E’ difficile ottenere dagli ex amministratori il risarcimento dei danni per violazione del dovere di istituire assetti adeguati ex art. 2381 cc

Trib. Bologna sent. 1821/2021 del 30.07.2021, RG 11424/2017, rel. Romagnoli, affronta tra gli altri anche il tema inoggetto.ù

<<1. OMESSA PREDISPOSIZIONE DEGLI ASSETTI 2381/5° co. c.c. e SOVVERTIMENTO DEGLI EQUILIBRI TRA CDA e AMM DELEGATI – Quanto agli addebiti ex art. 2381 c.c. il FALLIMENTO attribuisce agli amministratori la dupliceviolazione dell’art 2381 c.c. commi 3 e 5, per avere il Cda da un lato con delibera 9.5.2007 delegato leproprie attribuzioni a tutti i propri componenti, con ciò deprivando il consiglio delle proprieattribuzioni di controllo sull’operato dei delegati (co. 3) e dall’altro per non avere curato l’assettoorganizzativo, amministrativo e contabile in modo adeguato alla natura e dimensioni dell’impresa (co. 5).

Sul punto è necessario sinteticamente delineare la fisionomia e il progetto imprenditoriale della società. La società è stata costituita nel 2001 tra 5 soci noti imprenditori edili (coop Ansaloni, CostruzioniSveco Buriani, Costruzioni Di Giansante, Impresa Montanari) già operanti sul territorio bolognesespecie nell’edilizia pubblica e convenzionata.

Viene costituita in srl con capitale iniziale di 80 mila euro e nel 2004 si trasforma in spa con capitale di500 mila euro (poi aumentato nel 2009 a 2,5 mio).  Emerge con chiarezza in atti che il progetto imprenditoriale è quello di cogliere le opportunità offertedalla nuova legislazione urbanistica LR 20/2000 che introduce i nuovi strumenti di programmazioneurbanistica (PSC, POC e RUE) al posto dei vecchi PRG, con il fine di procurare alle imprese socie ilavori di realizzazione dei nuovi interventi di sviluppo urbanistico del territorio.

Orbene, il dovere di predisporre assetti interni adeguati (che il FALLIMENTO sembra assumereviolato limitatamente all’assetto organizzativo e amministrativo) è chiaramente finalizzato alla tempestiva verifica dei sintomi di crisi dell’impresa e alla tempestiva adozione degli interventi dirimedio; non è, cioè, un obbligo astratto, né risponde a parametri predeterminati e nella fattispecie non è precisato in quale modo, e con quali accorgimenti gli assetti interni sarebbero stati più adeguati o lacrisi dell’impresa rilevata più tempestivamente.

Né è dato sostenere che gli amministratori avrebbero tout court omesso di predisporre assetti interni adeguati – “quantomeno quello organizzativo e amministrativo” – perché la società aveva una struttura semplice, senza distinzione di mansioni né di aree di competenza, né personale alle sue dipendenze.          Osserva il collegio che ciò si deve alla finalità primaria per cui è stata costituita, quella di cogliere le opportunità offerte dalla nuova legislazione urbanistica del territorio bolognese all’indomani dell’approvazione della LR 20/2000 e, verosimilmente, alla circostanza che la società non è mai giuntaa realizzare l’obiettivo della progettazione e realizzazione dei nuovi insediamenti urbanistici.

Ad ogni modo, osserva il collegio che la norma ove prevede che gli assetti debbano essere adeguati allanatura e alle dimensioni dell’impresa chiaramente rimanda ad una valutazione nel concreto ed alla necessaria individuazione di carenze che abbiano ragionevolmente posticipato l’emersione del dissesto;

in ogni caso, e conclusivamente, osserva il collegio che l’obbligo di predisporre assetti adeguati non può essere svincolato dalle conseguenze pregiudizievoli che direttamente la sua violazione possa avere determinato, cosicchè nella fattispecie la mancata allegazione di alcun danno (che il FALLIMENTO esplicita essere richiesto unicamente per le acquisizioni dei terreni, su cui infra) conduce a ritenere infondato l’addebito di responsabilità.

Quanto alla violazione dell’art. 2381 c.c. là dove demanda al consiglio di amministrazione il controllo sull’operato degli amministratori delegati (3° co.) – che nella fattispecie sarebbe stato eluso con il conferimento a tutti gli amministratori, presidente compreso, disgiuntamente tra loro, di ampie deleghedi ordinaria e straordinaria amministrazione (doc. 11 FALL.) – basti osservare che la norma non impone la composizione “mista” del consiglio, composto da amministratori delegati e da amministratori privi di deleghe e che il CdA, come organo collegiale, non perde la sua autonomia né isuoi poteri di impulso e controllo sull’attività dei suoi delegati per il fatto di essere compostounicamente da AD;    nella fattispecie, inoltre, emerge dai verbali del CdA (prodotti dal FALLIMENTO)che gli amministratori delegati riferivano analiticamente in collegio sull’attività espletata e in particolare che le operazioni inerenti i terreni acquisiti o da acquisire erano approvate all’unanimità deicomponenti, ciò che dimostra che l’attività di controllo del CdA come organo collegiale veniva regolarmente espletata.

