Patto parasociale, patto di gestione e delibere attuative del CdA nelle s.r.l.

Mentre il patto parasociale è ammesso e disciplinato dall’. 2341 bis cc  per le SPA e nessuna disciplina invece per le SRL, il c.d patto di gestione è di assai più dubbia liceità-

L’attore aveva censurato di nullità tre delibere del CdA (e una dell’assemblea sociale) perchè esecutive di patto di gestione illecito: <<l’attore incentra la propria allegazione di invalidità delle delibere sull’essere le stesse state adottate in pedissequa esecuzione del patto parasociale firmato l’8.7.2020 dalle altre due socie in contrasto con l’interesse sociale e con le norme inderogabili regolanti le prerogative degli amministratori nonché in odio del fratello, come tale illecito, mentre la convenuta sottolinea il carattere corrispondente all’interesse sociale sia delle previsioni del patto sia delle delibere applicative e, quindi, la liceità di entrambi>>

Secondo Trib. Milano decr. 17.12.2020 n. cron. 3106/2020, RG 40994 / 2020 (di cui ha dato notizia Busani su il Sole 24 ore il 26 luglio u.s.),  non serve distinguere tra patto parasociale/sindacato di voto , lecito, e patto/sindacato di gestione , probabilmente illecito, patto di gestione da intendersi così: <<sindacato di gestione, come in sostanza afferma l’attore, patto stipulato al fine di delineare le linee di sviluppo dell’attività sociale impegnando al riguardo o direttamente i soci amministratori ovvero i soci non  amministratori perché influiscano sull’organo gestorio ovvero ancora anche direttamente gli amministratori non soci, o patto questo di ben più dubbia liceità, da un lato non essendo riconducibile alle figure tipizzate dall’art.2341bis cc e d’altro lato incidendo “su comportamenti di soggetti che, a differenza dei soci, sono investiti inderogabilmente di una funzione, hanno cioè l’intera ed esclusiva responsabilità della gestione dell’impresa sociale, nell’interesse della società ed anche dei terzi” venendosi così a creare “una situazione di potenziale quanto immanente conflitto di interessi”>> (in nota invoca Cass. 8221/2012 sull’esclusività della competenza gestoria degli amministratori).

Non serve coltivare tale distinzione, perchè <<oggetto della causa di merito è di per sé la impugnazione delle delibere delle quali è qui chiesta la sospensione cautelare e non già la illiceità del patto parasociale sulla base del quale le delibere sono state modellate: da tale precisazione discende che i profili di illiceità del patto parasociale attinenti per così dire alla struttura generale dello stesso risultano qui irrilevanti, mentre i profili di conflitto tra le specifiche previsioni di tale patto in ordine agli sviluppi assembleari nonché gestori e l’interesse sociale si risolvono in profili di illiceità delle delibere applicative e come tali vanno riguardati.>>

Interessante ma non chiara è la distinzione tra illiceità strutturale del patto e conflitto tra singole sue determinazioni (cioè per specifici affari, parrebbe) e successive delibere esecutive delle stesse.

Non pare, infine, il Tribunale si curi (salvo errore) della validità e disciplina dei patti parasociali nelle SRL, ove manca una disposizine come l’art. 2341 bis.

Responsabilità dell’amministratore di fatto e onere della prova per fatti di distrazione

Trib. Milano 01.02.2021 n. 711/2021, Rg 57943/2017, Fallimento P.G.P. srl c. Pecchioli ed altri, decide una causa in tema di responsabilità.

Non ci sono principi di diritto sconvolgenti: si tratta però di condotte frequentemente incontrate nella pratica,

Qui ricordo solo due questioni

1 – onere della prova per ammanchi e fatti distrattivi :

<<Con riferimento alla responsabilità dell’organo gestorio per le operazioni distrattive la violazione degli obblighi inerenti la conservazione dell’integrità del patrimonio sociale compromessa da prelievi di cassa o pagamenti a favore di terzi ingiustificati per la mancanza di idoneo riscontro nella contabilità e documentazione sociale della loro causa deve ritenersi dimostrata per presunzioni, ove l’ amministratore convenuto non provi la riferibilità all’attività sociale delle spese o la destinazione dei pagamenti all’estinzione di debiti sociali ( v. fra le molte Cass. 18.6.2014 n. 13907 in motivazione). ….  In mancanza della documentazione contabile che l’amministratore convenuto non ha tenuto o, comunque, non ha consegnato al Curatore, deve, dunque, presumersi l’avvenuta distrazione delle somme in questione dalpatrimonio sociale non avendo i convenuti, rimasti tutti contumaci, assolto all’onere di dimostrare che i prelievi fossero destinati ad estinguere debiti sociali fondati su comprovati titoli contrattuali>>p 10/11.

2  – amministratore di fatto.

