Spese ordinarie e straordinarie a favore dei figli nel riparto tra coniugi divorziati

Analiticamente sujlla distinzione in ogetto Cass.  ord. sez. I del 18/03/2024 n. 7.169, rel. Reggiani:

in generale:

<<5.1. Questa Corte ha già chiarito che, in materia di spese straordinarie, occorre in via sostanziale distinguere tra: a) gli esborsi che sono destinati ai bisogni ordinari del figlio e che, certi nel loro costante e prevedibile ripetersi, anche lungo intervalli temporali più o meno ampi, anche se sono incerti nel loro ammontare, sortiscono l’effetto di integrare l’assegno di mantenimento e possono essere azionati in forza del titolo originario di condanna adottato in materia di esercizio della responsabilità nei giudizi separativi previsti dall’art. 337-bis c.c., previa un’allegazione che consenta, con mera operazione aritmetica, di preservare del titolo stesso i caratteri della certezza, liquidità ed esigibilità; b) le spese che, imprevedibili e rilevanti nel loro ammontare, in grado di recidere ogni legame con i caratteri di ordinarietà dell’assegno di contributo al mantenimento, richiedono, per la loro azionabilità, l’esercizio di un’autonoma azione di accertamento, in cui convergono il rispetto del principio dell’adeguatezza della posta alle esigenze del figlio e quello della proporzione del contributo alle condizioni economico-patrimoniali del genitore onerato in comparazione con quanto statuito dal giudice che si sia pronunciato sul tema della responsabilità genitoriale nei procedimenti sopra menzionati (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 379 del 13/01/2021).

In tale ottica, Questa Corte ha ritenuto che le spese scolastiche e mediche straordinarie, che in sede giudiziale siano state poste pro quota a carico di entrambi i coniugi, pur non essendo ricomprese nell’assegno periodico forfettariamente determinato, ne condividono la natura, qualora si presentino sostanzialmente certe nel loro ordinario e prevedibile ripetersi, così integrando, quali componenti variabili, l’assegno complessivamente dovuto, sicché il genitore che abbia anticipato tali spese può agire in via esecutiva, per ottenere il rimborso della quota gravante sull’altro, in virtù del titolo sopra menzionato, senza doversi munire di uno ulteriore, richiesto solo con riguardo a quelle spese straordinarie che per rilevanza, imprevedibilità ed imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita della prole (così Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 3835 del 15/02/2021).

Secondo la Corte, in particolare, le spese mediche e scolastiche, da ritenersi comprese nella categoria delle spese straordinarie routinarie, sono quegli esborsi (per l’acquisto di occhiali, per visite specialistiche di controllo, per pagamento di tasse scolastiche, ecc…) che, pur non ricompresi nell’assegno fisso periodico di mantenimento – ove il titolo preveda espressamente, in aggiunta ad esso, il pagamento del 50% delle spese mediche straordinarie e delle spese scolastiche – tuttavia, nel loro ordinario riproporsi, assumono una connotazione di probabilità tale da potersi definire come sostanzialmente certe cosicché esse, se non predeterminabili nel quantum e nel quando, lo sono invece in ordine all’an (v. ancora Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 3835 del 15/02/2021).    Siffatte spese, che nella sostanza finiscono per rispondere ad ordinarie e prevedibili esigenze di mantenimento del figlio, tanto da assumere nel loro verificarsi una connotazione di certezza, anche se non ricomprese nell’assegno forfettizzato e periodico di mantenimento, possono essere richieste, tuttavia, quale parte “non fissa” del primo di cui condividono la natura, in rimborso dal genitore anticipatario sulla base della loro elencazione in precetto ed allegazione in sede esecutiva al titolo già ottenuto, senza che, per ciò, insorga la necessità di fare accertare, nuovamente in sede giudiziale e per un distinto titolo, la loro esistenza e quantificazione.

Nella stessa ottica, la S.C. ha ritenuto che la spesa per la frequentazione degli studi universitari lontano dal luogo di residenza, nella parte riferibile all’alloggio, rientra nelle vere e proprie spese straordinarie, in ragione, quanto meno, della sua usuale rilevanza, oltre che, normalmente, dell’imprevedibilità della sede presso cui lo studente deciderà di svolgere i propri studi (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 19532 del 10/07/2023).

Le vere spese straordinarie, infatti, non sono prevedibili e per la loro rilevanza e imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli, con la conseguenza che la loro sussistenza giustifica un accertamento giudiziale specifico a seguito dell’esercizio di apposita azione.

La ratio che sostiene la non ricomprensione di dette spese nell’ammontare dell’assegno in via forfettaria posto a carico di uno dei genitori è il contrasto che altrimenti si realizzerebbe con il principio di proporzionalità e adeguatezza del mantenimento sancito dall’art. 337-ter, comma 4, c.c. e il rischio di un grave nocumento per il figlio che potrebbe essere privato di cure necessarie o di altri indispensabili apporti, ove non sia consentito dalle possibilità economiche del solo genitore beneficiario dell’assegno.>>

Poi sul criterio di riparto:

<<5.5. Com’è noto, l’art. 337-ter c.c. (applicabile anche ai figli maggiorenni ancora non indipendenti economicamente) stabilisce, per quanto riguarda le statuizioni riguardanti la prole nei cosiddetti giudizi separativo, che “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio. 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori. 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore. 4) le risorse economiche di entrambi i genitori. 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”.

Dalla norma appena richiamata emerge con chiarezza l’obbligo di mantenimento dei figli ha due dimensioni.

Da una parte vi è il rapporto tra genitori e figlio e da un’altra vi è il rapporto tra genitori obbligati.