In ultima analisi, osserva il collegio che non sono censurati singoli atti compiuti dagli amministratori in virtù delle deleghe operative che non siano stati oggetto di verifica da parte del CdA e soprattutto che,ancora una volta, non viene allegato alcun danno derivante dalla pretesa violazione, sicchè l’addebitoancora una volta si apprezza infondato>>.

Piccolo appunto.   Prima di ragionar sul danno, bisogna individuare l’inadempimento. E trattandosi di assetti asseritamente inadeguati (o mancanti del tutto) , il giudice avrebbe allora dovuto affrontare il tema della esistenza o meno di negligenza organizzativa (a prescidere dal danno, lo ripeto): cosa che non ha fatto, essendo rimasto assai sulle generiche.

Recesso per mutamento delle condizioni di rischio (art. 2497 quater.c cod. civ.) e per rimozione di vincoli alla circolazione della partecipazione (art. 2437.2.b cod. civ.)

Cass. 20.546 del 27 giugno 2022 , rel. Fidanzia, interviene sui due temi in oggetto.

Circa il primo (in particolare circa il requisuito della alteraizone delle condizoni di rischio) , insegna che basta sia potenziale:

<<Non vi è dubbio che, affinchè possa ritenersi integrato il secondo requisito della causa di recesso previ(OMISSIS) dall’art. 2497 quater lett c) c.c., si condivide, in linea di principio, l’impostazione della ricorrente secondo cui non è indispensabile che l’inizio della direzione e coordinamento abbia già prodotto un’immediata alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento, essendo, invece, sufficiente l’esistenza di una potenzialità modificativa (in peius) delle stesse, e che la prova di tale alterazione possa essere fornita valorizzando circostanze successive alla dichiarazione di recesso>>.

Affermazione importante.

Nel caso specifico però non ravvisa la fattispecie legale: <<Va, tuttavia, osservato che la Corte d’Appello ha, in modo assorbente, comunque esaustivamente argomentato come l’incremento dell’appostazione del fondo rischi, nel bilancio 2013 di (OMISSIS), non avesse determinato un’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento in quanto svincolato da nesso di causalità con la modifica della direzione e controllo.

In particolare, la Corte d’Appello ha motivatamente escluso che l’incremento della posta “accantonamento per rischi e oneri futuri” costituisse attività gestoria discrezionale riconducibile alla direzione e coordinamento della nuova controllante, atteso che i fatti generatori della perdita erano antecedenti alla gestione della nuova società e l’incremento era stato imposto dalle risultanze delle due consulenze tecniche.>>

(non chiaro come l’aumento della posta di accantonamento possa alterare le condizioni di rischio).

Circa il secondo tema, dice che basta una rimozione purchessia, anche se relativa al solo caso di vendita a società controllate, per far scatare il diritto di rrcesso:

<<Questo Collegio condivide l’impostazione della ricorrente secondo cui, al fine di accertare la legittimità del recesso, a norma dell’art. 2437 c.c., comma 1 lett a), è sufficiente verificare se la modifica statutaria abbia rimosso un limite alla circolazione delle azioni prima esistente, indipendentemente dal fatto se tale modifica abbia o meno una rilevanza sostanziale rispetto alla precedente disciplina.

In primo luogo, assai persuasiva è la valorizzazione del dato letterale in altra ipotesi di recesso concernente la modifica della clausola che disciplina l’oggetto sociale, a norma dell’art. 2437 comma 1 lett a) c.c., è stato lo stesso legislatore a richiedere espressamente la rilevanza sostanziale della modifica statutaria. Ne consegue che se, nell’ipotesi di cui è causa, il legislatore non ha richiesto tale ulteriore requisito, vuol dire che ai fini del recesso è sufficiente una qualsiasi modifica statutaria idonea a rimuovere i limiti alla circolazione delle azioni (sul punto, la previsione, nel caso di specie, della possibilità di cedere liberamente le azioni alle società controllate, prima non contemplata, si muove indubbiamente in quella direzione).

Anche gli altri argomenti di natura sistematica evidenziati dalla ricorrente sono convincenti: nell’ipotesi previ(OMISSIS) dall’art. 2437 comma 1 lett a) c.c. la legge richiede, a differenza che nell’ipotesi di cui al comma 2 lett b) dello stesso articolo – quella di cui è causa – la modifica so(OMISSIS)nziale della clausola dell’oggetto sociale, dal momento che, trattandosi di una ipotesi tassativa ed inderogabile di recesso, per scongiurare che la società sia privata delle fonti del proprio approvvigionamento (costituite dai conferimenti dei soci) anche a fronte di modifiche solo formali delle proprie clausole, è necessario che la variazione abbia avuto un impatto significativo. Al contrario, in caso di introduzione o rimozione di vincoli alla circolazione delle azioni, non si pone l’esigenza di tale ulteriore cautela, dal momento che il diritto di recesso può comunque essere convenzionalmente escluso dalle parti (l’art. 2437 comma 2 cod. cv. esordisce, infatti, con la locuzione “salvo che lo statuto disponga diversamente).

