L’intestazione fiduciaria di quote di SRL rimane nonostante trasferimenti multipli

Cass. sez. I del 15 giugno 2023 n. 17.151, rel. Nazzicone:

Principi sulla intestazione fiduciaria:

<<3. – Tuttavia, l’interposizione reale mediante ripetuti passaggi fiduciari ai soggetti più disparati, siano essi persone fisiche o giuridiche, è ammissibile e si inquadra nell’istituto dell’intestazione fiduciaria delle partecipazioni sociali, non escludendo invero certamente la riconducibilità pur sempre al medesimo interponente della titolarità della quota o del pacchetto azionario di riferimento, l’esistenza di ulteriori passaggi e titolarità indirette dello stesso, purché, naturalmente, adeguatamente dimostrati.>>

In generale:

<<Invero, come in ambito civilistico, anche per l’intestazione fiduciaria di partecipazioni societarie vale quanto osservato in modo sintetico e descrittivo in dottrina, secondo cui la posizione del fiduciario è caratterizzata da un potere giuridico eccedente il suo scopo, dato il divario tra ciò che a lui è “giuridicamente possibile” e ciò che invece è “giuridicamente consentito”. Ciò perché l’intestazione delle partecipazioni al fiduciario è strumentale ai fini esclusivi perseguiti dal fiduciante, tipica dell’istituto essendo, inoltre, non una conflittualità ricomposta degli interessi, ma la convergenza di questi, ogni decisione venendo, di necessità, assunta nell’interesse essenziale del fiduciante (Cass. 14 febbraio 2018, n. 3656).

Sulla struttura e sulla causa del negozio – superata la tesi del collegamento negoziale tra due contratti, l’uno ad effetti reali e l’altro ad effetti obbligatori diretto a modificare il risultato finale del primo – la qualificazione è come contratto unitario avente una causa propria, species del genus agire per conto altrui, in cui la causa non risiede né nel trasferimento del bene, né nella sostituzione al mandante ai fini del compimento di specifici atti, ma nella combinazione dei due momenti, in vista dell’obiettivo della c.d. spersonalizzazione della proprietà (cfr. Cass. 9 maggio 2023, n. 12353; Cass. 28 aprile 2021, n. 11226, in tema di arbitrato societario; Cass. 14 febbraio 2018, n. 3656; mentre Cass. civ sez. un., 6 marzo 2020, n. 6459, pur ricordando le diverse ricostruzioni causali, afferma, al riguardo, di non prendere posizione sul punto, perché non rilevante nella soluzione della questione posta), cui non osta, del resto, neppure la remora di una proprietà temporanea, attese le numerose indicazioni in argomento emerse nel sistema (cfr. art. 2645-ter c.c. o le vendite sotto condizione o con riscatto, e così via).

Tutto ciò, grazie al supporto dogmatico offerto da un duplice ordine di considerazioni.

Da un lato, la comprensione del particolare bene “partecipazione sociale”: diversa sia dalla res oggetto del diritto di proprietà, sia dal diritto di credito, ma, piuttosto, posizione complessa costituita da un insieme di situazioni soggettive attive e passive.

Dall’altro lato, la teoria della causa concreta, la quale ha reso probabilmente superflue le figure del negozio indiretto e del collegamento negoziale, destinate a divenire non più necessarie o utili, se non sul piano puramente descrittivo: dopo che – superata la visuale atomistica della funzione economico-sociale, accolta dal codice civile del 1942 in un intento di controllo della meritevolezza degli atti di autonomia privata, e venuta meno quella matrice ideologica, anche in forza di una vorticosamente accresciuta articolazione della realtà economica e sociale – la nozione di causa ha subito una sensibile evoluzione, onde la “realtà viva” ed individuale del contratto ha riconquistato importanza anche teorica, permettendo a tutti gli interessi rilevanti di entrare nel contratto, cosicché l’intero regolamento descrive l’operazione negoziale realizzata come unitaria, perché appunto così voluta dalle parti. Proprio la capacità di guardare alla complessiva operazione economica realizzata rende gli interpreti in grado di cogliere la rilevanza delle ragioni concrete poste a base dei comportamenti giuridici, cioè il significato pratico dell’operazione, ivi comprese tutte le finalità esplicitamente o tacitamente penetrate nel contratto.

Si aggiunga come, in materia, questa Corte ha già chiarito che: a) varie sono, nella prassi, le modalità tecniche per realizzare l’interposizione reale: con riguardo al diritto comune dei contratti, le Sezioni unite (Cass., sez. un., 6 marzo 2020, n. 6459) ricordano che il negozio fiduciario “si presenta non come una fattispecie, ma come una casistica: all’unicità del nome corrispondono operazioni diverse per struttura, per funzione e per pratici effetti”. Può darsi, infatti, un atto di alienazione dal fiduciante al fiduciario; un acquisto compiuto dal fiduciario in nome proprio con denaro del fiduciante; o se un soggetto, già investito ad altro titolo di un determinato diritto, si impegna ad esercitarlo da un dato momento nell’interesse altrui, in conformità a quanto previsto dal pactum fiduciae;

b) nell’intestazione fiduciaria ordinaria, titolare della quota è solo il fiduciario, ai più vari fini: è suo il diritto di sottoscrivere le azioni in occasione dell’aumento del capitale; la legittimazione a impugnare le deliberazioni assembleari; la legittimazione a far valere il diritto di prelazione ai sensi di statuto, o a percepire i dividendi erogati dalla società; la legittimazione attiva ex art. 2476 c.c. e passiva nel giudizio intrapreso ai sensi dell’art. 2495 c.c., comma 2, dai creditori rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese (cfr., per qualche profilo, Cass. 8 maggio 2009, n. 10590; Cass. 23 giugno 1998, n. 6246);

c) il fiduciario e’, peraltro, obbligato a riversare al fiduciante i dividendi maturati sulla quota o sulle azioni, onde la sua inesecuzione costituisce inadempimento, con tutte le conseguenze dettate per tale fattispecie dal diritto delle obbligazioni e l’irrilevanza di situazioni di buona fede o mala fede proprie del possesso ex artt. 1147 e 1148 c.c. (Cass. 9 maggio 2023, n. 12353);

