Le azioni riscattabili (ar. 2437 sexies cc) richiedono determinazione o determinabililità dei presupposti del riscatto

Cass. sez. I n. 12498 del 10.05.2023 , rel. Nazzicone:

Sia o no, in concreto, assimilabile il riscatto azionario, negli
effetti, ad un’esclusione dalla società, certo è che, conformemente
a questa, i presupposti integrativi della fattispecie del sorgere del
potere di riscatto devono essere adeguatamente determinati o
determinabili, Ai sensi dell’art. 1346 c.c., come correttamente
ritenuto nella specie dai giudici del merito” [e come ovvio, aggiungerei].

<<Tali sanzioni [per la violazione del dovere di  prestaioni accessorie] usualmente consistono nella sospensione del diritto di voto, e simili. L’introduzione, nel nostro ordinamento, a seguito della riforma del 2003, della categoria delle azioni riscattabili ha permesso, agganciandosi alle prestazioni accessorie quale patto aggiunto, di contemplare anche l’effetto dell’uscita del socio dalla società, con conseguente obbligo di corresponsione al medesimo del dovuto>>

Determinabilità ravvisata nel caso specifico.

Seguono poi delucidazioni circa la ricorribilità in Cassazione degli errori di intereoptzione dei contratti.

Consensualità del contratto di sottoscrizione in sede di aumento di capitale: precisazioni partenopee e romane

Condivisibili affermazioni in Trib. Napoli del 10 marzo 2023 sez. spec. impr., sent.  2609/2023 , RG 17987/2018, rel. Graziano:

1) ai libri sociali non è applicabile la disciplina della data certa ex art. 2704 cc;

2) <<In materia di società di capitali, quindi, la vicenda modificativa dell’atto
costitutivo derivante dall’aumento del capitale sociale a pagamento, si struttura in
tre momenti: la deliberazione; la sottoscrizione e il conferimento.
La deliberazione di aumento di capitale non è self executing, non essendo
idonea, di per sé, a produrre automaticamente l’effetto modificativo del contratto
sociale, ma necessita, ai fini della sua attuazione, del compimento di ulteriori atti
anche unilaterali o atipici e, segnatamente, dei negozi di sottoscrizione, quale
forma di dichiarazione della volontà di adesione dei soci o, eventualmente, di terzi
all’incremento quantitativo del capitale approvato che non coincide ed è diversa
dalla manifestazione di voto espressa dal socio durante l’assemblea.
In particolare, con la sottoscrizione, il sottoscrittore si obbliga ad eseguire un
determinato conferimento, il quale costituisce l’atto di esecuzione dell’obbligo
assunto a partire dalla sottoscrizione e può avvenire in denaro o in natura. (…). Orbene, il Collegio non aderisce alla tesi della realità del contratto di
sottoscrizione, sostenuta da parte attrice, secondo cui il momento di
perfezionamento della sottoscrizione coincide con il contestuale versamento del
venticinque per cento in denaro, pena l’invalidità di quest’ultima, in quanto non
condivide la natura di contratto reale sui generis, trovando insuperabile
l’obiezione secondo cui la consegna del bene oggetto del negozio, ovvero il
denaro quale bene fungibile, avvenga in modo soltanto parziale. Sul punto, si
evidenzia secondo un’interpretazione teleologica del nuovo ordinamento
delineato, post riforma del diritto societario, dagli artt. 2464, comma IV c.c. e art.
2481 bis, comma IV c.c. che mentre in sede di costituzione della società a responsabilità limitata il versamento del venticinque per cento del capitale
all’organo amministrativo assurge ad un requisito di perfezionamento del
contratto di sottoscrizione delle quote di partecipazione; esso, invece, in sede di
aumento di capitale, costituisce una mera esecuzione di tale contratto
perfezionatosi solo con il semplice consenso.
Il Collegio, per le argomentazioni su esposte, aderisce alla teoria prevalente
della consensualità del negozio di sottoscrizione, il quale si perfeziona nel
momento in cui alla società perviene la dichiarazione di sottoscrizione e il
versamento del venticinque per cento costituisce solo l’atto di esecuzione
dell’obbligo assunto dal sottoscrittore.
Al riguardo, la Suprema Corte ha statuito che “In materia di aumento del
capitale di una società a responsabilità limitata, l’obbligo di versamento per il
socio deriva non dalla deliberazione, ma dalla distinta manifestazione di volontà
negoziale, consistente nella sottoscrizione della quota del nuovo capitale offertole
in opzione, ciò indipendentemente dall’avere egli concorso o meno con il proprio
voto alla deliberazione di aumento; tale sottoscrizione è riconducibile ad un atto
di natura negoziale, e precisamente ad un contratto consensuale, in relazione al
quale la legge non prevede l’adozione di una forma particolare”. – In
applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha confermato la sentenza
impugnata, che aveva ritenuto provata per fatti concludenti la sottoscrizione
dell’aumento di capitale di una società, essendo stato dimostrato l’avvenuto
versamento di tre assegni, in adempimento della presunta sottoscrizione – (Cfr.
Cass., Sez. 1, Sentenza n. 19813 del 15/09/2009).
Il negozio di sottoscrizione ha natura consensuale e si perfeziona con lo
scambio del consenso fra il socio sottoscrittore o il terzo e la società, per il tramite dell’organo amministrativo; quindi, la deliberazione di aumento di capitale ben può configurarsi come una proposta e la sottoscrizione del socio o del terzo come una accettazione, secondo il classico schema del contratto di natura consensuale ai sensi dell’art. 1326 c.c.

