In caso di esclusione del socio accomandatario dalla SAS, cessa ipso iure la sua qualità di amminstratore : sulla distinzione tra rapporto sociale e rapporto amministrativo

Cass. sez. I del 5 settembre 2022 n. 26.059, rel. D’Orazio:

<<6.1. Invero, per questa Corte in tema di amministrazione nella società in accomandita semplice, per effetto della regola per cui l’amministratore non può che essere un socio accomandatario, l’eventuale esclusione di questi dalla società, non diversamente da qualsiasi altra causa di scioglimento del rapporto sociale a lui facente capo, ne comporta “ipso iure” anche la cessazione dalla carica di amministratore (Cass., sez. 1, 26 settembre 2016, n. 18844). Si è chiarito che la revoca dell’amministratore e l’esclusione del socio, nelle società di persone, costituiscono situazioni affatto distinte, legate a presupposti non necessariamente coincidenti, sicché non è possibile sovrapporre la disciplina legale dell’una figura a quella dell’altra, né implica che l’eventuale revoca della carica di amministratore incida di per sé sul perdurare del rapporto sociale (Cass., sez. 1, 8 aprile 2009, n. 8570; Cass., sez. 1, 29 novembre 2001, n. 15197); tuttavia, si è osservato che nella società in accomandita semplice l’amministratore non può che essere un socio accomandatario, sicché la sua esclusione dalla società, non diversamente da qualsiasi altra causa di scioglimento del rapporto sociale, automaticamente comporta anche la cessazione della carica di amministratore.

In dottrina ed in giurisprudenza si è anche affermato che il cumulo delle qualifiche di socio e di amministratore non impedisce che le irregolarità o illiceità commesse dall’amministratore determinino, non solo la revoca del mandato, ma anche l’esclusione del socio per violazione dei doveri previsti dallo statuto a tutela della finalità e degli interessi dell’ente (Cass., sez. 1, 9 marzo 1995, n. 2736); ciò in quanto, indipendentemente dagli obblighi che incombono sull’amministratore-socio, vi è un obbligo fondamentale che deriva dalla sua qualità di socio, costituito dal dovere di non compiere atti che, per essere in contrasto con i fini della società, configurino insidia per la compagine sociale>>.

Tutto giusto, ma abbasta mainstream: nessuno spunto innovativo.

Conflitto di interessi negli amministratori di spa: si applica l’art. 1394 cc, anzichè l’art. 2391 cc , quando il conflitto sorge solo in fase esecutiva e disattendendo la delibera del CdA

Interessante precisazione di Cass. sez. 1 n° 24.156 del 3 agosto 2022 , rel. Falabella, circa una vendita imobiliare “di cortesia” alla controllante per prezzo troppo basso:

<< In realtà, ha ricordato la parte ricorrente che, in base a quanto
esposto in citazione, il contratto era annullabile per conflitto di
interessi non solo perché la delibera era stata assunta da un consiglio
di amministrazione «privo di effettiva pluralità», ma anche in quanto
detta delibera era stata «comunque disapplicata nella parte che
autorizzava la vendita ‘ad un prezzo non inferiore al costo di
costruzione sostenuto dalla Girardi ceramiche’ […] di fatto conosciuto
essere sensibilmente superiore a quello in essa indicato».
Discende da ciò che il fallimento ricorrente aveva fatto valere,
con riguardo al tema del prezzo di compravendita, un conflitto di
interessi venuto ad emersione proprio con riguardo al momento
rappresentativo: infatti, la compravendita si perfezionò a un
corrispettivo diverso da quello predeterminato dal consiglio di
amministrazione, sicché non avrebbe potuto domandarsi
l’annullamento della delibera dell’organo gestorio (che costituiva,
invece, la fonte del criterio cui avrebbe dovuto attenersi chi
contrattava in nome e per conto della società poi fallita).

Deve infatti ritenersi che, in base alla richiamata distinzione tra momento
deliberativo e momento rappresentativo, l’annullabilità di cui all’art.
1394 c.c. abbia a configurarsi, in caso di assunzione della delibera,
non solo con riferimento a quelle parti del negozio che siano lasciate
alla discrezionalità dell’amministratore, ma anche, e a maggior
ragione, ove lo stesso amministratore dia vita al conflitto di interessi
disattendendo le indicazioni contenute nella delibera che erano atte ad
escluderlo
>>

 

Procura gestionale dagli amministratori ad un terzo? Si, purchè non troppo ampia

Cass. sez. 2 del 3 agosto 2022 n. 24.068, rel. Grasso Gius., sull’ampiezza di procura conferibile dagli amministratori ad un terzo (ex amministratore, dimessosi per rispetto delle quote rosa):

