La mancanza di continuità aziendale è concetto diverso (più ridotto) dalla sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale (causa di scioglimento)

Interessanti (e condivisibili) osservazioni in  Trib. Milano 12.10.2023  n. 7973/2023, RG 35640/2019, pres. e rel. Mambriani:

<<Orbene, se si confronta la nozione di continuità aziendale quale risultante dalle fonti di prassi contabile sopra indicate e la fattispecie normativa di cui all’art. 2484, comma 1, n. 2 c.c., ci si avvede ben presto di quanto segue.
➢ La fattispecie di scioglimento attiene ad una valutazione circa una situazione attuale, definitiva ed irreversibile in cui versa la società, mentre la valutazione circa la sussistenza o la mancanza di continuità aziendale è di natura prospettica, cioè ha a che fare con previsioni circa il futuro della società in un determinato arco temporale (12 mesi), e, come tale, attiene ad una situazione
non definitivamente cristallizzata ed invece tipicamente reversibile. Si tratta di prospettive valutative all’evidenza non compatibili tra loro.
➢ Nella “fattispecie” di continuità aziendale rientrano fattori di natura e tipologia disparate, molti dei quali ictu oculi estranei al tema della possibilità/impossibilità di conseguire l’oggetto sociale.

➢Le fattispecie descritte dall’art. 2484 c.c. sono tipiche e, come tali, esprimono un’esigenza di certezza che non pare compatibile con la natura stessa della valutazione sulla continuità aziendale come connotata nei principi contabili sopra indicati in termini di “dubbio  significativo”, connotazione peraltro che ben si accorda con la natura prognostica della valutazione.
➢ Può accadere che un evento considerato quale “indicatore” utilizzabile per la valutazione circa la sussistenza del presupposto della continuità aziendale possa, di fatto ed in concreto, determinare la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. Così è, ad esempio, per eventi catastrofici non adeguatamente assicurati o per la revoca di autorizzazioni amministrative a svolgere l’attività oggetto della società. Oppure, come nel caso di specie, per la risoluzione, da parte di Mercedes, del contratto di concessione dell’attività di distribuzione di
autovetture recanti qual marchio, avvenuta alla fine del 2015. Tuttavia, in tal caso, è giuridicamente irrilevante, ai fini qui considerati, che esso evento determini il venir meno della continuità aziendale, essendo invece rilevante che determini la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. E, come tale, esso deve essere specificamente allegato e provato dall’ attore che deduce il suo verificarsi come causa di scioglimento della società.
Cioè, a fronte di una fattispecie così ampia e tutt’altro che tassativa descritta dalle fonti di prassi contabile, è irrilevante o addirittura fuorviante riferirsi ad essa quando si pretenda l’applicazione di norme che assumono a fattispecie rilevante eventi determinati, linguisticamente designati da significanti diversi, la cui sussistenza o meno bensì rileva ma del tutto indipendentemente dalla circostanza che essi siano eventualmente qualificabili anche in
termini di “perdita di continuità aziendale”. Così è, ad esempio, per l’insufficienza patrimoniale di cui all’art. 2394 c.c., per la “discesa del capitale sociale sotto il minimo legale” di cui all’art. 2484 comma 1 n. 4 c.c., per il dissesto di cui art. 217, comma 1, n. 4 l.f. (art. 217, comma 1, n. 4 c.c.i.), per l’insolvenza di cui all’art. 5 l.f. (art. 2 let. b c.c.i.).
E così è anche per la situazione di “definitiva perdita della continuità aziendale”, di individuazione pratica e priva di referente normativo preciso, quando, come spesso accade, riferita ad un disequilibrio finanziario tale che l’attività svolta risulterebbe irreversibilmente programmata alla distruzione di ricchezza e alla traslazione del rischio di impresa sui creditori o sia fotografata da bilanci prospettici che presentano cash flow negativi e in presenza di indici economico-finanziari negativi dai quali emergerebbe che l’impresa non è più in condizioni di continuare a realizzare le proprie attività.
In tali casi la “definitiva perdita di continuità aziendale” o si risolve in realtà nelle diverse fattispecie normativamente previste di insufficienza patrimoniale, perdita del capitale sociale, insolvenza, dissesto, oppure, ma con diversa rilevanza rispetto al passato, si identifica in una manifestazione di quella prevista dall’art. 2086, comma 2, c.c. che tuttavia non riguarda lo
scioglimento della società.
➢ La sistematica del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza significativamente conferma il quadro interpretativo appena descritto.
Invero la fattispecie di perdita della continuità aziendale è posta dai principi fondanti previsti in materia – quelli stabiliti dal nuovo secondo comma dell’art. 2086 c.c. – a presupposto dell’  obbligo di reazione degli amministratori, in forma di adozione ed attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento, in vista del “recupero della continuità aziendale”. Con il ché è ribadita sia la natura prognostica del relativo giudizio che la sua reversibilità, connotati
questi propri anche del concetto di crisi aziendale, quale definito dall’art. 2, let. a) c.c.i.
A tal proposito, in ordine al rapporto tra “crisi” e “perdita di continuità aziendale” letto nel quadro della descrizione di quest’ultima situazione quale restituita dai citati principi contabili e di revisione, non si può mancare di osservare che la prima fattispecie, per come definita, assorbe in sé molti, se non tutti, i parametri finanziari che quei principi ascrivono invece alla
“continuità aziendale”. Se ne ricava che, sul piano normativo, la situazione di “perdita di continuità aziendale” è definibile per sottrazione dai parametri, criteri ed indicatori previsti dai principi contabili e di revisione, di tutte quegli eventi / situazioni di natura finanziaria che oggi vanno ricondotti alla fattispecie “crisi” di cui all’art. 2, let a) cit.
Ugualmente, situazioni “deficit patrimoniale” o “capitale ridotto al di sotto dei limiti legali” andranno ascritte non già alla fattispecie “perdita di continuità aziendale”, essendo piuttosto da ricondurre, per quel che qui rileva, alla fattispecie di cui all’art. 2484, comma 1, n. 4 c.c.
Né si tratta di distinzioni nominalistiche o inutili, poiché alle diverse fattispecie sopra indicate sono collegate discipline ben diverse in relazione ai poteri e doveri degli amministratori, dei sindaci, dei soci, con altrettanto diverse discipline delle loro responsabilità risarcitorie.

