In caso di maternità surrogata, non è trascrivibile l’atto di nascita estero che indichi come genitore quello “di intenzione”: lo strumento giuridico ad oggi è ancora la c.d. adozione in casi particolari

Cass. sez. 1 ord. del 03.01.2024 n. 85, rel. Tricomi:

<<3.2.- I motivi, da trattare congiuntamente, vanno respinti alla luce del recente e condiviso arresto delle Sezioni Unite (Cass. Sez. U. n. 38162/2022) che, con ampia e approfondita motivazione, hanno affermato la non trascrivibilità dell’originario atto di nascita che indichi il genitore d’intenzione quale genitore del bambino, insieme al padre biologico che ne ha voluto la nascita ricorrendo alla surrogazione nel Paese estero, sia pure in conformità della “lex loci”.

Segnatamente, le Sezioni Unite, che si sono pronunciate a seguito della rimessione disposta con l’ordinanza interlocutoria n. 1842/2022, richiamata dai ricorrenti, hanno affermato che:

– Il ricorso ad operazioni di maternità surrogata, quali che siano le modalità della condotta e gli scopi perseguiti, offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane; non è, pertanto, automaticamente trascrivibile in Italia il provvedimento giurisdizionale straniero, e di conseguenza l’originario atto di nascita, che indichino il genitore d’intenzione quale genitore del bambino, insieme al padre biologico che ne ha voluto la nascita ricorrendo alla surrogazione nel Paese estero, sia pure in conformità della “lex loci”;

– Il minore nato all’estero mediante il ricorso alla surrogazione di maternità ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con il genitore d’intenzione; tale esigenza è garantita attraverso l’istituto dell’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d) della l. n. 184 del 1983 che, allo stato dell’evoluzione dell’ordinamento, rappresenta lo strumento che consente, da un lato, di conseguire lo “status” di figlio e, dall’altro, di riconoscere giuridicamente il legame di fatto con il “partner” del genitore genetico che ne ha condiviso il disegno procreativo concorrendo alla cura del bambino sin dal momento della nascita.

– In tema di riconoscimento delle sentenze straniere, l’ordine pubblico internazionale svolge sia una funzione preclusiva, quale meccanismo di salvaguardia dell’armonia interna dell’ordinamento giuridico statale di fronte all’ingresso di valori incompatibili con i suoi principi ispiratori, sia una funzione positiva, volta a favorire la diffusione dei valori tutelati, in connessione con quelli riconosciuti a livello internazionale e sovranazionale, nell’ambito della quale, il principio del “best interest of the child” concorre a formare l’ordine pubblico che, in tal modo, tende a promuovere l’ingresso di nuove relazioni genitoriali, così mitigando l’aspirazione identitaria connessa al tradizionale modello di filiazione, in nome di un valore uniforme rappresentato dal miglior interesse del bambino;

– Il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla gestazione per altri e il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana, trova ostacolo nel divieto assoluto di surrogazione di maternità, previsto dall’art. 12, comma 6, della L. n. 40 del 2004, volto a tutelare la dignità della persona umana nella sua dimensione non solo soggettiva, ma anche oggettiva; ne consegue che, in presenza di una scelta legislativa dettata a presidio di valori fondamentali, non è consentito al giudice, mediante una valutazione caso per caso, escludere in via interpretativa la lesività della dignità della persona umana e, con essa il contrasto con l’ordine pubblico internazionale, anche laddove la pratica della surrogazione di maternità sia il frutto di una scelta libera e consapevole della donna, indipendente da contropartite economiche e revocabile sino alla nascita del bambino>>.

Sul bilanciamento da eseguire quando viene impugnato il riconoscimento per difetto di veridicità (art. 263 cc)

Cass. Sez. I ord. 22/11/2023 n.  32.417, rel. Tricomi, in un caso di impugnaizone proposta da moglie e figlio del riconoscente:

<In particolare, pur avendo ritenuto tempestivamente esercitata l’azione, alla stregua della disciplina transitoria dettata dal D.Lgs. n. 154 del 2013, ha affermato che, nel caso di specie, l’interesse di natura pubblicistica all’accertamento della verità non poteva prevalere rispetto al diritto, anch’esso dotato di copertura costituzionale, all’identità sociale del soggetto riconosciuto in considerazione della lunghissima durata dello status conseguito per effetto del riconoscimento di paternità operato da C.D.G. e, quindi, alla oramai fortemente consolidata condizione identitaria acquistata dall’appellante. Ha rilevato altresì che il riconoscimento da parte del congiunto dei ricorrenti era stato convintamente voluto ed aveva costituito parte integrante della identità personale di E., mentre il disconoscimento dopo così ampio lasso di tempo non solo incideva negativamente nelle relazioni sociali di chi lo subiva, ma colpiva la sua dignità personale privandolo della coscienza di sé e delle proprie radici, ricordando che era stato accertato che il rapporto padre-figlia era perdurato, nonostante la fine della relazione con la madre di questa, S.I…>>

Poi la SC dice la sua:

<<3.2.- L’azione di impugnazione del riconoscimento ex art. 263 c.c., rientra nel quadro più ampio delle azioni di stato, ovvero di quelle azioni intese a conseguire una pronuncia che incida sullo status filiationis della persona.

In tema di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, si è assistito al superamento dell’orientamento che individuava un’automatica coincidenza tra favor veritatis e favor minoris o status filiationis e la stessa riforma dell’art. 263 c.c., introdotta con il D.Lgs. n. 154 del 2013 (qui applicato dalla Corte di merito) esprime una regolamentazione che ha notevolmente rafforzato l’esigenza di stabilità dello status filiationis e di tutela del figlio.