d) la forma del negozio fiduciario su partecipazioni sociali è libera: il patto fiduciario, al pari dei negozi traslativi delle azioni o quote che lo realizzano, è sempre a forma libera, non rilevando affatto se la società abbia, nel suo patrimonio, beni immobili; in tal senso, dopo qualche incertezza (Cass. 17 settembre 2019, n. 23093, non massimata; Cass. 26 maggio 2014, n. 11757; non riconducibile alla tesi invece Cass. 9 dicembre 2019, n. 32108, posto che si trattava del trasferimento di un alloggio), l’esatto principio, riconfermato da plurime decisioni, per l’insussistenza di un vincolo formale ad substantiam o ad probationem vuoi del trasferimento azionario, vuoi del trasferimento fiduciario (Cass. 28 aprile 2021, n. 11226; Cass. 19 maggio 2020, n. 9139; Cass. 27 ottobre 2017, n. 25626; Cass. 11 ottobre 2013, n. 23203; Cass. 16 dicembre 2010, n. 25468; Cass. 2 maggio 2007, n. 10121; e, con riferimento alla società di persone, es. Cass. 17 aprile 2013, n. 9334; Cass. 10 maggio 2010, n. 11314; Cass. 28 febbraio 1998, n. 2252). Ne’ la conclusione muta, ove si voglia qualificare il patto fiduciario come contratto preliminare, per il quale l’art. 1351 c.c. prescrive la stessa forma del contratto definitivo, in quanto allora il patto fiduciario di trasferimento su quote sociali e’, al pari di questo, a forma libera, ove pure la società sia proprietaria di immobili, oppure ove si ripudi la ricostruzione del negozio fiduciario come contratto preliminare, così come stabilito dalle S.U. (Cass., sez. un., 6 marzo 2020, n. 6459), perché in tal modo si negherà “a monte” che esso, ove abbia ad oggetto diritti reali immobiliari, sia soggetto all’obbligo della forma scritta>>.

Sulla censurabilità in Cassazione della interpretazione di un contratto:

<Tale interpretazione della domanda, come emerge dalla sentenza impugnata, non è stata in alcun modo censurata dalla ricorrente. Al riguardo, occorre ricordare che, secondo principio consolidato, l’interpretazione degli atti di autonomia privata, mirando a determinare una realtà storica e obiettiva, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito ed è censurabile soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e per vizi di motivazione, nei limiti in cui ancora rileva, qualora sia appunto, però, espressamente censurata proprio l’interpretazione operata: il sindacato di questa Corte non può, dunque, investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito del giudizio di fatto riservato al giudice di merito. Pertanto, onde far valere una violazione di legge, il ricorrente per cassazione non solo deve fare puntuale riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati e ai principi in esse contenuti, ma è tenuto altresì a precisare – al di là della indicazione degli articoli di legge in materia – in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato, riportando, per il principio di specificità e autosufficienza del ricorso, il testo integrale dell’atto (Cass. 24 giugno 2008, n. 17088, che cita a sua volta Cass. nn. 16132/2005, 8296/2005, 4063/2005, 2394/2004, 4948/2003, 4905/2003), oppure lamentare fondatamente un vizio di motivazione, nei limiti in cui esso è tuttora proponibile (cfr. Cass. 3 dicembre 2019, n. 31546)>.

Sulla solidarietà in sede processuale:

<<Invero, a tale riguardo, i condebitori solidali non sono litisconsorti necessari, potendo il creditore agire soltanto contro uno o più di essi (Cass. 4 giugno 2020, n. 10596, fra le tante).

L’unicità del fatto dannoso, richiesta dall’art. 2055 c.c., ai fini della configurabilità della responsabilità solidale, deriva dall’intento di rafforzare la garanzia del danneggiato, sicché ricorre tale responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni od omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, e anche diversi (e multis, Cass. 28 gennaio 2021, n. 1842; Cass. 15 gennaio 2020, n. 542; Cass. 5 settembre 2019, n. 22164).

Il vincolo di responsabilità solidale lega, pertanto, tutti coloro che abbiano concorso in modo efficiente a produrre il danno, ai sensi dell’art. 2055 c.c., il quale, anche se dettato in tema di responsabilità extracontrattuale, si estende all’ipotesi in cui taluno degli autori del danno debba rispondere a titolo di responsabilità contrattuale (ex plurimis, Cass. 3 settembre 2020, n. 18289; Cass. 12 marzo 2020, n. 7044; Cass. 11 marzo 2020, n. 7016; Cass. 6 dicembre 2017, n. 29218)>>.

Principio di diritto:

“In caso d’intestazione fiduciaria di partecipazione sociale, sia pure attuata mediante una “catena” di diversi soggetti interposti reali, persone fisiche o giuridiche, la violazione del pactum fiduciae da parte dell’ultimo fiduciario, in concorso con altri soggetti cui questi abbia ritrasferito il bene in luogo del fiduciante, comporta il sorgere dell’obbligo in capo ai medesimi di risarcire il danno, in tal modo cagionato al socio originario che abbia visto leso il suo diritto al ritrasferimento del bene, non ostando alla condanna dei concorrenti nell’illecito, i quali abbiano ottenuto il ritrasferimento indebito in loro favore, la mancata evocazione in giudizio dell’ultimo fiduciario inadempiente, trattandosi di un litisconsorzio facoltativo, in cui il creditore ha facoltà di convenire in giudizio anche solo uno o taluno dei condebitori responsabili”.