Il principio di uguaglianza che accumuna i figli di genitori coniugati ai figli di genitori separati o divorziati, come pure a quelli nati da persone non unite in matrimonio (che continuano a vivere insieme o che hanno cessato la convivenza), impone di tenere a mente che tutti i figli hanno uguale diritto di essere mantenuti, istruiti, educati e assistiti moralmente, nel rispetto delle loro capacità delle loro inclinazioni naturali e delle loro aspirazioni (art. 315-bis, comma 1, c.c.).

È per questo che l’art. 337-ter c.c., nel disciplinare la misura del contributo al mantenimento del figlio, nel corso dei giudizi disciplinati dall’art. 337-bis c.c., pone subito, come parametri da tenere in considerazione, le attuali esigenze dei figli e il tenore di vita goduto da questi ultimi durante la convivenza con entrambi i genitori (art. 337-ter, comma 4, nn. 1) e 2), c.c.).

I diritti dei figli di genitori che non vivono assieme, infatti, non possono essere diversi da quelli dei figli di genitori che stanno ancora insieme, né i genitori possono imporre delle privazioni ai figli per il solo fatto che abbiano deciso di allontanarsi.

Nei rapporti interni tra genitori vige, poi, il principio di proporzionalità rispetto al reddito di ciascuno.

Per i genitori sposati, il dovere di contribuire al mantenimento del figlio è regolato dall’art. 143, comma 3, c.c. che sancisce il dovere di entrambi i coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alle capacità di lavoro professionale e casalingo.

In generale, l’art. 316-bis, comma 1, c.c. prevede, poi, che i genitori (anche quelli non sposati) devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo.

Lo stesso criterio di proporzionalità deve essere seguito dal giudice, quando, finita la comunione di vita tra i genitori (siano essi sposati oppure no) è chiamato a determinare la misura del contributo al mantenimento da porre a carico di uno di essi, dovendo considerare le risorse economiche di ciascuno (art. 337-ter, comma 4, n. 4), c.c.), valutando anche i tempi di permanenza del figlio presso l’uno o l’altro genitore e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascuno (art. 337-ter, comma 4, nn. 3) e 5), c.c.), quali modalità di adempimento in via diretta dell’obbligo di mantenimento che, pertanto, incidono sulla necessità e sull’entità del contributo al mantenimento in termini monetari.

Ciò che emerge dal quadro normativo è, prima di tutto, che il legislatore non opera alcuna distinzione tra spese ordinarie e spese straordinarie e la previsione di un assegno periodico è stabilita come possibile, “ove necessario … al fine di realizzare il principio di proporzionalità”.

Anche l’individuazione di spese straordinarie che non siano comprese nell’importo predeterminato nell’assegno di mantenimento, assume, pertanto significato in vista della salvaguardia del principio di proporzionalità.

D’altronde, la determinazione del contributo al mantenimento viene effettuata sulla base delle spese che prevedibilmente si compiono per il figlio al momento in cui tale contributo è determinato, le quali, poi, vengono ripartite tra i genitori in proporzione delle rispettive consistenze e dei diversi apporti dati da ciascuno.

La valutazione va fatta considerando in concreto gli elementi di valutazione menzionati nell’art. 337-ter c.c., tenendo conto della situazione attuale, e nell’attualità viene effettuata la ponderazione della proporzione.

Tutto ciò che è previsto o comunque prevedibile e ponderabile, nei termini sopra indicati, deve, pertanto, ritenersi compreso nell’assegno di mantenimento del figlio, che è oggetto di quella valutazione ponderata necessaria per distribuire proporzionalmente tra i genitori le spese per i figli. Tutto ciò che non è previsto né prevedibile e ponderabile al momento della determinazione dell’assegno, non è compreso nell’assegno e, se di rilevante entità, deve essere considerato come un esborso straordinario.

La prevedibilità e la ponderabilità, in concreto e nell’attualità, della spesa, va dunque riferita al tempo della determinazione del contributo e senza dubbio non può riguardare spese neppure ipotizzabili al tempo della determinazione dell’assegno perché suscettibili di possibile verificazione molti anni dopo (come la frequentazione universitaria di un bambino), e dunque prive del requisito dell’attualità>>.

Principio di diritto:

“In tema di mantenimento dei figli, costituiscono spese straordinarie, non comprese nell’ammontare dell’assegno ordinario previsto con erogazione a cadenza periodica, quelle che (ove non oggetto di espressa statuizione, convenzionale o giudiziale) non siano prevedibili e ponderabili al tempo della determinazione dell’assegno, in base a una valutazione effettuata in concreto e nell’attualità degli elementi indicati nell’art. 337-ter, comma 4, c.c. e che dunque, ove in concreto sostenute da uno soltanto dei genitori, per la loro rilevante entità, se non intese come anticipazioni dell’obbligo di entrambi i genitori, produrrebbero l’effetto violativo del principio di proporzionalità della contribuzione genitoriale, dovendo infatti attribuirsi il carattere della straordinarietà a quegli ingenti oneri sopravvenuti che, in quanto non espressamente contemplati, non erano attuali né ragionevolmente determinabili al tempo della quantificazione (giudiziale o convenzionale) dell’assegno”.

Ilpossesso di stato non si applica all’adozione

Cass. sez. II, ord. 14/03/2024  n. 6.820, rel. Besso Marcheis:

<< 3. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 237 c.c.: la Corte d’appello ha erroneamente ritenuto che l’articolo non possa essere applicato al caso in esame [di adozione, nds], in quanto strumento utilizzato al fine di provare lo stato di figlio nato nel matrimonio in mancanza dell’atto di nascita; nel caso di specie ci si trova di fronte a un’adozione avvenuta secondo una disciplina non più in vigore che legittimava l’adozione nei confronti di un solo coniuge, per cui il possesso di stato combinato con la nuova normativa farebbe sì che il ricorrente possa e debba essere considerato figlio adottivo di Di.Te.