<< Palese l’intenzione della legge d’impedire cristallizzazioni di
potere, tali da esautorare o perlomeno limitare la fisiologia della
società, attraverso il divieto di nominare gli amministratori per un
periodo superiore a un triennio e il potere di revoca da parte
dell’assemblea (art. 2383 cod. civ.). Fa da pendant a tale assetto il
potere di rappresentanza generale dell’amministratore, con
l’inopponibilità ai terzi (salvo prova di dolosa preordinazione) di
eventuali limitazioni, pur se pubblicate (art. 2384 cod. civ.).
Come si vede trattasi di un ordinamento predefinito, che non
permette deroghe. L’amministratore non può spogliarsi dei suoi
poteri, ai quali corrispondono i doveri derivanti dal ruolo, delegando
a terzi d’amministrare la società, così aggirando le norme che si
sono andate esaminando, o, comunque, rendendo vieppiù difficile
verifiche, controlli e direttive.
Nel caso all’esame, addirittura non è neppure dato sapere la
durata del mandato, non ne constano limiti, o approntamento di
procedure dirette a porre bilanciamenti o a imporre
approfondimenti, giungendosi, financo, ad assegnare il potere di
costituire società all’estero o parteciparvi, senza la previsioni di
tipologia societaria, di ramo d’attività, di nazionalità, di entità della
partecipazione in relazione alla percentuale del capitale sociale.
Trattasi, in definitiva di una procura abdicativa, attraverso la
quale viene aggirato anche il dovere d’astensione in presenza di
conflitto d’interesse.
>>

Principio di diritto: All’amministratore di una società per azioni non è consentito delegare a un terzo poteri che, per vastità dell’oggetto, entità
economica, assenza di precise prescrizioni preventive, di procedure
di verifiche in costanza di mandato, facciano assumere al delegato
la gestione dell’impresa e/o il potere di compiere le operazioni
necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale, di esclusiva
spettanza degli amministratori

Si trattava di censure di Consob ai sindaci per non aver rilevato la predetta anomalia.

La cessazione dalla carica per messa in liquidazione non equivale alla revoca, al fine del risarcimento dei danni ex art. 2383 c. 3 cc

Cass. 15.07.2022 n. 22.351, sez. 2, rel. Fortunato, interviene sull’oggetto e osserva: <<sebbene la delibera di liquidazione e la revoca degli amministratori abbiano in comune il fatto di essere entrambe adottate con un atto deliberativo della società, tuttavia solo nel primo caso viene meno l’organo gestorio e non vi è continuità dell’amministrazione: i liquidatori possono, difatti, svolgere solo gli atti utili per la liquidazione (art. 2489 c.c.).

La revoca in senso tecnico dell’amministratore (art. 2383 c.c.) – non la liquidazione – postula la mera sostituzione dei titolari delle cariche, con successivo subentro dei nuovi amministratori.

Per tale essenziale diversità delle due fattispecie, la liquidazione non dà luogo ad una revoca (tacita o implicita) dell’amministratore riconducibile al disposto dell’art. 2383 c.c., comma 3, né appaiono ammissibili pretese risarcitorie neppure se il mandato gestorio venga meno prima della sua naturale scadenza (ad eccezione delle ipotesi in cui la liquidazione appaia finalizzata esclusivamente a rimuovere gli amministratori, come nel caso in essa venga successivamente revocata e si proceda alla ricostituzione degli organi sociali senza riconfermare i precedenti amministratori: cfr., in tal senso, Cass. 2068/1960).

Stante il contenuto della scrittura di nomina del marzo 2010 e la non esclusa operatività delle cause legali di cessazione dell’amministratore, non era doveroso assicurare in ogni caso la permanenza in carica del ricorrente per un triennio a prescindere di quali fossero le esigenze di risanamento della società e gli strumenti per attuarle.

Come ha evidenziato la Corte di merito, la messa in liquidazione volontaria non integrava, quindi, un inadempimento colpevole della scrittura di incarico del marzo 2010, né un’ipotesi di revoca senza giusta causa, fattispecie cui le parti avevano inteso ricollegare le conseguenze risarcitorie oggetto delle penali contrattuali>>.

Il dictum è esatto.

Esecuzione secondo buona fede del contratto sociale e obbligo di motivazione nel digniego di rimborso da recesso

Trib. Milano n. 4253/2022 del 17.05.2022, RG 1033/2017, G.I. Alima Zana, affronta un azione invalidatoria e/o di responsabilità per diniego illegittimo di rimborso a seguito di istanza di recesso avanzata da socio di banca popolare.

Si tratta di disposizione inserita nella riforma delle banche popolari del 2015.

Il c. 2 ter dell’art. 28 TUB e la disposizione attuativa Banca di Italia permette di limitare o rinviare il rimborso del recedente.

Il recedente agiva quindi poer diniego illegittimo.

Qui interessa solo:  1) l’affermzione per cui la buona fede che regola l’esecuzione anche del contratto sociale impone la motivazione delle delibere del CdA; 2) il tipo di controllo gidiziale; 3) l’iter argometnativo del collegio per concludere che UBI aveva esaurientemente motivato il diniego

Sub 1: << La scelta di adottare un tale più ampio margine prudenziale, anche in ossequio al principio
di buona fede nello svolgimento del rapporto sociale, va ad ogni modo congruamente
motivata esplicitando le ragioni, nonché gli indici patrimoniali e di bilancio che hanno
portato ad una tale determinazione>>