➢ La lettera delle innovazioni apportate dal “codice della crisi” all’art. 2484, comma 1, c.c., non fa confermare ulteriormente, a contrario (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit), la superiore ricostruzione ermeneutica. E’ stata aggiunta una fattispecie ulteriore di scioglimento della società data dalla apertura delle procedure di liquidazione giudiziale e controllata (n. 7 bis).
Orbene, considerata l’importanza conferita alla situazione di perdita della continuità aziendale nella sistematica del diritto della crisi e la considerazione della liquidazione come extrema ratio, sembra ovvio inferirne che, se il legislatore avesse voluto fare anche della prima una causa di scioglimento della società l’avrebbe detto, inserendo un’altra ipotesi oltre l’unica invece aggiunta.
➢ Lungi dal rivelarsi nominalistico, l’argomento da ultimo espresso ben si accorda con l’intenzione del legislatore, essendo del tutto disfunzionale, in vista del “recupero della continuità aziendale”, prevedere che quando essa fosse persa, la società versi in stato di scioglimento, con il conseguente sorgere, in capo
agli amministratori, non solo dell’obbligo di attuazione di uno degli strumenti di soluzione della crisi previsti a quel fine, ma anche dell’innesco della fase liquidatoria ex artt. 2485 e ss. c.c., comportante di  per sé dissoluzione di ricchezza ed assai più difficilmente reversibile ex art. 2487 ter c.c>>.

La responsabilità dei soci per i debiti della società cancellata opera anche quando sono loro assegnati beni (partecipazione societaria) diversi dal danaro

Sul tema in oggetto (art. 2495 c.3 c.c) v. Cass. n. 31.109 del 8 novembre 20232, rel. Caponi:

<<La questione di diritto che essi sollevano si innesta sulla seguente situazione di fatto così come accertata nei giudizi di merito. Il bilancio di liquidazione della società a responsabilità limitata ha ripartito pro quota ai due soci una partecipazione in un’altra società della quale era titolare la s.r.l. poi estinta ed ha quantificato il controvalore in denaro delle due quote ripartite. La tesi dei due soci ricorrenti è che essi non sono tenuti a rispondere del debito sociale (la restituzione della caparra nella misura del doppio), poiché ai sensi dell’art. 2495 c.c., comma 3, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione.

Vi è in effetti qualche precedente, come Cass. 15474/2017 citato dal P.M. nelle sue osservazioni, che sembra rimanere ancorato al tenore letterale dell’art. 2495 c.c. (allora) comma 2, per cui tra “la società cancellata dal registro delle imprese e i suoi soci può configurarsi una vicenda successoria, giacché, come è stato osservato, il successore intra vires dei debiti trasmessigli non cessa, per questo, di essere un successore (Cass. SU 6070/2013, in motivazione); ma è altrettanto vero che la successione ha luogo solo se ricorra la condizione posta dall’art. 2495 c.c., comma 2, e, quindi, se vi siano state somme riscosse dai soci in base al bilancio finale di liquidazione” (così Cass. 15474/2017, cit., p. 6 s.).

Tuttavia, “beni” (e non solo “somme”) è la parola con cui il sistema normativo, nelle sue disposizioni di portata più generale (a partire dall’art. 2740 c.c.), contrassegna l’oggetto della responsabilità patrimoniale del debitore. Se è vero, come è vero, che si ha a che fare con un fenomeno di responsabilità patrimoniale (dei soci, pur limitata da quanto da loro ricevuto) per adempimento di obbligazioni (contratte dalla società estinta), l’onere di addurre ragioni giustificative ricade sulle spalle di chi intende sostenere un’interpretazione che restringe, in questa ipotesi, alle somme di denaro riscosse l’oggetto della responsabilità patrimoniale, piuttosto che sulle spalle di chi argomenta che il tenore letterale dell’art. 2495 c.c. (oggi) comma 3, non può frapporre ostacoli ad un’applicazione, anche in questa ipotesi, della nozione di beni come oggetto generale della responsabilità patrimoniale.

La conferma si ritrae proprio da una rilettura della parte di Cass. SU 6070/2013, relativa all’interpretazione dell’art. 2495 c.c. (allora) comma 2 (p. 8 s.) da cui si cita nel proseguimento, con una scrittura in corsivo di alcune parole che è appunto vivificata dalla prospettiva interpretativa qui accolta: “Il dissolversi della struttura organizzativa su cui riposa la soggettività giuridica dell’ente collettivo fa naturalmente emergere il sostrato personale che, in qualche misura, ne è comunque alla base e rende perciò del tutto plausibile la ricostruzione del fenomeno in termini successori (…) Persuade di ciò anche il fatto che il debito del quale, in situazioni di tal genere, possono essere chiamati a rispondere i soci della società cancellata dal registro non si configura come un debito nuovo, quasi traesse la propria origine dalla liquidazione sociale, ma s’identifica col medesimo debito che faceva capo alla società, conservando intatta la propria causa e la propria originaria natura giuridica. (…) Nessun ingiustificato pregiudizio viene arrecato alle ragioni dei creditori, del resto, per il fatto che i soci di società di capitali rispondono solo nei limiti dell’attivo loro distribuito all’esito della liquidazione. Cass. SU 6070/2013 prosegue poi (p. 10 ss.) con la parte più ardua, tesa a recuperare i “residui attivi non liquidati” e le “sopravvenienze attive” alla responsabilità patrimoniale per l’adempimento dei debiti della società estinta, attraverso il subingresso dei soci, entro il limite menzionato dei beni e/o utilità da loro ricevuti. In definitiva, è la stessa Cass. SU 6070/2013 che muove da una nozione di oggetto della responsabilità patrimoniale in termini di elementi “attivi”, cioè di beni, in coerenza con la disciplina generale della responsabilità patrimoniale. Tali sono ovviamente anche le partecipazioni societarie di cui era titolare la società estinta. Talché s’impone il rigetto di una interpretazione dell’art. 2495 c.c. (oggi) comma 3, rigidamente ancorata alla lettera di “somme… riscosse”, incompatibile con tale cornice generale.

