riserva, e non come finanziamento soci; ma, perché sorga pure l’obbligo restitutorio condizionato, dovrà, altresì, essere evidenziato che l’apporto è suscettibile di restituzione ai soci in virtù dell’effetto risolutorio riconnesso a tale tipo di apporto, per tale profilo dunque avvenuto in modo non definitivo (a differenza degli altri versamenti).

6.3. – Decisiva nella qualificazione della dazione è l’interpretazione della volontà delle parti, rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito.

Occorre, in particolare, da parte di questi accertare se si sia trattato di un rapporto di finanziamento riconducibile allo schema del mutuo o di un contratto atipico di conferimento, ed, in quest’ultimo caso, se esso sia stato – in modo inequivoco condizionato o no, nella restituzione, ad un futuro aumento del capitale nominale della società.

L’indagine sul punto può tener conto di ogni elemento, quali le clausole statutarie che tali versamenti prevedano, il comportamento delle parti, i fini perseguiti, le scritture contabili, i bilanci e qualsiasi altra circostanza del caso concreto, capace di svelare la comune intenzione delle parti e gli interessi coinvolti “.

Deve quindi enunciarsi o meglio ribadirsi, il seguente principio di diritto:

“1. Per versamenti in conto futuro aumento di capitale devono intendersi quelle dazioni di danaro dei soci a favore della società che non siano, tuttavia, definitivamente acquisite al patrimonio sociale, avendo uno specifico vincolo di destinazione, con la conseguenza che, ove l’aumento non sia operato, il socio avrà diritto alla restituzione di quanto versato, per essere venuta meno la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale da lui eseguita in favore della società, quale ripetizione dell’indebito.

2. Per qualificare la dazione come versamento in conto futuro aumento di capitale, l’interprete deve verificare che la volontà delle parti di subordinare il versamento all’aumento di capitale risulti in modo chiaro ed inequivoco, utilizzando, all’uopo, indici di dettaglio (quali l’indicazione del termine finale entro cui verrà deliberato l’aumento, il comportamento delle parti, eventuali annotazioni contenute nelle scritture contabili o nella nota integrativa al bilancio, clausole statutarie), e, comunque, qualsiasi altra circostanza del caso concreto, capace di svelare la comune intenzione delle parti e gli interessi coinvolti, non essendo, all’uopo, sufficiente la sola denominazione adoperata nelle scritture contabili”.

Non vi è dubbio che, nel caso di specie, la Corte d’Appello, nell’interpretare la volontà delle parti in ordine alla natura delle dazioni di cui è causa, non abbia fatto buon governo dei sopra enunciati principi di diritto.

In primo luogo, dalla lettura della sentenza impugnata appare che il giudice d’appello abbia confuso la categoria dei “versamenti in conto di capitale ” con i “versamenti in conto futuro aumento di capitale”, atteso che, nell’evidenziare che l’unico elemento per interpretare la volontà delle parti era dato dalle risultanze di bilancio, in questi termini si esprime:”…Nel caso di specie, l’unico elemento ravvisabile è l’indicazione in bilancio, sotto la categoria “riserve”, ma con la chiara indicazione di “versamenti in conto di capitale” e dunque finalizzati all’eventuale futuro aumento dello stesso, posto che non era stato deliberato un coevo aumento del capitale”.

D’altra parte, a differenza di quanto adombrato dall’appellante, la medesima qualificazione si rinviene nel bilancio chiuso al 31.12.2005 dimostrando anche la persistenza di tale indicazione anche nel periodo antecedente alla fuoriuscita del C. (escludendo, quindi, definizioni di “comodo”) ed evidenziando, altresì, come tali versamenti siano rimasti inutilizzati proprio perché vincolati al futuro aumento di capitale.

In ogni caso, anche ove si volesse ritenere che la Corte d’Appello, nell’indicare i versamenti in questione, fosse incorsa in un mero errore materiale, per essersi dimenticata l’espressione “futuro aumento”, comunque la Corte sarebbe incorsa nei vizi denunciati dal ricorrente, avendo valorizzato, per sua espressa ammissione, come unico indice interpretativo, la sola denominazione adoperata nelle scritture contabili, con ciò contraddicendosi, peraltro, con quanto affermato qualche riga sopra nella quale aveva osservato (vedi pag. 13 secondo capoverso della sentenza impugnata) che, per accertare la natura del versamento dei soci, l’utilizzo di formule non codificate impone di verificare con la massima cautela quale sia stata la reale intenzione dei soci e della società “….. non essendo sufficiente, la sola denominazione adoperata nelle scritture contabili, ma dovendosi dare conto anche delle finalità pratiche e degli interessi sottesi, e quindi si deve tenere conto delle clausole statutarie, delle scritture contabili e dei bilanci, del comportamento delle parti e di ogni altro elemento concreto possa avere rilievo (Cass. 16049/2015 cit. e Cass. 21563/2018 cit)”.

La Corte d’Appello non ha indicato elementi specifici e dettagliati, forniti ex ante, denotanti la chiara ed inequivoca volontà dei soci di destinare i versamenti di cui è causa ad un futuro aumento di capitale, costituente unico titolo e causa concreta dell’eventuale operazione programmata dai soci. La Corte d’Appello non ha valorizzato quegli indici di dettaglio che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto significativi (indicazione del termine finale entro cui verrà deliberato l’aumento, comportamento delle parti, eventuali annotazioni contenute nelle scritture contabili o, a titolo di ulteriore esempio, anche nella nota integrativa al bilancio, etc.).

D’altra parte, non rientra tra gli indici interpretativi individuati da questa Corte la circostanza fattuale della materiale provenienza dei versamenti (nel caso di specie, dalla documentazione agli atti era emerso che i versamenti di cui è causa non erano riconducibili al C.), avendo già questa Corte evidenziato, nel citare sopra l’ordinanza n. 29325/2020, che l’assemblea può discrezionalmente decidere di utilizzare i “versamenti in conto capitale” (da iscriversi nel passivo dello stato patrimoniale tra le riserve) per ripianare le perdite o per aumentare gratuitamente il capitale, imputandole a ciascun socio proporzionalmente alla partecipazione al capitale sociale, senza che occorra obbligatoriamente tener conto del soggetto che abbia operato il versamento, proprio in ragione dell’inesistenza vuoi di un credito alla restituzione delle somme, vuoi di una anticipata dazione a titolo di conferimento. Dunque, rientra nella fisiologia che “i versamenti in conto capitale” possano provenire solo da alcuni soci e non da tutti.

Alla luce delle sopra illustrate osservazioni, deve ritenersi che il giudice d’appello sia incorso nella denunciata violazione dell’art. 1362 c.c..>>