<<Del danno derivato da tutte le distrazioni in questione devono rispondere, sotto il profilo soggettivo, l’amministratore di diritto Pecchioli ed il socio Poltronieri che, per quanto emerge dalla documentazione acquisita, ha assunto il ruolo di amministratore di fatto.   Con riguardo alla “ ripartizione” dei ruoli di gestione ed amministrazione fra i due è lo stesso amministratore Pecchioli a riferire al curatore nel corso della sua audizione che mentre lui si occupava della parte tecnica e operativa relativa allo smaltimento di farine: valutare i prezzi, stipulare i contratti, trasportare le farine” il socio Poltronieri si occupava di “ quella legale e amministrativa,  aveva la firma sui conti correnti della società..” ospitava la sede legale della società presso il suo studio ove “ arrivava tutta la documentazione fiscale e contabile, per cui era compito di Poltronieri occuparsi degli adempimenti ” relativi alla redazione dei bilanci ( v. doc. 11 a pag. 1,2,6).  Il fatto che il socio Poltronieri avesse la delega ad operare sui conti correnti sociali e che se ne avvalesse per gestire il denaro sociale anche attraverso l’emissione di assegni bancari trova conferma nella documentazione prodotta dal fallimento ( doc. 40 e doc. da 35 a 38) così come il ruolo cardine assunto nella gestione dei rapporti con gli istituti di credito ed in particolare con la banca Unicredit nell’operazione di finanziamento indiretto alla Via Lattea che va ben oltre la prestazione di assistenza legale per andare ad involgere l’assunzione stessa delle scelte gestorie come risulta dal tenore delle missive all’istituto di credito e ai soci ( v. doc. 23 e 25),  ove addirittura il Poltronieri consiglia all’amministratore di far difendere in giudizio la società da un altro legale per consentire a lui di testimoniare nel processo sulla vicenda.  Le dichiarazioni confessorie rese dal Pecchioli in ordine al fatto di aver irresponsabilmente demandato la funzione amministrativa al Poltronieri e le risultanze documentali evidenziate consentono di ritenere accertata l’assunzione da parte del Poltronieri del ruolo di amministratore di fatto della società fallita>>, p. 15-16.

Infatti <<non costituiscono circostanze di esonero dalla responsabilità civile dell’amministratore peril danno derivato alla società ed ai creditori dalla violazione degli obblighi imposti dalla carica, né l’essersi prestato ad assumere solo formalmente la carica di amministratore fungendo da prestanome del soggetto a cui è demandata di fatto la gestione né lo svolgimento del mandato nella completa ignoranza dell’operato del terzo incaricato dell’esecuzione delle attività proprie dell’amministratore>>, p. 16-17.

Questioni in tema di azione di responsabilità promossa dal fallimento

Tribunale Milano 8 ottobre 2020, sentenza numero 6005/2020,  g. rel. Simonetti, decide una lite promossa dal Fallimento nei confronti di amministratori e sindaci di una società a responsabilità limitata. Il quantum richiesto è elevato.

Il collegio affronta alcune questioni importanti nella pratica ed altre invece infrequenti . Ricordo qui le più interessanti

1 – rinuncia alla domanda circa il quantum – Era stato proposta domanda di accertamento di responsabilità per fatturazione di operazioni inesistenti e per indebite compensazioni . Successivamente il fallimento rinuncia alla domanda risarcitoria per  l’eccessivo peso economico della tassa di registro in caso di eventuale sentenza di accoglimento. Il Tribunale conclude che mantenere la domanda di accertamento, rinunciando a quella di condanna, non è ammissibile perché manca un interesse giuridico attuale ex articolo 100 CPC : infatti <<considerando le ragioni con cui la difesa della curatela ha supportato la sua scelta di non più chiedere la   condanna   risarcitoria   derivante   dalle   operazioni   di   emissione   di   … ,   ragioni   chepossono riassumersi nella necessità di evitare un pregiudizio economico alla massa dei creditori stante il rischio di dover anticipare una tassa di registro commisurata all’abnormità del danno come risultante dalla Ctu e l’incapienza per tali importi dei patrimoni dei debitori, deve ritenersi che il fallimento non abbia più alcun interesse giuridico non solo all’azione di condanna (da cui si ritiene non potrebbe conseguire un’utile  esecuzione)  ma  anche  alla  mera  dichiarazione  di  responsabilità  dei  convenuti.  A  questa conclusione si perviene sia in concreto, valutando le allegazioni sul punto della curatela, sia sulla base della  più  generale  considerazione per  cui  la  curatela  di  un  fallimento  agisce  per  recuperare  attivo  alla massa al fine di meglio realizzare, attraverso la liquidazione concorsuale secondo il programma ex art 104  ter  l.f.,  il  soddisfacimento  dei  creditori  insinuati.  Rispetto  a  questo  obiettivo  della  curatela  posto dalla  legge,  le  mere  dichiarazioni  di  responsabilità  senza  domanda  di  condannaal  pagamento  sono assolutamente irrilevanti; non a caso l’art 104 ter l.f. comma  2 lett c)  dispone che il curatore nel programma  di  liquidazione  deve  specificare “le azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie da esercitare”,  perché  sono  queste  le azioni che possono concorrere alla realizzazione dell’attivo del fallimento, non le azioni meramente dichiarative di responsabilità….L’interesse ad agire ex art 100 cpc come condizione dell’azione è posto a tutela diun uso responsabile del  processo  ed  è  manifestazione  del  principio  di  economia  processuale,  ovvero  della  possibilità  di conseguire un risultato concretamente rilevante in vista di una lesione non meramente potenziale (Cass sent. n. 18819/2018) …Consegue che  la  domanda  di  accertamento  della  responsabilità  dei  convenuti  per  le  operazioni collegate alle … va rigettata per difetto della condizione dell’azione dell’interesse ad agire ex art 100 cpc>>, pagina 16/7