Il motivo non può essere accolto. L’art. 237 c.c., rubricato “fatti costitutivi del possesso di stato”, è collocato nel capo dedicato alle prove della filiazione (l’aggettivo “legittima” è stato cancellato dal d.gs. n. 154/2013, con l’intento di unificare la disciplina delle prove della filiazione) e rappresenta, insieme all’art. 236 c.c., rubricato “atto di nascita e possesso di fatto” la norma più significativa in materia di possesso di stato. L’art. 236 dispone al primo comma che la filiazione si prova con l’atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile e al secondo comma che, in mancanza di questo titolo, basta il possesso continuo dello stato di figlio, così come specificato al successivo art. 237, articolo che, a sua volta, ci dice che il possesso di stato risulta da una serie di fatti – dei quali il secondo comma indica gli indispensabili – “che nel loro complesso valgano a dimostrare le relazioni di filiazione e di parentela fra una persona e la famiglia a cui essa pretende di appartenere”.

I fatti costitutivi del possesso di stato bastano, in mancanza dell’atto di nascita, a provare la filiazione. Nel caso in esame – e a prescindere da come vada interpretata la parola mancanza, ossia come semplice vizio o assenza, originaria o sopravvenuta, dell’atto – non ci troviamo di fronte a un atto di nascita mancante o invalido, ma a un atto di adozione valido. A fronte di tale valido atto di adozione si vorrebbe fare scaturire da una serie di fatti (che Di.Te. abbia trattato il ricorrente come figlio e che come tale egli sia stato considerato dalla famiglia e nei rapporti sociali) lo status di figlio, riconoscendo quindi al possesso una funzione non solo probatoria, ma costitutiva dello status medesimo. Come si è detto, gli artt. 236 e 237 c.c. sono collocati nel capo destinato a disciplinare le prove della filiazione, così che il loro ambito è dal legislatore circoscritto alla sfera probatoria e d’altro canto il dibattito dottrinario sul possesso di stato ha sottolineato le differenze rispetto all’istituto del possesso sulle cose, c.d. in senso tecnico, di cui agli artt. 1140 segg. c.c., appunto evidenziando come in materia familiare il possesso non costituisca la fonte dello status, ma si limiti a svolgere un ruolo strumentale nel quadro della funzione di accertamento dello status medesimo>>.

Determinazione dell’assegno di mantenimento dei figli da separazione o divorzio: irrilevanti le liberalità ai figli da parte dell’obbligato

Cass. sez. I, ord. 07/03/2024  n. 6.111, rel. Valentino:

<<L’assegno dovuto al coniuge separato o divorziato, per il mantenimento dei figli ad esso affidati, non può subire riduzioni o detrazioni in relazione ad altre elargizioni del coniuge obbligato in favore dei figli medesimi, ove queste risultino effettuate per spirito di liberalità per soddisfare esigenze ulteriori rispetto a quelle poste a base del predetto assegno, sicché restino ricollegabili ad un titolo diverso (Cass., n. 12212/1990). Nella specie, la Corte ha correttamente accertato che si trattava di un mutuo contratto a favore della figlia a scopo di liberalità, vivendo la medesima con il padre.

Inoltre, in assenza di un nuovo matrimonio, il diritto all’assegno di divorzio, in linea di principio, di per sè permane, nella misura stabilita dalla sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, anche se il suo titolare instauri una convivenza “more uxorio” con altra persona, salvo che sussistano i presupposti per la revisione dell’assegno, secondo il principio generale posto dall’art. 9, comma 1, l. 1° dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall’art. 13 l. 6 marzo 1987, n. 74: e cioè che sia data la prova, da parte dell’ex coniuge onerato, che tale convivenza ha determinato un mutamento “in melius” – pur se non assistito da garanzie giuridiche di stabilità, ma di fatto adeguatamente consolidato e protraendesi nel tempo – delle condizioni economiche dell’avente diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento da parte del convivente, o quanto meno di risparmi di spesa derivatigli dalla convivenza. La relativa prova, pertanto, non può essere limitata a quella della mera instaurazione e del permanere di una convivenza “mora uxorio” dell’avente diritto con altra persona, essendo detta convivenza di per sè neutra ai fini del miglioramento delle condizioni economiche del titolare, potendo essere instaurata con persona priva di redditi e patrimonio, e dovendo l’incidenza economica di detta convivenza essere valutata in relazione al complesso delle circostanze che la caratterizzano (Cass., n. 1557/2004; Cass., n. 21080/2004; cfr., da ultimo, Cass. S.U. 32198/2021)>>.

Affido esclusivo al padre (anche) per mutamento di residenza in città lontana da parte della madre: valutazione incensurabile in Cassazione

Cass. Sez. I Ord. 27/02/202  n. 5.136, rel. Parise, circa uno spostamento da Novara in Sardegna:

<<2. I motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili perché diretti, tramite l’apparente denuncia di vizi motivazionali e di violazione di legge, a censurare il riesame dei fatti e di valutazioni espresse dalla Corte di merito con adeguata motivazione sotto ogni profilo di rilevanza.

In particolare, la Corte territoriale ha ricostruito in dettaglio i fatti salienti ed ha effettuato un’analitica disamina delle condotte dei genitori, anche sulla base delle risultanze della C.T.U., e della situazione psicologica in cui versava la minore. All’esito, la Corte d’appello ha espresso un motivato giudizio in ordine alle statuizioni ritenute più consone a realizzare l’interesse della bambina ed ha confermato il regime di frequentazione tra madre e figlia dettato dal Tribunale, in quanto oggettivamente stabiliva una tempistica idonea a garantire il mantenimento della relazione con la madre, nei limiti di quanto consentito dall’eventuale residenza di quest’ultima in Sardegna, dando altresì atto che il padre risultava avere sempre rispettato il principio di bigenitorialità, favorendo e consentendo lo svolgimento degli incontri tra la bambina e la madre. La Corte di merito ha, infine, precisato che “l’affido condiviso inizialmente prospettato dalla C.T.U. dottoressa D.D. non è in concreto attuabile in quanto esigerebbe che la signora A.A. risiedesse ad O o nelle vicinanze in modo da poter essere maggiormente partecipativa rispetto alla vita della figlia e alle decisioni da assumere nell’interesse della minore”.