Sub 2: <<Il sindacato dell’autorità giudiziaria ha -dunque- natura estrinseca in quanto non può spingersi a
valutare, nel merito, le singole scelte discrezionali che hanno portato la banca a limitare il diritto di
rimborso, dovendosi -invece- limitare a vagliare se tali scelte siano:
motivate,
rispondenti ai criteri di legge;
e non irragionevoli.
Secondo la regola di giudizio espressa sul punto dalla Corte Costituzionale il vaglio rimesso al giudice
ordinario deve consentire quindi di verificare che
i “limiti di rimborso decisi nell’esercizio di tale
facoltà non eccedano quanto necessario, tenuto conto della situazione prudenziale di dette banche, al
fine di garantire che gli strumenti di capitale da essi emessi siano considerati strumenti del capitale
primario di classe 1, alla luce, in particolare, degli elementi di cui all’art’articolo 10, paragrafo 3,
delregolamento delegato n. 241/2014, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare” … All’esito dell’indagine, il Collegio ritiene che -essendo le scelte sindacate da parte attrice conformi alle
disposizioni legali, motivate e ragionevoli- l’autorità giudiziaria non possa entrare nel perimetro della
discrezionalità tecnica- esercitata in modo non abusivo- nella determinazione delle componenti per
determinare la soglia floor, conseguendo gli obiettivi prundenzali previsti dal legislatore.
E, così, il Tribunale non può addentrarsi nella valutazione dell’opportunità e della convenienza degli
alternativi criteri (i.e. il RAF e il livello di patrimonializzazione media delle Banche italiane) che, a
parere dell’attrice, UBI avrebbe dovuto considerare in via sostitutiva di quelli concretamente
selezionati. Una tale ingerenza dell’autorità giudiziaria comporterebbe, infatti, un’illegittima
sostituzione nell’esercizio di un potere discrezionale prerogativa dell’organo amministrativo della
Banca.
La tesi attorea secondo cui la scelta gestoria di UBI è stata dettata da un atteggiamento eccessivamente
prudenziale e, dunque, in ultima analisi orientata a fini ultronei alla salvaguardia del patrimonio di
vigilanza non ha trovato riscontro
>>.

Sub 3 (circa una delle contestazioni):

<< Ritiene il Collegio tale scelta:
legitttima
Sul punto, va sottolineato che l’impianto normativo non impone di rispettare- solo-i
requisiti minimi di capitalizzazione, consentendo soglie di capitalizzazione più elevate
di quelle imposte dalla normativa di vigilanza, attraverso una valutazione
“prudenziale” per così dire supplementare.
Va in proposito richiamata la Circolare n. 285/2013 della Banca D’Italia che, nell’alveo
delle disposizioni europee di cui all’art. 10 Reg. 241/2014, indica che le determinazioni
sul rimborso debbano tenere conto, in un’ottica prudenziale, in particolare:
a. dell’importo del capitale primario di classe 1, del capitale di classe 1 e del capitale
totale in rapporto ai requisiti previsti dall’art. 92 del CRR (..)
b. della complessiva situazione finanziaria, di liquidità e di solvibilità della banca o
del gruppo bancario”;
motivata
Nell’ottica di una sana e prudente gestione, la decisione di conservare un livello di
capitalizzazione maggiore di quella minima è esplicitata nelle dichiarazioni rese da
Andrea Montrasio nell’assemblea del 10.10.2015, ove nel dare conto del criterio di
liquidazione del rimborso del recesso precisa
“trovare un giusto equilibrio tra
l’esercizio di un diritto, che è il diritto di recesso (..) ed un dovere che,t ra l’altro, (..)è
quello di mantenere un patrimonio della banca sufficiente per reggere eventuali
intemperie del mercato”
40
ragionevole
Tale giudizio è rafforzato da un significativo evento verificatosi ex post.
In particolare, poco dopo che il Consiglio di Sorveglianza aveva fatto in concreto
applicazione della formula litigiosa, l’agenzia di
rating Fitch con il comunicato stampa
del 24 marzo 2016
41 ha:
-riqualificato l’
outlook di UBI da stabile a negativo -anche- sulla base del crescente
rischio gravante sul capitale determinato da alcuni crediti problematici

– definito solo “accettabile” il CET1 Ratio registrato da UBI in data 31 dicembre 2015
pari all’11,64%43.
Ciò indica, rispetto ad un operatore di mercato, come il Cet1 ratio di UBI sopra la
frazione del 11,5% fosse appena accettabile data la qualità dell’attivo.
Tale giudizio da parte di un soggetto terzo qualificato rafforza la valutazione di non
arbitrarietà della scelta dell’organo amministrativo di UBI che -ai fini del calcolo
dell’ammontare di risorse proprie destinabili al rimborso delle azioni recedute- ha
applicato un supplementare margine prudenziale rispetto ai requisiti minimi di
patrimonializzazione.
>>

Domanda di annullamneto di delibera societaria per abuso di maggioranza: altro caso di rigetto

Sono rari gli accoglimenti di domande di annullameno di delibere societarie per abuso di maggioranza, sopratutto per il requisito di un intento soggettivo pravo (ma sarebbe da esplorare se bastasse l’assenza di un -qualunque- giovamento prospettico all’attività sociale).

Il Trib. di Milano con sent. 804/2022 del 31.0’1.2022 , RG 50629/2018, rel. MaRCONI, rientra tra i rigetti.  E a ragione, se si condivide l’accertamento fattuale e delle ragini di business alla base dello stesso.

Così accerta e motiva il giudice:

<<Come noto la fattispecie di creazione giurisprudenziale dell’abuso del diritto di voto da parte del socio di maggioranza che determina l’annullabilità della deliberazione assembleare si configura allorché ilsocio eserciti consapevolmente il suo diritto di voto in modo tale da ledere le prerogative degli altri soci senza perseguire alcun interesse sociale, in violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nell’esecuzione del contratto sociale.