Del resto, la necessaria contestualità del versamento, prevista dall’art. 2481 bis, comma IV c.c., non inficia le su esposte considerazioni, dovendosi ritenere che tale contestualità sia stata dettata proprio al fine di assicurare la serietà della manifestazione di volontà del socio o del terzo (se consentito) e che, comunque, si riferisca alla fase esecutiva del contratto.
La natura consensuale del contratto di sottoscrizione si ricava, altresì,
dall’art. 2444 c.c., in base al quale gli amministratori devono depositare per
l’iscrizione nel Registro delle imprese, entro trenta giorni dall’avvenuta
sottoscrizione, l’attestazione che l’aumento di capitale è stato eseguito, ciò
confermando che il contratto si perfeziona al momento della sottoscrizione (e
quindi al momento della manifestazione del consenso e non al momento del
versamento del venticinque per cento della quota sottoscritta). (…) Dunque, è già per effetto di detta manifestazione di volontà – successiva alla deliberazione assembleare e consistente nella sottoscrizione della quota parte del
nuovo capitale offerto – che il socio sottoscrittore aumenta la propria
partecipazione sociale ovvero conserva la qualifica di socio, partecipando alla
ricostituzione del capitale sociale, eventualmente annullato per effetto
dell’abbattimento per perdite, ovvero ancora che il terzo assume la qualità di socio della società.
In tutti i casi sopra descritti i sottoscrittori assumono, poi, verso la società il
consequenziale obbligo di conferimento. >>.

3) <Sul punto, giova altresì precisare che, in adesione alla teoria della
consensualità del contratto di sottoscrizione, il conferimento della quota di
aumento del capitale sottoscritta rileva quale momento esecutivo del contratto, il
cui inadempimento può essere eccepito, al fine di un eventuale giudizio di
responsabilità scaturente dalla violazione della regola di comportamento, in
ossequio al principio di relatività degli effetti del contratto statuito dall’art. 1372
c.c. soltanto dalle parti contrattuali, che nel caso di specie sono rappresentate dalla società convenuta e gli altri due soci sottoscrittori, odierni convenuti, e non, di certo, dalla parte attrice terza alle vicende negoziali in esame>>

4) il ritardo di ue giorninell’esecuzione non è inadmepimento rilevante: <<Ciò posto, con riguardo al profilo dell’accertamento del ritardo
nell’adempimento dell’obbligo di conferimento in denaro della quota di aumento
sottoscritta da parte dell’odierno attore, con conseguente declaratoria di aumento
del capitale pari alla somma di euro 1.300.000,00 come così come versata dai soci
convenuti, la domanda riconvenzionale esperita dalla società convenuta non
merita accoglimento in ossequio al principio generale di buona fede, non solo
quale regola ermeneutica di congiunzione tra i criteri legali oggettivi e soggettivi
di interpretazione del contratto imposta all’organo giudicante ex art. 1366 c.c., ma
anche quale regola integrativa dello stesso in base al combinato disposto degli
artt. 1374 e 1375 c.c., nonché quale criterio ordinatore di tutte le fasi del rapporto
contrattuale, da quella precontrattuale a quella esecutiva e finanche giudiziale, ex artt. 1175, 1337, 1375 c.c. (….)
Ciò posto, in ossequio al principio di buona fede esecutiva improntato alla
clausola di reciprocità tra l’adempimento dell’obbligazione da parte del debitore e il soddisfacimento dell’interesse del creditore alla prestazione non risulta, senza dubbio, apprezzabile il lasso di tempo del ritardo intercorso nell’adempimento dell’obbligazione di conferimento in danaro da parte del socio sottoscrittore debitore, odierno attore, avendo riguardo, nel bilanciamento degli opposti interessi, alla sfera giuridica della società creditrice e a quella del socio debitore e segnatamente, da un lato, al vantaggio occorso alla società dal modo satisfattorio di estinzione dell’obbligazione mediante l’adempimento del versamento integrale in denaro e, dall’altro lato, al notevole sforzo esigibile assunto e validamente ottemperato dall’odierno attore>> .

Avrebbe potuto meglio dire che è inadempimento si, ma di scarsa importanza ex art. 1455 cc, applicabile stante la natura contrattuale dei rapporti societari.

Sulla stessa linea Trib. Roma n. 150/2023 del 3 gennaio 2023, sez. spec. impr., RG 21390/2020, pres. ed est. Di Salvo:

<<Quanto alla natura giuridica della sottoscrizione, va
ricordato che l’aumento di capitale a pagamento comporta un
aumento sia del capitale nominale, sia del patrimonio sociale,
mediante conferimento alla società di nuove risorse.
L’effetto modificativo del contratto sociale non si produce
automaticamente con la deliberazione di aumento di capitale, ma
con il concorso delle volontà dell’ente e dei sottoscrittori del
nuovo capitale deliberato e quindi in una fase successiva e
diversa da quella meramente deliberativa. Pertanto, ai fini del
perfezionamento dell’operazione di aumento di capitale, la
deliberazione assembleare, con la quale è stato approvato
l’incremento quantitativo del capitale, è sicuramente necessaria
ma non sufficiente, in quanto è pur sempre necessaria la
dichiarazione di adesione dei soci, ovvero, se prevista, anche dei
terzi. Tale dichiarazione si manifesta, appunto, con la
sottoscrizione di una quota dell’aumento deliberato.
Il negozio di sottoscrizione ha natura consensuale e si
perfeziona con lo scambio del consenso tra il socio sottoscrittore
o il terzo e la società, per il tramite dell’organo
amministrativo. Quindi, la deliberazione di aumento di capitale
ben può configurarsi come una proposta e la sottoscrizione del
socio o del terzo come una accettazione, secondo il classico
schema del contratto di natura consensuale. Ciò risulta confermato
anche dalla Suprema Corte, la quale ha affermato che il contratto
di sottoscrizione di nuove azioni emesse in sede di aumento di
capitale ha natura consensuale e non reale e le parti non possono
derogare alla consensualità come meccanismo regolatore creando un
corrispondente modello reale atipico, (cfr. Cass. n. 611/1996).
Alla natura consensuale del negozio di sottoscrizione consegue
che il mancato adempimento delle obbligazioni di versamento in
proporzione alla quota di partecipazione sottoscritta non incide
sull’avvenuto perfezionamento del contratto, attendendo invece
alla fase esecutiva dell’accordo già concluso>>.

Nullità ed annullamento di delibera societaria tra rilevabilità di ufficio da parte del giudice e potere dispositivo della parte

Cass. sez. I del 18.04.2023 n. 10.233, rel. Dongiacomo:

<<4.11. Vanno, dunque, affermati i seguenti principi:

– il giudice, se investito dell’azione di nullità di una delibera assembleare, ha sempre il potere (e il dovere), in ragione della natura autodeterminata del diritto cui tale domanda accede, di rilevare e di dichiarare in via ufficiosa, e anche in appello, la nullità della stessa per un vizio diverso da quello denunciato;

– se, invece, la domanda ha per oggetto l’esecuzione o l’annullamento della delibera, la rilevabilità d’ufficio della nullità di quest’ultima da parte del giudice nel corso del processo e fino alla precisazione delle conclusioni dev’essere coordinata con il principio della domanda per cui il giudice, da una parte, può sempre rilevare la nullità della delibera, anche in appello, trattandosi di eccezione in senso lato, in funzione del rigetto della domanda ma, dall’altra parte, non può dichiarare la nullità della delibera impugnata ove manchi una domanda in tal senso ritualmente proposta, anche nel corso del giudizio che faccia seguito della rilevazione del giudice, dalla parte interessata;

– nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, tale potere (e dovere) di rilevazione non può essere esercitato dal giudice oltre il termine di decadenza, la cui decorrenza è rilevabile d’ufficio e può essere impedita solo dalla formale rilevazione del vizio di nullità ad opera del giudice o della parte, pari a tre anni dall’iscrizione o dal deposito della delibera stessa nel registro delle imprese ovvero dalla sua trascrizione nel libro delle adunanze dell’assemblea>>.

Si noti poi la negazione della contrattualità (parrebbe, anche se solo in relazione al processo) dei rapporti societari:

<<4.5. In effetti, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, il principio per cui il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare in via ufficiosa, ove emergente dagli atti, l’esistenza di un diverso vizio di nullità, è suscettibile di applicazione estensiva anche nel sottosistema societario, e, precisamente, nell’ambito delle azioni di impugnazione delle deliberazioni assembleari, benché non assimilabili ai contratti, trattandosi, tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, di domanda pertinente ad un diritto autodeterminato (cfr., sul primo punto, Cass. SU n. 26242 del 2014, in motiv., punti 6.13.3. e ss. e, in particolare, 6.13.6., lì dove di evidenzia che “il giudizio di nullità/non nullità del negozio… sarà, così, definit(iv)o e a tutto campo indipendentemente da quali e quanti titoli di nullità siano stati fatti valere dall’attore”, e, sul secondo punto, Cass. n. 8795 del 2016), e cioè individuata a prescindere dallo specifico vizio (rectius, titolo) dedotto in giudizio: come, in effetti, accade per la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, individuati, appunto, sulla base della sola indicazione del relativo contenuto, con la conseguenza che, per un verso, la causa petendi delle relative azioni giudiziarie si identifica con i diritti stessi e non con il relativo titolo (contratto, successione ereditaria, usucapione, ecc.) che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non ha, per l’effetto, alcuna funzione di specificazione della domanda, e, per altro verso, non viola il divieto dello ius novorum in appello la deduzione da parte dell’attore ovvero il rilievo ex officio iudicis di un fatto costitutivo del tutto diverso da quello prospettato in primo grado a sostegno della domanda introduttiva del giudizio (Cass. n. 23565 del 2019)>>.

Il punto andava spiegato un poco, dato che in linea di principio il rapporto di società è pienamente contrattuale: anche se l’esito non sarebbe cambiato, valorizzando i giudici il comune profilo dell’autodeterminazione.

Sorte del credito verso società cancellata e successione dei soci nel debito ex art. 2495 c. 3 c.c.

Cass. 10.752 del 21 aprile 2023 , rel. Scarpa A., sez. II:

<<2.3. Come chiarito dalla elaborazione giurisprudenziale intrapresa con le sentenze nn. 4060, 4061 e 4062 del 2010 e definita con la sentenza n. 6070 del 2013 delle Sezioni Unite di questa Corte, a seguito della riforma del diritto societario, attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l’obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, “pendente societate”, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, con riguardo ai quali l’inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo.