Per contro, la ricorrente, nel richiamare diffusamente la normativa asseritamente violata e la giurisprudenza di questa Corte, nel denunciare la violazione del principio di bigenitorialità e l’asserita omessa adeguata valutazione di talune circostanze, da ella interpretate diversamente dalla Corte d’appello, in buona sostanza prospetta impropriamente una difforme ricostruzione fattuale e sollecita un nuovo riesame valutativo.

Occorre, peraltro, ribadire che l’omesso esame di elementi istruttori (in tesi gli atti del processo penale a carico degli zii paterni su denuncia dell’odierna ricorrente e conclusosi con l’archiviazione) non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatti-o storici-o, rilevanti-e in causa (nella specie le condotte dei genitori, la loro relazione con la minore e le problematicità emerse anche nel contesto complessivo della famiglia di origine di ciascun genitore), sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (tra le tante cfr. Cass. n. 27415/2018).

Generico, oltre che inconferente, è il richiamo della normativa Europea e internazionale, prospettato in ricorso sul presupposto di una “rottura” del legame con la madre che non trova riscontro nel regime di frequentazione con la figlia dettato dai giudici di merito e anche, in concreto, nelle relazioni dei servizi sociali e della neuropsichiatra citate nel decreto impugnato, da cui era emerso che C.C. esprimeva sentimenti positivi nei confronti di entrambi i genitori e stata costruendo un rapporto equilibrato e equidistante con entrambi. Il riferimento all’ascolto della minore, indicato nella rubrica del settimo motivo, non risulta neppure illustrato nell’esposizione di detto mezzo, difettando, al riguardo, una compiuta e pertinente critica>>.

Non chiara la SC: una cosa è l’errata percezione delle risultanze istruttorie; un’altra è l’errata applicazione ad esse del canone normativo del best interest of the child (art. 337 ter c.2 cc: “con esclusivo rierimento all’interesse morale e materiale” della prole, che è violazione di legge.

Mantenimento del figlio ventinovenne con disturbi di personalità? No, dice la Cassazione

Cass.  Sez. I, Ord. 27/02/2024 n. 5.177, rel. Pazzi:

<<5.2 Va poi aggiunto che il figlio di genitori divorziati, nel caso in cui abbia ampiamente superato la maggiore età e non abbia reperito un’occupazione lavorativa stabile (o che, comunque, lo remuneri in misura tale da renderlo economicamente autosufficiente), non può soddisfare l’esigenza ad una vita dignitosa, alla cui realizzazione ogni giovane adulto deve aspirare, mediante l’attuazione dell’obbligo di mantenimento del genitore, bensì attraverso i diversi strumenti di ausilio, ormai di dimensione sociale, che sono finalizzati ad assicurare sostegno al reddito, ferma restando l’obbligazione alimentare da azionarsi nell’ambito familiare per supplire ad ogni più essenziale esigenza di vita dell’individuo bisognoso (Cass. 29264/2022).

Questo principio non soffre eccezioni ove il figlio ultramaggiorenne non autosufficiente risulti affetto da qualche patologia [nds: indicata dalla SC appena sopra: “disturbo di personalità di tipo borderline, descritto (a pag. 7 del provvedimento impugnato) come “disturbo dell’area affettiva cognitiva comportamentale”, le cui caratteristiche essenziali erano “una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé dell’umore ed una marcata impulsività”], ma non tale da integrare – come appena detto – la condizione di grave handicap che comporterebbe automaticamente l’obbligo di mantenimento. In una simile fattispecie, per soddisfare le essenziali esigenze di vita del figlio ultramaggiorenne non autosufficiente, occorrerà richiedere, ove ne sussistano i presupposti, un sussidio di ausilio sociale, oppure sarà possibile proporre l’azione per il riconoscimento degli alimenti (i quali rappresentano un minus rispetto all’assegno di mantenimento, con la conseguenza che nella richiesta di tale assegno può ritenersi compresa anche quella di alimenti; cfr. Cass. 23133/2023)>>.

La mancata audizione del minore infradodicenne è giustificata anche in presenza di “suo turbamento e disagio”: un nuovo caso di legittimo non ascolto?

Cass. Sez. I, Ord. n. 3.465 del 07.02.2024, rel. Pazzi, sull’ascolto del minore infradodicenne (art. 337 octies c.1 cc; regola sostanzialmente uguale nella corrispondente norma del rito di famiglia Cartabia, art. 473 bis.4 c.1 cpc):

<<5.3 Non vi è dubbio che, in tema di provvedimenti in ordine alla convivenza dei figli con uno dei genitori, l’audizione del minore infradodicenne capace di discernimento costituisca un adempimento previsto a pena di nullità, a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo, in relazione al quale incombe sul giudice che ritenga di ometterlo un obbligo di specifica motivazione, se ritenga il minore infradodicenne incapace di discernimento ovvero l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore (cfr., per tutte, Cass. 1474/2021).

Il particolare valore di questa audizione in termini di contraddittorio sostanziale, nel senso illustrato al punto precedente, impone al giudice un obbligo di specifica e circostanziata motivazione, tanto più necessaria quanto più l’età del minore si approssima a quella dei dodici anni, non solo se egli ritenga il minore infradodicenne incapace di discernimento ovvero l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore, ma anche qualora il giudice opti, in luogo dell’ascolto diretto, per un ascolto effettuato nel corso di indagini peritali o demandato a un esperto al di fuori di detto incarico (Cass. 12957/2018).