2 – Un convenuto aveva eccepito il difetto di autorizzazione del curatore perchè non risultava il paree del  comitato creditori.  L’eccezione è infondata, <<posto che si tratta di parere consultivo il cui difetto non inficia la validità del decreto  di  autorizzazione  del  GD,  parere  che  può  ritenersi  già  espresso  e  quindi  non  va  richiesto  se  il Programma  di  liquidazione  ex  art  104  ter  l.f.,  approvato  dal  comitato  dei  creditori,  già  contenga l’indicazione delle azioni ex art 146 l.f., situazione che deve ritenersi ricorra nel caso di specie atteso che nell’istanza di autorizzazione al GD  (All A) il curatoreeffettivamente nelle premesse deduce che “ la proposizione dell’azione ex art 146 l.f. nei confronti di tutti i soggetti sopra indicati (gli  attuali convenuti)è stata debitamente prevista nel programma di liquidazione ex art 104 ter l.f. approvato dal comitato dei creditori ed è stata autorizzata così come il relativo preventivo di spesa con le specifiche autorizzazioni qui espresse dalla maggioranza dei membri>>, pagina 18

3 – il medesimo convenuto aveva eccepito la mancanza di prova di identità tra l’azione chiesta in autorizzazione e quella poi esercitata: precisamente perchè mancavano in atti i documenti allegati alla istanza al GD. La  contestazione  è  assolutamente  infondata  <<in  quanto,  da  un  lato,  il  curatore  non  è  affatto tenuto  a disvelare  ai  terzi  e  soprattutto  alle  controparti  processuali  atti  della  procedura  su  cui  fondi  la  sua richiesta di autorizzazione ex art 25 lett 6) l.f., ciò che rileva è che sia chiaro che l’azione esercitata sia quella  autorizzata  persoggetti, causa  petendi,  petitum; dall’altro, una volta ricevuta autorizzazione all’azione,  rientra  nell’ambito  della  autonomia  del  difensore  configurare  in  concreto  lo  specifico contenuto  dell’atto  di  citazione  e  scegliere  di  assumere  le  posizioni  processuali  che ritenga  più vantaggiose  per  la  difesa  della  sua  parte  senza  che  ogni  decisione  difensiva  debba  essere  oggetto  di autorizzazione del GD o limitata entro binari predeterminati>>pagina 18

4  – sulla decorrenza della prescrizione dell’azione, essendo stato proposto prima concordato con riserva. Secondo il tribunale <<il  termine   di   prescrizione   dell’azione   di   responsabilità   (extracontrattuale)   nei   confronti   degli amministratori  e  dei  sindaci  di  una  società  di  capitali  che  abbiano  compromesso  l’integrità  delpatrimonio  sociale, spettante  ai  creditori  sociali,  ai  sensi  degli  artt.  2394  e  2407  c.c.,ed  altresì esercitabile  dal  curatore  fallimentare  ex  art.  146  l.fall.,  decorre  dal  momento  in  cui  l’insufficienza  del patrimonio  sociale  al  soddisfacimento  dei  crediti risulti oggettivamente conoscibile all’esterno della società, dai creditori sociali (Cass. 21662/2018 e Cass 25178/2015); l’azione può in concreto essere proposta  dai  creditori  quando  il  patrimonio  risulta  insufficiente  al  soddisfacimento  dei  loro  crediti, situazione  che  ricorre    allorché  la  società  presenta  un  attivo  che,  raffrontato  ai  debiti,  non  consente  il loro  integrale  soddisfacimento,  ovvero  quando  l’attivo  si  sia  palesato  in  modo  oggettivamente percepibile  dai  creditori  come  inidoneo  a  soddisfare  i  creditori  sociali  (Cass  24715/2015,  Cass 21662/2018). Tale momento si può collocare nel caso di specie, trattandosi di azione proposta dal curatore ex art 146 l.f.,  ,  alla  data  del  ……  in  cui  è  stato    presentato  e  contestualmente  pubblicato nel  Registro delle  Imprese  (doc.1  fall.  Visura  storica  della  società)  il  ricorso,  già  pendente  il  procedimento  prefallimentare  azionato  da  Agenzia  delle  Entrate,  di  concordato  preventivo  con  riserva.  Nel  ricorso  la società dava atto di versare in condizione di crisi e di non essere in grado di fare fronte con regolarità e tempestività alle proprie obbligazioni con particolare riferimento  ai debiti verso l’erario e  gli enti previdenziali, quindi, sostanzialmente della sua illiquidità e del suo stato di insolvenza.>>pagina 21 / 22