Gli argomenti addotti dai ricorrenti non sono in grado di minare queste osservazioni, che confermano la correttezza dell’interpretazione adottata dalla Corte di appello, dal momento che ha chiamato a rispondere i due soci della società estinta dell’adempimento dell’obbligo di restituzione della caparra nella misura del doppio, il cui ammontare non esorbita dal controvalore quantificato né in relazione all’una, né in relazione all’altra delle quote dell’originaria partecipazione sociale, ripartite tra i due soci>>.

La soluzione è probabilmente esatta. La ratio dovrebbe tuttavia piuttosto appoggiarsi al  pregiudizio che subirebbero i creditori ogni volta che la debitrice in via di cancellazione assegnasse ai soci beni divesi dal denaro: lasciare a tale assegnazione la tutela o meno dei creditori genera disparità ingiustficate di trattamento.

Non è poi chiaro , se ben capisco, come mai i soci assegnatari siano personalmente responsabili e non la socieà partecipata.

Azione contro Walmart: cenno alla business judgment rule

Giunge notizia della Corte del Delaware 26 aprile 2023 , C.A. No. 2021-0827-JTL, ONTARIO PROVINCIAL COUNCIL OF CARPENTERS’ PENSION TRUST FUND e altri fondi c. Walmart e alcuni suo amministratori.  nella triste vicenda facente parte della cd opioid epidemic connessa al suo ruolo come distributori di oppiacedi nelle sue farmaceie

Gli attori azionisti <<seek to shift responsibility for the harm that Walmart has suffered to the fiduciaries whom they say caused it. They maintain that the directors and officers of Walmart breached their fiduciary duties to the corporation and its stockholders by (i) knowingly causing Walmart to fail to comply with a settlement between the U.S. Drug Enforcement Agency (“DEA”) and Walmart (the “DEA Settlement”); (ii) knowingly causing Walmart to fail to comply with its obligations under the federal Controlled Substances Act and its implementing regulations (collectively, the “Controlled Substances Act”) when acting as a dispenser of opioids through its retail pharmacies, and (iii) knowingly causing Walmart to fail to comply with its obligations under the Controlled Substances Act when acting as a wholesale distributor of opioids for its retail pharmacies>>.

Allegano l’esisstenza di specifici red flags.

Qui ricordo solo il passso per cui mai la busienss judgment rule può coprire violazioni di legge

<< Some projects involve more legal risk than others and, depending on the
outcome, can expose the corporation to civil liability. When directors make a business decision that carries legal risk, but which otherwise involves legally compliant conduct, then the business judgment rule protects that decision. The same principle applies to a board’s decision to act or not act in response to red flags. “Simply alleging that a board incorrectly exercised its business judgment and made a ‘wrong’ decision in response to red flags, however, is insufficient to plead bad faith.” Melbourne Mun. Firefighters’ Pension Tr. Fund v. Jacobs, 2016 WL 4076369, at *9 (Del. Ch. Aug. 1, 2016), aff’d, 158 A.3d 449 (Del. 2017). To establish the requisite inference of bad faith, a plaintiff would have to plead
(and later prove) that the directors knew from the red flags that the corporate trauma was coming and nevertheless forged ahead for reasons unrelated to the best interests of the corporation. “The decision about what to do in response to a red flag is one that an officer or director is presumed to make loyally, in good faith, and on an informed basis, so unless one of those presumptions is rebutted, the response is protected by the business judgment rule.” McDonald’s Directors, 2023 WL 2293575, at *17.
What a corporate fiduciary cannot do, however, is make a business judgment to
cause or allow the corporation to break the law. “Delaware law does not charter law breakers.” In re Massey Energy Co., 2011 WL 2176479, *20 (Del. Ch. May 31, 2011). As the Massey decision explains, Delaware law allows corporations to pursue diverse means to make a profit, subject to a critical statutory floor, which is the requirement that Delaware corporations only pursue “lawful business” by “lawful acts.” As a result, a fiduciary of a Delaware corporation cannot be loyal to a Delaware corporation by knowingly causing it to seek profit by violating the law. Id. at *20 (footnoted omitted). “[I]t is utterly inconsistent with one’s duty of fidelity to the corporation to consciously cause the corporation to act unlawfully. The knowing use of illegal means to pursue profit for the corporation is director misconduct.” Desimone v. Barrows, 924 A.2d 908, 934–35 (Del. Ch. 2007) (cleaned up). “[A] fiduciary may not choose to manage an entity in an illegal fashion, even if the fiduciary believes that the illegal activity will result in profits for the entity.” Metro Commc’n Corp. BVI v. Advanced Mobilecomm Techs. Inc., 854 A.2d 121, 131 (Del. Ch. 2004).
The business judgment rule plays no role in a decision to proceed in a way that
violates the law. As a result, there is a fundamental difference between the following two scenarios, each involving a legal assessment.
• In one hypothetical scenario, the lawyers say: “Although there is some room for
doubt and hence some risk that our regulator may disagree, we believe the company is complying with its legal obligations and will remain in compliance if you make the business decision to pursue this project.”
• In the other hypothetical scenario, the lawyers say: “The company is not currently in compliance with its legal obligations and faces the risk of enforcement action, and if you make the business decision to pursue this project, the company is likely to remain out of compliance and to continue to face the risk of an enforcement action. But the regulators are so understaffed and overworked that the likelihood of an enforcement action is quite low, and we can probably settle anything that comes at minimal cost and with no admission of wrongdoing.”
In the former case, the directors can make a business judgment to pursue the project. In the latter case, the decision to pursue the project would constitute a conscious decision to violate the law, the business judgment rule would not apply, and the directors would be acting in bad faith>>.

Versamenti in conto capitale e versamenti in conto futuro aumento di capjtale

Cass. sez. I dell’ 8 agosto 2023 n. 24.093, rel. Fidanzia:

la censura:

<<Lamenta il ricorrente che la Corte d’Appello ha erroneamente condiviso l’impostazione del CTU nel ritenere che la somma di Euro 1.156.724,20 costituisse un debito, o comunque un’acquisizione patrimoniale condizionata ad una futura delibera di aumento del capitale, come tale non diversamente disponibile.