In particolare, in questo caso, le parti hanno già uno strumento per soddisfare l’esigenza di evitare che il recesso possa essere collegato a modifiche da essi non considerate sostanziali, potendo, a monte, escludere per le stesse modifiche la stessa astratta possibilità del recesso.

Infine, depone per un’interpretazione dell’art. 2437 comma 1 lett a) c.c., che assicuri, in radice, la certezza sulle condizioni di uscita da una società per azioni, il disposto dell’art. 2355 bis comma 4 c.c., che impone tutte le limitazioni alla circolazione delle azioni debbano risultare dal titolo azionario: se il legislatore ha prescritto che l’introduzione e la rimozione dei vincoli debba essere sempre comunque annotata sul titolo, anche quando non si tratta modifica sostanziale, sarebbe incoerente introdurre, invece, in caso di recesso, tale ulteriore requisito, che comporta necessariamente delle valutazioni di natura discrezionale.>>

Affermazione condivisibile ma non difficile da sostenere, in assenza di ogni dato testuale a supporto della tesi contraria.

La Cassazione sulla riserva da (ri-)valutazione delle partecipazoni col metodo del patrimonio netto (art. 2426 n. 4/3 cc)

Nel caso di cambio di metodo di stima (da costo di acquisto a patrimonio  netto pro quota)  delle partecipazooni in società collegate o controllate, l’art. 2426 n. 4.3 impone di costituire una riserva non distribuibile.

Si pone allora il problema se questa possa essere usata a copertura perdite e anzi se costuisca componente reddituale per compensare perdite di esercizio e permettere la distribuzione di dividendi (così la censura di alcuni soci alla società).

L’interssante argomento (son pochissime le decisioni della SC in tema di valutazioni di bilancio) è esplorato da Cass. sez. I 12.05.2022 n. 15.087, rel. Nazzicone.

La SC si occupa della prima parte del problemA : <<Entrambi i ricorsi, pur articolando vari motivi, propongono la seguente questione: se ed a quali condizioni sia legittimo l’utilizzo a copertura delle perdite di esercizio – in tal modo rendendo lecita la ripartizione di utili ai soci, cui invece, ai sensi dell’art. 2433 c.c., comma 3, non potrebbe farsi luogo in presenza di perdite “fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente” – della riserva non distribuibile costituita, ai sensi dell’art. 2426 c.c., comma 1, n. 4, mediante la valutazione alla stregua del criterio del patrimonio netto, in luogo che in base al criterio del costo di acquisto prescritto dal n. 1 della medesima disposizione, delle partecipazioni in società controllate, la quale abbia fatto emergere una plusvalenza iscritta nella detta riserva.>>, § 4.

La scelta è discrezionale per il CdA: <<La valutazione secondo il metodo del patrimonio netto, invece, lascia emergere la c.d. sostanza economica del bene, come può essere più proficuo in talune evenienze, onde la riserva viene iscritta nel bilancio dall’organo amministrativo che opta per tale criterio. Ma torna la logica prudenziale, laddove la legge impone la costituzione di una “riserva non distribuibile” ai soci: in quanto potrebbe, allora, operarsi una distribuzione di utili solo sperati e, di fatto, la restituzione di patrimonio ai soci e la lesione dell’integrità del capitale sociale.

La regola è dunque dettata per evitare il rischio di indebite fuoriuscite di ricchezza dal patrimonio della società, ed, in particolare, la distribuzione di ricchezza tra i soci, impoverendo il patrimonio dell’ente e ponendo così a repentaglio le ragioni dei creditori, i quali invece hanno diritto ad essere soddisfatti con priorità rispetto ai soci (così Cass. 23 marzo 2004, n. 5740).

Al riguardo, questa Corte ha già avuto modo di rilevare l’esistenza di un potere discrezionale di rivalutazione da parte degli amministratori, ma sempre secondo i criteri di legge, statuendo che non è in sé illecita, in tema di azione di responsabilità contro gli amministratori, la mancata rivalutazione in bilancio delle partecipazioni in imprese controllate o collegate, pure consentita dall’art. 2426 c.c., comma 1, n. 4, perché si tratta di una scelta discrezionale rimessa all’organo gestorio, che ha la facoltà, e non l’obbligo, di valutare le menzionate immobilizzazioni finanziarie con il metodo del patrimonio netto, seguendo le modalità indicate dalla norma, invece di iscriverle al costo di acquisto (Cass. 28 maggio 2020, n. 10096).>> § 4.2.

L’imputazione delle riserve a copertura delle perdite : <<Ma se il capitale è tuttora elemento preservato dal legislatore, in vista delle funzioni che gli competono, allora va confermato il principio secondo cui esso può essere eliso dalle perdite solo dopo l’assorbimento delle riserve, intaccate però dalle perdite sulla base di un ordine successivo, il quale comporta l’imputazione delle medesime secondo una progressione rigida: dalla riserva meno vincolata e più disponibile alla riserva più vincolata e, quindi, meno disponibile. (….) Si tratta di principio posto a tutela di un interesse più generale, che trascende quello del singolo socio, essendo dettato, in particolare, a protezione dell’affidamento che i terzi abbiano fatto sulla consistenza del capitale sociale, che, perciò, non può essere intaccato prima che siano state esaurite le altre voci del patrimonio stesso.