5 – la transazione conclusa con un sindaco. La corte ricorda che il diritto di profittare ex art. 1304 cc esiste solo nel caso di transazione sull’intero e non in quello di trasnazione pro quota (come nel caso sub iudice), p. 23. Quest’ultima transazione può portare invece alla riduzione dell’intero debito.  In altre parole, della transazione <<deve … tenersi conto al fine di riduzione dell’ammontare dell’intero debito. Invero, va detto che il fallimento in conseguenza della transazione ha già definito il danno corrispondente alla quotadi responsabilità attribuibile al sindaco AA… , ciò impone di procedere quantificando il danno  complessivo  (nei  limiti  del petitum)  e  sottraendo  la  percentuale  corrispondente  alla  quota  di  chi  ha transatto fino all’importo già ricevuto dal fallimento a titolo di transazione se superiore in applicazione di quanto stabilito dalla corte di legittimità per cui:” “la transazione pro quota[è] tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva rispetto al debitore che vi aderisce”e, tenuto conto del fatto che essa “non  può  né  condurre  ad  un  incasso superiore  rispetto  all’ammontare  complessivo  del  credito originario,  né  determinare  un  aggravamento  della  posizione  dei  condebitori  rimasti  ad  essa  estranei, neppure  in  vista  del  successivo  regresso  nei  rapporti  interni,  è  giocoforza  pervenire  alla  conclusione che  il  debito  residuo  dei  debitori  non  transigenti  è  destinato  a  ridursi  in  misura  corrispondente all’ammontare di quanto pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari  o  superiorealla  sua  quota  ideale  di  debito.    Incaso  contrario,  secioè il  pagamento  è  stato inferiore  alla  quotache  faceva  idealmente  capo  al  transigente,  il  debito  residuo  che  resta  tuttora  a carico  solidale  degli  altri  obbligati dovrà  essere  necessariamente  ridotto(non  già  di  un  ammontare pari a quanto pagato, bensì) in misura proporzionale alla quota di chi ha transatto, giacché altrimenti la  transazione  provocherebbe  un  ingiustificato  aggravamento  per  soggetti  rimasti  ad  essa  estranei” (Cass. SS.UU. 30 dicembre 2011 n. 30174 e nel medesimo senso si vedano anche: Cass. 19 dicembre 2016 n. 26113; Cass. 17 gennaio 2013 n. 1025 e da ultimo Cass. 18 giugno 2018 n. 16087 >>, p. 22/23.

Successivamente su questo punto (p. 37/8), la corte  ricorda il medesimo concetto e, visto che la somma versata transattivamente dal sindaco transigente è inferiore a quella corrispondente alla sua quota interna, il totale va ridotto in misura pari alla quota del transigente stesso.

Ebbene, tale quota del sindaco viene fissata in un nono (1/9), p. 38. Purtroppo non è motivato questo passaggio quantificatorio, pur assai importante:  dunque la sentenza sul punto è viziata e appellabile (si badi che il fallimento aveva citato in giudizio sette persone: quattro amministratori e tre sindaci).

6  – Il danno per interessi e sanzioni derivanti dal protratto omesso versamento di tributi e contributi: è causalmente riconducibile anche al concorso omissivo colposo dei sindaci: <<All’ampiezza dei doveri di controllo dei sindaci fa riscontro una vasta gamma di strumenti di reazione previsti dalla legge,nessuno dei quali è stato attivato dal collegio sindacale di A… srl; non risulta l’esercizio di attività ispettive ex art 2403 bis c.c., né la convocazione dell’assemblea ex art 2406 c.c.  e, soprattutto, l’attivazione  del  procedimento  ex  art  2409  c.c.  doveroso date  legravissime irregolarità nella gestione (il protratto omesso adempimento degli obblighi fiscali e tributari). Il mero reiterato rilievo nei controlli trimestrali sull’omesso adempimento delle obbligazioni tributarie e  l’incremento  della  posizione  debitoria per  tributi  e  contributi della  società  dimostrano, invero, l’esercizio da parte dell’organo di un controllo meramente burocratico e tale da risultare asservito alla condotta illegittima dell’organo gestorio. Un  intervento  attivo  del  Collegio  fin  dall’esercizio  2008  avrebbe  potuto evitare  il  protrarsi  delle omissioni degli amministratori in punto di adempimento delle obbligazioni tributarie e fiscali. I sindaci, in solido tra loro, vanno pertanto ritenuti responsabili, in concorso con gli amministratori, del danno  per  sanzioni  ed  interessi  addebitati  alla  società  dall’esercizio  2008  al  2013  (il  totale  degli interessi e sanzioni addebitati ad A… srl dal 2008 al 2013 ammonta complessivamente ad € 8.657.642>> , pagina 33/4.

Anche qui motivazione leggera, quasi apparente in quanto apodittica. La corte doveva spiegare che il danno non si sarebbe prodotto con il dovuto intervento (art. 2407/2 cc): allo scopo non può bastare il dichiarare che l’omissione sarebbe cessata, ma semmai nello spiegare come concretamente ciò (verosimilmente) sarebbe potuto avvenire.