Assume decisivo rilievo, in proposito, ricordare alcuni interventi della Corte costituzionale, la quale ha provveduto a precisare la necessaria sussistenza di uno spazio di bilanciamento in concreto fra gli interessi implicati, affidato alla valutazione giudiziale. Significativa, in proposito, si rivela l’affermazione – già rinvenibile in Corte Cost. sent. n. 272 del 2017, e successivamente richiamata nelle più recenti Corte Cost. sent. n. 127 del 2020 e n. 133 del 2021 – secondo cui l’art. 263 c.c., sottende “l’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti”, posto che “la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in questi casi (deve) tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso”. Si è dinanzi, quindi, di un’azione nella quale il giudice non procede ad un mero accertamento della verità biologica, ma opera un bilanciamento in concreto tra gli interessi coinvolti (cfr. Corte Cost. sent. n. 133 del 2021), ricordandosi, peraltro, che la menzionata norma regola qualsivoglia ipotesi di impugnazione per difetto di veridicità, abbracciando tanto casi di riconoscimento effettuato nella consapevolezza della non paternità, quanto ipotesi in cui il consenso all’atto personalissimo si fondi sull’erronea supposizione del legame biologico.

In tema di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, si è affermato che “i significativi mutamenti sociali degli ultimi anni impongano di affiancare al parametro della verità genetica altri criteri, quali quelli della verità affettiva o sociale, in una prospettiva di tutela degli stabili e rilevanti assetti relazionali di fatto” (Cass. n. 30403/2021; Cass. n. 4791/2020) e la giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni mostrato di avere superato la tesi della assolutezza del principio di prevalenza dell’interesse all’accertamento della verità biologica della procreazione ed ha affermato la necessità di bilanciare la verità del concepimento con l’interesse concreto del figlio alla conservazione dello status acquisito (Cass. n. 27140/2021; n. 4791/2020; Cass. n. 8617/2017; Cass. n. 4020/2017; Cass. n. 26767/2016), con affermazioni di principio che i ricorrenti nemmeno contestano, deducendone piuttosto l’inapplicabilità in caso di figlio maggiorenne.

Tuttavia, anche la questione dell’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità che sia stata promossa in relazione ad un figlio già maggiorenne, è stata affrontata da questa Corte in maniera puntuale e ricca di approfondimenti anche in relazione al quadro normativo Eurounitario, ed è stato affermato, all’esito di un’ ampia argomentazione che si condivide, il seguente principio che si intende confermare, secondo il quale “Nell’azione, intrapresa dal terzo interessato, di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento di un figlio nato da genitori non uniti in matrimonio e già maggiorenne al momento della instaurazione del corrispondente giudizio, il bilanciamento che il giudice adito è tenuto ad effettuare tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto ed il favore per la verità del rapporto di filiazione non può costituire il risultato di una valutazione astratta e predeterminata, né può implicare, ex se, il sacrificio dell’uno in nome dell’altro, ma impone di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto, tra cui il diritto all’identità personale del riconosciuto, correlato non solo alla verità biologica, ma anche ai legami affettivi e personali interni alla famiglia, al consolidamento della condizione identitaria acquisita per effetto del falso riconoscimento ed all’idoneità dell’autore del riconoscimento allo svolgimento del ruolo di genitore” (Cass. n. 3252/2022).

3.3.- Orbene, il bilanciamento, in concreto, fra gli interessi implicati, affidato alla valutazione giudiziale e richiesto dalla riportata giurisprudenza costituzionale intervenuta sull’art. 263 c.c., assume un significato ancora più pregnante in una vicenda – quale quella oggi all’attenzione di questa Corte – caratterizzata dal fatto che il giudizio non è stato intrapreso dal genitore C.D.G., deceduto nel (Omissis), ma dai suoi eredi – la vedova ed il figlio, nato in costanza di matrimonio – nel (Omissis) e che ha riguardato una persona attualmente di circa quarantaquattro anni, che ne aveva sei al momento del riconoscimento oggi impugnato e circa trentasei al momento della instaurazione, nei suoi confronti, del giudizio di primo grado. In una siffatta fattispecie, dunque, ancor più si impone “l’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti”, posto che “la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in questi casi (deve) tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso” (cfr. Corte Cost. sent. n. 127 del 2020).

Di tutto ciò, la Corte di appello si è fatta carico (fol. 18 e ss.), compiendo una accurata disamina dei profili identitari coinvolti, conseguiti all’avvenuto riconoscimento, ed ha attuato il necessario bilanciamento in linea con i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, di guisa che la decisione risulta immune dai vizi denunciati.

Priva di rilievo risulta, infine, la disciplina dettata dalla L. n. 40 del 2004, in tema di procreazione medicalmente assistita, che non si attaglia al caso di specie>>.

Revisione dell’assegno di mantenimento del figlio, titolare di contratto di apprendistato (sull’art. 337 septies cc)

Cass. sez. I, Ord. 19/12/2023  n. 35.494, rel. Meloni (da Onelegale):

<Si deve premettere che la modifica dei provvedimenti adottati con la sentenza di divorzio è subordinata alla condizione del sopravvenire di fatti nuovi rispetto alle circostanze valutate in sede di emissione degli stessi provvedimenti: ebbene la Corte ha già valutato e vagliato le nuove condizioni patrimoniali del ricorrente e ridotto a 200,00 Euro l’assegno originario di 350,00. Infatti, la Corte ha, nel provvedimento impugnato, compiutamente valutato la situazione economica del sig. A.A. e ritenuto che, pur essendo allo stato Egli disoccupato, a far data dal 10.01.2022, “non è verosimile che per la sua età e per la sua capacità lavorativa, non riesca a trovare lavoro avendo dimostrato anche capacità imprenditoriali – sia pur intraprese in (Omissis) – ove ha costituito una scuola di lingua inglese per bambini (doc 17, fasc. primo grado) ed ove ha gestione anche una pizzeria “(Omissis)” (docc. nn. 16-22) attività per le quali, come già anche rilevato dal Tribunale di Monza non ha documentato i suoi redditi.

La Corte di merito ha poi accertato che attualmente egli vive con gli anziani genitori a Monza, ai quali presta assistenza ed è mantenuto dalla madre e dal fratello come dallo stesso dichiarato in udienza alla Corte; che la disdetta del contratto di locazione dell’immobile di cui era proprietario sita in (Omissis) non gli avrebbe impedito di locarlo nuovamente – come rilevato già dal Tribunale – ma comunque la vendita del predetto immobile – avvenuta nel 2020 – per l’importo di Euro 57.000,00 ed il successivo acquisto per l’importo di Euro 42.000,00 di altra casa – in località (Omissis) – fanno presumere che lo A.A. non versi in serie condizioni di ristrettezze economiche proprio per la scelta di investimento in un altro immobile che non è escluso che possa essere messo a reddito tenuto conto del fatto che lui vive con i genitori a Monza – come dallo stesso dichiarato all’udienza del 24 febbraio 2022.