Deve, dunque, confermarsi il principio, secondo cui le riserve appostate al passivo dello stato patrimoniale di una società di capitali possono essere imputate a riduzione delle perdite (salvo diversa specifica previsione normativa) solo in un ordine di progressiva minore disponibilità, da ultimo residuando, in tal caso secondo le maggioranze dell’assemblea straordinaria, l’operazione di riduzione del capitale sociale.>>

 – La riserva non distribuibile ex art. 2426 c.c., comma 1, n. 4.: << … Quella in esame è dunque, giocoforza, una riserva che deve essere intaccata – per il principio di imputazione delle riserve dalla meno vincolata alla più vincolata – solo dopo che altre riserve prive del vincolo di non distribuibilità siano state già erose dalle perdite.

Nell’ambito delle poste del patrimonio netto, pertanto, se si può aderire all’opinione secondo cui la riserva da plusvalenza del valore delle controllate è utilizzabile a copertura delle perdite, tuttavia proprio per evitare l’effetto indiretto di derogare di fatto al regime della indistribuibilità è necessario che, per la regola della graduazione delle voci iscritte al patrimonio netto, difettino in bilancio poste del netto più liberamente disponibili. Onde essa potrà essere utilizzata per ridurre o eliminare le perdite soltanto dopo ogni altra riserva distribuibile iscritta in bilancio, ma prima del capitale; in mancanza, si verificherebbe la “liberazione” della riserva dal suo status di maggiore tutela, prima che le altre riserve siano state utilizzate a tal fine, in dispregio della ratio della disposizione.  …. In sostanza, in tal caso le riserve derivanti dal metodo del patrimonio netto o da quello del fair value sono utilizzabili solo dopo le riserve disponibili e la riserva legale, in quanto riserve da utili realizzati, anteposte a quelle da utili non realizzati. Pertanto, il principio prudenziale ha consigliato di prevedere sì la facoltà di utilizzare, per la copertura delle perdite di esercizio, le riserve indisponibili derivanti da dette plusvalenze: ma pur sempre dopo l’imputazione a riduzione delle perdite di ogni altra riserva in bilancio, ivi compresa la riserva legale>>, § 4.6.

Si afferma (§ 2.1) che il principio contabile nazionale n. 21 dell’OCI (valutazione delle parteipazioni) è fonte normativa: non viene però chiarito tramite quale atto normativo.

Confusione tra liquidazione della quota e liquidazione della società in una società in nome collettivo

Cass. n. 9135 del 21.03.2022 , rel. Dongiacomo, fa luce sul tema.

<<Nella società di persone, in effetti, anche se composta da due soli soci, la morte di uno dei soci determina lo scioglimento del rapporto particolare del socio defunto alla data del suo decesso mentre i suoi eredi acquistano contestualmente il diritto alla liquidazione della quota secondo i criteri fissati dall’art. 2289 c.c., vale a dire un diritto di credito ad una somma di denaro equivalente al valore della quota del socio defunto in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento (Cass. 10802 del 2009) per cui, salvo che si verifichi l’ipotesi disciplinata dall’ultima parte dell’art. 2284 c.c. (“salvo contraria disposizione del contratto sociale, in caso di morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano”), e cioè la continuazione della società per volontà del socio superstite e degli eredi del socio defunto, questi ultimi rimangono estranei alla società, di cui assumono la veste di creditori della somma di denaro equivalente al valore della quota del de cuius.     Nelle società di persone, infatti, gli eredi del socio defunto non acquisiscono la posizione di quest’ultimo nell’ambito della società e non assumono pertanto la qualità di soci, ma hanno soltanto il diritto (che sorge indipendentemente dal fatto che la società continui o si sciolga) alla liquidazione della quota del loro dante causa (Cass. n. 3671 del 2001).

In definitiva, anche nella società di persone composta da due soli soci, ove la morte di un socio determini il venir meno della pluralità dei soci, non può riconoscersi un diritto degli eredi del socio defunto a partecipare alla liquidazione della società ed a pretendere una quota di liquidazione, anziché il controvalore in denaro della quota di partecipazione, in quanto lo scioglimento della società costituisce un momento successivo ed eventuale rispetto allo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio e trova causa non tanto nel venir meno della pluralità dei soci quanto nel persistere per oltre sei mesi della mancanza della pluralità medesima (Cass. n. 8670 del 2000).

Nei casi di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio (e la morte del socio è uno di questi), perfezionatosi prima del verificarsi di una causa di scioglimento della società, al socio uscente (ed, in caso di morte, ai suoi eredi) spetta, pertanto, soltanto la liquidazione della sua quota ai sensi dell’art. 2289 c.c. e non il diritto, che presuppone l’acquisto della qualità di socio, alla quota di liquidazione della società quale risulta all’esito del riparto del patrimonio sociale (residuo al pagamento dei debiti sociali ai sensi degli artt. 2280 e 2282 c.c.) fra tutti i soci (Cass. n. 9397 del 2011)>>

Principio al limite dell’ovvio: una cosa è essere creditori del valore della quota caduta in eredità ma on cosiM; cosa giuridicamnte assai diversa è essere creditori della quota di liquidazione dell’ente in quanto soci.