Trib. Milano su dovere di diligenza degli amministratori e business judgment rule

Trib. Milano n. 6387/2022 del 19 luglio 2022, RG 24718/2019, rel. Mambriani :

<<Così compiutamente ricostruita la vicenda, ritiene il Tribunale che la regola di giudizio alla quale è necessario riferirsi nel caso di specie è la c.d. business judgement rule, la quale, come noto, sancisce il principio dell’insindacabilità nel merito – cioè attinente all’opportunità, dunque al grado di rischio economico assunto con esse – delle scelte gestionali compiute dagli amministratori nell’espletamento del loro incarico.
In altri termini, il giudizio sulla diligenza dell’amministratore, nello svolgimento delle mansioni al medesimo affidate, non può investire le scelte di gestione ovvero le relative modalità di attuazione,  ancorché esse presentino profili di rilevante alea economica, bensì anzitutto la diligenza mostrata dall’amministratore nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, potendo pertanto avere ad oggetto, ad esempio, l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche ed informazioni normalmente richieste per operazioni della stessa natura e tipologia e nelle  medesime circostanze (regola c.d. “procedurale”; cfr. art. 2381 comma 6 c.c.).
Occorre altresì considerare che la natura dell’obbligazione che incombe sugli amministratori per legge e per statuto – in relazione alla quale è commisurato, in chiave di adempimento, l’obbligo di agire con diligenza – è un’obbligazione che è di mezzi e non di risultato – attuare l’oggetto sociale nell’interesse della società, non meccanicamente identificabile con quello del socio maggioritario – e che è così configurata (non solo ma) anche perché conforme al principio fondante secondo cui del rischio d’impresa rispondono solo i soci e non gli amministratori. Se di quel rischio non si può far carico agli amministratori, allora ben si comprende il fondamento dell’altro aspetto della regola della c.d. business judgement rule ovvero che gli amministratori rispondono soltanto per scelte del tutto arbitrarie, manifestamente irrazionali (regola c.d. “sostanziale”). Ne consegue che l’adempimento della “regola procedurale” non ha effetti totalmente scriminanti – ben potendo l’amministratore proceduralmente diligente compiere poi scelte del tutto arbitrarie – e, per converso, il suo inadempimento non essendo di per sé foriero di responsabilità, quando, pur disinformato, l’amministratore non abbia compiuto una scelta gestoria irrazionale o arbitraria.

Il rapporto tra regola sostanziale e regola procedurale può dunque combinarsi, in relazione alla natura contrattuale della responsabilità degli amministratori, in questo modo:
(i) l’onere di provare la correttezza procedurale incombe sugli amministratori chiamati in responsabilità, pur trattandosi di un “onere temperato” in relazione all’onore di allegazione specifica che grava sull’attore; l’adempimento della regola procedurale comporta una presunzione iuris tantum di correttezza sostanziale della decisione assunta dagli amministratori; tuttavia non è consentito, a livello interpretativo, di parlare di presunzione iuris et de iure, dunque invalicabile, sia perché, come detto, in fase decisionale ed in fase esecutiva ben possono scaturire decisioni ed esecuzioni assolutamente irrazionali o arbitratrie, sia perchè si costruirebbe, in via interpretativa, un
inesistente limite positivo alla responsabilità degli amministratori ex art. 2392;
(ii) Se invece quella prova è stata raggiunta ma l’attore (la società che agisce in
responsabilità) intende provare comunque l’irrazionalità od arbitrarietà della scelta, l’onere di allegazione e prova incomberanno integralmente su di lui.
(iii) Se manca allegazione o prova di correttezza procedurale, la prova della non irrazionalità dell’operazione dovrà essere data dall’amministratore convenuto>>.

si noti la distinzione conettiuale regola procedurale/regola sostanziale

(da giurisprudenzadelleimprese.it)

Azione di responsabilità verso l’amministratore di SRL e azione per conflitto di interessi: non sono uguali

Non c’è sempre chiarezza concettuale sul rapporto tra le due azioni.

Cass. sez. I del 13.03.2023 n. 7279, rel. Nazzicone, prima pare far confusione:

<<La facoltà per la società di agire, ai sensi dell’art. 2475-ter c.c., per l’annullamento dei contratti conclusi dagli amministratori in conflitto di interessi, per conto proprio o di terzi, ove il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo, non esclude, invero, che la medesima condotta sia posta a fondamento non di un’azione caducatoria – qual è quella prevista nella norma menzionata – ma dell’azione di risarcimento del danno patito dalla società>>.

Ovvio che <non esclude>: l0azione diannullamento exc art. 2475 ter ha presupposti ed efetto diversi da quella di danno exc art. 2476 c.1 cc. Quindi pià che non esclude avrebbe dovuto diure “è altro da”.

Seguono precisazioni (ma solo teoriche e quindi vaghe) sul concetto di conflitto.

Poi ne giungono altre sull’azione di danno, un pò più centrate:

<<Più in generale, l’azione di responsabilità sociale è esperibile nei confronti dell’amministratore ogni qualvolta le sue condotte, valutate ex ante, risultino manifestamente avventate e imprudenti, né assumendo rilievo il principio di insindacabilità degli atti di gestione in presenza di scelte di natura palesemente arbitraria (Cass. 16 dicembre 2020, n. 28718).

Pertanto, nel caso di conflitto di interessi con la società rappresentata, la sfera dei poteri di indagine del giudice si amplia, potendo essere considerato il merito di quella scelta, nel senso che il giudice è chiamato a valutare la ragionevolezza della stessa, secondo un giudizio ex ante, tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo nonché della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione (cfr., fra le altre, Cass. 22 giugno 2020, n. 12108; Cass. 22 giugno 2017, n. 15470). [No, mai si entra nel merito: solo chje la negligenza qui comprende il conflitto]

L’amministratore, dunque, risponde dei danni causati alla società, qualora abbia fatto prevalere l’interesse extrasociale, come dovrà accertarsi da parte del giudice di merito, allorché verifichi che egli abbia agito senza che la scelta abbia un fondamento razionale o se non sia accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta, ma sia, al contrario, connotata da imprudenza (o, addirittura, da dolo).

In particolare, ove si deduca la conclusione di un contratto in conflitto di interessi, non basta che il terzo abbia un interesse diverso o anche contrario a quello della società – situazione che può porsi, di regola, per i contratti sinallagmatici, ove al vantaggio economico prodotto da una condizione contrattuale per una parte corrisponde specularmente una minore convenienza per l’altra – dovendo essere interessi fra loro incompatibili e fare difetto i presupposti per addivenire a quel regolamento contrattuale, in quanto l’accordo non risponda a nessun interesse della società e sia per essa pregiudizievole>>.

