Responsabilità dei sindaci e transazione dell’obbligazione solidale in una recente sentenza del tribunale lagunare

Trib sez. imprese Venezia 18 sagosto 2023 n. 1476/2023, RG 550/2016, rel Campagner, esamina una lite sulla responsabilità di amminsitratori e sindaci promossa dalla curatela.

Riporto solo i passaggi sui due temi in oggetto:

Sindaci:

<<La violazione di tali obblighi è fonte di responsabilità risarcitoria, quando il danno (per la società, per i soci o per i creditori) non si sarebbe prodotto se i sindaci avessero vigilato e agito in conformità agli obblighi della loro carica.
Il che implica che l’accertamento della responsabilità dei Sindaci passa per un giudizio controfattuale, che impone di verificare se l’adozione del comportamento prescritto e l’esercizio dei poteri di vigilanza e controllo avrebbero impedito la verificazione del danno, mentre essi non rispondono in modo automatico per ogni fatto dannoso che amministratori negligenti abbiano posto in essere.
Ne discende che per poter accertare la sussistenza della responsabilità dei sindaci in concorso omissivo con il fatto illecito degli amministratori, colui che propone l’azione ex art. 2407 c.c. ha l’onere di allegare specificamente quali doveri sono rimasti inadempiuti e quali poteri non sono stati esercitati dai sindaci e di provare il danno ed il nesso di causalità tra quelle omissioni ed il danno, nesso che può ritenersi sussistente “quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica”
(art. 2407, comma 2 c.c.)>

Transazione dell’obbligo risarcirorio pro quota:

<<Le suddette transazioni si riferiscono senza distinzione alcuna all’azione già intentata dal Fallimento; come esplicitato nel testo, ciascuna transazione ha determinato lo scioglimento del vincolo di solidarietà passiva con ogni altro coobbligato concorrente e ha ad oggetto i soli crediti relativi alla quota astratta individuale di responsabilità di ciascun transigente.
Tenendo conto della distinzione tra transazione pro quota e transazione dell’intero debito (ipotesi alla quale è applicabile l’art. 1304 c.c.) come tratteggiata da C. Civ. S.U. n. 30174 del 2011, il contratto stipulato da ciascun transigente deve essere qualificato come transazione pro quota, tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva rispetto al debitore che vi aderisce; essa non può coinvolgere gli altri condebitori, i quali dunque nessun titolo avrebbero per profittarne, salvo ovviamente che per gli effetti derivanti dalla riduzione del loro debito in conseguenza di quanto pagato dal debitore transigente .

Si deve, infatti, ulteriormente precisare che, qualora risulti che la transazione ha avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che l’ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido è destinato a ridursi in misura corrispondente all’ammontare di quanto pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito; se, invece, il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l’accordo transattivo, come nel caso di specie, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura proporzionale alla quota di chi ha transatto>>

Impugnazione della delibera di revoca da parte di amministratore di s.p.a.: il caso della utility AGSM AIM spa

Trib. Venezia decr. 1644/2023 del 03.07.2023, RG 1909/2023-1, rel. Tosi, sul tema con alcuni spunti interessanti:

– l’amministratore revocato è legittimato (ed ha interesse) ad impugnare la delibera dei soci che lo revoca: corretto, poichè il vizio dedotto sta a monte della perdita della carica.

– la giusta causa conta solo ai fini del risarcimento, non della efficacia della delibera: corretto e pacifico , essendo la revoca immediata ed incondizionata.

– l’abuso nel voto da parte di in socio . E’ la parte più interessante dato che qui è fatto valere da un non socio (l’ammministratore) contro la società-