7 – l’addebito consistenti in distrazione di somme a favore di altra società del gruppo. Qui ribasdisce l’orientamento (condivisibile) per cui, in caso di uscite di cassa, tocca agli amministratori provare che erano giustificate.

Una sentenza milanese dello scorso anno appoggia questa conclusione all’art. 1218 cc , secondo la storica interpretazione fornitane da Cass. sez. un. 13533/2001: <<in particolare nulla di specifico avendo dedotto quanto alla ricorrenza di adeguata causa giustificatrice di tale utilizzo dei fondi sociali, deduzione della quale erano onerati secondo le regole di cui al consolidato e condivisibile orientamento in tema di azione risarcitoria contrattuale da inadempimento (cfr. Cass. s.u. n.13533/2001, richiamata da Cass. s.u. n.9100/2015 anche in ordine all’azione ex art.146 LF)>> (Trib. MI n. 2383/2019 del 11/03/2019, rel. Riva Crugnola).

La responsabilità è affermata come solidale a carico di tutti, tranne che di un amministratore rimasto in carica per venti mesi e senza deleghe.

8  – responsabilità interna tra amministratori , stimata pari al 30% : <<AG [presidente del cda per 20 mesi circa] ha  chiesto  di  determinare  la  specifica  quota  di  danno  imputabile  a  ciascuno  dei convenuti; tale domanda di accertamento della quota di responsabilità nell’ambito del rapporto interno di solidarietà va presa in considerazione solo con riferimento all’unico rapporto obbligatorio solidale di cui è parte AG e quindi con DC [amm. delegato per lo stesso periodo]. Considerando che AG ha fatto parte dell’organo apicale di A …srl per soli due anni, che era privo di deleghe e che aveva solo la rappresentanza della società si ritiene di attribuire nel rapporto interno con DC la quota di responsabilità imputabile a AG nella misura del 30%>> pagina 41. Anche qui la stima della quota di responsabilità è immotivata.

9 –  la Corte dichiara che ci sono i presupposti per la registrazione a debito dell’imposta di registro, trttandosi di fatti integranti l’ipotesi di reato (artt. 59 dpr 131/1986).

L’applicabilità della business judgement rule alle scelte organizzative (più un cenno alla pretesa rinuncia al credito ravvisabile nella cancellazione della società creditrice)

Un provvedimento cautelare romano esamina i due temi in oggetto. Si tratta della odinanza cautelare 08.04.2020, RG 8159/2017-8159-1/2017, giudice Guido Romano, relativa all’azione di responsabilità contro gli amministratori di Enpam Sicura srl (di cui socio unico era Enpam, cassa di previdenzxa dei medici).

L’ordinanza  è leggibile in  www.giurisprudenzadelleimprese.it con massime di P.F. Mondini.

1°  – Circa il primo profilo il tribunale si adegua all’orientamento dominante, secondo cui la richiesta di cancellazione di una società di capitali, in presenza di posti attive, comporta tacita rinuncia ai crediti relativi.

<<dunque, la giurisprudenza distingue, nell’ambito delle posizioni attive residue, non definite o sopravvenute, a seconda che si tratti di posizioni «gestite» da parte del liquidatore prima di richiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese, oppure di mere pretese rispetto alle quali il mancato espletamento di un’attività di gestione delle medesime, da parte del liquidatore, fa presumere un disinteresse e, quindi, una tacita rinunzia da parte della società, poi estinta. Con riferimento alle prime, invece, l’effetto «rinunziativo» è impedito da una attività – «ulteriore» rispetto alla sola cancellazione della società dal registro delle imprese – del liquidatore, consistente in una «espressa» gestione della posizione, attraverso, ad es., la cessione del credito (ancorché litigioso) a terzi e l’inclusione del corrispettivo nel bilancio di liquidazione (e, dunque, nella distribuzione del ricavato) ovvero ancora nella attribuzione di un diritto già azionato ad un determinato socio (con menzione nella nota integrativa)>> p. 8/9

Nel caso specifico il giudice rigetta la domanda di accertamento di tacita rinuncia, dal momento che il giudizio introdotto da Enpam andava qualificato come rapporto giuridico “coltivato” prima di procedere a chiedere la cancellazione. Per questo il credito non  è ritenuto abbandonato e nella suta titolarità sono subentrati i soci (socio unico) della società cancellata. Tuttavia Il tribunale dichiara in generale di attenersi all’orientamento dominante.

Qui mi limito a dire che tale tesi, del tutto dominante, non persuade. Infatti l’atto di rinuncia comportante l’abdicazione ad un proprio diritto per poter essere ravvisato nella modalità tacita richiede fatti del tutto significativi, inequivocabilmente concludenti: certo tale non è una semplice condotta omissiva, quale la non menzione nel bilancio di liquidazione e/o nella delibera di assegnazione ai soci subentranti uti singuli.

La remissione del debito (art.1236 cc), che per i più è un negozio unilaterale, può sì consistere in condotte diverse dalla dichiarazione ad hoc: purchè, tuttavia, si tratti di fatti concludenti e non equivoci. La legge stessa ne ipotizza uno: restituzione volontaria del titolo originale ex art. 1237/1.