Si deve, tuttavia, ritenere che nel caso di specie il mancato ascolto del minore sia stato giustificato da un’espressa e adeguata motivazione, poiché la Corte di merito non si è affatto limitata a ricordare di non aver ascoltato il minore (nato il omissis e dunque infradodicenne nel corso dell’intero procedimento di appello) a seguito del ricorso presentato ai sensi dell’art. 709-ter cod. proc. civ., ma ha precisato che ciò è avvenuto “in considerazione del suo palese stato di turbamento e di disagio” (pag. 15), aggiungendo, poi, che anche nella successiva fase del processo persistevano le medesime ragioni per non disporre l’audizione (pag. 18).

Questa spiegazione, infatti, non può essere considerata come avulsa dal contesto motivazionale in cui è inserita, tramite il quale la Corte territoriale ha abbondantemente spiegato in cosa consisteva lo stato di turbamento e disagio addotto a ragione della mancata audizione, laddove a più riprese ha rappresentato che il bambino si era dimostrato fortemente influenzato dalle “modalità educative inadeguate” della madre, che avevano non solo ostacolato il suo sviluppo, ma anche provocato comportamenti respingenti nei confronti del padre non imputabili a quest’ultimo.

Il puntuale riferimento al “comportamento possessivo ed escludente” tenuto dall’odierna ricorrente, determinante la mancanza di un autonomo e spontaneo discernimento del bambino (influenzato dalla madre al punto da rendere non genuine dichiarazioni accusatorie nei confronti del padre; cfr. pag. 17), assolve, dunque, l’obbligo di motivazione a cui i giudici distrettuali erano tenuti per giustificare la sua mancata audizione>>.

PMA, coppia omoaffettiva femminile e impugnazione dell’atto di nascita nella sola forma della rettificazione

Cass.  Sez. I, Ord. 20 febbraio 2024, n. 4.448, rel. Tricomi:

Sulla rettificazione (ex art. 454 cc, oggi art. 95 ss dpr 396/2000):

<<2.4. Come questa Corte ha più volte affermato, la rettificazione degli atti di stato civile non può ritenersi limitata alla sola correzione degli errori materiali che siano commessi nella formazione degli atti di stato civile, poiché, come è dato desumere anche dall’art. 454 c.c. (poi abrogato dal D.P.R. n. 396 del 2000, art. 110, comma 3) che applica il procedimento di rettificazione a casi che restano al di fuori dell’ambito della mera correzione degli errori materiali, l’espressione “rettificazione richiesta dall’interesse pubblico” (R.D. n. 1238 del 1939, ex art. 163, poi abrogato dal medesimo D.P.R.) non può essere intesa in senso stretto, né può essere limitata alla sola rettificazione di singoli atti, ma deve essere riferita in senso ampio alla tenuta dei registri dello stato civile nel loro complesso e può ricomprendere la cancellazione di un atto compilato o trascritto per errore, la formazione di un atto omesso, ed anche la cancellazione di un atto irregolarmente iscritto o trascritto (Cass. n. 16567/2021; Cass. n. 1204/1984).

A tal fine, l’autorità giudiziaria dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo, potendo, a tale limitato fine, avvalersi di tutte le risorse istruttorie fornitele dalla parte (Cass. n. 13000/2019).

Inoltre, questa Corte, ha ulteriormente chiarito, proprio nell’ambito di un giudizio che, come il presente, non traeva origine dall’impugnazione da parte di un interessato del rifiuto opposto dall’Ufficiale di stato civile alla richiesta di trascrizione dell’atto di nascita, ma dalla domanda, proposta dal Pubblico Ministero, ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, comma 2, di “cancellazione” della iscrizione già effettuata, in quanto fondata sull’allegazione della contrarietà della iscrizione alla disciplina dettata da disposizioni nazionali, che tale domanda trae origine da una difformità tra la situazione di fatto, quale dovrebbe essere nella realtà secondo la predetta disciplina, e quella annotata nel registro degli atti di nascita, causata da un errore asseritamente compiuto in sede di iscrizione, e non dà pertanto luogo ad una controversia di stato, ma proprio ad una delle controversie previste dal D.P.R. n. 396, art. 95 (cfr. Cass. n.7413/2022; Cass. n. 23319/2021; Cass. n. 21094/2009)

Applicando tali principi alla presente fattispecie, pertanto, deve ritenersi che l’unico strumento utilizzabile, ai fini della contestazione della legittimità della annotazione sull’atto di nascita operata dall’Ufficiale di stato civile, dev’essere individuato nel procedimento di rettificazione, la cui funzione, collegata a quella pubblicitaria propria dei registri dello stato civile ed alla natura dichiarativa propria delle annotazioni in essi contenute, aventi l’efficacia probatoria privilegiata prevista dall’art. 451 c.c., ma non costitutive dello status cui i fatti da esse risultanti si riferiscono, esclude peraltro l’idoneità della decisione ad acquistare efficacia di giudicato in ordine alla sussistenza del rapporto giuridico di filiazione (Cass. n.7413/2022)>>.

Sulla (confermata) impossibilità di iscrivere anche il cd genitore intenzikn ale:

<<2.5. Peraltro, nella specie, oggetto dell’iscrizione contestata dal Pubblico Ministero è la dichiarazione di riconoscimento effettuata dalla madre intenzionale.

