Ancora la SC (analiticamente, ma poco convicentemente) sul dovere di mantenimento del figlio maggiorenne non autosufficiente

Cass. sez. I del 20.09.2023 n. 26.875, rel. Nazzicone:

<<La giurisprudenza della Corte è ormai uniforme nell’affermare il principio di diritto, che occorre ora ribadire, secondo cui l’onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento è a carico del richiedente.

Ai fini dell’accoglimento della domanda, così come del permanere dell’obbligo a fronte dell’istanza di revoca dello stesso da parte del genitore, è onere del richiedente provare non solo la mancanza di indipendenza economica – precondizione del diritto preteso – ma anche di avere curato, con ogni possibile impegno, la propria preparazione, professionale o tecnica, e di essersi con pari impegno attivato nella ricerca di un lavoro.[errore se la domanda è di revoca:  spetta al genitore provare l’autosufficienza, non al figlio il permanere della non aujtosufficienza]

Infatti, raggiunta la maggiore età, si presume l’idoneità al reddito [no, errore grave in violazione del’art. 2729 cc: presunzione priva di ogni fondamenrtio che contrasta con i dati economiuci sociali] che, per essere vinta, necessita della prova delle fattispecie che integrano il diritto al mantenimento ulteriore.

Ciò è coerente con il consolidato principio generale di prossimità o vicinanza della prova, secondo cui la ripartizione dell’onere probatorio deve tenere conto, oltre che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio riconducibile all’art. 24 Cost., ed al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova; conseguentemente, ove i fatti possano essere noti solo ad una delle parti, ad essa compete l’onere della prova, pur negativa.[molteplice errore: la presunzione è altro dalla vicinanza alla prova; questo opera quando non è chiara la fattispecie dell’effetto aizonato …]

Va altresì ribadito che la prova sarà tanto più lieve per il figlio, quanto più prossima sia la sua età a quella di un recente maggiorenne: invero, da un lato, qualora sia stato emesso dal giudice il provvedimento di mantenimento del figlio minorenne a carico del genitore non convivente, esso resta ultrattivo di per sé, sino ad un eventuale diverso provvedimento del giudice; e, dall’altro lato, qualora sussista una domanda di revoca da parte del genitore obbligato, l’onere della prova risulterà particolarmente agevole per il figlio in prossimità della maggiore età appena compiuta ed anche per gli immediati anni a seguire, quando il soggetto abbia intrapreso un percorso di studi, già questo integrando la prova presuntiva del compimento del giusto sforzo per meglio avanzare verso l’ingresso nel mondo adulto.

E’ opportuno, altresì, evidenziare come l’applicazione in buona fede di tali principî mai potrà permettere al genitore di negare il suo mantenimento al figlio, convivente o no, non appena e solo perché questi entri nella maggiore età, ove impegnato ancora negli studi superiori (se non universitari), poiché non si legittima affatto la cessazione del contributo da parte del genitore verso il figlio solo in quanto sia divenuto maggiorenne.

Di converso, la prova del diritto all’assegno di mantenimento sarà più gravosa man mano che l’età del figlio aumenti, sino a configurare il c.d. “figlio adulto”: che, in ragione del principio dell’autoresponsabilità, si valuterà, caso per caso, se possa ancora pretendere di essere mantenuto, anche con riguardo alle scelte di vita fino a quel momento operate e all’impegno realmente profuso nella ricerca, prima, di una idonea qualificazione professionale e, poi, di una collocazione lavorativa>>.

I tre principi di diritto:

1 – “In tema di mantenimento del figlio maggiorenne privo di indipendenza economica, l’onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento è a carico del richiedente, vertendo esso sulla circostanza di avere il figlio curato, con ogni possibile impegno, la propria preparazione professionale o tecnica e di essersi, con pari impegno, attivato nella ricerca di un lavoro: di conseguenza, se il figlio è neomaggiorenne e prosegua nell’ordinario percorso di studi superiori o universitari o di specializzazione, già questa circostanza è idonea a fondare il suo diritto al mantenimento; viceversa, per il “figlio adulto”, in ragione del principio dell’autoresponsabilità, sarà particolarmente rigorosa la prova a suo carico delle circostanze, oggettive ed esterne, che rendano giustificato il mancato conseguimento di una autonoma collocazione lavorativa”.