La posizione maggioritaria cennata, dunque, non trova rispondenza nell’ordinamento-.

2° – E’ invece condivisibile l’affermazione, secondo cui -in tema di responsabilità degli amministratori- la business judgment rule si applica non solo alle scelte gestionali in senso stretto ma anche a quelle (per così dire a monte) di tipo organizzativo.

La tesi è da molti contestata; a me pare invece esatta.

Il tribunale dà per scontati profili importanti come la natura contrattuale dell’azione sociale (rectius della responsabilità fatta valere con l’azione sociale), e come la natura colposa della responsabilità, trascurando che questo tema -al netto di molta confusione terminologico/concettuale- è molto controverso nella responsabilità contrattuale generale (forse proprio per la confusione).

A parte ciò però (e una certa imprecisione da dove a pagina 15 chiede la riconducibilità della lesione- invece che del danno-  al fatto dell’amministratore), le successive considerazioni in tema di business Judgement rule convincono. Vale la pena di riportarle.

Il tribunale procede dicendo che<<il principio della insindacabilità delle scelte di gestione non è assoluto, avendo la giurisprudenza elaborato due ordini di limiti alla sua operatività. La scelta di gestione è insindacabile, in primo luogo, solo se essaè stata legittimamente compiuta (sindacato sul modo in cui la scelta è stata assunta) e, sotto altro aspetto, solo se non è irrazionale (sindacato sulle ragioni per cui la scelta compiuta è stata preferita ad altre)>>Pagina 15/16.

Ricordato il dovere di curare l’adetguatezza dell’assetto ex art. 2381 cc (p. 16 in fine), il tribunale così osserva:

<<Ebbene, sebbene debba darsi atto di un orientamento dottrinario che  ritiene che  on sia possibile traslare i principi che sorreggono la regola sopra evidenziata alle scelte non gestorie, ma organizzative, ritiene il Tribunale che sia condivisibile la conclusione favorevole. In tale prospettiva, in estrema sintesi, si evidenzia che la funzione organizzativa rientra pur sempre nel più vasto ambito della gestione sociale e che essa deve necessariamente essere esercitata impiegando un insopprimibile margine di libertà, per cui le decisioni relative all’espletamento della stessa vengono incluse tra le decisioni strategiche. In altre parole, la predisposizione di un assetto organizzativo non costituisce l’oggetto di un obbligo a contenuto specifico, ma al contrario, di un obbligo non predeterminato nel suo contenuto, che acquisisce concretezza solo avuto riguardo alla specificità dell’impresa esercitata e del momento in cui quella scelta organizzativa viene posta in essere.  E va da sé che tale obbligo organizzativo può essere efficacemente assolto guardando non tanto a rigidi parametri normativi (non essendo enucleabile dal codice un modello di assetto utile per tutte le situazioni), quanto ai principi elaborati dalle scienze aziendalistiche ovvero da associazioni di categoria o dai codici di autodisciplina.  Così, come è stato efficacemente affermato, l’esistenza di un ambito discrezionale entro il quale gli amministratori possono compiere le loro scelte aventi carattere organizzativo deriva dal fatto che il legislatore ha utilizzato come criterio di condotta, a cui essi devono attenersi nella configurazione e nella verifica degli assetti societari, la clausola generale dell’adeguatezza e, dunque, una clausola elastica, al pari, della clausola di diligenza dovuta nel realizzare una scelta imprenditoriale. In definitiva, la scelta organizzativa rimane pur sempre una scelta afferente al merito gestorio, per la quale vale il criterio della insindacabilità e ciò pur sempre nella vigenza dei limiti sopra esposti e, cioè, che la scelta effettuata sia razionale (o ragionevole), non sia ab origine connotata da imprudenza tenuto conto del contesto e sia stata accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta dalla natura dell’incarico>>

Nulla da aggiungere, tutto esatto (tranne, volendo sottilizzare: l’adeguatezza non è clausola elastica, al pari della diligenza: l’adeguatezza è proprio la diligenza, applicata al profilo organizzativo della prestazione gestoria).

Del resto a ben vedere non può che essere così: dovunque ci sia discrezionalità e cioè pluralità di scelte tutte ex-ante razionalmente giustificabili, non si può che lasciare libero l’amministratore. Ci si deve infatti sempre mettere nell’ottica ex ante e curando al massimo (con specifico sforzo psicologico)  di non farsi depistare dal senno di poi, c.d.  hindsight bias

Questa affermazione di applicabilità della b.i.r. alle scelte organizzative è stata successivamente condivisa da Trib. Roma sez. spec. decr. 24.09.2020, rel. Bernardo, Giuffrida e aa. c. Prandi e aa., Foro. it., 2020/12, 3965 (che richiama il precedente “concittadino” di aprile).