Applkcati questi principi al caso , segue la critica alla sentenza di appello: <<Non può, dunque, condividersi la soluzione seguita dalla sentenza impugnata: lì dove, in sede di scioglimento della comunione ereditaria tra gli eredi del socio defunto, ha, in sostanza, provveduto non già, come avrebbe dovuto fare, a dividere l’eredità tra i due coeredi, attribuendo agli stessi (tra l’altro) il diritto (nei confronti della società) alla liquidazione della quota già spettante al defunto, ma, in difetto di qualsivoglia domanda giudiziale in tal senso, a liquidare il patrimonio sociale, ripartendolo tra il coerede che era anche socio superstite, cui ha assegnato l’azienda sociale, ed il coerede non socio, cui ha attribuito il diritto al relativo conguaglio (“al coerede estraneo alla compagine sociale, impossibilitato (oltre che non interessato) a subentrare al de cuius in una società che neppure il socio superstite aveva intenzione di proseguire, spetta, pertanto, in sede di scioglimento della comunione ereditaria, una somma pari alla metà del valore della quota aziendale di pertinenza del padre al momento dell’apertura della successione, fermo restando che in tal modo l’intera azienda rimane attribuita al coerede che in vita del de cuius era socio con la quota del 2%…). Il diritto che spetta ai soci superstiti in sede di divisione di un’eredità che comprenda una quota di società di persone non e’, infatti, quello al riparto conseguente allo scioglimento dell’ente collettivo, che comporta la cessazione del rapporto sociale con effetti per tutti i soci con conseguente suddivisione tra tutti i partecipanti del patrimonio residuato al pagamento dei debiti, ma quello, previsto dagli artt. 2284 e 2289 c.c., alla liquidazione della quota del singolo socio nei confronti del quale, per effetto della sua morte, si è sciolto il rapporto sociale, che non è il diritto ad una parte del patrimonio sociale ma solo ad una somma di denaro corrispondente al valore della partecipazione.>>

Auditing sul business etico e intelligenza artificiale: uno studio su una prassi che diverrà sempre più attuale

Uno studio recente affronta un tema,  che (non è previsione difficile) diverrà sempre più importante, quello dell’auditing dei processi applicativi della intelligenza artificiale:  Mökander, J., Floridi, L. Operationalising AI governance through ethics-based auditing: an industry case study. AI Ethics (2022). https://doi.org/10.1007/s43681-022-00171-7 .

Qui trovi ampia bibligrafia sui lavori anteriori e menzione alle note 75-76 delle proposte di legge UE e USA su disciplina armonizzata della IA e rispettivamente su algorithimic accountability .

Precisamente, riferiscono di un lavoro di 12 mesi svolto presso il colosso farmaceutico britannico AstraZeneca relativo alla AI ethic audit (v. § 4).

Gli aa. tengono a precisare che si tratta di “Ethic” AI auditing e che il profilo centrale è quello di organizzare la corporate governnace in funzione di un corretto utilizzo dell ‘AI (v. § 6.4  e § 8 Conclusions)

Sulla natura contrattuale del rapporto di amministrazione nelle società di capitali

Cass. n. 14.592 del 09.05.2022, rel. Nazzicone,  offre qualche delucidazione sull’oggetto.

La natura contrattuale è incontestabile , nonostante qualche contraria originale dottrina passata.

<Non vi è dubbio che il rapporto di amministrazione, di natura contrattuale, si instauri mediante l’incontro dei consensi, avendo l’accettazione la funzione di perfezionare il relativo accordo. Invero, come questa Corte ha da tempo chiarito (Cass. 22 maggio 2001, n. 6928), l’accettazione della nomina ad amministratore di una società è necessaria, avendo i poteri degli amministratori fonte contrattuale.

L’accettazione della nomina non è oggetto di una specifica disciplina nell’art. 2364 c.c., né nell’art. 2383 c.c., laddove si occupano della nomina e della revoca degli amministratori; lo stesso è a dirsi con riguardo agli artt. 2475 e 2479 c.c., in tema di società a responsabilità limitata.>

La SC ricorda poi alcune disposizioni codicistiche, che parlano espressamente di <<accettazione>> da parte di amministratori (e di sindaci).

L’accettazione può essere anche tacita : <<Nel contempo, si è ivi anche sottolineato che l’accettazione, ed in genere il contratto di amministrazione societario, non richiede l’osservanza di specifiche formalità.

Da ciò consegue che l’accettazione può desumersi anche da atti positivi incompatibili con la volontà di rifiutare la nomina: l’accettazione della nomina può essere anche tacita, né dipende in sé dall’adempimento degli oneri pubblicitari, previsti dall’art. 2383 c.c., comma 4.>>

E spesso sarà tacita almeno delle società minori. O meglio, sarà espressa ma limitatamente alla firma dell’atto da depositare in registro imprese (che allora, a ben vedere,  sarà solo riproduzione a fini documentativi di un scambio di consensi già avvenuto ).