<<L’abuso del voto è figura giuridica che si impernia sulla regola per cui anche il contratto di società, come ogni altro, va eseguito in buona fede; e riguarda il caso in cui il voto sia esercitato in modo contrario alla buona fede. Il tema non riguarda pertanto l’astratto interesse della società, ma i rapporti fra i soci, parti del contratto. In linea generale ogni socio persegue, nell’esercitare i suoi diritti sociali, propri interessi ed è libero di esercitare il proprio voto come meglio crede, nell’interesse proprio [entro quelli dedotti -espicit. o implicit.  nel contratto sociale!]. Si configura abuso di maggioranza (così si intende configurato dal ricorrente il comportamento di voto del socio Verona) solo quando l’esercizio del voto da parte della maggioranza avviene al solo scopo di ledere l’interesse della minoranza [meglio: quando è difforme dallo scopo di produrre profitto sostenibile]. Diversamente, la divergenza di voto fra soci è fisiologia della vita sociale: nel caso in esame, peraltro, al dissenso fra soci in occasione della revoca dell’avv. Casali e della consigliera Vanzo, è seguita concordia nella scelta dei successori suo e della consigliera Vanzo.

In ogni caso, rispetto al requisito fondante l’abuso (l’esercizio del voto a soli fini di lesione del socio di minoranza) nulla viene allegato dal ricorrente. Egli invece chiede che il giudice si addentri nella verifica di quale sia la migliore scelta, fra le varie possibili ai soci rispetto all’ordine del giorno assembleare, rispetto alla governance sociale; il giudice dovrebbe entrare a gamba tesa nelle scelta dei soci, valutando se il voto del Comune di Verona sia conforme all’interesse sociale e addirittura apprezzando la qualità dell’operato dei consiglieri rimasti e di quelli sostituitivi, come la parte ricorrente chiede di fare nel momento in cui intende verificare i contenuti del procedimento ex art. 2409 c.p.c. che essa allega sia stato incardinato avanti a questa Sezione contro il nuovo CdA. A questo proposito, non solo non spetta al giudice operare una valutazione di opportunità della scelta della compagine sociale in punto nomina amministratori nella prospettiva ex ante, l’unica eventualmente ipotizzabile, dal punto di vista logico [punto di cvista “giuridico”, non logico!. Può poi appplicarsi la business judgment rule anche nella delibera dei soci , come per le scelte gestorie: se irrazionale -cioè in malafede- , è illegittima], rispetto alla valutazione della liceità della delibera; ma tanto meno spetta una valutazione alla luce di fatti posteriori, peraltro essi stessi sub iudice [ovvio, nemmeno andava precisato: conta solo l’ ex ante].

In realtà, nella fattispecie dell’abuso , la verifica dell’interesse sociale costituisce più che altro uno strumento di controllo, nel senso che la difficoltà di ravvisare un apprezzabile interesse sociale può costituire elemento che sorregge la verifica dello scopo lesivo; e comunque si tratta di elemento sussidiario, non principale, della fattispecie. La verifica stessa dell’interesse sociale è materia assai delicata, e tanto più lo è nel caso concreto, dove, in una prospettiva diversa da quella dell’amministratore revocato, e pur sempre riferita all’interesse sociale, va considerato che a consiglieri “divisivi” sono stati sostituiti consiglieri votati conformemente dai due soci. Questo aspetto fattuale pare peraltro rilevante anche rispetto all’apprezzamento del periculum in mora, ex  art. 2378 comma 3 c.c.>>.

Spunto finale:

<<In ogni caso, non è neppure allegato che il socio maggioritario Verona abbia votato a soli fini di lesione del socio minoritario Vicenza; e tanto basta in questa sede, non meritando addentrarsi nella verifica (che pure non appare peregrina) se all’amministratore spetti l’azione di annullamento per abuso, non essendo egli un socio>>.       Dubbio interessante posto dal giudice: ma la risposta è positiva sia qualora l’effetto si riverberi -non come mero fatto ma precisa conseguenza giuridica- sul rapporto tra società e amministratore sia per la legittimazione all’impugnazione delle delibere illegittime dei soci spettante all’amministratore.

Diritto di parola della società tramite i suoi amministratori sui temi socialmente divisivi

La Corte del Delaware 27.06.2023 , C.A. No. 2022-1120-LWW, Simeone v. Walt Diusney, sulla nota controversia tra Ron De Santis e la Walt Disney, a seguito della decisione della seconda di opporsi alla legge c.d.  «Don’t Say Gay» (il primo aveva minacciato di far perdere alla seconda benefici fiscali, con esternazione vagamente minatoria).