In particolare, la Corte d’Appello ha violato l’art. 2424 c.c., nell’affermare che la chiara indicazione di “versamenti in conto di capitale” dimostrasse che si trattasse di versamenti finalizzati all’eventuale futuro aumento di capitale considerando. In proposito, evidenzia il ricorrente che nei bilanci precedenti al 2007 quella posta era stata indicata come semplice “riserva”, che sarebbe divenuta successivamente “riserva da versamenti in conto capitale”, e, nel bilancio 2007, “riserva da versamento in conto futuro aumento di capitale”. Gli stessi bilanci non facevano riferimento né a pretese restitutorie dei soci eroganti, né ad un vincolo di destinazione della riserva in oggetto, né a un qualsivoglia futuro, programmato e ben determinato aumento di capitale.

Ad avviso del ricorrente, la Corte d’Appello ha erroneamente indicato il collegamento della riserva al socio erogante nella semplice dicitura utilizzata in bilancio “versamenti in conto capitale” ed ha, nel contempo, violato l’art. 1362 c.c. laddove ha dato rilievo non già alla comune volontà delle parti (da valutare sulla base delle modalità con cui si era svolto il rapporto, delle finalità perseguite dalle parti e degli interessi sottesi) bensì alla mera denominazione contabile della posta>>.

La risposta della SC:

<<7. Il motivo è fondato.

Va preliminarmente osservato che questa Corte ha in modo dettagliato ed esaustivo illustrato la distinzione tra “versamenti in conto capitale” e “versamenti in conto futuro aumento di capitale” nell’ordinanza n. 29325/2020, nella quale, inquadrando, più in generale, le diverse figure delle dazioni del socio tra: a) i conferimenti; b) i finanziamenti dei soci; c) i versamenti a fondo perduto o in conto capitale; d) i versamenti finalizzati ad un futuro aumento di capitale, si è espressa nei seguenti termini:

“…..I versamenti del terzo tipo sono privi della natura del mutuo, in quanto non ne è pattuito il diritto al rimborso; vanno, quindi, iscritti nel passivo dello stato patrimoniale tra le riserve, che l’assemblea può discrezionalmente utilizzare, con le ordinarie modalità, per ripianare le perdite o per aumentare gratuitamente il capitale, imputandole a ciascun socio proporzionalmente alla partecipazione al capitale sociale (senza che occorra obbligatoriamente tener conto del soggetto che abbia operato il versamento, proprio in ragione dell’inesistenza vuoi di un credito alla restituzione delle somme, vuoi di una anticipata dazione a titolo di conferimento).

L’apporto del socio produce l’acquisizione definitiva al patrimonio della società delle somme versate, da assimilare al capitale di rischio, cui vanno equiparate agli effetti sostanziali; la riserva così formata, al pari delle riserve ordinarie o facoltative per la quota eccedente la riserva legale, ha dunque di regola carattere disponibile, ma una eventuale distribuzione non costituisce un diritto soggettivo del socio.

d) Nell’ultima categoria, la dazione del denaro è finalizzata a liberare il debito da sottoscrizione di un futuro aumento del capitale sociale mediante successiva rinuncia, che il socio porrà in essere dopo la deliberazione assembleare di aumento e la sua sottoscrizione.

Si è parlato di una riserva “personalizzata” o “targata”, in quanto di esclusiva pertinenza dei soci che abbiano effettuato il versamento in relazione all’entità delle somme da ciascuno erogate (Cass. 24 luglio 2007, n. 16393; Cass. 19 marzo 1996, n. 2314). Ove l’aumento non sia operato, il socio avrà diritto alla restituzione di quanto versato: non a titolo di rimborso di somma data a mutuo, ma per essere venuta successivamente meno la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale da lui eseguita in favore della società, quale ripetizione dell’indebito.

Dunque, va precisato che, perché la “dazione” del socio sia ricondotta a tale categoria, è necessario che la subordinazione ad un aumento di capitale sia chiara ed inequivoca, mediante l’indicazione ex ante di elementi sufficientemente specifici e dettagliati, i quali inducano a ritenere effettivamente convenuta tra i soci l’effettuazione non di un versamento tout court a favore delle casse sociali, ma di un versamento avente titolo e causa concreta proprio nella partecipazione al capitale sociale mediante un futuro conferimento, che, sebbene meramente rinviato rispetto al momento della dazione materiale della somma, sia nondimeno sin dall’inizio volto, secondo la complessiva operazione programmata dai soci, ad aumentare la rispettiva quota di partecipazione sociale, in termini assoluti.

Ciò, per il principio generale di determinatezza o determinabilità ex art. 1346 c.c., secondo cui deve essere sempre individuabile con sufficiente certezza l’oggetto del contenuto precettivo di un accordo negoziale.

Le sole parole usate non sono, dunque, di per sé esaustive, ben potendo un versamento essere denominato, nei documenti societari e contabili, come eseguito “in conto futuro aumento del capitale sociale”, ma non essere affatto, nel contempo, accompagnato da quegli indici di dettaglio (ad es., il termine finale entro cui verrà deliberato l’aumento, ma anche altre caratteristiche dello stesso), che soli qualificano la dazione come da ricondurre alla categoria in esame.[precisazione importante: il termine è essenziale]

In tal caso, pertanto, l’iscrizione in bilancio avviene sempre come riserva, e non come finanziamento soci; ma, perché sorga pure l’obbligo restitutorio condizionato, dovrà, altresì, essere evidenziato che l’apporto è suscettibile di restituzione ai soci in virtù dell’effetto risolutorio riconnesso a tale tipo di apporto, per tale profilo dunque avvenuto in modo non definitivo (a differenza degli altri versamenti).

6.3. – Decisiva nella qualificazione della dazione è l’interpretazione della volontà delle parti, rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito.