La decorrenza degli effetti della fusione per incorproazione: serve anche la prova della cancellazione dell’incorporata

Cass. sez. 3 del 8 maggio 2023 n. 12128, rel. Rossi Raff., ai fini della legittimazione ad impugnare:

<<2.2. Muovendo all’esame nel merito del motivo, dirimente valenza assume, al riguardo, il dettato dell’art. 2504 c.c., comma 2, (“L’atto di fusione deve essere depositato per l’iscrizione, a cura del notaio o dei soggetti cui compete l’amministrazione della società risultante dalla fusione o di quella incorporante, entro trenta giorni, nell’ufficio del registro delle imprese dei luoghi ove è posta la sede delle società partecipanti alla fusione, di quella che ne risulta o della società incorporante”) e dell’art. 2504-bis c.c., comma 2, (“La fusione ha effetto quando è stata eseguita l’ultima delle iscrizioni prescritte dall’art. 2504”).

Sulla corretta lettura ermeneutica di tali norme e sull’efficacia della vicenda societaria, si è espressa, di recente, questa Corte, nella sua composizione tipica di organo della nomofilachia, chiarendo che gli effetti giuridici della fusione tra società “si producono dal momento dell’adempimento delle formalità pubblicitarie, concernenti il deposito per l’iscrizione del registro delle imprese dell’atto di fusione previsto dalla norma, avente efficacia costitutiva, con la precisazione che, a mente dell’art. 2504 c.c., comma 3, il deposito relativo alla società risultante dalla fusione o di quella incorporante non può precedere quelli relativi alle altre società partecipanti alla fusione” (Cass., Sez. U, 30/07/2021, n. 21970).

Sulla scorta dell’enunciato principio di diritto – al quale si intende dare convinta continuità – errato si appalesa l’apprezzamento del giudice territoriale, estrinsecato in parte motiva nella (invero alquanto anapodittica) affermazione per cui la banca appellante “che aveva in origine prodotto solo l’atto pubblico ha correttamente, in risposta, documentato l’espletamento delle successive attività necessarie affinché la fusione fosse pienamente efficace erga omnes” (così la sentenza impugnata, alla pag. 12, punto 21).

Ed invero, dall’esame dei documenti versati dall’appellante nel fascicolo del giudizio di secondo grado e specificamente richiamati dall’odierno ricorrente (atti alla cui lettura questa Corte è abilitata, poiché sollecitata allo scrutinio di un error in procedendo), risulta, con inequivoca chiarezza, l’omessa asseverazione della cancellazione della società incorporata, Banco Popolare, dal Registro delle Imprese di Verona (luogo di allocazione della sede legale di detta società), alcun riscontro attestante detto adempimento essendo stato prodotto.

Mancando, per l’effetto, la possibilità di verificare la completezza delle formalità pubblicitarie afferenti la fusione societaria e la regolarità della sequenza cronologica delle stesse, non poteva considerarsi fornita la prova, ad opera della società appellante (Banco BPM S.p.A.), della asserita qualità di successore della parte soccombente in prime cure (Banco Popolare società cooperativa) e, quindi, della legittimazione ad impugnare la pronuncia resa dal Tribunale di Avezzano>>.

Curiosa è la precisazione per cui serve anche la prova di avvenuta cancellazione della incorporata. Infatti la legge non ne parla: le iscrizioni dell’art. 2504 cc,  cui rinvia l’art. 2504 bis c.2, non concernono tale cancellazione ma solo l’atto di fusione.

Conseguenza pesante (anche per i difensori …), dato che così è passata in giudicato la sentenza di primo grado : la quale , pur accogliendo in misura ridotta la domanda, pur sempre aveva condannato la banca ad un milione e mezzo di euro di danni.

Le azioni riscattabili (ar. 2437 sexies cc) richiedono determinazione o determinabililità dei presupposti del riscatto

Cass. sez. I n. 12498 del 10.05.2023 , rel. Nazzicone:

Sia o no, in concreto, assimilabile il riscatto azionario, negli
effetti, ad un’esclusione dalla società, certo è che, conformemente
a questa, i presupposti integrativi della fattispecie del sorgere del
potere di riscatto devono essere adeguatamente determinati o
determinabili, Ai sensi dell’art. 1346 c.c., come correttamente
ritenuto nella specie dai giudici del merito” [e come ovvio, aggiungerei].

<<Tali sanzioni [per la violazione del dovere di  prestaioni accessorie] usualmente consistono nella sospensione del diritto di voto, e simili. L’introduzione, nel nostro ordinamento, a seguito della riforma del 2003, della categoria delle azioni riscattabili ha permesso, agganciandosi alle prestazioni accessorie quale patto aggiunto, di contemplare anche l’effetto dell’uscita del socio dalla società, con conseguente obbligo di corresponsione al medesimo del dovuto>>

Determinabilità ravvisata nel caso specifico.

Seguono poi delucidazioni circa la ricorribilità in Cassazione degli errori di intereoptzione dei contratti.

Consensualità del contratto di sottoscrizione in sede di aumento di capitale: precisazioni partenopee e romane

Condivisibili affermazioni in Trib. Napoli del 10 marzo 2023 sez. spec. impr., sent.  2609/2023 , RG 17987/2018, rel. Graziano:

1) ai libri sociali non è applicabile la disciplina della data certa ex art. 2704 cc;