La ravvisabilità dell’interesse sociale all’adozione delle delibera esclude, quindi, in radice laconfigurabilità dell’abuso di potere dei soci di maggioranza, fermo restando che, in ogni caso, ilsindacato sull’esercizio del potere discrezionale della maggioranza, reputata dall’ordinamento migliore interprete dell’interesse sociale in considerazione dell’entità maggiore del rischio che corre nell’esercizio dell’attività imprenditoriale comune, deve arrestarsi alla legittimità della deliberazione attraverso l’esame di aspetti all’evidenza sintomatici della violazione della buona fede senza spingersi acomplesse e retrospettive valutazioni di merito in ordine all’opportunità delle scelte di gestione eprogramma dell’attività comune sottese alla delibera adottata.

Nel caso in esame come risulta dal verbale dell’assemblea del 20 luglio 2018 la deliberazione di aumento di capitale da € 400.000 a € 800.000 “ a pagamento e alla pari, nel pieno rispetto del diritto diopzione spettante ai Soci” è stata adottata allo scopo di consentire alla società di sottoscrivere e liberare azioni ordinarie ed uno strumento finanziario partecipativo della Cooperativa EditorialeLariana per consentirle a sua volta di sottoscrivere l’aumento di capitale della Editoriale s.r.l., il tutto finalizzato, previa revoca dello stato di liquidazione delle due società, allo sviluppo di nuove iniziative imprenditoriali nel mondo dell’editoria sfruttando le sinergie fra le due società ( v. doc. 2 di parteattrice a pag. 4).

Come chiaramente spiegato dalla difesa della società convenuta la delibera tendeva a realizzare l’interesse sociale alla ripresa della piena attività ed al salvataggio della società partecipata Editoriale s.r.l., che era stata posta in liquidazione ed iscritta a bilancio al valore simbolico di € 1, con uninvestimento attuato indirettamente, attraverso l’aumento di capitale nella Cooperativa EditorialeLariana, che ne era già socia di maggioranza, finalizzato ad assicurarle la possibilità di godere anche in futuro del contributo governativo riconosciuto, a partire dal 2021, alle società editrici di quotidiani eperiodici solo se integralmente partecipate da una società cooperativa.La ripresa dell’attività della Editoriale s.r.l. avrebbe, poi, consentito alla società convenuta non solo ilrecupero di valore e redditività della partecipazione che diveniva indiretta all’esito dell’operazione ma anche la migliore tutela del suo patrimonio immobiliare, costituito dalla porzione dell’edificio di prestigio in cui esercita l’attività di impresa adiacente alla porzione di proprietà di Editoriale s.r.l., scongiurando il rischio dell’impatto negativo della materiale separazione fra le due porzioni, utilizzate promiscuamente, conseguente alla vendita in sede di liquidazione della parte di proprietà di Editoriales.r.l.

La complessa operazione di finanziamento sottesa alla deliberazione di aumento di capitale era, quindi,chiaramente concepita in funzione dell’evidente interesse della società alla ripresa dell’attività della partecipata Editoriale s.r.l. e la circostanza è sufficiente ad escludere la stessa configurabilità dell’abusodella maggioranza senza che rilevi in alcun modo l’esito negativo dell’operazione, constatato ex post, corrispondente alla realizzazione del normale rischio di impresa che si è, peraltro, risolto in pregiudizioeconomico solo per i soci che hanno partecipato alla ricapitalizzazione.

La diluizione della partecipazione dei soci di minoranza, dunque, costituisce l’effetto naturale dellegittimo esercizio del potere discrezionale della maggioranza di deliberare l’aumento di capitale nell’interesse della società e della libera scelta di non sottoscriverlo degli altri soci che, del resto, neanche hanno mai dedotto in giudizio di essersi trovati nell’impossibilità nota alla maggioranza di far  fronte al relativo impegno finanziario.

Né contrariamente a quanto sostenuto dagli attori la previsione dell’aumento di capitale “alla pari” cioè senza la previsione del sovrapprezzo corrispondente al maggior valore del patrimonio sociale rispetto alcapitale nominale può costituire sintomo di abuso della maggioranza, in presenza della previsione del diritto di opzione a favore di tutti i soci ( v. Tribunale di Milano 6.8.2015 n. 9296).>>

E’ difficile ottenere dagli ex amministratori il risarcimento dei danni per violazione del dovere di istituire assetti adeguati ex art. 2381 cc

Trib. Bologna sent. 1821/2021 del 30.07.2021, RG 11424/2017, rel. Romagnoli, affronta tra gli altri anche il tema inoggetto.ù

<<1. OMESSA PREDISPOSIZIONE DEGLI ASSETTI 2381/5° co. c.c. e SOVVERTIMENTO DEGLI EQUILIBRI TRA CDA e AMM DELEGATI – Quanto agli addebiti ex art. 2381 c.c. il FALLIMENTO attribuisce agli amministratori la dupliceviolazione dell’art 2381 c.c. commi 3 e 5, per avere il Cda da un lato con delibera 9.5.2007 delegato leproprie attribuzioni a tutti i propri componenti, con ciò deprivando il consiglio delle proprieattribuzioni di controllo sull’operato dei delegati (co. 3) e dall’altro per non avere curato l’assettoorganizzativo, amministrativo e contabile in modo adeguato alla natura e dimensioni dell’impresa (co. 5).