Questa pronuncia del 2020, però, limita il concetto di <gestione>, quando il cocnetto sia quello di cui all’art. 2409 cc (gravi irregolarità), osservando:  <<La nuova formulazione della norma, che fa riferimento all’esistenza del fondato sospetto di «gravi irregolarità nella gestione» — a differenza della precedente formulazione dell’art. 2409 c.c. che richiedeva il «fondato sospetto di gravi irregolarità nell’adempimento dei doveri degli amministratori e dei sindaci» — consente di affermare come non assuma rilievo qualsiasi violazione di doveri gravanti sull’organo amministrativo, ma soltanto la violazione di quei doveri idonei a compromettere il corretto esercizio dell’attività di gestione dell’impresa e a determinare pericolo di danno per la società amministrata o per le società controllate, con esclusione di qualsiasi rilevanza, invece, dei doveri gravanti sugli amministratori per finalità organizzative, amministrative, di corretto esercizio della vita della compagine sociale e di esercizio dei diritti dei soci e dei terzi estranei.>>

Il punto è interessante e merita approfondimento.    A prima vista però pare arbitrario restringere il concetto di gestione nell’art. 2409 mentre lo si allarga nell’art. 2392. Nè giova la differenza di dettato tra la precedente (gr. irr. nell’adempimento dei doveri) e l’attuale versione (gr. irr. nella gestione) dell’art. 2409, come opina il Tribunale: anche nell’art. 2392, infatti,  si parla indirettamente ma sicuramente di doveri <gestionali>, dato che per l’art. 2381/1 agli amministratori incombe proprio la gestione dell’impresa (è irrilevante che la disposizione, sotto il profilo letterale, non menzioni <obblighi>) (ma non cambierebbe nulla anche considerando solamente l’art. 2392 cc).

la delibera di nomina dell’amministratore costituisce proposta contrattuale e va dunque accettata dal nominato a pena di inefficacia

Una recente decisione del Tribunale di Milano fa chiarezza su una questione che dovrebbe essere di facile soluzione, ma che invece -soprattutto in dottrina- tale non è.

Si tratta del rapporto tra società e amministratori.

Nel singolare caso sub iudice, un soggeto figurava come amministratore pur senza aver mai accettato la carica e solo perchè la società , sulla base di delibera di nomina, aveva proceduto a darvi pubblicità anche se non era mai stata accettata dal nominato. Visto che istanze stragiudiziali di correzione erano risultate inutili, al soggetto nominato non restava che agire in giudizio con domanda di accertamento negativo e altre consequenziali

Diversi autori equivocano negando la natura pienamente contrattuale del rapporto ed affermando invece altre ricostruzioni, ad es. quella del rapporto organico o della fonte statuaria dei doveri. Ma si tratta appunto di equivoci: nel primo caso, confondendo il lato esterno (società-terzi) col lato interno (società-amministratore); nel secondo caso, confodnendo la fonte del rapporto con la determinazione del suo contenuto (certamente riferentesi -de relato- all’attuazione del programma sociale).

La fonte invece non può che essre un atto negoziale privato patrimoniale e dunque un contratto.

Vediamo cosa dice il Tribunale nella sentenza 5 marzo 2020, RG 15545/2017, rel. Mambriani, Turolla c. Lamiarata srl, il cui testo può leggersi in giurisprudenzadelleimprese.it :

<Invero, la delibera di nomina dell’amministratore è un atto negoziale proprio dei soci, che presuppone [termine equivoco, facendo pensare ad un’inesistente anteriorità cronologica: meglio, ad es., “porta all'”] l’instaurazione di un rapporto contrattuale con il futuro amministratore (..) e che ha come mero oggetto la sua nomina. La presenza dell’amministratore o la sua accettazione della nomina non sono quindi elementi necessari a integrare la validità di una delibera di questo tipo, in quanto tale atto si perfeziona semplicemente con il voto favorevole dei soci che superi il quorum previsto da legge o statuto. La delibera ha quindi – con riferimento al piano qui rilevante della instaurazione del rapporto di amministrazione con  l’amministratore nominato – l’assetto di una proposta contrattuale, con la conseguenza che l’accettazione della nomina da parte dell’amministratore non è un requisito di validità della stessa, bensì un posterius, un elemento successivo che integra la fattispecie di nomina dell’amministratore e che, quando manca, non comporta l’invalidità della deliberazione di nomina, essendo essa già di per sé perfetta a seguito della sua adozione da parte dell’assemblea>

Pertanto prosegue il Tribunale <l’accettazione è quindi un atto negoziale distinto dalla nomina ma necessario per perfezionare l’efficacia della stessa. Come sopra accennato, il rapporto che si instaura tra amministratore e società è di natura contrattuale, talché è solo con la manifestazione dell’ accettazione che la volontà del soggetto nominato si incontra con la volontà manifestata dall’assemblea dei soci con l’atto di nomina dando luogo alla conclusione del contratto (cfr. art. 1326, comma 1, c.c.)>

Come si legge, per il Tribunale la mancata accettazione della nomina (oggetto di delibera) non inficia la validità della delibera, ma la rende inefficace: <Pertanto, sulla base di quanto sopra rilevato, deve essere dichiarata l’ inefficacia della delibera di nomina del Turolla quale consigliere e presidente con consiglio di amministrazione assunta da Lamiarata in data 28 luglio 2014>.