Il tema è interessnte, divenendo sempre più attuale l’intervento dei CEOs sui temi socialmente significativi.

C’è un profilo esterno (diritto di parola in senso tecnico in capo ad ente lucrativo) e uno interno (doveri del manegement verso i soci): i quali sono correlati (è il secondo a porre limiti al primo?).

Lite nata da istanza di accesso ai libri contabili secondo la Sec. 220, sempre più spesso azionata per facilitare le successive azioni di responsabiiità (v.  saggi di Roy Shapira)

Riporto quanto segue:

<< Far from suggesting wrongdoing, the evidence here indicates that the Board actively engaged in setting the tone for Disney’s response to HB 1557.132 The Board did not abdicate its duties or allow management’s personal views to dictate Disney’s response to the legislation. Rather, it held the sort of deliberations that a board should undertake when the corporation’s voice is used on matters of social significance.

As Chapek told stockholders during Disney’s 2022 annual meeting, the company’s original approach to HB 1557 “didn’t quite get the job done.” The company, facing widespread backlash from its staff and creative talent, changed course after the full Board held a special meeting about “Political Engagement and Communications.” The Board discussed “the communications plan, philosophy and approach regarding Florida legislation and employee response.” Only then did Chapek announce that Disney opposed the bill. The Board’s consideration of employee concerns was not, as the plaintiff suggests, at the expense of stockholders.

A board may conclude in the exercise of its business judgment that addressing interests of corporate stakeholders—such as the workforce that drives a company’s profits—is “rationally related” to building long-term value. Indeed, the plaintiff acknowledges that maintaining a positive relationship with employees and creative partners is crucial to Disney’s success. It is not for this court to “question rational judgments about how promoting nonstockholder interests—be it through making a charitable contribution, paying employees higher salaries and benefits, or more general norms like promoting a particular corporate culture—ultimately promote stockholder value.”>>

Azione di responsabilità verso l’amministratore di SRL e azione per conflitto di interessi: non sono uguali

Non c’è sempre chiarezza concettuale sul rapporto tra le due azioni.

Cass. sez. I del 13.03.2023 n. 7279, rel. Nazzicone, prima pare far confusione:

<<La facoltà per la società di agire, ai sensi dell’art. 2475-ter c.c., per l’annullamento dei contratti conclusi dagli amministratori in conflitto di interessi, per conto proprio o di terzi, ove il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo, non esclude, invero, che la medesima condotta sia posta a fondamento non di un’azione caducatoria – qual è quella prevista nella norma menzionata – ma dell’azione di risarcimento del danno patito dalla società>>.

Ovvio che <non esclude>: l0azione diannullamento exc art. 2475 ter ha presupposti ed efetto diversi da quella di danno exc art. 2476 c.1 cc. Quindi pià che non esclude avrebbe dovuto diure “è altro da”.

Seguono precisazioni (ma solo teoriche e quindi vaghe) sul concetto di conflitto.

Poi ne giungono altre sull’azione di danno, un pò più centrate:

<<Più in generale, l’azione di responsabilità sociale è esperibile nei confronti dell’amministratore ogni qualvolta le sue condotte, valutate ex ante, risultino manifestamente avventate e imprudenti, né assumendo rilievo il principio di insindacabilità degli atti di gestione in presenza di scelte di natura palesemente arbitraria (Cass. 16 dicembre 2020, n. 28718).

Pertanto, nel caso di conflitto di interessi con la società rappresentata, la sfera dei poteri di indagine del giudice si amplia, potendo essere considerato il merito di quella scelta, nel senso che il giudice è chiamato a valutare la ragionevolezza della stessa, secondo un giudizio ex ante, tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo nonché della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione (cfr., fra le altre, Cass. 22 giugno 2020, n. 12108; Cass. 22 giugno 2017, n. 15470). [No, mai si entra nel merito: solo chje la negligenza qui comprende il conflitto]

L’amministratore, dunque, risponde dei danni causati alla società, qualora abbia fatto prevalere l’interesse extrasociale, come dovrà accertarsi da parte del giudice di merito, allorché verifichi che egli abbia agito senza che la scelta abbia un fondamento razionale o se non sia accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta, ma sia, al contrario, connotata da imprudenza (o, addirittura, da dolo).