Sul punto è necessario sinteticamente delineare la fisionomia e il progetto imprenditoriale della società. La società è stata costituita nel 2001 tra 5 soci noti imprenditori edili (coop Ansaloni, CostruzioniSveco Buriani, Costruzioni Di Giansante, Impresa Montanari) già operanti sul territorio bolognesespecie nell’edilizia pubblica e convenzionata.

Viene costituita in srl con capitale iniziale di 80 mila euro e nel 2004 si trasforma in spa con capitale di500 mila euro (poi aumentato nel 2009 a 2,5 mio).  Emerge con chiarezza in atti che il progetto imprenditoriale è quello di cogliere le opportunità offertedalla nuova legislazione urbanistica LR 20/2000 che introduce i nuovi strumenti di programmazioneurbanistica (PSC, POC e RUE) al posto dei vecchi PRG, con il fine di procurare alle imprese socie ilavori di realizzazione dei nuovi interventi di sviluppo urbanistico del territorio.

Orbene, il dovere di predisporre assetti interni adeguati (che il FALLIMENTO sembra assumereviolato limitatamente all’assetto organizzativo e amministrativo) è chiaramente finalizzato alla tempestiva verifica dei sintomi di crisi dell’impresa e alla tempestiva adozione degli interventi dirimedio; non è, cioè, un obbligo astratto, né risponde a parametri predeterminati e nella fattispecie non è precisato in quale modo, e con quali accorgimenti gli assetti interni sarebbero stati più adeguati o lacrisi dell’impresa rilevata più tempestivamente.

Né è dato sostenere che gli amministratori avrebbero tout court omesso di predisporre assetti interni adeguati – “quantomeno quello organizzativo e amministrativo” – perché la società aveva una struttura semplice, senza distinzione di mansioni né di aree di competenza, né personale alle sue dipendenze.          Osserva il collegio che ciò si deve alla finalità primaria per cui è stata costituita, quella di cogliere le opportunità offerte dalla nuova legislazione urbanistica del territorio bolognese all’indomani dell’approvazione della LR 20/2000 e, verosimilmente, alla circostanza che la società non è mai giuntaa realizzare l’obiettivo della progettazione e realizzazione dei nuovi insediamenti urbanistici.

Ad ogni modo, osserva il collegio che la norma ove prevede che gli assetti debbano essere adeguati allanatura e alle dimensioni dell’impresa chiaramente rimanda ad una valutazione nel concreto ed alla necessaria individuazione di carenze che abbiano ragionevolmente posticipato l’emersione del dissesto;

in ogni caso, e conclusivamente, osserva il collegio che l’obbligo di predisporre assetti adeguati non può essere svincolato dalle conseguenze pregiudizievoli che direttamente la sua violazione possa avere determinato, cosicchè nella fattispecie la mancata allegazione di alcun danno (che il FALLIMENTO esplicita essere richiesto unicamente per le acquisizioni dei terreni, su cui infra) conduce a ritenere infondato l’addebito di responsabilità.

Quanto alla violazione dell’art. 2381 c.c. là dove demanda al consiglio di amministrazione il controllo sull’operato degli amministratori delegati (3° co.) – che nella fattispecie sarebbe stato eluso con il conferimento a tutti gli amministratori, presidente compreso, disgiuntamente tra loro, di ampie deleghedi ordinaria e straordinaria amministrazione (doc. 11 FALL.) – basti osservare che la norma non impone la composizione “mista” del consiglio, composto da amministratori delegati e da amministratori privi di deleghe e che il CdA, come organo collegiale, non perde la sua autonomia né isuoi poteri di impulso e controllo sull’attività dei suoi delegati per il fatto di essere compostounicamente da AD;    nella fattispecie, inoltre, emerge dai verbali del CdA (prodotti dal FALLIMENTO)che gli amministratori delegati riferivano analiticamente in collegio sull’attività espletata e in particolare che le operazioni inerenti i terreni acquisiti o da acquisire erano approvate all’unanimità deicomponenti, ciò che dimostra che l’attività di controllo del CdA come organo collegiale veniva regolarmente espletata.

In ultima analisi, osserva il collegio che non sono censurati singoli atti compiuti dagli amministratori in virtù delle deleghe operative che non siano stati oggetto di verifica da parte del CdA e soprattutto che,ancora una volta, non viene allegato alcun danno derivante dalla pretesa violazione, sicchè l’addebitoancora una volta si apprezza infondato>>.

Piccolo appunto.   Prima di ragionar sul danno, bisogna individuare l’inadempimento. E trattandosi di assetti asseritamente inadeguati (o mancanti del tutto) , il giudice avrebbe allora dovuto affrontare il tema della esistenza o meno di negligenza organizzativa (a prescidere dal danno, lo ripeto): cosa che non ha fatto, essendo rimasto assai sulle generiche.

Recesso per mutamento delle condizioni di rischio (art. 2497 quater.c cod. civ.) e per rimozione di vincoli alla circolazione della partecipazione (art. 2437.2.b cod. civ.)

Cass. 20.546 del 27 giugno 2022 , rel. Fidanzia, interviene sui due temi in oggetto.