La Corte ha poi valutato, con apprezzamento legittimo, sulla base della certificazione resa dal centro per l’impiego di Milano (che attesta che la figlia C.C. – ancora studentessa – svolge lavoro di apprendistato con decorrenza 01.09.2021) che “la tipologia di contratto di lavoro di apprendistato non consente di considerare un figlio economicamente autosufficiente, non essendo stati provati – nella presente fattispecie – una serie di parametri ed in particolare l’importo del reddito percepito e la durata del contratto medesimo”. Il ricorrente, di contro, non ha dimostrato che il trattamento economico ricevuto dalla figlia C.C. – quale apprendista – è non solo proporzionato e sufficiente, ma anche idoneo ad assicurare la sua autosufficienza economica e pertanto, tenuto conto di quanto sopra esposto, la Corte d’Appello ha legittimamente ritenuto di poter accogliere solo parzialmente il reclamo paterno riducendo ad Euro 200,00 l’importo per il mantenimento mensile che lo A.A. deve versare per la figlia C.C..

Tutte le valutazioni del giudice di merito sopra riportate non contrastano con la giurisprudenza di questa Corte che più volte ha affermato il principio secondo cui il mantenimento del figlio resta a carico dei genitori fintanto che non si sia esaurito in congruo termine, la fase di formazione ed inserimento nel mondo del lavoro. Nella specie, tale progressione, ancora in corso, non si è del tutto completata, onde il giudice di merito ha limitato ma non escluso completamente la contribuzione genitoriale>>.

Sulla opportunità o meno nei singoli casi del riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio (art. 250 c.c.)

Cass. sez. I   del 28/11/2023 n. 33.097, rel. Iofrida:

<<Il diritto al riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio può essere sacrificato solamente in presenza di motivi gravi ed irreparabili tali da compromettere in modo irreversibile lo sviluppo psico-fisico del minore. Tale è il discrimen che il giudice deve vagliare in concreto al fine di valutare il bilanciamento tra opposti interessi, quali l’esigenza di affermare la verità biologica e l’interesse di preservare i rapporti familiari nonché lo sviluppo del minore.

Il suddetto principio trova fondamento nella distinzione dei concetti giuridici di “riconoscimento” ed “esercizio della responsabilità genitoriale”. Il riconoscimento inteso come status genitoriale non può essere mai eluso, a meno che il minore non possa subire un pregiudizio gravissimo – da accertarsi in concreto – da parte del padre, dato ad esempio dal “suo inserimento in un ambiente di criminalità organizzata ed attualmente detenuto per tali gravi reati” (cfr. Cass. 23074/2005). Non sono sufficienti mere pendenze penali né la sola “valutazione del rischio di un eventuale distacco del minore dall’attuale contesto di affidamento deve costituire interferenza ostativa al riconoscimento, posto che non vi è alcun nesso con l’esercizio del diritto alla genitorialità, potendo invece tale valutazione costituire oggetto di giudizio in diverso procedimento “ad hoc” ” (Cass. 2645 del 2011).

La titolarità dell’esercizio della responsabilità genitoriale, al contrario, può essere – successivamente al riconoscimento effettuato – soggetta a limitazione fino alla decadenza, ove venga evidenziata una situazione di pregiudizio grave o comunque di interferenza negativa con il benessere del minore (nell’ipotesi in cui si adottino provvedimenti conformativi).

Sul tema, la Suprema Corte si è poi espressa ritenendo che “nel giudizio volto al riconoscimento del figlio minore di anni quattordici da parte del secondo genitore, nell’ipotesi di opposizione del primo che lo abbia già effettuato, occorre procedere ad un bilanciamento, il quale non può costituire il risultato di una valutazione astratta, ma deve procedersi ad un accertamento in concreto dell’interesse del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all’esigenza di un suo sviluppo armonico, dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale” (Cass. 18600/2021). Nella fattispecie con cui si è misurata la sentenza, veniva in questione “l’abituale condotta violenta e prevaricatrice del padre biologico nei confronti della madre e dei suoi familiari, frutto di un modello culturale di rapporti di genere, che doveva invece essere posta in evidenza nell’operazione di bilanciamento”: bilanciamento – quello tra l’esigenza di affermare la verità biologica e l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari (sostanzialmente equivalente a quello tra il diritto soggettivo di colui che vuole riconoscere il figlio e l’interesse del minore a non subire una forte compromissione del proprio sviluppo psico-fisico, di cui si è in precedenza detto) – che la pronuncia postula non poter essere declinato in astratto, come, invece, accaduto nella motivazione della sentenza di appello impugnata in quel giudizio.

Nella successiva sentenza n. 24718/2021, questa Corte ha ulteriormente precisato che “Il diritto, come quello alla vita familiare, stabilito all’art. 8 Cedu, non presenta carattere assoluto ma, al contrario, può essere sacrificato all’esito di un giudizio di bilanciamento con il concreto interesse del minore a non subire per effetto del riconoscimento un grave pregiudizio per il proprio sviluppo psico fisico. L’accertamento da svolgersi, tuttavia, deve essere rigoroso perché non qualsiasi turbamento può incidere sull’indicato diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto ma solo il pericolo, fondato su un giudizio prognostico concretamente incentrato sulla situazione personale e relazionale del genitore e del minore che abbia ad oggetto la verifica del pericolo per lo sviluppo psico-fisico non traumatico del minore stesso, derivante dal riconoscimento richiesto. Non può essere assunto come elemento di comparazione il concreto esercizio della responsabilità genitoriale, per modulare il quale vi sono strumenti di tutela diversi, ma deve trattarsi di un grave pregiudizio causalmente determinato dall’esistenza sopravvenuta dello status genitoriale. Poiché la corretta e veritiera rappresentazione della genitorialità costituisce elemento costitutivo dell’identità del minore e del suo equilibrato sviluppo psico-fisico, la sottrazione radicale del rapporto giuridico paterno o materno, conseguente al diniego di riconoscimento ex art. 250 c.c., può essere giustificata soltanto dalla valutazione prognostica di un pregiudizio superiore al disagio psichico indubitabilmente conseguente dalla mancanza e non conoscenza di uno dei genitori, da correlarsi alla pura e semplice attribuzione della genitorialità” (in applicazione di tale principio, questa Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che, nel rigettare la domanda proposta ex art. 250 c.c., aveva del tutto omesso di effettuare il predetto bilanciamento, limitandosi a considerare i vari precedenti penali del padre e l’intervenuta revoca del permesso di soggiorno).