2) <<In materia di società di capitali, quindi, la vicenda modificativa dell’atto
costitutivo derivante dall’aumento del capitale sociale a pagamento, si struttura in
tre momenti: la deliberazione; la sottoscrizione e il conferimento.
La deliberazione di aumento di capitale non è self executing, non essendo
idonea, di per sé, a produrre automaticamente l’effetto modificativo del contratto
sociale, ma necessita, ai fini della sua attuazione, del compimento di ulteriori atti
anche unilaterali o atipici e, segnatamente, dei negozi di sottoscrizione, quale
forma di dichiarazione della volontà di adesione dei soci o, eventualmente, di terzi
all’incremento quantitativo del capitale approvato che non coincide ed è diversa
dalla manifestazione di voto espressa dal socio durante l’assemblea.
In particolare, con la sottoscrizione, il sottoscrittore si obbliga ad eseguire un
determinato conferimento, il quale costituisce l’atto di esecuzione dell’obbligo
assunto a partire dalla sottoscrizione e può avvenire in denaro o in natura. (…). Orbene, il Collegio non aderisce alla tesi della realità del contratto di
sottoscrizione, sostenuta da parte attrice, secondo cui il momento di
perfezionamento della sottoscrizione coincide con il contestuale versamento del
venticinque per cento in denaro, pena l’invalidità di quest’ultima, in quanto non
condivide la natura di contratto reale sui generis, trovando insuperabile
l’obiezione secondo cui la consegna del bene oggetto del negozio, ovvero il
denaro quale bene fungibile, avvenga in modo soltanto parziale. Sul punto, si
evidenzia secondo un’interpretazione teleologica del nuovo ordinamento
delineato, post riforma del diritto societario, dagli artt. 2464, comma IV c.c. e art.
2481 bis, comma IV c.c. che mentre in sede di costituzione della società a responsabilità limitata il versamento del venticinque per cento del capitale
all’organo amministrativo assurge ad un requisito di perfezionamento del
contratto di sottoscrizione delle quote di partecipazione; esso, invece, in sede di
aumento di capitale, costituisce una mera esecuzione di tale contratto
perfezionatosi solo con il semplice consenso.
Il Collegio, per le argomentazioni su esposte, aderisce alla teoria prevalente
della consensualità del negozio di sottoscrizione, il quale si perfeziona nel
momento in cui alla società perviene la dichiarazione di sottoscrizione e il
versamento del venticinque per cento costituisce solo l’atto di esecuzione
dell’obbligo assunto dal sottoscrittore.
Al riguardo, la Suprema Corte ha statuito che “In materia di aumento del
capitale di una società a responsabilità limitata, l’obbligo di versamento per il
socio deriva non dalla deliberazione, ma dalla distinta manifestazione di volontà
negoziale, consistente nella sottoscrizione della quota del nuovo capitale offertole
in opzione, ciò indipendentemente dall’avere egli concorso o meno con il proprio
voto alla deliberazione di aumento; tale sottoscrizione è riconducibile ad un atto
di natura negoziale, e precisamente ad un contratto consensuale, in relazione al
quale la legge non prevede l’adozione di una forma particolare”. – In
applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha confermato la sentenza
impugnata, che aveva ritenuto provata per fatti concludenti la sottoscrizione
dell’aumento di capitale di una società, essendo stato dimostrato l’avvenuto
versamento di tre assegni, in adempimento della presunta sottoscrizione – (Cfr.
Cass., Sez. 1, Sentenza n. 19813 del 15/09/2009).
Il negozio di sottoscrizione ha natura consensuale e si perfeziona con lo
scambio del consenso fra il socio sottoscrittore o il terzo e la società, per il tramite dell’organo amministrativo; quindi, la deliberazione di aumento di capitale ben può configurarsi come una proposta e la sottoscrizione del socio o del terzo come una accettazione, secondo il classico schema del contratto di natura consensuale ai sensi dell’art. 1326 c.c.

Del resto, la necessaria contestualità del versamento, prevista dall’art. 2481 bis, comma IV c.c., non inficia le su esposte considerazioni, dovendosi ritenere che tale contestualità sia stata dettata proprio al fine di assicurare la serietà della manifestazione di volontà del socio o del terzo (se consentito) e che, comunque, si riferisca alla fase esecutiva del contratto.
La natura consensuale del contratto di sottoscrizione si ricava, altresì,
dall’art. 2444 c.c., in base al quale gli amministratori devono depositare per
l’iscrizione nel Registro delle imprese, entro trenta giorni dall’avvenuta
sottoscrizione, l’attestazione che l’aumento di capitale è stato eseguito, ciò
confermando che il contratto si perfeziona al momento della sottoscrizione (e
quindi al momento della manifestazione del consenso e non al momento del
versamento del venticinque per cento della quota sottoscritta). (…) Dunque, è già per effetto di detta manifestazione di volontà – successiva alla deliberazione assembleare e consistente nella sottoscrizione della quota parte del
nuovo capitale offerto – che il socio sottoscrittore aumenta la propria
partecipazione sociale ovvero conserva la qualifica di socio, partecipando alla
ricostituzione del capitale sociale, eventualmente annullato per effetto
dell’abbattimento per perdite, ovvero ancora che il terzo assume la qualità di socio della società.
In tutti i casi sopra descritti i sottoscrittori assumono, poi, verso la società il
consequenziale obbligo di conferimento. >>.

3) <Sul punto, giova altresì precisare che, in adesione alla teoria della
consensualità del contratto di sottoscrizione, il conferimento della quota di
aumento del capitale sottoscritta rileva quale momento esecutivo del contratto, il
cui inadempimento può essere eccepito, al fine di un eventuale giudizio di
responsabilità scaturente dalla violazione della regola di comportamento, in
ossequio al principio di relatività degli effetti del contratto statuito dall’art. 1372
c.c. soltanto dalle parti contrattuali, che nel caso di specie sono rappresentate dalla società convenuta e gli altri due soci sottoscrittori, odierni convenuti, e non, di certo, dalla parte attrice terza alle vicende negoziali in esame>>

4) il ritardo di ue giorninell’esecuzione non è inadmepimento rilevante: <<Ciò posto, con riguardo al profilo dell’accertamento del ritardo
nell’adempimento dell’obbligo di conferimento in denaro della quota di aumento
sottoscritta da parte dell’odierno attore, con conseguente declaratoria di aumento
del capitale pari alla somma di euro 1.300.000,00 come così come versata dai soci
convenuti, la domanda riconvenzionale esperita dalla società convenuta non
merita accoglimento in ossequio al principio generale di buona fede, non solo
quale regola ermeneutica di congiunzione tra i criteri legali oggettivi e soggettivi
di interpretazione del contratto imposta all’organo giudicante ex art. 1366 c.c., ma
anche quale regola integrativa dello stesso in base al combinato disposto degli
artt. 1374 e 1375 c.c., nonché quale criterio ordinatore di tutte le fasi del rapporto
contrattuale, da quella precontrattuale a quella esecutiva e finanche giudiziale, ex artt. 1175, 1337, 1375 c.c. (….)
Ciò posto, in ossequio al principio di buona fede esecutiva improntato alla
clausola di reciprocità tra l’adempimento dell’obbligazione da parte del debitore e il soddisfacimento dell’interesse del creditore alla prestazione non risulta, senza dubbio, apprezzabile il lasso di tempo del ritardo intercorso nell’adempimento dell’obbligazione di conferimento in danaro da parte del socio sottoscrittore debitore, odierno attore, avendo riguardo, nel bilanciamento degli opposti interessi, alla sfera giuridica della società creditrice e a quella del socio debitore e segnatamente, da un lato, al vantaggio occorso alla società dal modo satisfattorio di estinzione dell’obbligazione mediante l’adempimento del versamento integrale in denaro e, dall’altro lato, al notevole sforzo esigibile assunto e validamente ottemperato dall’odierno attore>> .