Circa il primo (in particolare circa il requisuito della alteraizone delle condizoni di rischio) , insegna che basta sia potenziale:

<<Non vi è dubbio che, affinchè possa ritenersi integrato il secondo requisito della causa di recesso previ(OMISSIS) dall’art. 2497 quater lett c) c.c., si condivide, in linea di principio, l’impostazione della ricorrente secondo cui non è indispensabile che l’inizio della direzione e coordinamento abbia già prodotto un’immediata alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento, essendo, invece, sufficiente l’esistenza di una potenzialità modificativa (in peius) delle stesse, e che la prova di tale alterazione possa essere fornita valorizzando circostanze successive alla dichiarazione di recesso>>.

Affermazione importante.

Nel caso specifico però non ravvisa la fattispecie legale: <<Va, tuttavia, osservato che la Corte d’Appello ha, in modo assorbente, comunque esaustivamente argomentato come l’incremento dell’appostazione del fondo rischi, nel bilancio 2013 di (OMISSIS), non avesse determinato un’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento in quanto svincolato da nesso di causalità con la modifica della direzione e controllo.

In particolare, la Corte d’Appello ha motivatamente escluso che l’incremento della posta “accantonamento per rischi e oneri futuri” costituisse attività gestoria discrezionale riconducibile alla direzione e coordinamento della nuova controllante, atteso che i fatti generatori della perdita erano antecedenti alla gestione della nuova società e l’incremento era stato imposto dalle risultanze delle due consulenze tecniche.>>

(non chiaro come l’aumento della posta di accantonamento possa alterare le condizioni di rischio).

Circa il secondo tema, dice che basta una rimozione purchessia, anche se relativa al solo caso di vendita a società controllate, per far scatare il diritto di rrcesso:

<<Questo Collegio condivide l’impostazione della ricorrente secondo cui, al fine di accertare la legittimità del recesso, a norma dell’art. 2437 c.c., comma 1 lett a), è sufficiente verificare se la modifica statutaria abbia rimosso un limite alla circolazione delle azioni prima esistente, indipendentemente dal fatto se tale modifica abbia o meno una rilevanza sostanziale rispetto alla precedente disciplina.

In primo luogo, assai persuasiva è la valorizzazione del dato letterale in altra ipotesi di recesso concernente la modifica della clausola che disciplina l’oggetto sociale, a norma dell’art. 2437 comma 1 lett a) c.c., è stato lo stesso legislatore a richiedere espressamente la rilevanza sostanziale della modifica statutaria. Ne consegue che se, nell’ipotesi di cui è causa, il legislatore non ha richiesto tale ulteriore requisito, vuol dire che ai fini del recesso è sufficiente una qualsiasi modifica statutaria idonea a rimuovere i limiti alla circolazione delle azioni (sul punto, la previsione, nel caso di specie, della possibilità di cedere liberamente le azioni alle società controllate, prima non contemplata, si muove indubbiamente in quella direzione).

Anche gli altri argomenti di natura sistematica evidenziati dalla ricorrente sono convincenti: nell’ipotesi previ(OMISSIS) dall’art. 2437 comma 1 lett a) c.c. la legge richiede, a differenza che nell’ipotesi di cui al comma 2 lett b) dello stesso articolo – quella di cui è causa – la modifica so(OMISSIS)nziale della clausola dell’oggetto sociale, dal momento che, trattandosi di una ipotesi tassativa ed inderogabile di recesso, per scongiurare che la società sia privata delle fonti del proprio approvvigionamento (costituite dai conferimenti dei soci) anche a fronte di modifiche solo formali delle proprie clausole, è necessario che la variazione abbia avuto un impatto significativo. Al contrario, in caso di introduzione o rimozione di vincoli alla circolazione delle azioni, non si pone l’esigenza di tale ulteriore cautela, dal momento che il diritto di recesso può comunque essere convenzionalmente escluso dalle parti (l’art. 2437 comma 2 cod. cv. esordisce, infatti, con la locuzione “salvo che lo statuto disponga diversamente).

In particolare, in questo caso, le parti hanno già uno strumento per soddisfare l’esigenza di evitare che il recesso possa essere collegato a modifiche da essi non considerate sostanziali, potendo, a monte, escludere per le stesse modifiche la stessa astratta possibilità del recesso.

Infine, depone per un’interpretazione dell’art. 2437 comma 1 lett a) c.c., che assicuri, in radice, la certezza sulle condizioni di uscita da una società per azioni, il disposto dell’art. 2355 bis comma 4 c.c., che impone tutte le limitazioni alla circolazione delle azioni debbano risultare dal titolo azionario: se il legislatore ha prescritto che l’introduzione e la rimozione dei vincoli debba essere sempre comunque annotata sul titolo, anche quando non si tratta modifica sostanziale, sarebbe incoerente introdurre, invece, in caso di recesso, tale ulteriore requisito, che comporta necessariamente delle valutazioni di natura discrezionale.>>

Affermazione condivisibile ma non difficile da sostenere, in assenza di ogni dato testuale a supporto della tesi contraria.

La Cassazione sulla riserva da (ri-)valutazione delle partecipazoni col metodo del patrimonio netto (art. 2426 n. 4/3 cc)

Nel caso di cambio di metodo di stima (da costo di acquisto a patrimonio  netto pro quota)  delle partecipazooni in società collegate o controllate, l’art. 2426 n. 4.3 impone di costituire una riserva non distribuibile.

Si pone allora il problema se questa possa essere usata a copertura perdite e anzi se costuisca componente reddituale per compensare perdite di esercizio e permettere la distribuzione di dividendi (così la censura di alcuni soci alla società).