La decisione della Corte di appello è conforme alla giurisprudenza di legittimità che ha affermato in più occasioni che “In caso di concepimento all’estero mediante l’impiego di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, voluto da coppia omoaffettiva femminile, la domanda volta ad ottenere la formazione di un atto di nascita recante quale genitore del bambino, nato in Italia, anche il c.d. genitore intenzionale, non può trovare accoglimento, poiché il legislatore ha inteso limitare l’accesso a tali tecniche alle situazioni di infertilità patologica, fra le quali non rientra quella della coppia dello stesso genere; non può inoltre ritenersi che l’indicazione della doppia genitorialità sia necessaria a garantire al minore la migliore tutela possibile, atteso che, in tali casi, l’adozione in casi particolari si presta a realizzare appieno il preminente interesse del minore alla creazione di legami parentali con la famiglia del genitore adottivo, senza che siano esclusi quelli con la famiglia del genitore biologico, alla luce di quanto stabilito dalla sentenza della Corte cost. n. 79 del 2022.” (Cass. n.22179/2022; conf. Cass. nn. 3769/2024, 511/2024, 7668/2020, 6383/2022, 7413/2022)>>.

Censurabilità in Cassazione delle statuizione del giudice circa le modalità di frequentazione e visita del minore

Cass.  Sez. I  Ord.  19 febbraio 2024, n. 4.327, rel. Caiazzo:

<<Alcuni dubbi interpretativi sono, tuttavia, sorti con riferimento alle statuizioni che disciplinano, nello specifico, i tempi e i modi di visita e frequentazione dei figli da parte dei genitori esercenti la responsabilità. Superando recenti discordanze, questa Corte, con orientamento condiviso, ha affermato che i provvedimenti giudiziali che, all’esito dell’appello o del reclamo (a seconda del tipo di procedimento avviato) statuiscono sulle modalità di frequentazione e visita dei figli minori, sono ricorribili per cassazione nella misura in cui il diniego si risolve nella negazione della tutela giurisdizionale a un diritto fondamentale, quello alla vita familiare che, sancito dall’art. 8 CEDU (Corte EDU, sentenza del 09/02/2017, Solarino c. Italia), è leso da quelle statuizioni che, adottate in materia di frequentazione e visita del minore, risultino a tal punto limitative ed in contrasto con il tipo di affidamento scelto, da violare il diritto alla bigenitorialità, inteso quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantire a quest’ultimo una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione della prole il cui rispetto deve essere sempre assicurato nell’interesse superiore del minore (così Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 4796 del 14/02/2022; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 9764 dell’08/04/2019; v. anche Cass., Sez. U, Sentenza n. 30903 del 19/10/2022).

In altre parole, le statuizioni che attengono alle modalità di frequentazione e visita del minore sono censurabili per cassazione, superando il filtro dell’inammissibilità per il difetto di decisorietà o per carattere di valutazione di merito, quando l’invalidità dedotta si risolve nella lesione del diritto alla vita familiare, che appartiene al minore ed anche a ciascuno dei genitori, e trova esplicazione nel diritto alla bigenitorialità”.

(testo da Ondif)

Il miglior interesse del miore nella decisione sull’affido: diritto di essere sentito e patologia della madre

Cass. Sez. I, Ord. 08/02/2024  n. 3.576, rel. Russo R. E. A.:

Sul diritto di ascolto spettante al minore:

<<Il provvedimento di affidamento deve essere adottato facendo riferimento esclusivo all’interesse morale e materiale del minore (art. 337- ter c.c.); ciò comporta che nelle decisioni che lo concernono deve ricercarsi la soluzione ottimale in concreto, quella cioè che meglio garantisca la miglior cura della persona (Corte Cost. 102/2020; Corte Cost. 33/2021) e ne attui i diritti (del minore), scolpiti dall’art. 315-bis c.c.. L’individuazione del miglior interesse del minore (best interests nella formula in lingua inglese dell’art. 3 della Convenzione di New York del 1989) è un procedimento che rifugge da automatismi e richiede di tener conto tutte le circostanze di fatto che connotano il caso, nonché della incidenza del fattore tempo – sia in senso positivo che negativo – e dei desideri della aspirazioni e delle opinioni dello stesso minore, che, seppure privo della capacità di agire, ha diritto di essere ascoltato.

In tema di ascolto del minore, questa Corte ha più volte affermato che l’ascolto è disegnato dall’art. 315-bis c.c. non come un atto istruttorio, ma come un diritto, esercitato dal minore capace di discernimento, di esprimere liberamente la propria opinione in merito a tutte le questioni e procedure che lo riguardano, vale a dire alle questioni che hanno incidenza sulla sua vita e sulla relazione familiare.

Si tratta di un diritto personalissimo, della persona minore di età, attraverso il quale è assicurata, a prescindere dall’acquisto della capacità di agire, la libertà di autodeterminarsi, di esprimere la propria opinione e di partecipare in prima persona, e non solo tramite rappresentante, al processo; costituisce al tempo stesso primario elemento di valutazione del miglior interesse del minore (Cass. n. 6129 del 26/03/2015; Cass. n. 15365 del 22/07/2015; Cass. n. 13377 del 16/05/2023, in motivazione; Cass. n. 437 dell’8/01/2024).

Il minore non è il soggetto passivo di una tutela pensata e costruita esclusivamente dagli adulti, ma titolare di diritti suoi propri, distinti da quelli del nucleo familiare cui appartiene, e che deve essere ammesso ad esercitare personalmente, nella misura in cui lo consente la capacità di discernimento e cioè quella specifica competenza individuale, che pur non coincidendo con la piena acquisizione della attitudine a compiere validamente atti giuridici, gli consente però di rappresentare con sufficiente ragionevolezza i propri interessi, poiché egli comprende la portata delle proprie azioni e si prefigura le conseguenze delle proprie scelte (Cass. n. 32290 del 21/11/2023).