Avrebbe potuto meglio dire che è inadempimento si, ma di scarsa importanza ex art. 1455 cc, applicabile stante la natura contrattuale dei rapporti societari.

Sulla stessa linea Trib. Roma n. 150/2023 del 3 gennaio 2023, sez. spec. impr., RG 21390/2020, pres. ed est. Di Salvo:

<<Quanto alla natura giuridica della sottoscrizione, va
ricordato che l’aumento di capitale a pagamento comporta un
aumento sia del capitale nominale, sia del patrimonio sociale,
mediante conferimento alla società di nuove risorse.
L’effetto modificativo del contratto sociale non si produce
automaticamente con la deliberazione di aumento di capitale, ma
con il concorso delle volontà dell’ente e dei sottoscrittori del
nuovo capitale deliberato e quindi in una fase successiva e
diversa da quella meramente deliberativa. Pertanto, ai fini del
perfezionamento dell’operazione di aumento di capitale, la
deliberazione assembleare, con la quale è stato approvato
l’incremento quantitativo del capitale, è sicuramente necessaria
ma non sufficiente, in quanto è pur sempre necessaria la
dichiarazione di adesione dei soci, ovvero, se prevista, anche dei
terzi. Tale dichiarazione si manifesta, appunto, con la
sottoscrizione di una quota dell’aumento deliberato.
Il negozio di sottoscrizione ha natura consensuale e si
perfeziona con lo scambio del consenso tra il socio sottoscrittore
o il terzo e la società, per il tramite dell’organo
amministrativo. Quindi, la deliberazione di aumento di capitale
ben può configurarsi come una proposta e la sottoscrizione del
socio o del terzo come una accettazione, secondo il classico
schema del contratto di natura consensuale. Ciò risulta confermato
anche dalla Suprema Corte, la quale ha affermato che il contratto
di sottoscrizione di nuove azioni emesse in sede di aumento di
capitale ha natura consensuale e non reale e le parti non possono
derogare alla consensualità come meccanismo regolatore creando un
corrispondente modello reale atipico, (cfr. Cass. n. 611/1996).
Alla natura consensuale del negozio di sottoscrizione consegue
che il mancato adempimento delle obbligazioni di versamento in
proporzione alla quota di partecipazione sottoscritta non incide
sull’avvenuto perfezionamento del contratto, attendendo invece
alla fase esecutiva dell’accordo già concluso>>.

Nullità ed annullamento di delibera societaria tra rilevabilità di ufficio da parte del giudice e potere dispositivo della parte

Cass. sez. I del 18.04.2023 n. 10.233, rel. Dongiacomo:

<<4.11. Vanno, dunque, affermati i seguenti principi:

– il giudice, se investito dell’azione di nullità di una delibera assembleare, ha sempre il potere (e il dovere), in ragione della natura autodeterminata del diritto cui tale domanda accede, di rilevare e di dichiarare in via ufficiosa, e anche in appello, la nullità della stessa per un vizio diverso da quello denunciato;

– se, invece, la domanda ha per oggetto l’esecuzione o l’annullamento della delibera, la rilevabilità d’ufficio della nullità di quest’ultima da parte del giudice nel corso del processo e fino alla precisazione delle conclusioni dev’essere coordinata con il principio della domanda per cui il giudice, da una parte, può sempre rilevare la nullità della delibera, anche in appello, trattandosi di eccezione in senso lato, in funzione del rigetto della domanda ma, dall’altra parte, non può dichiarare la nullità della delibera impugnata ove manchi una domanda in tal senso ritualmente proposta, anche nel corso del giudizio che faccia seguito della rilevazione del giudice, dalla parte interessata;

– nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, tale potere (e dovere) di rilevazione non può essere esercitato dal giudice oltre il termine di decadenza, la cui decorrenza è rilevabile d’ufficio e può essere impedita solo dalla formale rilevazione del vizio di nullità ad opera del giudice o della parte, pari a tre anni dall’iscrizione o dal deposito della delibera stessa nel registro delle imprese ovvero dalla sua trascrizione nel libro delle adunanze dell’assemblea>>.

Si noti poi la negazione della contrattualità (parrebbe, anche se solo in relazione al processo) dei rapporti societari:

<<4.5. In effetti, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, il principio per cui il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare in via ufficiosa, ove emergente dagli atti, l’esistenza di un diverso vizio di nullità, è suscettibile di applicazione estensiva anche nel sottosistema societario, e, precisamente, nell’ambito delle azioni di impugnazione delle deliberazioni assembleari, benché non assimilabili ai contratti, trattandosi, tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, di domanda pertinente ad un diritto autodeterminato (cfr., sul primo punto, Cass. SU n. 26242 del 2014, in motiv., punti 6.13.3. e ss. e, in particolare, 6.13.6., lì dove di evidenzia che “il giudizio di nullità/non nullità del negozio… sarà, così, definit(iv)o e a tutto campo indipendentemente da quali e quanti titoli di nullità siano stati fatti valere dall’attore”, e, sul secondo punto, Cass. n. 8795 del 2016), e cioè individuata a prescindere dallo specifico vizio (rectius, titolo) dedotto in giudizio: come, in effetti, accade per la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, individuati, appunto, sulla base della sola indicazione del relativo contenuto, con la conseguenza che, per un verso, la causa petendi delle relative azioni giudiziarie si identifica con i diritti stessi e non con il relativo titolo (contratto, successione ereditaria, usucapione, ecc.) che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non ha, per l’effetto, alcuna funzione di specificazione della domanda, e, per altro verso, non viola il divieto dello ius novorum in appello la deduzione da parte dell’attore ovvero il rilievo ex officio iudicis di un fatto costitutivo del tutto diverso da quello prospettato in primo grado a sostegno della domanda introduttiva del giudizio (Cass. n. 23565 del 2019)>>.