Occorre, in particolare, da parte di questi accertare se si sia trattato di un rapporto di finanziamento riconducibile allo schema del mutuo o di un contratto atipico di conferimento, ed, in quest’ultimo caso, se esso sia stato – in modo inequivoco condizionato o no, nella restituzione, ad un futuro aumento del capitale nominale della società.

L’indagine sul punto può tener conto di ogni elemento, quali le clausole statutarie che tali versamenti prevedano, il comportamento delle parti, i fini perseguiti, le scritture contabili, i bilanci e qualsiasi altra circostanza del caso concreto, capace di svelare la comune intenzione delle parti e gli interessi coinvolti “.

Deve quindi enunciarsi o meglio ribadirsi, il seguente principio di diritto:

“1. Per versamenti in conto futuro aumento di capitale devono intendersi quelle dazioni di danaro dei soci a favore della società che non siano, tuttavia, definitivamente acquisite al patrimonio sociale, avendo uno specifico vincolo di destinazione, con la conseguenza che, ove l’aumento non sia operato, il socio avrà diritto alla restituzione di quanto versato, per essere venuta meno la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale da lui eseguita in favore della società, quale ripetizione dell’indebito.

2. Per qualificare la dazione come versamento in conto futuro aumento di capitale, l’interprete deve verificare che la volontà delle parti di subordinare il versamento all’aumento di capitale risulti in modo chiaro ed inequivoco, utilizzando, all’uopo, indici di dettaglio (quali l’indicazione del termine finale entro cui verrà deliberato l’aumento, il comportamento delle parti, eventuali annotazioni contenute nelle scritture contabili o nella nota integrativa al bilancio, clausole statutarie), e, comunque, qualsiasi altra circostanza del caso concreto, capace di svelare la comune intenzione delle parti e gli interessi coinvolti, non essendo, all’uopo, sufficiente la sola denominazione adoperata nelle scritture contabili”.

Non vi è dubbio che, nel caso di specie, la Corte d’Appello, nell’interpretare la volontà delle parti in ordine alla natura delle dazioni di cui è causa, non abbia fatto buon governo dei sopra enunciati principi di diritto.

In primo luogo, dalla lettura della sentenza impugnata appare che il giudice d’appello abbia confuso la categoria dei “versamenti in conto di capitale ” con i “versamenti in conto futuro aumento di capitale”, atteso che, nell’evidenziare che l’unico elemento per interpretare la volontà delle parti era dato dalle risultanze di bilancio, in questi termini si esprime:”…Nel caso di specie, l’unico elemento ravvisabile è l’indicazione in bilancio, sotto la categoria “riserve”, ma con la chiara indicazione di “versamenti in conto di capitale” e dunque finalizzati all’eventuale futuro aumento dello stesso, posto che non era stato deliberato un coevo aumento del capitale”.

D’altra parte, a differenza di quanto adombrato dall’appellante, la medesima qualificazione si rinviene nel bilancio chiuso al 31.12.2005 dimostrando anche la persistenza di tale indicazione anche nel periodo antecedente alla fuoriuscita del C. (escludendo, quindi, definizioni di “comodo”) ed evidenziando, altresì, come tali versamenti siano rimasti inutilizzati proprio perché vincolati al futuro aumento di capitale.

In ogni caso, anche ove si volesse ritenere che la Corte d’Appello, nell’indicare i versamenti in questione, fosse incorsa in un mero errore materiale, per essersi dimenticata l’espressione “futuro aumento”, comunque la Corte sarebbe incorsa nei vizi denunciati dal ricorrente, avendo valorizzato, per sua espressa ammissione, come unico indice interpretativo, la sola denominazione adoperata nelle scritture contabili, con ciò contraddicendosi, peraltro, con quanto affermato qualche riga sopra nella quale aveva osservato (vedi pag. 13 secondo capoverso della sentenza impugnata) che, per accertare la natura del versamento dei soci, l’utilizzo di formule non codificate impone di verificare con la massima cautela quale sia stata la reale intenzione dei soci e della società “….. non essendo sufficiente, la sola denominazione adoperata nelle scritture contabili, ma dovendosi dare conto anche delle finalità pratiche e degli interessi sottesi, e quindi si deve tenere conto delle clausole statutarie, delle scritture contabili e dei bilanci, del comportamento delle parti e di ogni altro elemento concreto possa avere rilievo (Cass. 16049/2015 cit. e Cass. 21563/2018 cit)”.

La Corte d’Appello non ha indicato elementi specifici e dettagliati, forniti ex ante, denotanti la chiara ed inequivoca volontà dei soci di destinare i versamenti di cui è causa ad un futuro aumento di capitale, costituente unico titolo e causa concreta dell’eventuale operazione programmata dai soci. La Corte d’Appello non ha valorizzato quegli indici di dettaglio che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto significativi (indicazione del termine finale entro cui verrà deliberato l’aumento, comportamento delle parti, eventuali annotazioni contenute nelle scritture contabili o, a titolo di ulteriore esempio, anche nella nota integrativa al bilancio, etc.).

D’altra parte, non rientra tra gli indici interpretativi individuati da questa Corte la circostanza fattuale della materiale provenienza dei versamenti (nel caso di specie, dalla documentazione agli atti era emerso che i versamenti di cui è causa non erano riconducibili al C.), avendo già questa Corte evidenziato, nel citare sopra l’ordinanza n. 29325/2020, che l’assemblea può discrezionalmente decidere di utilizzare i “versamenti in conto capitale” (da iscriversi nel passivo dello stato patrimoniale tra le riserve) per ripianare le perdite o per aumentare gratuitamente il capitale, imputandole a ciascun socio proporzionalmente alla partecipazione al capitale sociale, senza che occorra obbligatoriamente tener conto del soggetto che abbia operato il versamento, proprio in ragione dell’inesistenza vuoi di un credito alla restituzione delle somme, vuoi di una anticipata dazione a titolo di conferimento. Dunque, rientra nella fisiologia che “i versamenti in conto capitale” possano provenire solo da alcuni soci e non da tutti.