In particolare, ove si deduca la conclusione di un contratto in conflitto di interessi, non basta che il terzo abbia un interesse diverso o anche contrario a quello della società – situazione che può porsi, di regola, per i contratti sinallagmatici, ove al vantaggio economico prodotto da una condizione contrattuale per una parte corrisponde specularmente una minore convenienza per l’altra – dovendo essere interessi fra loro incompatibili e fare difetto i presupposti per addivenire a quel regolamento contrattuale, in quanto l’accordo non risponda a nessun interesse della società e sia per essa pregiudizievole>>.

Nullità ed annullamento di delibera societaria tra rilevabilità di ufficio da parte del giudice e potere dispositivo della parte

Cass. sez. I del 18.04.2023 n. 10.233, rel. Dongiacomo:

<<4.11. Vanno, dunque, affermati i seguenti principi:

– il giudice, se investito dell’azione di nullità di una delibera assembleare, ha sempre il potere (e il dovere), in ragione della natura autodeterminata del diritto cui tale domanda accede, di rilevare e di dichiarare in via ufficiosa, e anche in appello, la nullità della stessa per un vizio diverso da quello denunciato;

– se, invece, la domanda ha per oggetto l’esecuzione o l’annullamento della delibera, la rilevabilità d’ufficio della nullità di quest’ultima da parte del giudice nel corso del processo e fino alla precisazione delle conclusioni dev’essere coordinata con il principio della domanda per cui il giudice, da una parte, può sempre rilevare la nullità della delibera, anche in appello, trattandosi di eccezione in senso lato, in funzione del rigetto della domanda ma, dall’altra parte, non può dichiarare la nullità della delibera impugnata ove manchi una domanda in tal senso ritualmente proposta, anche nel corso del giudizio che faccia seguito della rilevazione del giudice, dalla parte interessata;

– nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, tale potere (e dovere) di rilevazione non può essere esercitato dal giudice oltre il termine di decadenza, la cui decorrenza è rilevabile d’ufficio e può essere impedita solo dalla formale rilevazione del vizio di nullità ad opera del giudice o della parte, pari a tre anni dall’iscrizione o dal deposito della delibera stessa nel registro delle imprese ovvero dalla sua trascrizione nel libro delle adunanze dell’assemblea>>.

Si noti poi la negazione della contrattualità (parrebbe, anche se solo in relazione al processo) dei rapporti societari:

<<4.5. In effetti, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, il principio per cui il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare in via ufficiosa, ove emergente dagli atti, l’esistenza di un diverso vizio di nullità, è suscettibile di applicazione estensiva anche nel sottosistema societario, e, precisamente, nell’ambito delle azioni di impugnazione delle deliberazioni assembleari, benché non assimilabili ai contratti, trattandosi, tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, di domanda pertinente ad un diritto autodeterminato (cfr., sul primo punto, Cass. SU n. 26242 del 2014, in motiv., punti 6.13.3. e ss. e, in particolare, 6.13.6., lì dove di evidenzia che “il giudizio di nullità/non nullità del negozio… sarà, così, definit(iv)o e a tutto campo indipendentemente da quali e quanti titoli di nullità siano stati fatti valere dall’attore”, e, sul secondo punto, Cass. n. 8795 del 2016), e cioè individuata a prescindere dallo specifico vizio (rectius, titolo) dedotto in giudizio: come, in effetti, accade per la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, individuati, appunto, sulla base della sola indicazione del relativo contenuto, con la conseguenza che, per un verso, la causa petendi delle relative azioni giudiziarie si identifica con i diritti stessi e non con il relativo titolo (contratto, successione ereditaria, usucapione, ecc.) che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non ha, per l’effetto, alcuna funzione di specificazione della domanda, e, per altro verso, non viola il divieto dello ius novorum in appello la deduzione da parte dell’attore ovvero il rilievo ex officio iudicis di un fatto costitutivo del tutto diverso da quello prospettato in primo grado a sostegno della domanda introduttiva del giudizio (Cass. n. 23565 del 2019)>>.