Il punto andava spiegato un poco, dato che in linea di principio il rapporto di società è pienamente contrattuale: anche se l’esito non sarebbe cambiato, valorizzando i giudici il comune profilo dell’autodeterminazione.

Sorte del credito verso società cancellata e successione dei soci nel debito ex art. 2495 c. 3 c.c.

Cass. 10.752 del 21 aprile 2023 , rel. Scarpa A., sez. II:

<<2.3. Come chiarito dalla elaborazione giurisprudenziale intrapresa con le sentenze nn. 4060, 4061 e 4062 del 2010 e definita con la sentenza n. 6070 del 2013 delle Sezioni Unite di questa Corte, a seguito della riforma del diritto societario, attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l’obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, “pendente societate”, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, con riguardo ai quali l’inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo.

Per quello che qui rileva essenzialmente, basta considerare che il legislatore del codice civile, anche in occasione della già ricordata riforma del diritto societario, si è preoccupato espressamente soltanto di disciplinare la sorte dei debiti sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società dal registro. In particolare, per le società di capitali, l’art. 2495, comma 2, c.c. (riprendendo, peraltro, quanto già stabiliva in proposito il previgente art. 2456, comma 2) dispone che i creditori sociali non soddisfatti possono agire nei confronti dei soci della dissolta società di capitali sino alla concorrenza di quanto questi ultimi abbiano riscosso in base al bilancio finale di liquidazione. E’ prevista, inoltre, anche la possibilità di agire in via risarcitoria nei confronti del liquidatore, se il mancato pagamento del debito sociale sia dipeso da colpa di costui (azione che risulta estranea al tema della presente lite). L’art. 2495, comma 2, c.c., in sostanza, delinea un meccanismo di tipo successorio, nel senso che i debiti non liquidati della società estinta si trasferiscono in capo ai soci, salvo il limite di responsabilità nella medesima norma indicato. Non si arreca, peraltro, alcun pregiudizio alle ragioni dei creditori per il fatto che i soci delle società di capitali rispondono solo nei limiti dell’attivo loro distribuito all’esito della liquidazione, atteso che, se la società viene cancellata senza distribuzione di attivo, ciò vuol dire che vi sarebbe stata comunque incapienza del patrimonio sociale rispetto ai crediti da soddisfare. La circostanza che i soci della società di capitali (o il socio accomandante della società in accomandita semplice) abbiano beneficiato effettivamente di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non configura una condizione da cui dipende la possibilità di proseguire nei confronti di detti soci l’azione originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società: i soci sono comunque destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata ma non definiti all’esito della liquidazione, fermo però restando il loro diritto di opporre al creditore agente il limite di responsabilità pari alle somme riscosse in base al bilancio finale.

2.4. Perché il socio della società di capitali possa essere obbligato a rispondere verso il creditore sociale non soddisfatto, occorre, e ad un tempo basta, che lo stesso creditore dia prova della distribuzione dell’attivo e della riscossione di una quota di esso da parte del socio in base al bilancio finale di liquidazione, trattandosi del fatto costitutivo della responsabilità di quest’ultimo (cfr. Cass. n. 15474 del 2017; n. 23916 del 2016; Cass. n. 19732 del 2005)>>.

La parte più interessata però è la implicita affermazione che tale credito verso il socio si estingue qualora questi abbia usato il riscosso per pagare altro creditore. Nè si menziona l’eventuale problema della par condicio creditorum: che non opera  se manca procedura concorsuale.

Il concetto di controllo esterno è questione di diritto, non di fatto

Sul tema v. Cass. sez. 1 del 20.03.2023 n. 7930, rel. Scotti.

Il § 31 esamina il concetto di violazione di legge ex art. 360 n. 3 cpc

Il § 32 prosegue:

<< 32. Il Collegio non esclude che l’attività di direzione e coordinamento, esercitata attraverso un controllo esterno potrebbe sussistere di fatto, anche in casi non riconducibili alle presunzioni di cui al citato combinato disposto ex art. 2497 sexies e 2395 c.c.

Le norme citate lo consentono e del resto questa Corte, recentemente, ha avuto modo di precisare che in tema di azione risarcitoria del curatore nei confronti della società controllante di quella fallita, nel contesto precedente all’introduzione dell’art. 2497 c.c., ad opera del D.Lgs. n. 17.1.2003, n. 6, la tutela del ceto creditorio della società eterodiretta, che abbia patito la diminuzione del patrimonio a causa dell’attività di abuso di direzione e coordinamento della capogruppo, poteva passare dall’art. 2043 c.c. e dalla clausola generale del neminem laedere (Sez. 1, n. 14876 del 11.5.2022).

Ed ancora con la sentenza del 7.10.2019 n. 24943 questa Corte ha riconosciuto che gli artt. 2497 e seguenti del codice civile sono norme ispirate al principio di effettività, nel senso che disciplinano la dinamica di un fatto, e precisamente il fatto dell’abuso di attività di direzione e coordinamento ottenuto mediante esercizio effettivo della corrispondente influenza sulle società assoggettate.

Non diversamente ha opinato il supremo giudice amministrativo allorché ha affermato che l’influenza dominante consiste nella concreta capacità di determinare gli esiti assembleari mediante la concomitanza di una serie di elementi fattuali (Consiglio di Stato, sez. VI, 14.12.2020, n. 7972).

33. Tuttavia l’accertamento di questo fatto è devoluto al giudice del merito, che nella specie vi ha provveduto con ampia motivazione, spiegando analiticamente, nelle pagine da 32 a 34 della sentenza impugnata, le ragioni per le quali i vari elementi prospettati dai Fallimenti appellanti non giustificavano tali conclusioni.

La Corte capitolina ha espresso tale valutazione considerando tutta una serie di elementi: clausole contrattuali, contesto della liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni, rispetto puntuale delle obbligazioni da parte di Telecom Italia, accordi di ripianamento, rateazione concessa alle società del gruppo (Omissis) a fronte di ulteriori garanzie, tentativi di recuperare la perdita, pregressi ruoli in Telecom di taluni amministratori di (Omissis), informazioni sui potenziali clienti fornite da Telecom, giustificato rifiuto della creditrice di accedere ad ulteriori dilazioni, difficoltà incontrate dal gruppo e comuni a diversi altri imprenditori privati.