Per quello che qui rileva essenzialmente, basta considerare che il legislatore del codice civile, anche in occasione della già ricordata riforma del diritto societario, si è preoccupato espressamente soltanto di disciplinare la sorte dei debiti sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società dal registro. In particolare, per le società di capitali, l’art. 2495, comma 2, c.c. (riprendendo, peraltro, quanto già stabiliva in proposito il previgente art. 2456, comma 2) dispone che i creditori sociali non soddisfatti possono agire nei confronti dei soci della dissolta società di capitali sino alla concorrenza di quanto questi ultimi abbiano riscosso in base al bilancio finale di liquidazione. E’ prevista, inoltre, anche la possibilità di agire in via risarcitoria nei confronti del liquidatore, se il mancato pagamento del debito sociale sia dipeso da colpa di costui (azione che risulta estranea al tema della presente lite). L’art. 2495, comma 2, c.c., in sostanza, delinea un meccanismo di tipo successorio, nel senso che i debiti non liquidati della società estinta si trasferiscono in capo ai soci, salvo il limite di responsabilità nella medesima norma indicato. Non si arreca, peraltro, alcun pregiudizio alle ragioni dei creditori per il fatto che i soci delle società di capitali rispondono solo nei limiti dell’attivo loro distribuito all’esito della liquidazione, atteso che, se la società viene cancellata senza distribuzione di attivo, ciò vuol dire che vi sarebbe stata comunque incapienza del patrimonio sociale rispetto ai crediti da soddisfare. La circostanza che i soci della società di capitali (o il socio accomandante della società in accomandita semplice) abbiano beneficiato effettivamente di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non configura una condizione da cui dipende la possibilità di proseguire nei confronti di detti soci l’azione originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società: i soci sono comunque destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata ma non definiti all’esito della liquidazione, fermo però restando il loro diritto di opporre al creditore agente il limite di responsabilità pari alle somme riscosse in base al bilancio finale.

2.4. Perché il socio della società di capitali possa essere obbligato a rispondere verso il creditore sociale non soddisfatto, occorre, e ad un tempo basta, che lo stesso creditore dia prova della distribuzione dell’attivo e della riscossione di una quota di esso da parte del socio in base al bilancio finale di liquidazione, trattandosi del fatto costitutivo della responsabilità di quest’ultimo (cfr. Cass. n. 15474 del 2017; n. 23916 del 2016; Cass. n. 19732 del 2005)>>.

La parte più interessata però è la implicita affermazione che tale credito verso il socio si estingue qualora questi abbia usato il riscosso per pagare altro creditore. Nè si menziona l’eventuale problema della par condicio creditorum: che non opera  se manca procedura concorsuale.

Il concetto di controllo esterno è questione di diritto, non di fatto

Sul tema v. Cass. sez. 1 del 20.03.2023 n. 7930, rel. Scotti.

Il § 31 esamina il concetto di violazione di legge ex art. 360 n. 3 cpc

Il § 32 prosegue:

<< 32. Il Collegio non esclude che l’attività di direzione e coordinamento, esercitata attraverso un controllo esterno potrebbe sussistere di fatto, anche in casi non riconducibili alle presunzioni di cui al citato combinato disposto ex art. 2497 sexies e 2395 c.c.

Le norme citate lo consentono e del resto questa Corte, recentemente, ha avuto modo di precisare che in tema di azione risarcitoria del curatore nei confronti della società controllante di quella fallita, nel contesto precedente all’introduzione dell’art. 2497 c.c., ad opera del D.Lgs. n. 17.1.2003, n. 6, la tutela del ceto creditorio della società eterodiretta, che abbia patito la diminuzione del patrimonio a causa dell’attività di abuso di direzione e coordinamento della capogruppo, poteva passare dall’art. 2043 c.c. e dalla clausola generale del neminem laedere (Sez. 1, n. 14876 del 11.5.2022).

Ed ancora con la sentenza del 7.10.2019 n. 24943 questa Corte ha riconosciuto che gli artt. 2497 e seguenti del codice civile sono norme ispirate al principio di effettività, nel senso che disciplinano la dinamica di un fatto, e precisamente il fatto dell’abuso di attività di direzione e coordinamento ottenuto mediante esercizio effettivo della corrispondente influenza sulle società assoggettate.

Non diversamente ha opinato il supremo giudice amministrativo allorché ha affermato che l’influenza dominante consiste nella concreta capacità di determinare gli esiti assembleari mediante la concomitanza di una serie di elementi fattuali (Consiglio di Stato, sez. VI, 14.12.2020, n. 7972).

33. Tuttavia l’accertamento di questo fatto è devoluto al giudice del merito, che nella specie vi ha provveduto con ampia motivazione, spiegando analiticamente, nelle pagine da 32 a 34 della sentenza impugnata, le ragioni per le quali i vari elementi prospettati dai Fallimenti appellanti non giustificavano tali conclusioni.

La Corte capitolina ha espresso tale valutazione considerando tutta una serie di elementi: clausole contrattuali, contesto della liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni, rispetto puntuale delle obbligazioni da parte di Telecom Italia, accordi di ripianamento, rateazione concessa alle società del gruppo (Omissis) a fronte di ulteriori garanzie, tentativi di recuperare la perdita, pregressi ruoli in Telecom di taluni amministratori di (Omissis), informazioni sui potenziali clienti fornite da Telecom, giustificato rifiuto della creditrice di accedere ad ulteriori dilazioni, difficoltà incontrate dal gruppo e comuni a diversi altri imprenditori privati.