Di recente (Cass. 8762/2023), si è ribadito che “nel giudizio volto al riconoscimento del figlio naturale, l’opposizione del primo genitore che lo abbia già effettuato non è ostativa al successivo riconoscimento, dovendosi procedere ad un accertamento in concreto dell’interesse del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all’esigenza di un suo sviluppo armonico, dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale; del pari, è ammissibile l’attribuzione del cognome del secondo genitore in aggiunta a quello del primo, purché non arrechi pregiudizio al minore in ragione della cattiva reputazione del secondo e purché non sia lesiva della identità personale del figlio, ove questa si sia già definitivamente consolidata, con l’uso del solo primo cognome, nella trama dei rapporti personali e sociali” (cfr. anche Cass. 5634/2023).

In definitiva, nel caso in cui l’altro genitore (che abbia già effettuato il riconoscimento) non presti il consenso, il giudice deve operare un bilanciamento tra il diritto soggettivo di colui che vuole riconoscere il figlio e l’interesse del minore a non subire una forte compromissione del proprio sviluppo psico-fisico, da compiersi operando un giudizio prognostico, che valuti non già il concreto esercizio della responsabilità genitoriale, per modulare il quale vi sono diversi strumenti di tutela, ma la sussistenza, nel caso specifico, di un grave pregiudizio per il minore che derivi dal puro e semplice acquisto dello status genitoriale e che si riveli superiore al disagio psichico conseguente alla mancanza o non conoscenza di uno dei genitori>>.

Questgo oper il giudice a quo che aveva malamnte applicato queste regole:

<<Il giudice di secondo grado non ha fatto buon governo dei principi sopra esposti, confermando la decisione di primo grado che aveva respinto la domanda di riconoscimento della figlia naturale da parte del padre.

La Corte di merito, dopo avere descritto, sulla base delle informative assunte, la personalità del padre biologico, dando atto che lo stesso, tossicodipendente (e la condizione di tossicodipendenza non risultava, all’epoca, risolta, come emergeva dalla relazione del Servizio Dipendenze del carcere di (Omissis)), aveva già riportato, nonostante la giovane età, molteplici condanne in sede penale (anche per atti persecutori ai danni della madre della minore di cui è chiesto il riconoscimento e danneggiamento seguito da incendio all’autovettura della di lei madre), si è soffermata, dovendo verificare l’interesse in concreto della minore al riconoscimento da parte del ricorrente, su questioni concernenti l’esercizio della responsabilità genitoriali, estranee al giudizio de quo, e costituenti oggetto di separato giudizio (sospeso) di dichiarazione dello stato di adottabilità della minore.

La Corte d’appello ha dato atto, infatti, che, anzitutto, anche a causa del riavvicinamento del M. alla C., nel (Omissis), già la madre della minore aveva deciso di interrompere il percorso comunitario in atto con la figlia e qualche mese dopo si allontanava anche dalla comunità, con conseguente fallimento del tentativo di recupero delle capacità genitoriali della stessa e che, alla luce di quanto rilevato dal consulente tecnico d’ufficio, in una consulenza, acquisita agli atti del primo grado, nel luglio 2019, vi era l’urgente necessità di inserimento della bambina in adeguato ambiente famigliare e la stessa, in comunità dai primi mesi di vita e ivi rimasta da sola da (Omissis), era stata positivamente inserita nel (Omissis) in una famiglia affidataria “a rischio giuridico”, con la quale aveva ormai costruito un legame di fiducia e di attaccamento ed aveva recuperato una condizione di benessere, costituendo ormai un rapporto identitario e familiare in abito diverso da quello biologico: a fronte dell’assenza di rapporti significativi della bambina con il padre e la rete parentale paterna (dovuti, peraltro, alla storia stessa della bambina, nata allorché il padre era in carcere e collocata in comunità sin dai primi mesi di vita), l’evoluzione della minore (che, nel 2019, mostrava “ritardo nelle tappe evolutive ed un alto rischio evolutivo”) doveva ritenersi incompatibile con l’attribuzione della paternità al M., risolvendosi in una frattura nel difficile equilibrio e nei progressi nello sviluppo psico-fisico raggiunti.

La Corte d’appello, dunque, ha negato il diritto al riconoscimento da parte del padre – in assenza del consenso della madre, che non si è espressa, rimanendo contumace – tenendo conto prevalentemente dei precedenti penali dei quali è gravato (uno soltanto in danno della madre e della nonna della minore), da alcuni dei quali egli risulta, peraltro, essere stato assolto.

E’ mancato qualsiasi accertamento in concreto – da espletarsi anche mediante consulenza tecnica d’ufficio – in ordine al pregiudizio effettivo che possa derivare alla minore dal puro e semplice acquisto dello status genitoriale, che – nel bilanciamento con il diritto soggettivo del padre al riconoscimento – risulti effettivamente prevalente, e che si riveli anche superiore al disagio psichico conseguente alla mancanza o non conoscenza di uno dei genitori>>.

Sospennsione della responsabilità genitoriale ex art. 333 c.c.: basta il pericolo potenziale (cioè il suo rischio)

Cass. ord. sez. 1 del 23.11.2023 n. 32.537, rel. Iofrida:

<<La Corte d’appello, pur dando atto dei progressi in termini di consapevolezza del ruolo genitoriale da parte della A.A. e del miglioramento generale del clima del nucleo familiare, non emergendo criticità, secondo le segnalazioni dei servizi sociali, ha ritenuto di dovere comunque confermare i provvedimenti adottati dal Tribunale, solo perchè non dovevano essere interrotti la situazione di difficile equilibrio e i progressi raggiunti.