Vero è che, per espressa disposizione di legge, se l’ascolto è in contrasto con l’interesse del minore, o manifestamente superfluo, il giudice non procede all’adempimento dandone atto con provvedimento motivato (art 336 comma II c.c.). L’uso della disgiuntiva “o” rende evidente che si tratta di due ipotesi distinte, e pertanto per ascolto manifestamente superfluo deve intendersi quell’attività che pur non arrecando danno agli interessi del minore, tuttavia non vi apporta alcun (ulteriore) beneficio: ciò può avvenire, ad esempio, quando l’audizione del minore sia sollecitata su questioni irrilevanti oppure non pertinenti, oppure quando già è stato assicurato il pieno esercizio dei suoi diritti e la sua partecipazione attiva al processo attraverso tutti gli strumenti che l’ordinamento predispone a tal fine, la sua opinione sia stata chiaramente espressa e le sue istanze debitamente rappresentate. Al fine di verificare se l’ascolto sia superfluo è quindi significativa la differenza tra quei processi ove il minore non è mai stato ascoltato direttamente dal giudice e i processi ove si discuta solo della rinnovazione della sua audizione (non richiesta dal minore), perché nel primo caso la motivazione sulla omissione dell’ascolto diretto dovrà essere puntuale e non fatta per mero richiamo ai risultati della consulenza tecnica (o al c.d. ascolto indiretto), mentre nel secondo caso è sufficiente che il giudice si esprima in ordine alle esigenze sottese all’esercizio del diritto di ascolto, e segnatamente indichi se esse siano state compiutamente soddisfatte o meno, dando conto di eventuali fatti salienti nelle more verificatisi (si vedano sul punto Cass. 8 gennaio 2024, n. 437; Cass. n. 1474 del 25/01/2021; Cass. n. 23804 del 02/09/2021). La partecipazione attiva al processo non può identificarsi con l’esperimento di una consulenza tecnica d’ufficio, in particolare di una consulenza psicodiagnostica, perché in questi casi, pur se il consulente raccoglie le opinioni del minore, le utilizza per comprendere e descrivere la sua personalità, e non per consentirgli di esercitare un diritto, che è compito specifico del giudice (in arg. Cass. n. 12957 del 24/05/2018; Cass. n. 1474 del 25/01/2021). Anche la consulenza tecnica di ufficio, ove ritenuta appropriata e pertinente è uno strumento per valutare l’interesse del minore, tuttavia non può essere ritenuta equivalente all’ascolto giudiziale o sostituiva di esso; pertanto ove il minore in età di discernimento sia stato sottoposto ad una consulenza ma non ascoltato dal giudice, quest’ultimo dovrà giustificare puntualmente le ragioni dell’omesso ascolto – poiché di questo si tratta – e non limitarsi a richiamare le indagini del consulente sul punto.

Da questi principi, ormai saldi nella giurisprudenza di legittimità, discende, nella sua ovvietà, la considerazione che l’ascolto non può considerarsi superfluo solo perché il giudice avrebbe già individuato la soluzione più adeguata a realizzare il suo miglior interesse; viceversa la regola impone al giudice di ascoltare il minore prima di formarsi un convincimento sull’affidamento, salvo che l’audizione non sia rifiutata dallo stesso minore, non si profili un pregiudizio concreto, da accertare in termini specifici e non astratti, ovvero risulti superflua, nei termini sopra precisati>>.

Sulla patologia giustificante la modifica della discipliona dell’affido:

<<9.1. – È opportuno qui precisare che al fine di modificare l’affidamento del minore o di adottare misure che ne comportino lo spostamento della residenza con la conseguente alterazione delle sue abitudini di vita, non è sufficiente la diagnosi di una patologia, tantomeno di una diagnosi sulla quale non vi siano solide evidenze scientifiche; il giudice è tenuto ad accertare la veridicità comportamenti pregiudizievoli per la minore, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, senza che sia decisivo il giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della patologia diagnosticata (Cass. 17 maggio 2021 n. 13217).

Non è infatti ammissibile far discendere dalla diagnosi di una patologia, anche se scientificamente indiscussa e a maggior ragione se dubbia, una presunzione di colpevolezza o di inadeguatezza al ruolo di genitore, scissa dalla valutazione in fatto dei comportamenti. Nel processo si giudicano i fatti e i comportamenti, e pertanto è dall’osservazione e dall’analisi dei comportamenti che occorre muovere; la diagnosi, il cui rigore scientifico può e deve essere apprezzato dal giudice, peritus peritorum, può aiutare a comprendere le ragioni dei comportamenti e soprattutto a valutare se sono emendabili, ma non può da sola giustificare un giudizio – o pregiudizio – di non idoneità parentale a carico del genitore.

In termini, questa Corte ha già affermato che il giudice del merito deve verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che non è solo attraverso la consulenza tecnica che si possono accertare i comportamenti pregiudizievoli perché il giudice ha a disposizione tutti i mezzi di prova propri del processo civile ed anche uno strumento specifico, quale è l’ascolto del minore, che però non è un mezzo di prova bensì la modalità attraverso la quale il minore esercita il suo diritto di partecipare al processo e di esprimere la sua opinione sulle scelte di vita che lo riguardano (Cass. civ. sez. I 20.3.2013 n. 7401).