Il punto andava spiegato un poco, dato che in linea di principio il rapporto di società è pienamente contrattuale: anche se l’esito non sarebbe cambiato, valorizzando i giudici il comune profilo dell’autodeterminazione.

Responsabilità del revisore per mancato disinvestimento da parte del socio? Negata per mancata prova della reale possibilità disinvestimento e del nesso causale

Così Trib. Milano n. 132/2023, RG 18268/2020, rel. Alima Zana, relativamente a domanda di danno proposta da socio di Banca Popolare di Vicenza spa contro il revisore KPMG.

<<In limine, va in proposito rammentare che:
• nel caso di perdita di chance il nesso causale che deve essere dimostrato dall’attore è ipotetico,
giacché è di natura ipotetica il nesso che si predica tra l’assenza dell’illecito (che invece si è
verificato) e la esistenza della chance (che invece è venuta meno o non si è verificata);
• il giudice è tenuto quindi a formulare quella che viene definita una “prognosi postuma”,
ricostruendo la situazione ipotetica che si sarebbe verificata in assenza dell’illecito;
• il soggetto che si dichiara vittima dell’illecito deve quindi provare:
I.  l’esistenza reale di una chance;
II.  che la chance sia venuta meno per effetto diretto del comportamento illecito,
seppure utilizzando il criterio civilistico della c.d. probabilità prevalente>>

E’ mancata però la prova di entrambi i requisiti (sia I che II)

I): non c’è prova che, anche avesse saputo, sarebbe riuscito a disinvestire:

<< Ed in particolare, quanto al requisito sub I, va con considerato che:
✓ le azioni litigiose erano per loro natura illiquide.
Invero le stesse non erano strumenti finanziari quotati su mercati regolamentati.
Le azioni BPVI erano dunque connaturate da un intrinseco carattere di illiquidità (“le
azioni della Banca Popolare di Vicenza non erano quotate in borsa e come tali si
caratterizzavano, in linea generale, per una scarsa possibilità di smobilizzo entro un
lasso di tempo ragionevole a condizioni di prezzo significativo” cfr. Tribunale di Milano,
sent. 8390/2021, in un caso del tutto analogo, afferente sempre alla domanda risarcitoria
esercitata contro il revisore a causa del mancato disimpegno di azioni di Banca Popolare
di Vicenza nella stessa frazione temporale qui considerata);
✓ avvicinandosi al periodo critico qui oggetto indagine, il disinvestimento -che già in sé
presentava rischi- era poi divenuto assai difficile, fino a poter essere diventare quasi
“impossibile” già nel 2014, come precisato Banca in occasione dell’aumento di Capitale
2014 a cui l’attore risulta avere partecipato;3
✓ proprio in data 24.4.2015 -in occasione dell’approvazione del bilancio di esercizio al
31.12.2014, momento in cui l’attore colloca la propria decisione di non procedere al
disinvestimento, tenuto conto della relazione accompagnatoria positiva del revisore- la
Banca dava atto della sopraggiunta impossibilità di assorbire le domande di vendita delle
proprie azioni. E ciò atteso il totale blocco del cd. “mercato interno” gestito dallo stesso
istituto di credito negli anni precedenti per agevolare le richieste di vendita dei titoli,
mediante utilizzo del Fondo per acquisto di azioni proprie, essendo stata azzerata medio
tempore da parte della BCE la possibilità di utilizzare di tale Fondo.4
Dunque, non vi è prova del requisito sub I, ossia di una reale chance di un disimpegno del
pacchetto litigioso- neppure attraverso la Banca- in tempi contenuti ad un prezzo ragionevole >>

Quanto a II), manca la prova del nesso di causa:

<<Quanto al requisito sub II, va osservato che:
✓ operando un giudizio c.d. controfattuale, c.d. della prognosi postuma, la condotta
alternativa di KPMG – attraverso lo svolgimento, secondo l’attore, a regola d’arte delle
verifiche prodromiche all’attestazione del bilancio al 31.12.2014 e con conseguente
disvelamento del vero della consistenza effettiva del patrimonio della banca- non
avrebbe comunque attribuito a parte attrice ragionevoli chance di smobilitare a
condizioni proficue il proprio investimento;
✓ infatti, non potendo accedere l’attore in via privilegiata ed anticipata alle corrette
informazioni -che ritiene illecitamente essergli state celate- rispetto agli altri operatori,
l’unico effetto della condotta alternativa di KPMG sarebbe stato invero di anticipare nel
tempo gli eventi poi realmente accaduti ed in particolare il deprezzamento delle azioni
della banca a € 0,10 ciascuna. Con conseguente impossibilità per l’attore di collocare il
proprio pacchetto azionare a prezzo conveniente, superiore al valore poi attribuito.
Manca dunque anche la prova del requisito sub II, non essendovi alcun riscontro che la
condotta alternativa lecita di KPMG (non in tesi non si è verificata) avrebbe impedito
all’investitore di perdere il valore delle proprie azioni (evento invece verificatosi). In
altre parole, non vi è prova che la relazione positiva del revisore sul bilancio al
31.12.2014 abbia cagionato la perdita di chance di vendita del pacchetto azionario
litigioso a prezzo conveniente, grazie all’acquisizione privilegiata rispetto al resto degli investitori delle corrette informazioni.
Con conseguente carenza del nesso di causalità, non essendo la perdita subita dall’attrice causalmente connessa alle carenze informative denunciate, invece presumibilmente riconducibile all’oscillazione del valore delle azioni propria dei titoli non quotati in borsa di cui l’investitore ha assunto consapevolmente il rischio>>.

Responsabilità degli amministratori societari: il dovere di controllo nei confronti dei cybersecurity risks

Interessante pronuncia della corte del Delaware sull’oggetto (esito infausto per gli attori): COURT OF CHANCERY OF THE STATE OF DELAWARE  , C.A. No. 2021-0940-SG , del 6 settembre 2022, CONSTRUCTION INDUSTRY LABORERS PENSION FUND ed altri c. Bingle ed altri (v.la nel sito delle corti Delaware).

La negligenza addebitata era di non aver prevenuto attacchi da hacker russi, nonostante alcune red flags di deficenza del sistema. L’azienda forniva supporto informatico a clienti importanti e tramite questa sua omissione permise la diffuse di virus nei loro server.

Conclusione del giudice Glasscock, p. 35/6: <<To recapitulate, a subpar reporting system between a Board subcommittee and the fuller Board is not equivalent to an “utter failure to attempt to assure” that a reporting system exists.138 The short time period here between the IPO and the trauma suffered, together with the fact that the Board apparently did not request a report on cybersecurity in that period, is not sufficient for me to infer an intentional “sustained or systematic failure” of oversight,139 particularly given directors are presumed to act in good faith.140 And again, the Complaint is silent as to what the Committees should in good faith have reported, and how it could have mitigated corporate trauma. Carelessness absent scienter is not bad faith. In sum, the Complaint has not pled sufficient particularized facts to support a reasonable inference of scienter and therefore actions taken in bad faith by the Board. Without a satisfactorily particularized pleading allowing reasonably conceivable inference of scienter, a bad faith claim cannot survive a motion to dismiss. Because the Caremark claim is not viable, there is no substantial likelihood of liability attaching to a majority of the directors on the demand Board. Therefore, demand on the Board would not have been futile>>.

Va richiamato anche un precedente 2021 sempre del Delaware e sempre in tema di responsabilità per cybersecurity risks: Firemen’s Retirement System of St. Louis v. Arne M. Sorenson, et al. (Marriott International, Inc.) del 05 ottobre 2021,  C.A. No. 2019-0965-LWW .

E a questo punto pure uno del 2020 seppur non da cyber risks mna pur sempre sul dovere di oversight degli amminisratori: Richardson v. Clark ad altri 31.12.2020, C.A. No. 2019-1015-SG ,

Il dovere di oversight (su molestie/harassment) grava su tutti gli amministratori, anche solo Officers e non membri del Board of Directors: la sentenza IN RE McDONALD’S CORPORATION STOCKHOLDER DER. LITIG. del Delaware (sul caso Fairhurst)

Il tribunale del Delaware ha emsso sentenza 26.01.2023 , C.A. No. 2021-0324-JTL, nel caso IN RE McDONALD’S CORPORATION STOCKHOLDER DERIVATIVE LITIGATION.