Alla luce delle sopra illustrate osservazioni, deve ritenersi che il giudice d’appello sia incorso nella denunciata violazione dell’art. 1362 c.c..>>

I sindaci devono informare la Consob di qualunque irregolarità riscontrata, anche di quelle apparentemente minori

Cass sez. II del 28.08.2023 n. 25.336, rel. Papa, per violazione dei sindaci dell’art. 149.3 tuf a seguito di incompleta informazione dell’ amminnstratore ex 150.1 tuf  su sottoscrizione di prestito obbligazinario in conflitto di interesse :

<<Nella specie, dunque, la sottoscrizione del prestito obbligazionario era stata segnalata come rilevante dall’Amministratore delegato, ma l’informazione non era stata evidentemente accurata e completa perché non aveva riferito della sussistenza di un potenziale conflitto di interesse all’operazione di un componente del C.d.a. in quanto amministratore pure dell’emittente.

Il difetto di segnalazione del potenziale conflitto rappresentava una “irregolarità” dell’operazione, rilevante ex art. 150 TUF e, perciò, da comunicare a CONSOB ex art. 149 comma 3 TUF.

Diversamente non può ritenersi, come sostenuto dai controricorrenti e recepito in sentenza, considerando la sopravvenienza della situazione di un’operazione con parte correlata, perché nella fattispecie si controverte della comunicazione dell’irregolarità rappresentata dalle carenze della relazione informativa da parte dell’Amministratore delegato, non delle conseguenze dell’informazione incompleta: la comunicazione che il collegio sindacale deve fare senza indugio alla CONSOB, ai sensi dell’art. 149, comma 3, T.U.F., riguarda tutte le irregolarità che tale collegio riscontri nell’esercizio della sua attività di vigilanza perché la legge non demanda ai sindaci alcuna funzione di filtro preventivo sulla rilevanza delle irregolarità da loro riscontrate, al fine di selezionare quali debbano essere comunicate alla CONSOB e quali non debbano formare oggetto di tale comunicazione; l’assolutezza del comando normativo emerge, oltre che dalla lettera dell’art. 149, comma 3, T.U.F. – in cui il sostantivo “irregolarità” non è accompagnato da alcun aggettivo qualificativo – anche dall’evidente ratio legis di evitare che i collegi sindacali debbano misurarsi con parametri di rilevanza/gravità delle irregolarità da segnalare alla CONSOB la cui concreta applicazione dipenderebbe da valutazioni inevitabilmente opinabili, così da risultare foriera di gravi incertezze operative e, in ultima analisi, da rischiare di pregiudicare proprio lo scopo della disposizione in esame, evidentemente volta a garantire alla CONSOB una completa e tempestiva informazione sull’andamento delle società sottoposte alla sua vigilanza.” (Cassazione civile, Sez. 2, n. 3251 del 10/02/2009; Sez. 2, n. 12110 del17/05/2018).

La Corte d’appello non ha osservato questo principio laddove ha ritenuto di poter escludere l’antigiuridicità dell’omessa comunicazione a CONSOB, da parte del Collegio sindacale, della incompletezza della relazione informativa da parte dell’A.d., dando rilievo a circostanze di fatto estranee e sopravvenute>>.

Nuova edizione dei principi di Corporate governance dell’OECD (anzi, G20/OECD)

Orizzonti del diritto commerciale dà notizia della e link alla nuova edizione dei  Principi di Corporate governance OECD (anzi G20/OECD).

Qui richiamo la parte sulla sostenibilità , cap. VI Sustainability and resilience.

Le relative regole mirano solo alla miglior profittabilità nel lungo termine.

Tale è lo scopo anche della misura più avanzata, il dialogo con gli stakeholders (VI.B. Corporate governance frameworks should allow for dialogue between a company, its shareholders and stakeholders to exchange views on sustainability matters as relevant for the company’s business strategy and its assessment of what matters ought to be considered material).

Genericissima la regola sulla partecipazione dei lavoratori, VI.D.3 (The degree to which employees participate in corporate governance depends on national laws and practices, and may vary from company to company as well. In the context of corporate governance, mechanisms for participation may benefit companies directly as well as indirectly through the readiness by employees to invest in firm specific skills. Examples of mechanisms for employee participation include employee representation on boards and governance processes such as works councils that consider employee viewpoints in certain key decisions. International conventions and national norms also recognise the rights of employees to information, consultation and negotiation).

Responsabilità dei sindaci e transazione dell’obbligazione solidale in una recente sentenza del tribunale lagunare

Trib sez. imprese Venezia 18 sagosto 2023 n. 1476/2023, RG 550/2016, rel Campagner, esamina una lite sulla responsabilità di amminsitratori e sindaci promossa dalla curatela.

Riporto solo i passaggi sui due temi in oggetto:

Sindaci:

<<La violazione di tali obblighi è fonte di responsabilità risarcitoria, quando il danno (per la società, per i soci o per i creditori) non si sarebbe prodotto se i sindaci avessero vigilato e agito in conformità agli obblighi della loro carica.
Il che implica che l’accertamento della responsabilità dei Sindaci passa per un giudizio controfattuale, che impone di verificare se l’adozione del comportamento prescritto e l’esercizio dei poteri di vigilanza e controllo avrebbero impedito la verificazione del danno, mentre essi non rispondono in modo automatico per ogni fatto dannoso che amministratori negligenti abbiano posto in essere.
Ne discende che per poter accertare la sussistenza della responsabilità dei sindaci in concorso omissivo con il fatto illecito degli amministratori, colui che propone l’azione ex art. 2407 c.c. ha l’onere di allegare specificamente quali doveri sono rimasti inadempiuti e quali poteri non sono stati esercitati dai sindaci e di provare il danno ed il nesso di causalità tra quelle omissioni ed il danno, nesso che può ritenersi sussistente “quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica”
(art. 2407, comma 2 c.c.)>

Transazione dell’obbligo risarcirorio pro quota:

<<Le suddette transazioni si riferiscono senza distinzione alcuna all’azione già intentata dal Fallimento; come esplicitato nel testo, ciascuna transazione ha determinato lo scioglimento del vincolo di solidarietà passiva con ogni altro coobbligato concorrente e ha ad oggetto i soli crediti relativi alla quota astratta individuale di responsabilità di ciascun transigente.
Tenendo conto della distinzione tra transazione pro quota e transazione dell’intero debito (ipotesi alla quale è applicabile l’art. 1304 c.c.) come tratteggiata da C. Civ. S.U. n. 30174 del 2011, il contratto stipulato da ciascun transigente deve essere qualificato come transazione pro quota, tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva rispetto al debitore che vi aderisce; essa non può coinvolgere gli altri condebitori, i quali dunque nessun titolo avrebbero per profittarne, salvo ovviamente che per gli effetti derivanti dalla riduzione del loro debito in conseguenza di quanto pagato dal debitore transigente .