Questa Corte ha da ultimo chiarito che “Ai fini della sospensione della responsabilità genitoriale ex art. 333 c.c., non occorre che la condotta del genitore abbia causato danno al figlio, poichè la norma mira ad evitare ogni possibile pregiudizio derivante dalla condotta (anche involontaria) del genitore, rilevando l’obiettiva attitudine di quest’ultima ad arrecare nocumento anche solo eventuale al minore, in presenza di una situazione di mero pericolo di danno” (Cass. 27553/2021).

Si è osservato, avuto riguardo alla formula elastica usata dal legislatore, che ritiene sufficiente, per l’adozione del provvedimento di sospensione della potestà genitoriale, a norma dell’art. 333 c.c., una condotta del genitore che “appare comunque pregiudizievole al figlio”, che non occorre, a tal fine, che un tale comportamento abbia già cagionato un danno al figlio minore, potendo il pregiudizio essere anche meramente eventuale per essersi verificata una situazione di mero pericolo di un danno per lo stesso minore. Il legislatore ha, in sostanza, introdotto una disciplina molto protettiva per il minore allo scopo di evitare, nei limiti del possibile, ogni obiettivo pregiudizio derivante dalla condotta di un genitore, che può essere anche non volontaria, rilevando la mera attitudine obiettiva ad arrecare danno al figlio (Cfr. Cass. 21 febbraio 2004, n. 3529 in motivazione).

Anche lo stesso decreto impugnato dà atto che le criticità emerse nel nucleo familiare erano indubbiamente da ricollegare alle fragilità manifestate dalla A.A., da ricollegare soprattutto alla difficilissima situazione personale conseguente al traumatico lutto per la morte del marito e padre dei minori, E.E., quando i figli avevano appena tre anni, F.F. portatore di disabilità, due anni, B.B., e due mesi, C.C., nonchè dall’assenza di supporto adeguato ad opera dei servizi sociali del Comune di (Omissis).

La Corte d’appello ha riconosciuto come la A.A. aveva dimostrato, dopo una condizione iniziale di “assoluta ed ingovernabile instabilità di ciascun membro della famiglia”, tanto da fare apparire come unica soluzione quella del collocamento dei ragazzi presso una casa-famiglia, grazie all’apporto dei Servizi sociali del Comune di (Omissis), ove la A.A. si è trasferita, e del Curatore speciale dei minori, di essere in grado, se adeguatamente guidata, di assolvere “in maniera sufficientemente corretta ai doveri inerenti alla responsabilità genitoriale”, essendosi anche attivata a percorrere un proprio “percorso di supporto individuale” oltre a quello di psicoterapia familiare.

Orbene, se il venir meno del clima conflittuale in passato esistente in famiglia ha consentito il rientro di tutti e tre i fratelli nella casa familiare dove convivono con la madre, non si spiega – e qui la contraddittorietà motivazionale anche denunciata – la conferma del provvedimento di limitazione della responsabilità genitoriale, in assenza di violazioni dei doveri del genitore e di condotte comunque pregiudizievoli per i figli del genitore>>.

Niente di particolarmente innovativo

La prova ematologica nell’azione per dichiarazione giudiziale di paternità non è sottoposta a precondizioni ma può essere dipostas in qualunque momento processuale

Cass. Sez. I, ord. 12 ottobre 2023 n. 28.444,  Rel. Pazzi, sull’art. 269 c.2 cc:

<<In tesi di parte ricorrente nell’economia del giudizio volto alla dichiarazione di paternità le indagini genetiche potrebbero essere disposte soltanto se risulti dimostrata in altro modo la sussistenza di una relazione sentimentale tra il presunto padre e la madre; in assenza di questa prova il rifiuto opposto alle indagini genetiche sarebbe giustificato e impedirebbe l’applicazione del disposto dell’art. 116 c.p.c..
La fondatezza di una simile tesi è stata smentita, da tempo, dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha chiarito come nei giudizi volti alla dichiarazione giudiziale di paternità l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacchè il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269 c.c., comma 2, non tollera surrettizie limitazioni, nè mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, nè, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status (si vedano in questo senso, per tutte, Cass. 14976/2007, Cass. 19583/2013, Cass. 3479/2016, Cass. 16128/2019).
Va dunque escluso che nei suddetti giudizi il figlio attore debba fornire alcuna prova o principio di prova in ordine all’esistenza di una relazione tra la propria madre ed il presunto padre antecedentemente all’ammissione della C.T.U. avente ad oggetto l’esame del D.N. A..
Ne discende che una simile pretesa probatoria, del tutto infondata, non poteva giustificare il rifiuto dell’odierno ricorrente di sottoporsi alle indagini ematologiche disposte dal primo giudice, come giustamente ha rilevato la Corte territoriale; i giudici distrettuali, di conseguenza, hanno fatto corretta applicazione dell’orientamento consolidato di questa Corte (Cass. 7092/2022, Cass. 3479/2016, Cass. 6025/2015, Cass. 12971/2014, Cass. 11223/2014) secondo cui il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice ai sensi dell’art. 116 c.p.c., anche in assenza di prove di rapporti sessuali tra le parti, in quanto è proprio la mancanza di riscontri oggettivi certi e difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti intercorsi e circa l’effettivo concepimento a determinare l’esigenza di desumere argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti.
Per questo motivo è possibile trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda anche soltanto dal rifiuto ingiustificato a sottoporsi all’esame ematologico del presunto padre, posto in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre, e tale rifiuto costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116 c.p.c., comma 2, di così elevato valore indiziario da poter anche da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda (Cass. 18626/2017, Cass. 26914/2017, Cass. 28886/2019)>>.

(segnalazione e testo offerti da Ondif)

Ancora sul mantenimento del figlio maggiorenne

Cass. ass. Civ., Sez. I, ord. 20 settembre 2023 n. 26875, rel. Nazzicone, interessante anche per gli aspetti fattuali.