In breve Fairhurst, capo del personale di McDonal’s, non avrebbe promosso azioni per contrastare l’harassment di personale femminile; anzi lui stesso si sarebbe reso colpevole di condotte improprie. Alcuni soci agirono nei suoi confronti per danno alla società

Da noi l’art.  2392 cc regola la responsabilità plurisogettiva. Nel caso specifico, presupponendosi l’organizzaizone di monitoraggi adeguati sul rischio di violazioni di harassmdent, va tenuto conto pure del riparto di competenze tra esecutivi e board posto dall’art. 2381 cc

Dalla sentenza: <<The board’s need for information leads ineluctably to an imperative for officers to generate and provide that information ….. For relevant and timely information to reach the board, the officers who serve as the day-to-day managers of the entity must make a good faith effort to ensure that information systems are in place so that the officers receive relevant and timely information that they can provide to the directors. Think Strategically, supra, at 488. It follows that officers must have a duty to make a good faith effort to establish an information system as a predicate to fulfilling their obligation to provide information to the board. Id. at 488–89>>.

E subito dopo:  <<A related point is that officers must make decisions in their own right. . >>, p. 24.

Quindi: <<A third reason that Chancellor Allen provided for recognizing the board’s duty ofoversight was the importance of having compliance systems in place so the corporation  could receive credit under the federal Organizational Sentencing Guidelines. Id. at 970>, § 25.

<<The dimension of the oversight duty that supports the Red-Flags Claim also applies to officers>>, p. 26. T

<<For similar reasons, officers generally only will be responsible for addressing or reporting red flags within their areas of responsibility, although one can imagine possible exceptions. If a red flag is sufficiently prominent, for example, then any officer might have a duty to report upward about it. An officer who receives credible information indicating that the corporation is violating the law cannot turn a blind eye and dismiss the issue as “not in my area.” >>, p. 42.

<<The arguments about the oversight regime that should apply to officers parallel the arguments about whether an officer’s duty of care should resemble the director regime and require a showing of gross negligence, or whether it should track the agency regime and require only simple negligence. Scholars engaged in extensive debate on that topic>>, p. 46.

Molto interessant, infine, l’elenco delle red flags con relative risposte, pp. 55-60

Il compenso dell’amministratore di s.p.a. (tra delibera assembleare e delibera del CdA per “particolari cariche”)

Trib. Venezia 15.07.2021, n. 1449/2021, RG 8208/2018, rel. Torresan, precisa il rapporto tra il c. 1 e il c. 3 dell’art. 2389 cc:

<<La ratio della disposizione [cioè dell’2389 comma 3]  è quella di conferire ai componenti dell’organo amministrativo la facoltà di deliberare in ordine al compenso di coloro che, al suo interno, rivestono cariche connotate da un particolare ed elevato grado di impegno e di responsabilità : e ciò in ragione del fatto che la quantificazione di tale compenso sottende una valutazione tecnica che si ritiene possa essere formulata nel modo migliore proprio da parte del consiglio stesso.
L’organo amministrativo deve tuttavia rispettare i limiti, inderogabili, dettati dalla legge e dallo statuto, non potendo, l’art. 2389 cod civ. consentire al CdA di eludere la disciplina dell’art. 2389 cod. civ. che attribuisce all’assemblea o allo statuto il potere determinare il compenso degli amministratori, anche al fine di evitare che gli stessi possano autoattribuirsi ed arbitrariamente determinare i propri compensi .
In particolare, qualora lo statuto preveda che l’assemblea determini un ammontare complessivo per la remunerazione dei compensi degli amministratori, compresi quelli che esercitano particolari cariche, il CdA non potrà deliberare compensi ulteriori.
Nel caso in esame, lo statuto di Sitland ( doc. n. 20 di parte attrice) spa espressamente prevede, all’art. 33, che il consiglio di amministrazione possa delegare, nei limiti di cui all’art. 2381 cod. civ., parte delle proprie attribuzioni a uno o più dei suoi componenti, determinandone i poteri e la relativa remunerazione.
In tema di remunerazione degli amministratori, l’art. 36 stabilisce, invece, che il compenso degli amministratori sia determinato dell’assemblea all’atto della nomina.
L’art. 36.2 , in conformità a quanto prescritto dall’art. 2389, comma 3, cod. civ., prevede inoltre che la remunerazione degli amministratori investiti della carica di Presidente, Amministratore o consigliere delegato sia stabilita dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del parere del consiglio sindacale, nel rispetto dei limiti massimi determinati dall’assemblea.
È quindi chiaro che il compenso attribuito agli amministratori anche se dotati di particolari cariche non può eccedere l’ammontare massimo del compenso determinato dall’assemblea>>.