2 – “I principi della funzione educativa del mantenimento e dell’autoresponsabilità circoscrivono, in capo al genitore, l’estensione dell’obbligo di contribuzione del figlio maggiorenne privo di indipendenza economica per il tempo mediamente necessario al reperimento di un’occupazione da parte di questi, tenuto conto del dovere del medesimo di ricercare un lavoro contemperando, fra di loro, le sue aspirazioni astratte con il concreto mercato del lavoro, non essendo giustificabile nel “figlio adulto” l’attesa ad ogni costo di un’occupazione necessariamente equivalente a quella desiderata”.

3 – “I principi della funzione educativa del mantenimento e dell’autoresponsabilità circoscrivono, in capo al genitore, l’estensione dell’obbligo di contribuzione del figlio maggiorenne privo di indipendenza economica per il tempo mediamente necessario al reperimento di un’occupazione da parte di questi, tenuto conto del dovere del medesimo di ricercare un lavoro contemperando fra di loro, ove si verifichi tale evenienza, il bisogno di particolari attenzioni o cure del genitore convivente con i doveri verso sé stesso, la propria vita e la propria indipendenza economica, potendo tale necessità unicamente giustificare, dopo la maggiore età, meri ritardi nel conseguire la propria autonomia economico-lavorativa, ma mai costituire, nel “figlio adulto”, che anzi è allora tanto più tenuto ad attivarsi, ragione della completa elisione dei doveri verso sé stesso, anche in vista della propria vita futura”.

Erogazioni al convivente di fatto tra mutuo , liberalità indiretta e adempimento di obbligazione naturale

Dopo anni di convivenza e aver messo al mondo tre figli con lei, lui le chiede la restituzione di 170.000 euro ca. a titolo di rimborso di presunto mutuo.

Lei contesta che la ragione era invece stata l’indennizzo per una previa permanenza di lui nella casa di lei per anni e il suo dovere di mantimento dei figli.

Il Tribunale di Milano n° 4432/2023 del 29 maggio 2023, RG 16556/2021, g.u. Guantario, rigetta la domanda di lui perchè non provato il titolo azionato.

<<Come noto, “l’attore che chiede la restituzione di somme date a mutuo
è tenuto, ex art. 2697, comma 1, c.c., a provare gli elementi
costitutivi della domanda e, quindi, non solo la consegna, ma anche
il titolo da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione; ed
infatti l’esistenza di un contratto di mutuo non può desumersi dalla
mera consegna di assegni bancari o somme di denaro (che, ben potendo
avvenire per svariate ragioni, non vale, di per sé, a fondare una
richiesta di restituzione allorquando l'”accipiens” – ammessa la
ricezione – non confermi, altresì, il titolo posto dalla controparte
a fondamento della propria pretesa, ma ne contesti, anzi, la
legittimità), essendo l’attore tenuto a dimostrare per intero il
fatto costitutivo della sua pretesa, senza che la contestazione del
convenuto (il quale, pur riconoscendo di aver ricevuto la somma, ne
deduca una diversa ragione) possa tramutarsi in eccezione in senso
sostanziale e, come tale, determinare l’inversione dell’onere della
prova (tra le altre Cass.24328/2017)
Ebbene, nel caso di specie la convenuta negava che le somme ricevute
dall’attore le fossero state versate a titolo di prestito, sostenendo
che invece le erano corrisposte dal sig. Ranzani in adempimento di
doveri morali e sociali nei suoi confronti, anche per avere vissuto
per 7 anni nella casa di sua proprietà esclusiva di San Donato Milanese, senza versare alcunché; affermava inoltre che l’attore
aveva così contribuito al mantenimento dei tra figli della coppia e
dunque alle loro esigenze abitative, alimentari e di cura.
A fronte di tale contestazione, pertanto, il sig. Ranzani avrebbe
dovuto provare di avere concordato con la signora Delledonne la
restituzione degli importi versati e che pertanto la stessa avesse
assunto un obbligo in tal senso. Come chiarito dalla sentenza citata,
non incombeva invece su parte convenuta, la prova del diverso titolo
allegato.
Ciò posto, nessun documento veniva prodotto da parte attrice neppure
a dimostrazione di avere richiesto, prima della diffida del febbraio
2021 (doc. 2 di parte attrice) la restituzione di importi versati per
la maggior parte nel 2011 e comunque non oltre il 2014, così da
rendere implausibile che tre le parti fosse stato stipulato un
prestito.
Nemmeno i capitoli articolati, erano idonei a dimostrare che le somme
per cui è causa fossero state concesse a tale titolo. Al contrario lo
stesso attore allegava che, nonostante le raccomandazioni del proprio
legale, decideva di non formalizzare alcun accordo con la signora
Delledonne per riottenere, anche in caso di cessazione delle
convivenza, quanto versatole.
A ciò si aggiunga che, fermo restando quanto sopra detto in punto di
onere della prova, la qualificazione dei versamenti effettuati
dall’attore in favore della convenuta in termini di adempimento di
obbligazioni naturali e di contribuzione al ménage familiare è del
tutto conforme al principio secondo il quale le unioni di fatto,
quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la
famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale e assumono
rilievo ai sensi dell’art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di
natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti
dell’altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura
patrimoniale>>.