Tutto ciò ha indotto la Corte di appello a concludere affermando inequivocabilmente che “nessuno degli elementi addotti e tutti nel loro complesso assumono valore probatorio in ordine alla sussistenza di una fattispecie di controllo esterno rilevante ai sensi degli artt. 2359, comma 1, e 2497, comma 1, c.c. ” >>.

Non è così: il concetto di “direzione e coordinamento” è oggett di questione solo giuridica. Sono invece i fatti storici , e solo essi,  cioè quelli in base ai quali il predetto concetto va esaminato, ad essere oggetto di questione fattuale.  Per quanto valga oggi la distinzione, alla luce del ristretto ambito di rilevanza dell’erore di fatto ex art. 360 n. 5 cpc

Responsabilità del revisore per mancato disinvestimento da parte del socio? Negata per mancata prova della reale possibilità disinvestimento e del nesso causale

Così Trib. Milano n. 132/2023, RG 18268/2020, rel. Alima Zana, relativamente a domanda di danno proposta da socio di Banca Popolare di Vicenza spa contro il revisore KPMG.

<<In limine, va in proposito rammentare che:
• nel caso di perdita di chance il nesso causale che deve essere dimostrato dall’attore è ipotetico,
giacché è di natura ipotetica il nesso che si predica tra l’assenza dell’illecito (che invece si è
verificato) e la esistenza della chance (che invece è venuta meno o non si è verificata);
• il giudice è tenuto quindi a formulare quella che viene definita una “prognosi postuma”,
ricostruendo la situazione ipotetica che si sarebbe verificata in assenza dell’illecito;
• il soggetto che si dichiara vittima dell’illecito deve quindi provare:
I.  l’esistenza reale di una chance;
II.  che la chance sia venuta meno per effetto diretto del comportamento illecito,
seppure utilizzando il criterio civilistico della c.d. probabilità prevalente>>

E’ mancata però la prova di entrambi i requisiti (sia I che II)

I): non c’è prova che, anche avesse saputo, sarebbe riuscito a disinvestire:

<< Ed in particolare, quanto al requisito sub I, va con considerato che:
✓ le azioni litigiose erano per loro natura illiquide.
Invero le stesse non erano strumenti finanziari quotati su mercati regolamentati.
Le azioni BPVI erano dunque connaturate da un intrinseco carattere di illiquidità (“le
azioni della Banca Popolare di Vicenza non erano quotate in borsa e come tali si
caratterizzavano, in linea generale, per una scarsa possibilità di smobilizzo entro un
lasso di tempo ragionevole a condizioni di prezzo significativo” cfr. Tribunale di Milano,
sent. 8390/2021, in un caso del tutto analogo, afferente sempre alla domanda risarcitoria
esercitata contro il revisore a causa del mancato disimpegno di azioni di Banca Popolare
di Vicenza nella stessa frazione temporale qui considerata);
✓ avvicinandosi al periodo critico qui oggetto indagine, il disinvestimento -che già in sé
presentava rischi- era poi divenuto assai difficile, fino a poter essere diventare quasi
“impossibile” già nel 2014, come precisato Banca in occasione dell’aumento di Capitale
2014 a cui l’attore risulta avere partecipato;3
✓ proprio in data 24.4.2015 -in occasione dell’approvazione del bilancio di esercizio al
31.12.2014, momento in cui l’attore colloca la propria decisione di non procedere al
disinvestimento, tenuto conto della relazione accompagnatoria positiva del revisore- la
Banca dava atto della sopraggiunta impossibilità di assorbire le domande di vendita delle
proprie azioni. E ciò atteso il totale blocco del cd. “mercato interno” gestito dallo stesso
istituto di credito negli anni precedenti per agevolare le richieste di vendita dei titoli,
mediante utilizzo del Fondo per acquisto di azioni proprie, essendo stata azzerata medio
tempore da parte della BCE la possibilità di utilizzare di tale Fondo.4
Dunque, non vi è prova del requisito sub I, ossia di una reale chance di un disimpegno del
pacchetto litigioso- neppure attraverso la Banca- in tempi contenuti ad un prezzo ragionevole >>

Quanto a II), manca la prova del nesso di causa:

<<Quanto al requisito sub II, va osservato che:
✓ operando un giudizio c.d. controfattuale, c.d. della prognosi postuma, la condotta
alternativa di KPMG – attraverso lo svolgimento, secondo l’attore, a regola d’arte delle
verifiche prodromiche all’attestazione del bilancio al 31.12.2014 e con conseguente
disvelamento del vero della consistenza effettiva del patrimonio della banca- non
avrebbe comunque attribuito a parte attrice ragionevoli chance di smobilitare a
condizioni proficue il proprio investimento;
✓ infatti, non potendo accedere l’attore in via privilegiata ed anticipata alle corrette
informazioni -che ritiene illecitamente essergli state celate- rispetto agli altri operatori,
l’unico effetto della condotta alternativa di KPMG sarebbe stato invero di anticipare nel
tempo gli eventi poi realmente accaduti ed in particolare il deprezzamento delle azioni
della banca a € 0,10 ciascuna. Con conseguente impossibilità per l’attore di collocare il
proprio pacchetto azionare a prezzo conveniente, superiore al valore poi attribuito.
Manca dunque anche la prova del requisito sub II, non essendovi alcun riscontro che la
condotta alternativa lecita di KPMG (non in tesi non si è verificata) avrebbe impedito
all’investitore di perdere il valore delle proprie azioni (evento invece verificatosi). In
altre parole, non vi è prova che la relazione positiva del revisore sul bilancio al
31.12.2014 abbia cagionato la perdita di chance di vendita del pacchetto azionario
litigioso a prezzo conveniente, grazie all’acquisizione privilegiata rispetto al resto degli investitori delle corrette informazioni.
Con conseguente carenza del nesso di causalità, non essendo la perdita subita dall’attrice causalmente connessa alle carenze informative denunciate, invece presumibilmente riconducibile all’oscillazione del valore delle azioni propria dei titoli non quotati in borsa di cui l’investitore ha assunto consapevolmente il rischio>>.

Responsabilità dell’amministratore di società in stato di scioglimento verso il creditore per operazioni non conservative

Cass. sez. 1 dell’ 8 marzo 2023 n. 6893, rel. Vannucci, circa la responsabilità per vioalzione del dovere di gestine conservativa ex art. 2449.1 cc (ante 2003) , ora art. 2486.1-2 cc.

Si trattava di una SRL.

Interessa spt la lett. c) (e magari le successive)

<< Nell’interpretare tale disciplina, la giurisprudenza di legittimità era (ed è ancora) costante nell’affermare che:

a) le “nuove operazioni” vietate agli amministratori dall’art. 2449 sono quelle non finalizzate alla liquidazione del patrimonio sociale (non necessarie dunque per portare a compimento attività già intraprese prima del verificarsi della causa di scioglimento) e determinanti la nascita di rapporti giuridici che vengono costituiti dagli amministratori, con assunzione di ulteriori vincoli per l’ente, e sono preordinati al conseguimento di nuovi utili d’impresa (in questo senso, cfr., fra le altre: Cass. n. 5190 del 1979: Cass. n. 6431 del 1982; Cass. n. 1035 del 1995; Cass. n. 9887 del 1995);

b) l’art. 2449 c.c. esprime infatti sul piano normativo la coerente conseguenza del fatto che, dopo il verificarsi della causa di scioglimento, il patrimonio sociale non può più considerarsi destinato, qual era in precedenza, alla realizzazione dello scopo sociale, onde gli amministratori non possono più utilizzarlo a tal fine, ma sono abilitati a compiere soltanto quegli atti correlati strumentalmente al diverso fine della liquidazione dei beni, restando ad essi inibito il compimento di nuovi atti d’impresa suscettibili di porre a rischio il diritto dei creditori e degli stessi soci (cfr. Cass. n. 5275 del 1997; Cass. n. 2156 del 2015);

c) la violazione da parte degli amministratori del divieto di compiere “nuove operazioni” (da intendersi nel senso teste’ precisato) costituisce, nei confronti dei terzi, una fattispecie tipica di obbligazione ex lege che pur avendo natura extracontrattuale, non può perciò solo essere ricondotta allo schema generale dell’art. 2043 c.c. in quanto – agendo gli amministratori nel compimento di tali operazioni non in proprio ma pur sempre in qualità di organi investiti della rappresentanza della società – non si verte in tema di “fatto illecito” nel senso voluto dal citato art. 2043, né conseguentemente di risarcimento del danno; con la conseguenza che nessun rilievo ai fini probatori assume l’accertamento del danno né, sotto il profilo soggettivo, quello del dolo o della colpa, essendo sufficiente la consapevolezza da parte degli amministratori dell’evento comportante lo scioglimento della società (in questo senso, cfr.: Cass. n. 6431 del 1982; Cass. n. 5275 del 1997; Cass. n. 3694 del 2007); [piccoli errori: i) se è obbligazione, non può avere natura extyracontrattuale; ii) non è la qualità di organo di ente  la ragione per cui è fatto illecito; iii) se è fatto illecito, opera invece l’art. 2043 in cui quello sub iudice rientrebbe; iv) però è resp. contrattuale e non aquiliana, in quanto violazione di un obbligo verso soggetto determinato/-abile]

d) l’azione ex art. 2449 c.c., comma 1, spettante al terzo creditore per il compimento da parte degli amministratori di nuove operazioni dopo la verificazione di un fatto che determina lo scioglimento della società si distingue poi, per la diversità della causa petendi e del petitum, sia dall’azione sociale di responsabilità (art. 2393 c.c.) sia dall’azione dei creditori sociali prevista dall’art. 2394 c.c.: se, infatti, la violazione del divieto di compiere nuove operazioni, oltre a dar luogo a responsabilità diretta degli amministratori verso il terzo, può integrare il presupposto tanto dell’azione sociale di responsabilità (per violazione dei doveri imposti dalla legge) quanto dell’azione di responsabilità dei creditori sociali (per inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale), qualora ad agire contro gli amministratori della società legalmente disciolta non sono, genericamente, i creditori della società, ma precisamente i creditori per le operazioni nuove compiute dopo lo scioglimento, essi vantano nei confronti degli amministratori un titolo diretto, fondato appunto sull’art. 2449 c.c., comma 1, (giustificato dalla non riferibilità allo scopo sociale degli atti, compiuti dalla società ormai disciolta), che, per espressa previsione della norma, si aggiunge alla perdurante responsabilità della società (in questo senso, cfr. Cass. n. 15770 del 2004); [interessante la distinzione rispetto alla vioalzione ex art. 2394: da approfondire]