Principi di diritto enunciati:

1 – “In tema di mantenimento del figlio maggiorenne privo di indipendenza economica, l’onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento è a carico del richiedente, vertendo esso sulla circostanza di avere il figlio curato, con ogni possibile impegno, la propria preparazione professionale o tecnica e di essersi, con pari impegno, attivato nella ricerca di un lavoro: di conseguenza, se il figlio è neomaggiorenne e prosegua nell’ordinario percorso di studi superiori o universitari o di specializzazione, già questa circostanza è idonea a fondare il suo diritto al mantenimento; viceversa, per il “figlio adulto”, in ragione del principio dell’autoresponsabilità, sarà particolarmente rigorosa la prova a suo carico delle circostanze, oggettive ed esterne, che rendano giustificato il mancato conseguimento di una autonoma collocazione lavorativa”.

2 – “I principi della funzione educativa del mantenimento e dell’autoresponsabilità circoscrivono, in capo al genitore, l’estensione dell’obbligo di contribuzione del figlio maggiorenne privo di indipendenza economica per il tempo mediamente necessario al reperimento di un’occupazione da parte di questi, tenuto conto del dovere del medesimo di ricercare un lavoro contemperando, fra di loro, le sue aspirazioni astratte con il concreto mercato del lavoro, non essendo giustificabile nel “figlio adulto” l’attesa ad ogni costo di un’occupazione necessariamente equivalente a quella desiderata”.

3 – “I principi della funzione educativa del mantenimento e dell’autoresponsabilità circoscrivono, in capo al genitore, l’estensione dell’obbligo di contribuzione del figlio maggiorenne privo di indipendenza economica per il tempo mediamente necessario al reperimento di un’occupazione da parte di questi, tenuto conto del dovere del medesimo di ricercare un lavoro contemperando fra di loro, ove si verifichi tale evenienza, il bisogno di particolari attenzioni o cure del genitore convivente con i doveri verso sé stesso, la propria vita e la propria indipendenza economica, potendo tale necessità unicamente giustificare, dopo la maggiore età, meri ritardi nel conseguire la propria autonomia economico-lavorativa, ma mai costituire, nel “figlio adulto”, che anzi è allora tanto più tenuto ad attivarsi, ragione della completa elisione dei doveri verso sé stesso, anche in vista della propria vita futura”.

Ancora la SC (analiticamente, ma poco convicentemente) sul dovere di mantenimento del figlio maggiorenne non autosufficiente

Cass. sez. I del 20.09.2023 n. 26.875, rel. Nazzicone:

<<La giurisprudenza della Corte è ormai uniforme nell’affermare il principio di diritto, che occorre ora ribadire, secondo cui l’onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento è a carico del richiedente.

Ai fini dell’accoglimento della domanda, così come del permanere dell’obbligo a fronte dell’istanza di revoca dello stesso da parte del genitore, è onere del richiedente provare non solo la mancanza di indipendenza economica – precondizione del diritto preteso – ma anche di avere curato, con ogni possibile impegno, la propria preparazione, professionale o tecnica, e di essersi con pari impegno attivato nella ricerca di un lavoro.[errore se la domanda è di revoca:  spetta al genitore provare l’autosufficienza, non al figlio il permanere della non aujtosufficienza]

Infatti, raggiunta la maggiore età, si presume l’idoneità al reddito [no, errore grave in violazione del’art. 2729 cc: presunzione priva di ogni fondamenrtio che contrasta con i dati economiuci sociali] che, per essere vinta, necessita della prova delle fattispecie che integrano il diritto al mantenimento ulteriore.

Ciò è coerente con il consolidato principio generale di prossimità o vicinanza della prova, secondo cui la ripartizione dell’onere probatorio deve tenere conto, oltre che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio riconducibile all’art. 24 Cost., ed al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova; conseguentemente, ove i fatti possano essere noti solo ad una delle parti, ad essa compete l’onere della prova, pur negativa.[molteplice errore: la presunzione è altro dalla vicinanza alla prova; questo opera quando non è chiara la fattispecie dell’effetto aizonato …]

Va altresì ribadito che la prova sarà tanto più lieve per il figlio, quanto più prossima sia la sua età a quella di un recente maggiorenne: invero, da un lato, qualora sia stato emesso dal giudice il provvedimento di mantenimento del figlio minorenne a carico del genitore non convivente, esso resta ultrattivo di per sé, sino ad un eventuale diverso provvedimento del giudice; e, dall’altro lato, qualora sussista una domanda di revoca da parte del genitore obbligato, l’onere della prova risulterà particolarmente agevole per il figlio in prossimità della maggiore età appena compiuta ed anche per gli immediati anni a seguire, quando il soggetto abbia intrapreso un percorso di studi, già questo integrando la prova presuntiva del compimento del giusto sforzo per meglio avanzare verso l’ingresso nel mondo adulto.

E’ opportuno, altresì, evidenziare come l’applicazione in buona fede di tali principî mai potrà permettere al genitore di negare il suo mantenimento al figlio, convivente o no, non appena e solo perché questi entri nella maggiore età, ove impegnato ancora negli studi superiori (se non universitari), poiché non si legittima affatto la cessazione del contributo da parte del genitore verso il figlio solo in quanto sia divenuto maggiorenne.

Di converso, la prova del diritto all’assegno di mantenimento sarà più gravosa man mano che l’età del figlio aumenti, sino a configurare il c.d. “figlio adulto”: che, in ragione del principio dell’autoresponsabilità, si valuterà, caso per caso, se possa ancora pretendere di essere mantenuto, anche con riguardo alle scelte di vita fino a quel momento operate e all’impegno realmente profuso nella ricerca, prima, di una idonea qualificazione professionale e, poi, di una collocazione lavorativa>>.

I tre principi di diritto:

1 – “In tema di mantenimento del figlio maggiorenne privo di indipendenza economica, l’onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento è a carico del richiedente, vertendo esso sulla circostanza di avere il figlio curato, con ogni possibile impegno, la propria preparazione professionale o tecnica e di essersi, con pari impegno, attivato nella ricerca di un lavoro: di conseguenza, se il figlio è neomaggiorenne e prosegua nell’ordinario percorso di studi superiori o universitari o di specializzazione, già questa circostanza è idonea a fondare il suo diritto al mantenimento; viceversa, per il “figlio adulto”, in ragione del principio dell’autoresponsabilità, sarà particolarmente rigorosa la prova a suo carico delle circostanze, oggettive ed esterne, che rendano giustificato il mancato conseguimento di una autonoma collocazione lavorativa”.