Sulla sostituzione di deliberazione invalida con nuova deliberazione

Trib. Roma n° 17476/2022 del 25.11.2022, RG 53880/2018, rel. Goggi, sull’oggetto:

<<Secondo, infatti, l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale maggiormente
condivisibile che si è affermato in materia (cfr. Trib. di Monza 5/3/2001), dopo la
sostituzione, l’annullamento della prima delibera è precluso, in ogni caso, per effetto della cessazione della materia del contendere, essendo riservato al giudice della impugnazione della seconda delibera, specie nell’ipotesi, come quella per cui è causa, in cui il giudizio sia tuttora pendente, ogni sindacato sulla legittimità dell’atto di rinnovo.
Tale tesi si fonda sul presupposto, di cui non sembra potersi dubitare, dell’efficacia estintiva degli effetti della deliberazione sostituita da attribuirsi alla nuova deliberazione avente lo stesso oggetto della prima: la nuova delibera, invero, priva di ogni effetto la delibera che ha sostituito e tale sua efficacia mantiene fin tanto che non venga annullata per essere, a sua volta, contraria alla legge o allo statuto. Ne consegue che la sua eventuale non conformità alla legge o allo statuto – prevista dall’art. 2377 c.c. quale condizione per l’operatività della preclusione all’annullamento della delibera impugnata – potrebbe privarla di tale efficacia estintiva degli effetti della prima delibera solo se venisse annullata a seguito di un autonomo giudizio di impugnazione, giudizio che non può essere introdotto nell’ambito del giudizio di impugnazione avente per oggetto la delibera sostituita – stante la diversità dell’oggetto e la conseguente novità dell’eventuale domanda così introdotta in tale giudizio – né essere oggetto di un accertamento incidentale, ai soli fini della verifica delle condizioni di operatività della norma contenuta nell’ottavo comma dell’art. 2377 c.c., stante la necessità, allo scopo di privare di efficacia la delibera successivamente adottata, di una pronuncia costitutiva di annullamento, per sua natura incompatibile con un accertamento incidenter tantum. Al giudice dell’impugnazione della prima delibera, pertanto, è preclusa ogni valutazione circa la validità della delibera sostitutiva, con la sola eccezione, come è stato correttamente osservato in dottrina, della possibilità di rilevare, ove ricorrano, vizi comportanti la nullità della stessa delibera a norma dell’art. 2379 c.c.; tale nullità, infatti, comportando l’improduttività di qualsiasi effetto della (seconda) delibera, rilevabile anche d’ufficio, senza necessità di alcuna pronuncia costitutiva, potrebbe essere assoggettata, indipendentemente dall’impugnazione da parte degli interessati, a sindacato incidentale in seno al processo originato dall’impugnazione della delibera originaria>>

OK, può essere sia così. Solo che  nel caso sub iudice si tratta di rapporto tra delibere di organi diversi (Cda e assemblea soci), mentre la legge regola la sostituzione tra delibere dello stesso organo: il Tribunale avrebbe dovuto motivare sul punto.

Andrebbe poi approfondito il fatto che la delibera sostiotutiva dell’assemblea dei soci era solo “ratificante” l’indicazione del CdA