e) quanto alla distribuzione dell’onere della prova, colui che agisce in giudizio per l’accertamento della responsabilità degli amministratori di una società di capitali, ex art. 2449 c.c., deve fornire la prova soltanto della novità dell’operazione, dimostrando il compimento di atti negoziali in epoca successiva all’accadimento di un fatto che determini lo scioglimento della società, mentre spetta agli amministratori convenuti provare i fatti estintivi o modificativi del diritto azionato, mediante dimostrazione che quegli atti erano giustificati dalla finalità liquidatoria, in quanto non connessi alla normale attività produttiva dell’azienda, non comportanti un nuovo rischio d’impresa o necessari per portare a compimento attività già iniziate; nella valutazione di tale prova occorre, peraltro, considerare che gli amministratori non sono solo tenuti all’ordinario (e non anomalo) adempimento delle obbligazioni assunte in epoca antecedente allo scioglimento della società, ma hanno anche il potere-dovere di compiere, in epoca successiva al menzionato scioglimento, quegli atti negoziali di gestione della società necessari al fine di preservare l’integrità del relativo patrimonio (in questo senso, cfr.: Cass. n. 2156 del 2015)>>.

Infine, dopo aver osservato che la nuova disciplina sostanzialmente coincide con la previgente, così riassume:

<<Da quanto evidenziato risulta che la responsabilità degli amministratori verso il creditore di società a responsabilità limitata leso dal compimento da parte di costoro di atti gestori non funzionali alla conservazione del patrimonio sociale, dopo il verificarsi della causa di scioglimento di cui all’art. 2484 c.c., comma 1, n. 4), trova per intero la propria disciplina nel successivo art. 2486 (le disposizioni di cui all’art. 2476 c.c., in tema di responsabilità degli amministratori di tale tipo di società, non entrano quindi in giuoco ricorrendo tale ipotesi); è di natura extracontrattuale ma non può perciò solo essere ricondotta allo schema generale dell’art. 2043 c.c. in quanto – agendo gli amministratori nel compimento di tali operazioni non in proprio ma pur sempre in qualità di organi investiti della rappresentanza della società – non si verte in tema di “fatto illecito” nel senso voluto dal citato art. 2043; prevede, quale sanzione, il risarcimento del danno arrecato al creditore sociale>>.

Responsabilità degli amministratori societari: il dovere di controllo nei confronti dei cybersecurity risks

Interessante pronuncia della corte del Delaware sull’oggetto (esito infausto per gli attori): COURT OF CHANCERY OF THE STATE OF DELAWARE  , C.A. No. 2021-0940-SG , del 6 settembre 2022, CONSTRUCTION INDUSTRY LABORERS PENSION FUND ed altri c. Bingle ed altri (v.la nel sito delle corti Delaware).

La negligenza addebitata era di non aver prevenuto attacchi da hacker russi, nonostante alcune red flags di deficenza del sistema. L’azienda forniva supporto informatico a clienti importanti e tramite questa sua omissione permise la diffuse di virus nei loro server.

Conclusione del giudice Glasscock, p. 35/6: <<To recapitulate, a subpar reporting system between a Board subcommittee and the fuller Board is not equivalent to an “utter failure to attempt to assure” that a reporting system exists.138 The short time period here between the IPO and the trauma suffered, together with the fact that the Board apparently did not request a report on cybersecurity in that period, is not sufficient for me to infer an intentional “sustained or systematic failure” of oversight,139 particularly given directors are presumed to act in good faith.140 And again, the Complaint is silent as to what the Committees should in good faith have reported, and how it could have mitigated corporate trauma. Carelessness absent scienter is not bad faith. In sum, the Complaint has not pled sufficient particularized facts to support a reasonable inference of scienter and therefore actions taken in bad faith by the Board. Without a satisfactorily particularized pleading allowing reasonably conceivable inference of scienter, a bad faith claim cannot survive a motion to dismiss. Because the Caremark claim is not viable, there is no substantial likelihood of liability attaching to a majority of the directors on the demand Board. Therefore, demand on the Board would not have been futile>>.

Va richiamato anche un precedente 2021 sempre del Delaware e sempre in tema di responsabilità per cybersecurity risks: Firemen’s Retirement System of St. Louis v. Arne M. Sorenson, et al. (Marriott International, Inc.) del 05 ottobre 2021,  C.A. No. 2019-0965-LWW .

E a questo punto pure uno del 2020 seppur non da cyber risks mna pur sempre sul dovere di oversight degli amminisratori: Richardson v. Clark ad altri 31.12.2020, C.A. No. 2019-1015-SG ,

Supersocietà di fatto è figura diversa da holding di fatto: nella prima serve anche la c.d. “economia aggiuntiva”

Cass. sez 1 del 15.02.2023 n. 4784, rel. Campese, sull’oggetto.

Sulla presunto requisito della “economia aggiuntiva” per la supersocietà di fatto:

<<5.2. Neppure convince l’assunto per cui (cfr. in particolare, il secondo motivo), nel ritenere configurabile una supersocietà di fatto tra la (Omissis) s.r.l., il G., la (Omissis) s.r.l. e la (Omissis) s.r.l., la corte di appello non avrebbe verificato e riscontrato rigorosamente l’esistenza di un elemento imprescindibile per la configurazione della fattispecie, come richiesto dalla giurisprudenza, ossia il presupposto dell’economicità aggiuntiva derivante dalla società di fatto.