2 – “I principi della funzione educativa del mantenimento e dell’autoresponsabilità circoscrivono, in capo al genitore, l’estensione dell’obbligo di contribuzione del figlio maggiorenne privo di indipendenza economica per il tempo mediamente necessario al reperimento di un’occupazione da parte di questi, tenuto conto del dovere del medesimo di ricercare un lavoro contemperando, fra di loro, le sue aspirazioni astratte con il concreto mercato del lavoro, non essendo giustificabile nel “figlio adulto” l’attesa ad ogni costo di un’occupazione necessariamente equivalente a quella desiderata”.

3 – “I principi della funzione educativa del mantenimento e dell’autoresponsabilità circoscrivono, in capo al genitore, l’estensione dell’obbligo di contribuzione del figlio maggiorenne privo di indipendenza economica per il tempo mediamente necessario al reperimento di un’occupazione da parte di questi, tenuto conto del dovere del medesimo di ricercare un lavoro contemperando fra di loro, ove si verifichi tale evenienza, il bisogno di particolari attenzioni o cure del genitore convivente con i doveri verso sé stesso, la propria vita e la propria indipendenza economica, potendo tale necessità unicamente giustificare, dopo la maggiore età, meri ritardi nel conseguire la propria autonomia economico-lavorativa, ma mai costituire, nel “figlio adulto”, che anzi è allora tanto più tenuto ad attivarsi, ragione della completa elisione dei doveri verso sé stesso, anche in vista della propria vita futura”.

Erogazioni al convivente di fatto tra mutuo , liberalità indiretta e adempimento di obbligazione naturale

Dopo anni di convivenza e aver messo al mondo tre figli con lei, lui le chiede la restituzione di 170.000 euro ca. a titolo di rimborso di presunto mutuo.

Lei contesta che la ragione era invece stata l’indennizzo per una previa permanenza di lui nella casa di lei per anni e il suo dovere di mantimento dei figli.

Il Tribunale di Milano n° 4432/2023 del 29 maggio 2023, RG 16556/2021, g.u. Guantario, rigetta la domanda di lui perchè non provato il titolo azionato.

<<Come noto, “l’attore che chiede la restituzione di somme date a mutuo
è tenuto, ex art. 2697, comma 1, c.c., a provare gli elementi
costitutivi della domanda e, quindi, non solo la consegna, ma anche
il titolo da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione; ed
infatti l’esistenza di un contratto di mutuo non può desumersi dalla
mera consegna di assegni bancari o somme di denaro (che, ben potendo
avvenire per svariate ragioni, non vale, di per sé, a fondare una
richiesta di restituzione allorquando l'”accipiens” – ammessa la
ricezione – non confermi, altresì, il titolo posto dalla controparte
a fondamento della propria pretesa, ma ne contesti, anzi, la
legittimità), essendo l’attore tenuto a dimostrare per intero il
fatto costitutivo della sua pretesa, senza che la contestazione del
convenuto (il quale, pur riconoscendo di aver ricevuto la somma, ne
deduca una diversa ragione) possa tramutarsi in eccezione in senso
sostanziale e, come tale, determinare l’inversione dell’onere della
prova (tra le altre Cass.24328/2017)
Ebbene, nel caso di specie la convenuta negava che le somme ricevute
dall’attore le fossero state versate a titolo di prestito, sostenendo
che invece le erano corrisposte dal sig. Ranzani in adempimento di
doveri morali e sociali nei suoi confronti, anche per avere vissuto
per 7 anni nella casa di sua proprietà esclusiva di San Donato Milanese, senza versare alcunché; affermava inoltre che l’attore
aveva così contribuito al mantenimento dei tra figli della coppia e
dunque alle loro esigenze abitative, alimentari e di cura.
A fronte di tale contestazione, pertanto, il sig. Ranzani avrebbe
dovuto provare di avere concordato con la signora Delledonne la
restituzione degli importi versati e che pertanto la stessa avesse
assunto un obbligo in tal senso. Come chiarito dalla sentenza citata,
non incombeva invece su parte convenuta, la prova del diverso titolo
allegato.
Ciò posto, nessun documento veniva prodotto da parte attrice neppure
a dimostrazione di avere richiesto, prima della diffida del febbraio
2021 (doc. 2 di parte attrice) la restituzione di importi versati per
la maggior parte nel 2011 e comunque non oltre il 2014, così da
rendere implausibile che tre le parti fosse stato stipulato un
prestito.
Nemmeno i capitoli articolati, erano idonei a dimostrare che le somme
per cui è causa fossero state concesse a tale titolo. Al contrario lo
stesso attore allegava che, nonostante le raccomandazioni del proprio
legale, decideva di non formalizzare alcun accordo con la signora
Delledonne per riottenere, anche in caso di cessazione delle
convivenza, quanto versatole.
A ciò si aggiunga che, fermo restando quanto sopra detto in punto di
onere della prova, la qualificazione dei versamenti effettuati
dall’attore in favore della convenuta in termini di adempimento di
obbligazioni naturali e di contribuzione al ménage familiare è del
tutto conforme al principio secondo il quale le unioni di fatto,
quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la
famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale e assumono
rilievo ai sensi dell’art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di
natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti
dell’altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura
patrimoniale>>.

Non risulta azionata una  domanda restitutoria basata su donazione nulla per carenza di forma.

Resta da precisare che i doveri verso i figli, pur non nati da matrimonio, sono obbligo non naturale ma giuridico (art. 337 ter c.c.).

Ancora sul mantenimento del figlio maggiorenne ma non indipendente economicamente (art. 337 septies cc): due sentenze della Cassazione

Cass. sez. I del 31.07.2023 n. 23.245, rel. Fidanzia sull’art. 337 septies cc:

<<Va osservato che questa Corte, nell’ordinanza n. 17183/2020, ha enunciato il principio di diritto secondo cui “Ai fini del riconoscimento dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, ovvero del diritto all’assegnazione della casa coniugale, il giudice di merito è tenuto a valutare, con prudente apprezzamento, caso per caso e con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto all’età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere del suddetto obbligo o l’assegnazione dell’immobile, fermo restando che tale obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e (purché compatibili con le condizioni economiche dei genitori) aspirazioni”.