L’interssante argomento (son pochissime le decisioni della SC in tema di valutazioni di bilancio) è esplorato da Cass. sez. I 12.05.2022 n. 15.087, rel. Nazzicone.

La SC si occupa della prima parte del problemA : <<Entrambi i ricorsi, pur articolando vari motivi, propongono la seguente questione: se ed a quali condizioni sia legittimo l’utilizzo a copertura delle perdite di esercizio – in tal modo rendendo lecita la ripartizione di utili ai soci, cui invece, ai sensi dell’art. 2433 c.c., comma 3, non potrebbe farsi luogo in presenza di perdite “fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente” – della riserva non distribuibile costituita, ai sensi dell’art. 2426 c.c., comma 1, n. 4, mediante la valutazione alla stregua del criterio del patrimonio netto, in luogo che in base al criterio del costo di acquisto prescritto dal n. 1 della medesima disposizione, delle partecipazioni in società controllate, la quale abbia fatto emergere una plusvalenza iscritta nella detta riserva.>>, § 4.

La scelta è discrezionale per il CdA: <<La valutazione secondo il metodo del patrimonio netto, invece, lascia emergere la c.d. sostanza economica del bene, come può essere più proficuo in talune evenienze, onde la riserva viene iscritta nel bilancio dall’organo amministrativo che opta per tale criterio. Ma torna la logica prudenziale, laddove la legge impone la costituzione di una “riserva non distribuibile” ai soci: in quanto potrebbe, allora, operarsi una distribuzione di utili solo sperati e, di fatto, la restituzione di patrimonio ai soci e la lesione dell’integrità del capitale sociale.

La regola è dunque dettata per evitare il rischio di indebite fuoriuscite di ricchezza dal patrimonio della società, ed, in particolare, la distribuzione di ricchezza tra i soci, impoverendo il patrimonio dell’ente e ponendo così a repentaglio le ragioni dei creditori, i quali invece hanno diritto ad essere soddisfatti con priorità rispetto ai soci (così Cass. 23 marzo 2004, n. 5740).

Al riguardo, questa Corte ha già avuto modo di rilevare l’esistenza di un potere discrezionale di rivalutazione da parte degli amministratori, ma sempre secondo i criteri di legge, statuendo che non è in sé illecita, in tema di azione di responsabilità contro gli amministratori, la mancata rivalutazione in bilancio delle partecipazioni in imprese controllate o collegate, pure consentita dall’art. 2426 c.c., comma 1, n. 4, perché si tratta di una scelta discrezionale rimessa all’organo gestorio, che ha la facoltà, e non l’obbligo, di valutare le menzionate immobilizzazioni finanziarie con il metodo del patrimonio netto, seguendo le modalità indicate dalla norma, invece di iscriverle al costo di acquisto (Cass. 28 maggio 2020, n. 10096).>> § 4.2.

L’imputazione delle riserve a copertura delle perdite : <<Ma se il capitale è tuttora elemento preservato dal legislatore, in vista delle funzioni che gli competono, allora va confermato il principio secondo cui esso può essere eliso dalle perdite solo dopo l’assorbimento delle riserve, intaccate però dalle perdite sulla base di un ordine successivo, il quale comporta l’imputazione delle medesime secondo una progressione rigida: dalla riserva meno vincolata e più disponibile alla riserva più vincolata e, quindi, meno disponibile. (….) Si tratta di principio posto a tutela di un interesse più generale, che trascende quello del singolo socio, essendo dettato, in particolare, a protezione dell’affidamento che i terzi abbiano fatto sulla consistenza del capitale sociale, che, perciò, non può essere intaccato prima che siano state esaurite le altre voci del patrimonio stesso.

Deve, dunque, confermarsi il principio, secondo cui le riserve appostate al passivo dello stato patrimoniale di una società di capitali possono essere imputate a riduzione delle perdite (salvo diversa specifica previsione normativa) solo in un ordine di progressiva minore disponibilità, da ultimo residuando, in tal caso secondo le maggioranze dell’assemblea straordinaria, l’operazione di riduzione del capitale sociale.>>

 – La riserva non distribuibile ex art. 2426 c.c., comma 1, n. 4.: << … Quella in esame è dunque, giocoforza, una riserva che deve essere intaccata – per il principio di imputazione delle riserve dalla meno vincolata alla più vincolata – solo dopo che altre riserve prive del vincolo di non distribuibilità siano state già erose dalle perdite.

Nell’ambito delle poste del patrimonio netto, pertanto, se si può aderire all’opinione secondo cui la riserva da plusvalenza del valore delle controllate è utilizzabile a copertura delle perdite, tuttavia proprio per evitare l’effetto indiretto di derogare di fatto al regime della indistribuibilità è necessario che, per la regola della graduazione delle voci iscritte al patrimonio netto, difettino in bilancio poste del netto più liberamente disponibili. Onde essa potrà essere utilizzata per ridurre o eliminare le perdite soltanto dopo ogni altra riserva distribuibile iscritta in bilancio, ma prima del capitale; in mancanza, si verificherebbe la “liberazione” della riserva dal suo status di maggiore tutela, prima che le altre riserve siano state utilizzate a tal fine, in dispregio della ratio della disposizione.  …. In sostanza, in tal caso le riserve derivanti dal metodo del patrimonio netto o da quello del fair value sono utilizzabili solo dopo le riserve disponibili e la riserva legale, in quanto riserve da utili realizzati, anteposte a quelle da utili non realizzati. Pertanto, il principio prudenziale ha consigliato di prevedere sì la facoltà di utilizzare, per la copertura delle perdite di esercizio, le riserve indisponibili derivanti da dette plusvalenze: ma pur sempre dopo l’imputazione a riduzione delle perdite di ogni altra riserva in bilancio, ivi compresa la riserva legale>>, § 4.6.