Si deve, infatti, ulteriormente precisare che, qualora risulti che la transazione ha avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che l’ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido è destinato a ridursi in misura corrispondente all’ammontare di quanto pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito; se, invece, il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l’accordo transattivo, come nel caso di specie, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura proporzionale alla quota di chi ha transatto>>

Sulla validità della clausola societaria c.d. antistallo (roulette russa)

Cass. 25.07.2023 sez. I  n. 22.375, rel. Fraulini, conferma la validità delal clausola antistallo c.d. russian roulette , Il ragionamento , approfondito, è persuasivo.

<<Nella sua schematizzazione più semplice, la clausola russian roulette prevede che, al verificarsi di una situazione di deadlock non altrimenti risolvibile, a uno o entrambi dei soci paciscenti è attribuita la facoltà di rivolgere all’altro socio un’offerta di acquisto della propria partecipazione, contenente il prezzo che si è disposti a pagare per l’acquisto della stessa. Il socio destinatario dell’offerta non e’, tuttavia, in una posizione di mera soggezione di fronte a tale iniziativa, ma risulta titolare di un’alternativa che può liberamente percorrere: a) può, infatti, accettare l’offerta, e quindi vendere la propria partecipazione al prezzo indicato dalla controparte; b) può, invece, “ribaltare” completamente l’iniziativa e farsi acquirente della partecipazione del socio offerente, per il prezzo che quest’ultimo aveva indicato>>.

Di solito è inserita nei patti parasociali, ormnai paficiamente legittimi precisa la SC [chissa perchè non negli stsatuti]

Sub g) le consideraizoni civilisticjhe.

Pacifico che non vuioli nè la’rt. 1355 nè l’art. 1349. E’ una obbligaziopne alternativa, dice la SC

Nemmeno viola il divieto di patto leonino, (sub h).

Anche la necessità di valore congruo (profiloi m,eno scontato) non è riconoscoiuuta dall aSC, almeno parrebbe.

Il profilo di sicuro più interessante è la possibile violazione della buona fede e/o il possibile abuso del diritto (sostanzialmente una concretizzazione della prima), sub l):

<<E’ certamente possibile che anche la clausola di russian roulette possa dare luogo ad abusi e che pertanto il suo esercizio soggiaccia all’applicazione dei principi generali di correttezza e buona fede. Si è già notato, da questo punto di vista, come la dottrina e la giurisprudenza nordamericana evidenzino, da un lato, l’esigenza di discovery da parte del socio che fa ricorso alla clausola, in modo che chi riceve la notifica di deadlock e l’indicazione del prezzo offerto abbia gli elementi conoscitivi per poter decidere consapevolmente se vendere od acquistare la partecipazione e, come, allo stesso tempo, una particolare attenzione debba essere riservata ai casi in cui vi sia una forte divergenza economico-finanziaria fra le parti, a evitare che un soggetto possa abusare della clausola per espellere l’altro partner anche di fronte a una situazione di stallo non effettiva o unilateralmente imposta, dando luogo a quella che è chiamata lack of choice (ossia la perdita di quel potere di SCElta in capo all’oblato che fonda sul pianto strutturale l’equilibrio della clausola rendendo incerto al dichiarante quale sarà l’esito del meccanismo da lui stesso azionato).

Ove tali condotte fossero in concreto ravvisabili, in dottrina si è ipotizzato che l’oblato possa fruire di tutela risarcitoria per i danni che abbia subito dalla estromissione iniqua dalla società e che lo stesso possa anche impedire il meccanismo attivato dall’altro socio attraverso l’opposizione dell’exceptio doli generalis, con la quale paralizzare, anche in via cautelare, l’altrui attivazione della clausola di russian roulette. Si e’, poi, osservato che se la situazione di “stallo” fosse artatamente creata dal soggetto intenzionato a esercitare in mala fede la buy/sell provision, il rimedio potrebbe anche consistere nell’annullamento della delibera negativa oppure, secondo altra prospettazione, nella stessa rideterminazione giudiziale dell’esito della votazione. Un’ulteriore possibilità di tutela ipotizzata è rappresentata, poi, secondo diversa opzione interpretativa, dalla sanzione dell’inefficacia dell’atto realizzato attraverso l’abuso (così, nella fattispecie ipotizzata, nell’inefficacia dell’atto traslativo della partecipazione societaria), considerando tale opzione come più tutelante rispetto a quella puramente risarcitoria>>.

Impugnazione della delibera di revoca da parte di amministratore di s.p.a.: il caso della utility AGSM AIM spa

Trib. Venezia decr. 1644/2023 del 03.07.2023, RG 1909/2023-1, rel. Tosi, sul tema con alcuni spunti interessanti:

– l’amministratore revocato è legittimato (ed ha interesse) ad impugnare la delibera dei soci che lo revoca: corretto, poichè il vizio dedotto sta a monte della perdita della carica.

– la giusta causa conta solo ai fini del risarcimento, non della efficacia della delibera: corretto e pacifico , essendo la revoca immediata ed incondizionata.