5.2.1. Di economia aggiuntiva, invero, può discutersi – in thesi – in presenza di una holding di tipo personale (che abbia assunto la veste di società di fatto), costituente impresa commerciale suscettibile di fallimento in quanto fonte di responsabilità diretta dell’imprenditore, quando questa agisca in nome proprio per il perseguimento di un risultato economico ottenuto attraverso l’attività svolta, professionalmente, con l’organizzazione ed il coordinamento dei fattori produttivi relativi al proprio gruppo d’imprese.  Deve trattarsi, cioè, di una stabile organizzazione volta a determinare l’indirizzo, il controllo ed il coordinamento di altre società (non limitandosi al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio): il che, appunto, ne consente la configurabilità come un’autonoma impresa assoggettabile a fallimento sia quando la suddetta attività si esplichi nella sola gestione del gruppo, sia quando abbia di natura ausiliaria o finanziaria (cfr. sostanzialmente, in tal senso, Cass. n. 5520 del 2017; Cass. n. 23334 del 2010; Cass. n. 3724 del 2003, Cass. n. 12113 del 2002).   In quest’ottica, allora, le società coordinate devono risultare destinate a realizzare un medesimo scopo economico non corrispondente con quello proprio ed autonomo di ciascuna di queste esse, né coincidente con un mero godimento degli utili eventualmente prodotti dalle medesime.   Peraltro, se è pacifico che, in caso di attività di direzione e coordinamento abusiva, l’holder miri a realizzare un fine di lucro tendenzialmente distinto da quello perseguito dalle singole società eterodirette, esso può, tuttavia, anche coincidere con quest’ultimo, allorquando il profitto conseguito rifluisce nel patrimonio dell’imprenditore capogruppo.   Non occorre, per converso, che l’attività di direzione risulti idonea a far conseguire al gruppo vantaggi economici diversi ed ulteriori rispetto a quelli realizzabili in mancanza dell’opera di coordinamento, né che le attività di servizi realizzate dall’holder disvelino un’economicità autonoma rispetto a quella propria delle attività svolte dalle società controllate.

5.2.2. La corte di appello, tuttavia, condividendo gli assunti del giudice di prime cure, ha chiaramente inteso escludere che, nella specie, si fosse al cospetto di una holding di tipo personale che abbia assunto la veste della società di fatto, sicché nemmeno è utile indugiare ulteriormente sul punto>>.

Il dovere di oversight (su molestie/harassment) grava su tutti gli amministratori, anche solo Officers e non membri del Board of Directors: la sentenza IN RE McDONALD’S CORPORATION STOCKHOLDER DER. LITIG. del Delaware (sul caso Fairhurst)

Il tribunale del Delaware ha emsso sentenza 26.01.2023 , C.A. No. 2021-0324-JTL, nel caso IN RE McDONALD’S CORPORATION STOCKHOLDER DERIVATIVE LITIGATION.

In breve Fairhurst, capo del personale di McDonal’s, non avrebbe promosso azioni per contrastare l’harassment di personale femminile; anzi lui stesso si sarebbe reso colpevole di condotte improprie. Alcuni soci agirono nei suoi confronti per danno alla società

Da noi l’art.  2392 cc regola la responsabilità plurisogettiva. Nel caso specifico, presupponendosi l’organizzaizone di monitoraggi adeguati sul rischio di violazioni di harassmdent, va tenuto conto pure del riparto di competenze tra esecutivi e board posto dall’art. 2381 cc

Dalla sentenza: <<The board’s need for information leads ineluctably to an imperative for officers to generate and provide that information ….. For relevant and timely information to reach the board, the officers who serve as the day-to-day managers of the entity must make a good faith effort to ensure that information systems are in place so that the officers receive relevant and timely information that they can provide to the directors. Think Strategically, supra, at 488. It follows that officers must have a duty to make a good faith effort to establish an information system as a predicate to fulfilling their obligation to provide information to the board. Id. at 488–89>>.

E subito dopo:  <<A related point is that officers must make decisions in their own right. . >>, p. 24.

Quindi: <<A third reason that Chancellor Allen provided for recognizing the board’s duty ofoversight was the importance of having compliance systems in place so the corporation  could receive credit under the federal Organizational Sentencing Guidelines. Id. at 970>, § 25.

<<The dimension of the oversight duty that supports the Red-Flags Claim also applies to officers>>, p. 26. T

<<For similar reasons, officers generally only will be responsible for addressing or reporting red flags within their areas of responsibility, although one can imagine possible exceptions. If a red flag is sufficiently prominent, for example, then any officer might have a duty to report upward about it. An officer who receives credible information indicating that the corporation is violating the law cannot turn a blind eye and dismiss the issue as “not in my area.” >>, p. 42.

<<The arguments about the oversight regime that should apply to officers parallel the arguments about whether an officer’s duty of care should resemble the director regime and require a showing of gross negligence, or whether it should track the agency regime and require only simple negligence. Scholars engaged in extensive debate on that topic>>, p. 46.

Molto interessant, infine, l’elenco delle red flags con relative risposte, pp. 55-60