Tutto ciò ha indotto la Corte di appello a concludere affermando inequivocabilmente che “nessuno degli elementi addotti e tutti nel loro complesso assumono valore probatorio in ordine alla sussistenza di una fattispecie di controllo esterno rilevante ai sensi degli artt. 2359, comma 1, e 2497, comma 1, c.c. ” >>.

Non è così: il concetto di “direzione e coordinamento” è oggett di questione solo giuridica. Sono invece i fatti storici , e solo essi,  cioè quelli in base ai quali il predetto concetto va esaminato, ad essere oggetto di questione fattuale.  Per quanto valga oggi la distinzione, alla luce del ristretto ambito di rilevanza dell’erore di fatto ex art. 360 n. 5 cpc

Responsabilità del revisore per mancato disinvestimento da parte del socio? Negata per mancata prova della reale possibilità disinvestimento e del nesso causale

Così Trib. Milano n. 132/2023, RG 18268/2020, rel. Alima Zana, relativamente a domanda di danno proposta da socio di Banca Popolare di Vicenza spa contro il revisore KPMG.

<<In limine, va in proposito rammentare che:
• nel caso di perdita di chance il nesso causale che deve essere dimostrato dall’attore è ipotetico,
giacché è di natura ipotetica il nesso che si predica tra l’assenza dell’illecito (che invece si è
verificato) e la esistenza della chance (che invece è venuta meno o non si è verificata);
• il giudice è tenuto quindi a formulare quella che viene definita una “prognosi postuma”,
ricostruendo la situazione ipotetica che si sarebbe verificata in assenza dell’illecito;
• il soggetto che si dichiara vittima dell’illecito deve quindi provare:
I.  l’esistenza reale di una chance;
II.  che la chance sia venuta meno per effetto diretto del comportamento illecito,
seppure utilizzando il criterio civilistico della c.d. probabilità prevalente>>

E’ mancata però la prova di entrambi i requisiti (sia I che II)

I): non c’è prova che, anche avesse saputo, sarebbe riuscito a disinvestire:

<< Ed in particolare, quanto al requisito sub I, va con considerato che:
✓ le azioni litigiose erano per loro natura illiquide.
Invero le stesse non erano strumenti finanziari quotati su mercati regolamentati.
Le azioni BPVI erano dunque connaturate da un intrinseco carattere di illiquidità (“le
azioni della Banca Popolare di Vicenza non erano quotate in borsa e come tali si
caratterizzavano, in linea generale, per una scarsa possibilità di smobilizzo entro un
lasso di tempo ragionevole a condizioni di prezzo significativo” cfr. Tribunale di Milano,
sent. 8390/2021, in un caso del tutto analogo, afferente sempre alla domanda risarcitoria
esercitata contro il revisore a causa del mancato disimpegno di azioni di Banca Popolare
di Vicenza nella stessa frazione temporale qui considerata);
✓ avvicinandosi al periodo critico qui oggetto indagine, il disinvestimento -che già in sé
presentava rischi- era poi divenuto assai difficile, fino a poter essere diventare quasi
“impossibile” già nel 2014, come precisato Banca in occasione dell’aumento di Capitale
2014 a cui l’attore risulta avere partecipato;3
✓ proprio in data 24.4.2015 -in occasione dell’approvazione del bilancio di esercizio al
31.12.2014, momento in cui l’attore colloca la propria decisione di non procedere al
disinvestimento, tenuto conto della relazione accompagnatoria positiva del revisore- la
Banca dava atto della sopraggiunta impossibilità di assorbire le domande di vendita delle
proprie azioni. E ciò atteso il totale blocco del cd. “mercato interno” gestito dallo stesso
istituto di credito negli anni precedenti per agevolare le richieste di vendita dei titoli,
mediante utilizzo del Fondo per acquisto di azioni proprie, essendo stata azzerata medio
tempore da parte della BCE la possibilità di utilizzare di tale Fondo.4
Dunque, non vi è prova del requisito sub I, ossia di una reale chance di un disimpegno del
pacchetto litigioso- neppure attraverso la Banca- in tempi contenuti ad un prezzo ragionevole >>

Quanto a II), manca la prova del nesso di causa:

<<Quanto al requisito sub II, va osservato che:
✓ operando un giudizio c.d. controfattuale, c.d. della prognosi postuma, la condotta
alternativa di KPMG – attraverso lo svolgimento, secondo l’attore, a regola d’arte delle
verifiche prodromiche all’attestazione del bilancio al 31.12.2014 e con conseguente
disvelamento del vero della consistenza effettiva del patrimonio della banca- non
avrebbe comunque attribuito a parte attrice ragionevoli chance di smobilitare a
condizioni proficue il proprio investimento;
✓ infatti, non potendo accedere l’attore in via privilegiata ed anticipata alle corrette
informazioni -che ritiene illecitamente essergli state celate- rispetto agli altri operatori,
l’unico effetto della condotta alternativa di KPMG sarebbe stato invero di anticipare nel
tempo gli eventi poi realmente accaduti ed in particolare il deprezzamento delle azioni
della banca a € 0,10 ciascuna. Con conseguente impossibilità per l’attore di collocare il
proprio pacchetto azionare a prezzo conveniente, superiore al valore poi attribuito.
Manca dunque anche la prova del requisito sub II, non essendovi alcun riscontro che la
condotta alternativa lecita di KPMG (non in tesi non si è verificata) avrebbe impedito
all’investitore di perdere il valore delle proprie azioni (evento invece verificatosi). In
altre parole, non vi è prova che la relazione positiva del revisore sul bilancio al
31.12.2014 abbia cagionato la perdita di chance di vendita del pacchetto azionario
litigioso a prezzo conveniente, grazie all’acquisizione privilegiata rispetto al resto degli investitori delle corrette informazioni.
Con conseguente carenza del nesso di causalità, non essendo la perdita subita dall’attrice causalmente connessa alle carenze informative denunciate, invece presumibilmente riconducibile all’oscillazione del valore delle azioni propria dei titoli non quotati in borsa di cui l’investitore ha assunto consapevolmente il rischio>>.