Si afferma (§ 2.1) che il principio contabile nazionale n. 21 dell’OCI (valutazione delle parteipazioni) è fonte normativa: non viene però chiarito tramite quale atto normativo.

Confusione tra liquidazione della quota e liquidazione della società in una società in nome collettivo

Cass. n. 9135 del 21.03.2022 , rel. Dongiacomo, fa luce sul tema.

<<Nella società di persone, in effetti, anche se composta da due soli soci, la morte di uno dei soci determina lo scioglimento del rapporto particolare del socio defunto alla data del suo decesso mentre i suoi eredi acquistano contestualmente il diritto alla liquidazione della quota secondo i criteri fissati dall’art. 2289 c.c., vale a dire un diritto di credito ad una somma di denaro equivalente al valore della quota del socio defunto in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento (Cass. 10802 del 2009) per cui, salvo che si verifichi l’ipotesi disciplinata dall’ultima parte dell’art. 2284 c.c. (“salvo contraria disposizione del contratto sociale, in caso di morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano”), e cioè la continuazione della società per volontà del socio superstite e degli eredi del socio defunto, questi ultimi rimangono estranei alla società, di cui assumono la veste di creditori della somma di denaro equivalente al valore della quota del de cuius.     Nelle società di persone, infatti, gli eredi del socio defunto non acquisiscono la posizione di quest’ultimo nell’ambito della società e non assumono pertanto la qualità di soci, ma hanno soltanto il diritto (che sorge indipendentemente dal fatto che la società continui o si sciolga) alla liquidazione della quota del loro dante causa (Cass. n. 3671 del 2001).

In definitiva, anche nella società di persone composta da due soli soci, ove la morte di un socio determini il venir meno della pluralità dei soci, non può riconoscersi un diritto degli eredi del socio defunto a partecipare alla liquidazione della società ed a pretendere una quota di liquidazione, anziché il controvalore in denaro della quota di partecipazione, in quanto lo scioglimento della società costituisce un momento successivo ed eventuale rispetto allo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio e trova causa non tanto nel venir meno della pluralità dei soci quanto nel persistere per oltre sei mesi della mancanza della pluralità medesima (Cass. n. 8670 del 2000).

Nei casi di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio (e la morte del socio è uno di questi), perfezionatosi prima del verificarsi di una causa di scioglimento della società, al socio uscente (ed, in caso di morte, ai suoi eredi) spetta, pertanto, soltanto la liquidazione della sua quota ai sensi dell’art. 2289 c.c. e non il diritto, che presuppone l’acquisto della qualità di socio, alla quota di liquidazione della società quale risulta all’esito del riparto del patrimonio sociale (residuo al pagamento dei debiti sociali ai sensi degli artt. 2280 e 2282 c.c.) fra tutti i soci (Cass. n. 9397 del 2011)>>

Principio al limite dell’ovvio: una cosa è essere creditori del valore della quota caduta in eredità ma on cosiM; cosa giuridicamnte assai diversa è essere creditori della quota di liquidazione dell’ente in quanto soci.

Applkcati questi principi al caso , segue la critica alla sentenza di appello: <<Non può, dunque, condividersi la soluzione seguita dalla sentenza impugnata: lì dove, in sede di scioglimento della comunione ereditaria tra gli eredi del socio defunto, ha, in sostanza, provveduto non già, come avrebbe dovuto fare, a dividere l’eredità tra i due coeredi, attribuendo agli stessi (tra l’altro) il diritto (nei confronti della società) alla liquidazione della quota già spettante al defunto, ma, in difetto di qualsivoglia domanda giudiziale in tal senso, a liquidare il patrimonio sociale, ripartendolo tra il coerede che era anche socio superstite, cui ha assegnato l’azienda sociale, ed il coerede non socio, cui ha attribuito il diritto al relativo conguaglio (“al coerede estraneo alla compagine sociale, impossibilitato (oltre che non interessato) a subentrare al de cuius in una società che neppure il socio superstite aveva intenzione di proseguire, spetta, pertanto, in sede di scioglimento della comunione ereditaria, una somma pari alla metà del valore della quota aziendale di pertinenza del padre al momento dell’apertura della successione, fermo restando che in tal modo l’intera azienda rimane attribuita al coerede che in vita del de cuius era socio con la quota del 2%…). Il diritto che spetta ai soci superstiti in sede di divisione di un’eredità che comprenda una quota di società di persone non e’, infatti, quello al riparto conseguente allo scioglimento dell’ente collettivo, che comporta la cessazione del rapporto sociale con effetti per tutti i soci con conseguente suddivisione tra tutti i partecipanti del patrimonio residuato al pagamento dei debiti, ma quello, previsto dagli artt. 2284 e 2289 c.c., alla liquidazione della quota del singolo socio nei confronti del quale, per effetto della sua morte, si è sciolto il rapporto sociale, che non è il diritto ad una parte del patrimonio sociale ma solo ad una somma di denaro corrispondente al valore della partecipazione.>>