Quando invece riguarderà società  maggiori (quindi con una retribuzione importante e magari a lungo negoziata), proposta e accettazione saranno consacrate in un documento separato (da vedere chi lo avrà firmato per la società, dato che magari è stato stipulato all’oscuro del CEO in carica …).

Impugnazione di delibera del Cda da parte del socio: sul concetto di “deliberazioni lesive dei loro diritti” ex art. 2388 c. 4 c.c.

L’ottimo sito ilcaso.it dà notizia dell’interessante decisione cautelare sull’oggetto (Trib. Catanzaro RG 469/2022 del 27.04.22, giudice F. Rinaldi), che decide su  domanda di sospensione dell’esecuzione ex art. 2378/3 cc, pacificamente applciabile anche alle delibere del Cda (v. pure l’espresso richiamo nell’art. 2388).

Il socio ha legittimazione solo se la delibera lede “un suo diritto”.

Importante è la precisazione del Tribunale che ciò non avviene con la semplice violazione di legge o statuto (dovendo in tale caso semmai agire per revocare l’amminsitratore o gli ammiusntratori.).

Bisogna che ci sia invece una violazione diretta di un suo diverso diritto patrimoniale (anzi, non solo tale, direi): il Tribunle richiama l’analoga disposizione di cui all’rt. 2395 cc. Si v. i precedenti in tale senso citati a p. 5

Due sono le censure prospettate in causa e poi respinte.

1° – non costituisce tale lesione la violazione dell’iter procedimentale statutario che porta alla delibera << A ben vedere gli articoli sopra richiamati, che, secondo la prospettazione attorea, sarebbero stati violati con le delibere impugnate, cagionando un danno “diretto” al socio ricorrente, rappresentano delle disposizioni volte a regolare la costituzione ed il sistema di decisione dell’organo ammnistrativo della società convenuta.
Invero, come eccepito anche dalla difesa della occorre osservare – al fine di verificare l’ammissibilità dell’impugnazione proposta dalla ricorrente ex art. 2388 c.c. – che, a fronte della dedotta violazione del disposto degli artt. 10.2. e 10.10 dello Statuto, è configurabile un generale interesse alla regolarità delle deliberazioni consiliari in conformità allo statuto e alla legge ma non anche un diritto del singolo socio direttamente pregiudicato.
Come già evidenziato, infatti, l’art. 10.2 dispone che la delibera che nomina i consiglieri di amministrazione deve indicare il socio che ha nominato l’amministratore mentre l’art. 10.10 dispone che le delibere consiliari sono valide solo se prese con il voto dei due amministratori nominati dai due diversi soci.
Alla luce del chiaro di tali articoli dello Statuto è, pertanto, evidente che l’unico interesse che potrebbe considerarsi leso è quello sociale e non, invece, un eventuale diritto partecipativo o amministrativo del singolo soci
>>

2°  – Nemmeno scelte gestionali scconsiderate costituiscono lesione del diritto del socio : << Infine, ritiene il Tribunale che non è condivisibile neppure l’assunto attoreo secondo il quale la legittimazione del socio ad impugnare ex art. 2388 c.c. discenderebbe dal fatto che sarebbe stato leso il diritto di “ad evitare l’adozione da parte del Consiglio di Amministrazione di scelte imprenditoriali sconsiderate che espongono a gravissimi pregiudizi…” come anche non è condivisibile l’affermazione per la quale la legittimazione deriverebbe dalla necessità di impugnare la nomina di un difensore della che si troverebbe in una situazione di conflitto di interessi.
Come evidenziato anche dalla difesa della società resistente, tali allegazioni non consentono di individuare il diritto patrimoniale, partecipativo o amministrativo leso del singolo socio ricorrente trattandosi, pure sotto questo aspetto, di doglianze espressione di un interesse sociale alla regolarità delle deliberazioni consiliari che devono essere prese in conformità allo statuto e alla legge, con conseguente impossibilità di riconoscere in favore del socio ricorrente il diritto ad impugnare le delibere consiliari oggetto di controversia.
Invero, per quanto già sopra esposto, il nostro ordinamento non consente al singolo socio di una società di capitali di opporsi ad una decisione del consiglio di amministrazione lamentando una qualche violazione da parte degli amministratori di una norma prescrittiva di fonte legale o statutaria che disciplini l’attività sociale in genere ma solo qualora tali violazioni, incorporate in una delibera, pregiudichino proprio il diritto del singolo socio ricorre
>>

Ora, la legge tace sul se debba trattarsi di lesione “diretta” di un diritto del socio e sul tipo di  diritto leso che permetta l’impugnazione.

Se sulla soluzione della seconda questione si può concordare, su quella della prima potrebbe sorgere  qualche dubbio.  La irregolarità procedimentale è in teoria una violazione di un diritto del socio: non si può infatti negare che esista un suo diritto alla corretta esecuzione del contratto di amministrazione , la quale a sua volta implica il dovere di gestire l’impresa secondo le regole di legge e statutarie.