Per vero il passaggio non è esattissimo: la delibera è in sè efficace (sotto questo profilo), dato che il negozio unilaterale ivi contenuto (la proposta di nomina) può produrre e produce i suoi effetti. Semplicemente la proposta non è stata accettata dall’oblato. Per cui è inesatto dire che la delibera è inefficace: piuttosto la proposta di nomina non è stata accettata e dunque il nominato non è mai stato amminisratore.

In altre parole, il contratto tra società e potenziale amministratore non è stato concluso, sicchè il rapporto di amministrazione non  è mai sorto.

Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: modifiche al codice civile (art. 378 → art. 2476, art . 2486 c.c.)

L’articolo 378 rubricato <<Responsabilità  degli amministratori>> modifica l’art. 2476 sulla società a responsabilità limitata e l’art. 2486 sui doveri degli amministratori  in presenza di una causa di scioglimento nelle soc. di capitali.

L’art. 2476  estende alle s.r.l. l’azione di responsabilità dei creditori sociali, prevista per le società per azioni dall’art. 2394.  L’estensione non avviene tramite rinvio, ma riproponendone il contenuto in un nuovo sesto comma. La norma non è particolarmente innovativa, dal momento che la maggioranza di dottrina e giurisprudenza già si era espressa in tale senso. Però è utile perché toglie eventuali dubbi, fonti di contenzioso.

Ben più rilevante è l’innovazione dell’art. 2486.

Secondo il nuovo terzo comma di tale disposizione, quando è accertata la responsabilità degli amministratori ai sensi del medesimo articolo (meglio sarebbe stato dire: “quando è accertata la violazione dei loro doveri”: si può parlare di responsabilità solo quando un danno è accertato, il che costituisce un passaggio logicamente successivo),  il danno si presume pari alla differenza tra i patrimoni netti alla data di cessazione dalla carica/dell’apertura della procedura concorsuale, da una parte, e alla data di verificazione della causa di scioglimento, dall’altra.

Vanno tuttavia detratti i costi sostenuti o da sostenere “secondo un criterio di normalità” dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Ciò perchè sono costi, che sarebbero stati sostenuti anche con una pronta apertura della liquidazione: pertanto non possono essere considerati danno addebitabile all’amministratore (sarà da approfondire la portata della precisazione temporale: “fino al compimento della liquidazione”).

Probabilmente ci saranno anche altri criteri, in base ai quali rettificare in riduzione la differenza dei netti patrimoniali addebitabile agli amministratrori: ad es. la diminuzione di valore dei cespiti, che si sarebbe comunque verificata per il fatto in sè dell’apertura della liquidazione. In generale, andranno dedotte tutte le poste passive non addebitabili a negligenza (o dolo) degli amministratori (v. art. 1223 cc: “in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”) : cioè quelle che si sarebbero comunque manifestate.

Questa la regola di legge: è però data la possibilità di provare un diverso ammontare del danno. Il relativo onere incombe sugli amministratori.

Ancor più importante è la seconda parte  di questo nuovo terzo comma dell’articolo 2486. Qui si dice che, aperta una procedura concorsuale (quindi: solo in presenza di questa), se mancano le scritture contabili o comunque se -per irregolarità nelle stesse o per qualunque altra ragione- non siano determinabili i netti patrimoniali [basta che la indeterminabilità ne colpisca uno solo, direi], il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura.

Cioè in caso di non ricostruibilità della contabilità, la legge impone quel criterio che, seppur diffuso in passato, era ormai recessivo e in via di abbandono tra quelli adoperati dalle corti: e la ragione stava nel fatto che non rispetta le norme generali di determinazione e liquidazione del danno, enucleabili dal cit. art. 1223 c.c.

Tale criterio, essendo scollegato dalla prova di specifici inadempimenti (e delle relative conseguenze dannose), non ha struttura risarcitorio/compensativa. Dato però che non ha nemmeno struttura restitutoria nè di arricchimento ingiusto, assume una veste punitiva. La sua previsione esplicita, però, almeno ad una prima lettura, offre la copertura  di legge chiesta dall’articolo 25 Costituzione (o almeno dall’art. 23 Cost).

Resta un duplice dubbio, visto che si applica solo in presenza di procedure concorsuali:  i) cosa si intende per procedure concorsuali: il dubbio concerne soprattutto gli accordi di ristrtturazione ex art. 182 bis l.f., che per recente giurisprudenza (Cass. 21/06/2018, n. 16347, sub § 5.1, e altre Cass. ivi ricordate) sono “procedura concorsuale”, anche se molta dottrina ne dubita per più motivi, ad es. non esistendo il dovere di rispettare la par condicio creditorum (nemmeno nel nuovo art. 61 cod. crisi impr. insolv., che pure permette talora di estendere l’efficacia ai creditori non aderenti); ii) se è è giustificato che tale regola punitiva sia applicabile solo entro tale ambito applicativo, anzichè pure in questioni di responsabilità sorgenti al di fuori di una procedura concorsuale (salvo arrivarci per via analogica o per principio generale: operazione ermeneutica tuttavia implausibile, stante l’art. 14 prel.)