– l’abuso nel voto da parte di in socio . E’ la parte più interessante dato che qui è fatto valere da un non socio (l’ammministratore) contro la società-

<<L’abuso del voto è figura giuridica che si impernia sulla regola per cui anche il contratto di società, come ogni altro, va eseguito in buona fede; e riguarda il caso in cui il voto sia esercitato in modo contrario alla buona fede. Il tema non riguarda pertanto l’astratto interesse della società, ma i rapporti fra i soci, parti del contratto. In linea generale ogni socio persegue, nell’esercitare i suoi diritti sociali, propri interessi ed è libero di esercitare il proprio voto come meglio crede, nell’interesse proprio [entro quelli dedotti -espicit. o implicit.  nel contratto sociale!]. Si configura abuso di maggioranza (così si intende configurato dal ricorrente il comportamento di voto del socio Verona) solo quando l’esercizio del voto da parte della maggioranza avviene al solo scopo di ledere l’interesse della minoranza [meglio: quando è difforme dallo scopo di produrre profitto sostenibile]. Diversamente, la divergenza di voto fra soci è fisiologia della vita sociale: nel caso in esame, peraltro, al dissenso fra soci in occasione della revoca dell’avv. Casali e della consigliera Vanzo, è seguita concordia nella scelta dei successori suo e della consigliera Vanzo.

In ogni caso, rispetto al requisito fondante l’abuso (l’esercizio del voto a soli fini di lesione del socio di minoranza) nulla viene allegato dal ricorrente. Egli invece chiede che il giudice si addentri nella verifica di quale sia la migliore scelta, fra le varie possibili ai soci rispetto all’ordine del giorno assembleare, rispetto alla governance sociale; il giudice dovrebbe entrare a gamba tesa nelle scelta dei soci, valutando se il voto del Comune di Verona sia conforme all’interesse sociale e addirittura apprezzando la qualità dell’operato dei consiglieri rimasti e di quelli sostituitivi, come la parte ricorrente chiede di fare nel momento in cui intende verificare i contenuti del procedimento ex art. 2409 c.p.c. che essa allega sia stato incardinato avanti a questa Sezione contro il nuovo CdA. A questo proposito, non solo non spetta al giudice operare una valutazione di opportunità della scelta della compagine sociale in punto nomina amministratori nella prospettiva ex ante, l’unica eventualmente ipotizzabile, dal punto di vista logico [punto di cvista “giuridico”, non logico!. Può poi appplicarsi la business judgment rule anche nella delibera dei soci , come per le scelte gestorie: se irrazionale -cioè in malafede- , è illegittima], rispetto alla valutazione della liceità della delibera; ma tanto meno spetta una valutazione alla luce di fatti posteriori, peraltro essi stessi sub iudice [ovvio, nemmeno andava precisato: conta solo l’ ex ante].

In realtà, nella fattispecie dell’abuso , la verifica dell’interesse sociale costituisce più che altro uno strumento di controllo, nel senso che la difficoltà di ravvisare un apprezzabile interesse sociale può costituire elemento che sorregge la verifica dello scopo lesivo; e comunque si tratta di elemento sussidiario, non principale, della fattispecie. La verifica stessa dell’interesse sociale è materia assai delicata, e tanto più lo è nel caso concreto, dove, in una prospettiva diversa da quella dell’amministratore revocato, e pur sempre riferita all’interesse sociale, va considerato che a consiglieri “divisivi” sono stati sostituiti consiglieri votati conformemente dai due soci. Questo aspetto fattuale pare peraltro rilevante anche rispetto all’apprezzamento del periculum in mora, ex  art. 2378 comma 3 c.c.>>.

Spunto finale:

<<In ogni caso, non è neppure allegato che il socio maggioritario Verona abbia votato a soli fini di lesione del socio minoritario Vicenza; e tanto basta in questa sede, non meritando addentrarsi nella verifica (che pure non appare peregrina) se all’amministratore spetti l’azione di annullamento per abuso, non essendo egli un socio>>.       Dubbio interessante posto dal giudice: ma la risposta è positiva sia qualora l’effetto si riverberi -non come mero fatto ma precisa conseguenza giuridica- sul rapporto tra società e amministratore sia per la legittimazione all’impugnazione delle delibere illegittime dei soci spettante all’amministratore.

Diritto di parola della società tramite i suoi amministratori sui temi socialmente divisivi

La Corte del Delaware 27.06.2023 , C.A. No. 2022-1120-LWW, Simeone v. Walt Diusney, sulla nota controversia tra Ron De Santis e la Walt Disney, a seguito della decisione della seconda di opporsi alla legge c.d.  «Don’t Say Gay» (il primo aveva minacciato di far perdere alla seconda benefici fiscali, con esternazione vagamente minatoria).

Il tema è interessnte, divenendo sempre più attuale l’intervento dei CEOs sui temi socialmente significativi.

C’è un profilo esterno (diritto di parola in senso tecnico in capo ad ente lucrativo) e uno interno (doveri del manegement verso i soci): i quali sono correlati (è il secondo a porre limiti al primo?).

Lite nata da istanza di accesso ai libri contabili secondo la Sec. 220, sempre più spesso azionata per facilitare le successive azioni di responsabiiità (v.  saggi di Roy Shapira)

Riporto quanto segue:

<< Far from suggesting wrongdoing, the evidence here indicates that the Board actively engaged in setting the tone for Disney’s response to HB 1557.132 The Board did not abdicate its duties or allow management’s personal views to dictate Disney’s response to the legislation. Rather, it held the sort of deliberations that a board should undertake when the corporation’s voice is used on matters of social significance.

As Chapek told stockholders during Disney’s 2022 annual meeting, the company’s original approach to HB 1557 “didn’t quite get the job done.” The company, facing widespread backlash from its staff and creative talent, changed course after the full Board held a special meeting about “Political Engagement and Communications.” The Board discussed “the communications plan, philosophy and approach regarding Florida legislation and employee response.” Only then did Chapek announce that Disney opposed the bill. The Board’s consideration of employee concerns was not, as the plaintiff suggests, at the expense of stockholders.

A board may conclude in the exercise of its business judgment that addressing interests of corporate stakeholders—such as the workforce that drives a company’s profits—is “rationally related” to building long-term value. Indeed, the plaintiff acknowledges that maintaining a positive relationship with employees and creative partners is crucial to Disney’s success. It is not for this court to “question rational judgments about how promoting nonstockholder interests—be it through making a charitable contribution, paying employees higher salaries and benefits, or more general norms like promoting a particular corporate culture—ultimately promote stockholder value.”>>