9.2. – Per quanto poi attiene ai rimedi, è noto a questa Corte che in caso di diagnosi di PAS (Parental Alienation Syndrome) ovvero altre analoghe, ove s’identifica il genitore convivente come soggetto uso a manipolare il minore e a screditare la figura dell’altro (comportamenti che ben possono darsi nella realtà a prescindere da una patologia diagnosticata), taluni specialisti suggeriscono l’allontanamento del minore dal genitore “malevolo”, come peraltro ha chiesto il ricorrente. Tuttavia, deve qui chiarirsi la differenza che vi è tra il giudizio medico o psicodiagnostico, ove resa una diagnosi si prescrive una terapia per guarire quella specifica patologia esaminata, e il giudizio reso dal giudice nell’ambito di un giusto processo, come disegnato dalla nostra Costituzione. Il medico o lo psicologo, in quanto nominati ausiliari del giudice, rispondono ai quesiti loro sottoposti esaminando la vicenda sotto lo specifico profilo di loro competenza, mentre il giudice deve valutare nell’ambito del processo tutti i contrapposti interessi che vengono in rilievo e stabilire, in conformità alla legge e ai valori costituzionali sui quali la legge è fondata, un punto di equilibrio.

Per questa ragione nessuna diagnosi e nessuna terapia, anche se scientificamente fondate, possono essere recepite acriticamente dal giudice, ma devono essere inserite nel contesto della dinamica processuale, in cui viene in rilievo la posizione di tutte le persone aventi diritto alla tutela della relazione familiare. E, in particolare, deve tenersi in conto che il minore ha diritto non solo a che sia preservata la propria relazione con il genitore non convivente – bo meglio con entrambi i genitori, tranne che non siano gravemente e irrimediabilmente inadeguati – ma ha anche diritto al rispetto della propria sfera di autodeterminazione, in misura crescente ma mano che matura l’età del discernimento, e a che non si adottino indebitamente misure coercitive, quale l’allontanamento forzato dal genitore con cui vive, specie ove si possa ricorrere ad altre misure che promuovano la collaborazione tra tutte le parti interessate, poiché l’art. 8 Convenzione Edu non autorizza i genitori a far adottare misure pregiudizievoli per la salute e lo sviluppo del minore (in arg. v. Corte Edu, 02/211/2010, Piazzi c. Italia; 17/13/2013 Santilli c. Italia; 17.11.2015, B. c. Italia; Grande Camera 01/09/2019 Strand Lobben e altri contro Norvegia; 01/04/2021, A.I. contro Italia).

Nell’ambito di questa pluralità di interessi che connotano la relazione familiare, che è una relazione unica tra entrambi i genitori e la prole e non due singole e diverse relazioni (tra il padre e il figlio e la madre e il figlio), il giudice deve individuare la soluzione più adeguata a realizzare il miglior interesse del minore, tenendo conto anche della emendabilità di eventuali comportamenti pregiudizievoli tenuti dai genitori e senza muovere dall’idea che l’interesse del minore sia sempre e comunque superiore rispetto agli altri interessi e diritti fondamentali che vengono in gioco (Corte Cost. 33/2021).

Pertanto, è da rivedere funditus il giudizio sull’affidamento del minore perché la Corte di merito, oltre agli errori processuali di cui si è detto, non ha dato spazio processuale alle opinioni del minore, ha disatteso i principi di diritto sopra enunciati e non ha tenuto in conto che il giudice di primo grado aveva investito i servizi sociali di un mandato di supporto alla genitorialità i cui risultati avrebbero dovuto essere attentamente monitorati. Ugualmente, la Corte avrebbe dovuto verificare se l’evolversi della situazione rispetto al giudizio di primo grado evidenziasse una conflittualità tale tra i genitori da profilare il conflitto di interessi e se fosse necessaria la nomina di un curatore al minore e tale giudizio dovrà essere reso, alla attualità, dal giudice del giudizio di rinvio.

Di conseguenza, è da rivedere anche la decisione sul mantenimento, in quanto strettamente legata al regime di affidamento e dei tempi di permanenza presso l’uno o l’altro genitore, con l’avvertenza che i tempi di permanenza devono essere valutati solo se effettivi, e in quanto tali comportino uno sforzo economico più o meno incisivo da parte del genitore che tiene presso di sé il minore, e non semplicemente previsti dal provvedimento ma di fatto non attuati>>.

Sulla condotta pregiudizievole ex art. 333 c.c. che può far limitare la responsabilità genitriaLE

Cass.  Sez. I, Ord. 19/01/2024, n.  2.021, rel. Caiazzo:

<<Ora, ai fini della sospensione della responsabilità genitoriale ex art. 333 c.c. non occorre che la condotta del genitore abbia causato danno al figlio, poiché la norma mira ad evitare ogni possibile pregiudizio derivante dalla condotta (anche involontaria) del genitore, rilevando l’obiettiva attitudine di quest’ultima ad arrecare nocumento anche solo eventuale al minore, in presenza di una situazione di mero pericolo di danno (Cass., n. 27533/21).

Nella specie, il ricorso, con il quale sono criticate le statuizioni del provvedimento impugnato che hanno regolamentato l’esercizio della responsabilità genitoriale, attiene proprio alla asserita violazione del diritto alla genitorialità, a causa della mancata previsione dell’affidamento del minore al padre.

Il ricorso è, pertanto, da ritenersi ammissibile, ma va rigettato. Nel caso concreto, invero, è stata statuita una sospensione provvisoria che non preclude un pieno recupero delle capacità genitoriali del padre, il quale conserva la facoltà d’incontrare il figlio con le modalità stabilite, anche in ragione della pendenza dell’impugnazione proposta dal ricorrente avverso la condanna penale in primo grado. Ne consegue che le doglianze espresse circa il mancato esame delle capacità genitoriali del ricorrente non sono accoglibili, appunto perché la provvisorietà della predetta sospensione della responsabilità genitoriale, è stata fondata sul disvalore intrinseco alla condanna ed anche sul rilievo della pericolosa spendita di attività criminale in ambito domestico; del resto, in seguito, potranno essere compiuti accertamenti in rapporto alla capacità di superare questa condizione di persona dedita a gravi reati qualità a cui consegue la qualificazione di figura genitoriale nociva e pericolosa per la stessa crescita filiale.>>