La società è infatti una rete di contratti (nexus of contracts). Tale ricostruzione deve prevalere sul velo della distinzione soggettiva , quando non vi siano esplicite o implicite disposizioni ostative (come ad es, responsabilità limitata, identificazione del soggetto da citare in giudizio o destinatario di dichiarazioni recettizie, divieto di concorrenza etc.).

Però , a ben vedere, ciò toglierebbe d’un tratto il cit. velo della persona giuridica (il rapporto è formalmente tra amministratore e società) e rischierebbe di ingolfare le corti di cause.

Alla fine quindi il giudice catanzarese ha probabilmente deciso bene, almeno in fase cautelare. Un approfondimento maggiore in sede di decisione di merito, invece, potrebbe portare ad esito diverso (la giurisprudenza ivi ricordata è  del tutto contraria a questa ipotesi).

Riduzione del capitale per perdite, scioglimento della società e quantificazione del danno nell’azione di responsabilità contro gli amministratori

Due insegnamenti da Cass. sez. 1 n. 4347 del 10.02.2022, rel. Vannucci:

1°  la caduta in scioglimetno ex 2448 n. 4 (oggi rt. 2484 n.4) , in relazione all’rt. 2447 presuipopibne sia la perdita oltre il terzo che l’abbassamento sotto al minimo:

<<L’interpretazione dell’art. 2448 c.c., comma 1, n. 4), non può dunque prescindere dall’intero contenuto del precedente art. 2447, sì che:

fino a quando la perdita di esercizio si contiene entro i limiti del terzo della misura di capitale scelta dai soci al momento in cui tale evento si verifica, anche se tale misura è quella (minima) imposta dalla legge per il modello societario adottato, non vi è obbligo per gli amministratori di convocare senza indugio l’assemblea per l’adozione di una delle decisioni indicate dall’art. 2447 c.c., e tale inerzia, ovvero una decisione assembleare diversa da quelle prescritte da tale articolo, non comporta conseguenze negative di sorta quanto alla vita della società;

e’ solo la perdita di esercizio superiore al terzo del capitale e incidente sul suo ammontare minimo che determina, per volontà della legge (il citato art. 2448 c.c.), lo scioglimento della società.>>

E poi sul concetto giuridico di “perdita”: <<La sentenza impugnata afferma in primo luogo che la perdita di capitale sociale rilevante ai fini dell’applicazione degli artt. 2446 e 2447 c.c. (aventi la funzione di assicurare il rispetto del principio della corrispondenza fra capitale nominale e capitale reale) è solo quella che si determina detraendo da essa la riserva legale, le riserve statutarie, i fondi appostati al passivo, gli utili degli esercizi precedenti e quelli c.d. “di periodo”; così conformandosi alla costante interpretazione, data dalla giurisprudenza di legittimità (citata dalla stessa sentenza impugnata), del concetto di perdita rilevante per il compimento di una delle operazioni prescritte da tali disposizioni del codice civile (in questo senso, cfr: Cass. n. 12347 del 1999; Cass. n. 5740 del 2004, in tema di computabilità dei c.d. “utili di periodo” ai fini della determinazione della perdita; Cass. n. 23269 del 2005; Cass. n. 8221 del 2007). In conseguenza di tale interpretazione, in questa sede da ribadire,>>

2° sulla determinazione del danno cagionato dall’amministratore (principio di diritto per il rinvio):

Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore di fallimento ai sensi della L. Fall., art. 146, comma 2, contro l’ex amministratore di una società, poi fallita, che abbia violato il divieto di compiere nuove operazioni sociali dopo l’avvenuta riduzione, per perdite, del capitale sociale al disotto del minimo legale (art. 2449 c.c., nel testo anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ratione temporis applicabile al caso di specie), il giudice, ove, nella quantificazione del danno risarcibile, si avvalga, ricorrendone le condizioni, del criterio equitativo della differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, temperato dalla espunzione da tale differenza del passivo formatosi successivamente al verificarsi dello scioglimento della società, deve indicare le ragioni per le quali, da un lato, l’insolvenza sarebbe stata conseguenza delle condotte gestionali dell’amministratore e, dall’altro, l’accertamento del nesso di causalità materiale tra queste ultime e il danno allegato sarebbe stato precluso dall’insufficienza delle scritture contabili sociali; e ciò sempre che il ricorso a tale criterio equitativo sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo“.

Sull’analiticità della messa in mora nelle azioni di responsabilità contro gli amministratori

In Appello Milano 2.458/2021 del 28.07.2021, RG 3736/2019, si legge questo circa l’oggetto, al fine di interrompere la prescrizione:

< Non risulta, invece, condivisibile la censura dell’appellante che considera tale comunicazione inidonea perché non indicherebbe i singoli episodi e non distinguerebbe le posizioni dei diversi amministratori e sindaci, posto che la costituzione in mora idonea ad interrompere la prescrizione non richiede tale specificità, essendo sufficiente “oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato (elemento soggettivo), l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di fare valere il proprio diritto…” (Cass. 15140/21 >>

Le messe in mora del legale della procedura vengono descritte così dal giudice di appello:

<< La lettura di tale documento, che contiene una chiara diffida a corrispondere alla Procedura un importo pari al deficit fallimentare, consente, quindi, di verificare la motivazione contenuta sul punto nella sentenza appellata, che si reputa del tutto condivisibile. 