Nel suo percorso argomentativo, la predetta pronuncia ha evidenziato che, ogniqualvolta i figli maggiorenni siano “non indipendenti economicamente”, l’obbligo di mantenimento “non è posto direttamente e automaticamente dal legislatore, ma è rimesso alla dichiarazione giudiziale alla stregua di tutte le “circostanze” del caso concreto. Esso sarà quindi disposto – pena la superfluità della norma di riserva alla decisione del giudice – non solamente e non semplicemente perché manchi l’indipendenza economica del figlio maggiorenne. Affinché la disposizione menzionata abbia un qualche effetto, occorre, invero, eliminare ogni automatismo, rimettendo essa al giudice la decisione circa l’attribuzione del diritto al mantenimento, prima di quel momento inesistente… “(pag. 13).

L’ordinanza n. 17183/2020 si è occupata anche della situazione del figlio maggiorenne che ha intrapreso un’attività di studio, evidenziando che “trascorso un lasso di tempo sufficiente dopo il conseguimento di un titolo di studio, non potrà più affermarsi il diritto del figlio ad essere mantenuto: il diritto non sussiste, cioè certamente dopo che, raggiunta la maggiore età, sia altresì trascorso un ulteriore lasso di tempo, dopo il conseguimento dello specifico titolo di studio in considerazione (diploma superiore, laurea triennale, laurea quinquennale ecc.) che possa ritenersi idoneo a procurare un qualche lavoro, dovendo essere riconosciuto al figlio il diritto di godere di un lasso di tempo per inserirsi nel mondo del lavoro…..Invero, occorre affermare come il diritto al mantenimento debba trovare un limite sulla base di un termine, desunto dalla durata ufficiale degli studi, e dal tempo mediamente occorrente ad un giovane laureato, in un data realtà economica, affinché possa trovare un impiego; salvo che il figlio non provi non solo che non sia stato possibile procurarsi il lavoro ambito per causa a lui non imputabile, ma che neppure un altro lavoro fosse conseguibile, tale da assicuragli l’auto-mantenimento….”(vedi pagg. 15 e 16).

La Corte d’Appello di Milano non ha fatto buon governo di tali principi, avendo riconosciuto in via automatica al figlio maggiorenne l’assegno di mantenimento come mera conseguenza della sua mancanza di indipendenza economica, senza valutare le altre circostanze relative al caso concreto (se non la capacità lavorativa del padre, elemento da solo ininfluente).

In particolare, la Corte si è limitata a dare atto che il sig. V.A. era laureato, ma senza specificare da quando e se lo stesso avesse eventualmente avviato un percorso di studi post universiatari, e si fosse o meno messo alla ricerca di un’occupazione e con quali esiti, né ha precisato a quali cause fosse riconducibile il suo mancato inserimento nel mondo del lavoro.

Come già sopra anticipato, la Corte d’Appello ha erroneamente interpretato l’art. 337-septies c.c., finendo per ritenere configurabile un automatismo tra il riconoscimento dell’assegno di mantenimento al figlio maggiorente e la sua condizione di non autosufficienza economica, omettendo ogni altra valutazione.

La Corte d’Appello è quindi incorsa nel vizio denunciato dal ricorrente>>.

Il principio è abbastanza esatto: non è automatico il mantenimento in caso di non raggiunta indipendenza, quando c’ è palese colpa del figlio. D’altro canto non basta la laurea per perdere l’assegno ma serve “un certo tempo” ad essa successivo. se il mercato del lavoro non permette l’independenza economica se non dopo molti anni, tocca al genitore il mantenimento medio tempore .

Per non dire poi che i titoli di studio son sempre più importanti per lavori soffisfacenti: non si può allora vietare di conseguirli -anche a livello post laurea- al giovane desideroso di impegnarsi .

Se l’istruzione è la chiave per soddisfazioni future, essa va favorita in tutti i modi possibili e compatibili con l’equilibrio economico familiare.

Il medesimo relatore però pare più restrittivo (ed errando a mio parere, secondo quanto appena osservato) in Cass. sez. I del 31 luglio 2023 n. 23.133:

<<Va preliminarmente osservato che questa Corte (vedi Cass. n. 29264/2022; conf. Cass. 38366/2021) ha più volte enunciato il principio di diritto secondo cui “Il figlio di genitori divorziati, che abbia ampiamente superato la maggiore età, e non abbia reperito, pur spendendo il conseguito titolo professionale sul mercato del lavoro, una occupazione lavorativa stabile o che, comunque, lo remuneri in misura tale da renderlo economicamente autosufficiente, non può soddisfare l’esigenza ad una vita dignitosa, alla cui realizzazione ogni giovane adulto deve aspirare, mediante l’attuazione dell’obbligo di mantenimento del genitore, bensì attraverso i diversi strumenti di ausilio, ormai di dimensione sociale, che sono finalizzati ad assicurare sostegno al reddito, ferma restando l’obbligazione alimentare da azionarsi nell’ambito familiare per supplire ad ogni più essenziale esigenza di vita dell’individuo bisognoso”.

Tale principio non soffre eccezioni ove il figlio (ultra)maggiorenne non autosufficiente risulti affetto da qualche patologia (nel caso di specie depressiva), ma non tale da integrare la condizione di grave handicap che comporterebbe automaticamente l’obbligo di mantenimento.

In tale fattispecie, per soddisfare le essenziali esigenze di vita del figlio maggiorenne non autosufficiente, ben può richiedersi, ove sussistano i presupposti, un sussidio di ausilio sociale, oppure può proporsi l’azione per il riconoscimento degli alimenti, i quali rappresentano un “minus” rispetto all’assegno di mantenimento, con la conseguenza che nella richiesta di un tale assegno può ritenersi compresa anche quella di alimenti>>.

L’interpretazione non pare corretta, dato il ruolo di norma generale rivestito dal combinato disposto degli artt. 147 e 315 bis cc. Anche perchè l’assistenza sociale è assai scadente in Italia per cui non può farvicisi affidamento (l’incertissima sorte ad es. del reddito di citadinanza, al centro delle cronache di questi giorni,  lo conferma).