Il primo giudice ha infatti rilevato che nelle missive inviate dalla Procedura “si contestano l’uso contra legem della intera struttura societaria Mythos Arché al fine di ottenere illegittimi risparmi di imposta, la sistematica violazione della normativa fiscale, la gran parte delle operazioni che costituiscono la struttura dei fatti posti a fondamento della domanda giudiziale, si individuano i danni nei crediti erariali insinuati derivanti dall’illegittimità dell’azione gestoria degli amministratori e dalle carenze nell’azione di controllo e si chiede di voler versare alla procedura importi pari al deficit concorsuale, si preannuncia l’esercizio di azioni di responsabilità”. 

Tali rilievi rendono corretta la seguente conclusione cui perviene il primo giudice, secondo cui “Il contenuto completo e articolato di entrambe le raccomandate consente si ritenerle idonee ad interrompere il termine di prescrizione ex art 2943 co 4 c.c. perché con esse la proceduta di lca ha manifestato alle controparti qui convenute la sua volontà, non equivoca, intesa alla realizzazione del diritto risarcitorio in relazione ai fatti illeciti fiscali”>>

Alla luce di tale descrizione, probabilmente è esatto che le messe in mora erano valide per la produzione dei loro effetti di legge.

E’ invece assai dubbia l’esattezza del principio declamato dalla cit. Cass.

La messa in mora infatti, nonostante il silenzio in proposito dell’art. 1219 cc,  deve indicare con esattezza il diritto a cui si riferisce: il quale -se risarcitorio-  è individuato dall’inadempimento , dal danno e dal nesso causale tra i due.    Non si può dunque evitare di precisare l’inadempimento stesso.

La riduzione della durata della s.p.a. non dà titolo di recesso al socio non consenziente

Cass. 24.02.2022 n. 6.280, rel. Tricomi, nega che la riduzione del termine di durata del contratto sociale (da termine così lungo da essere qualificabile come <a tempo interderminato>, secondo giurirpduenza diffusa, a -evidentemente, mano è specificato- a termine inferiore e non più così qualificabile) costituisca <eliminazione di una delle cause di recesso> di cui all’art. 2437.1 , lett. e) c.c.

Tenuto conto che la cit. lett. e) rinvia al c. 2 e non al 3 (quello sulla durata indeterminata), la decisione è probabilmente esatta.

Questi i passaggi pertinenti: <<5. Focalizzando l’attenzione sul tema oggetto della controversia, e cioè il rapporto tra la durata della società per azioni, la sua modifica ed il diritto di recesso, va osservato che l’elemento temporale rileva normativamente in due ipotesi.

La prima riguarda – non già la riduzione della durata della società, ma – la proroga della durata della società, fattispecie per la quale è prevista una autonoma causa di recesso, derogabile statutariamente (comma 2).

La seconda concerne il caso della società costituita a tempo indeterminato le cui azioni non siano quotate su mercati regolamentari, situazione in relazione alla quale, a prescindere dall’adozione di una qualsivoglia deliberazione, è riconosciuto il diritto di recesso ad nutum (da esercitare secondo la tempistica prevista dal legislatore), derogabile statutariamente in peius entro il limite massimo di un anno, ma non eliminabile (comma 3).

6. Nel caso in esame, posto che alcuna specifica previsione statutaria risulta invocata, è in discussione l’applicabilità dell’art. 2437 c.c., che va esclusa perché la fattispecie in esame non è sussumibile nelle ipotesi ivi contemplate: infatti, il recesso non è stato esercitato in ragione della proroga della durata della società, né perché la società aveva una durata a tempo indeterminato, essendo stata, anzi, ridotta la durata in questione.

7. In proposito, va osservato che il diritto di recesso ad nutum attribuito dal comma 3 della disposizione in esame è direttamente connesso alla durata indeterminata statutariamente prevista per la società e non alla modifica della stessa; sul piano della modifica della durata rileva, invero, solo la proroga (comma 2), mentre l’opposta ipotesi della riduzione della durata non è fonte di alcun autonomo diritto di recesso per il socio, né ciò può dedursi per implicito dalla facoltà prevista dal comma 3.

La previsione dettata dal comma 3, invero, ponendosi in linea con quella che riconosce la facoltà di recesso in caso di proroga della società, è intesa a tutelare il socio, al fine di evitare che questi, nei casi in cui le azioni non siano quotate in un mercato regolamentato, sia costretto dal vincolo sociale oltre un tempo ragionevole contro la sua volontà. E’ evidente che le ragioni di tale tutela non sussistono nell’opposto caso in cui la durata della società venga ridotta, tant’e’ che questa ipotesi non rientra nelle fattispecie previste ex lege al comma 1 – che alla lett. e) non contiene alcun rinvio alla ipotesi prevista dal comma 3 – e al comma 2.

Invero, è solo la durata indeterminata della società per azioni che giustifica ed attribuisce il diritto di recesso al socio, non la sua riduzione.>>