Non risulta azionata una  domanda restitutoria basata su donazione nulla per carenza di forma.

Resta da precisare che i doveri verso i figli, pur non nati da matrimonio, sono obbligo non naturale ma giuridico (art. 337 ter c.c.).

Ancora sul mantenimento del figlio maggiorenne ma non indipendente economicamente (art. 337 septies cc): due sentenze della Cassazione

Cass. sez. I del 31.07.2023 n. 23.245, rel. Fidanzia sull’art. 337 septies cc:

<<Va osservato che questa Corte, nell’ordinanza n. 17183/2020, ha enunciato il principio di diritto secondo cui “Ai fini del riconoscimento dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, ovvero del diritto all’assegnazione della casa coniugale, il giudice di merito è tenuto a valutare, con prudente apprezzamento, caso per caso e con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto all’età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere del suddetto obbligo o l’assegnazione dell’immobile, fermo restando che tale obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e (purché compatibili con le condizioni economiche dei genitori) aspirazioni”.

Nel suo percorso argomentativo, la predetta pronuncia ha evidenziato che, ogniqualvolta i figli maggiorenni siano “non indipendenti economicamente”, l’obbligo di mantenimento “non è posto direttamente e automaticamente dal legislatore, ma è rimesso alla dichiarazione giudiziale alla stregua di tutte le “circostanze” del caso concreto. Esso sarà quindi disposto – pena la superfluità della norma di riserva alla decisione del giudice – non solamente e non semplicemente perché manchi l’indipendenza economica del figlio maggiorenne. Affinché la disposizione menzionata abbia un qualche effetto, occorre, invero, eliminare ogni automatismo, rimettendo essa al giudice la decisione circa l’attribuzione del diritto al mantenimento, prima di quel momento inesistente… “(pag. 13).

L’ordinanza n. 17183/2020 si è occupata anche della situazione del figlio maggiorenne che ha intrapreso un’attività di studio, evidenziando che “trascorso un lasso di tempo sufficiente dopo il conseguimento di un titolo di studio, non potrà più affermarsi il diritto del figlio ad essere mantenuto: il diritto non sussiste, cioè certamente dopo che, raggiunta la maggiore età, sia altresì trascorso un ulteriore lasso di tempo, dopo il conseguimento dello specifico titolo di studio in considerazione (diploma superiore, laurea triennale, laurea quinquennale ecc.) che possa ritenersi idoneo a procurare un qualche lavoro, dovendo essere riconosciuto al figlio il diritto di godere di un lasso di tempo per inserirsi nel mondo del lavoro…..Invero, occorre affermare come il diritto al mantenimento debba trovare un limite sulla base di un termine, desunto dalla durata ufficiale degli studi, e dal tempo mediamente occorrente ad un giovane laureato, in un data realtà economica, affinché possa trovare un impiego; salvo che il figlio non provi non solo che non sia stato possibile procurarsi il lavoro ambito per causa a lui non imputabile, ma che neppure un altro lavoro fosse conseguibile, tale da assicuragli l’auto-mantenimento….”(vedi pagg. 15 e 16).

La Corte d’Appello di Milano non ha fatto buon governo di tali principi, avendo riconosciuto in via automatica al figlio maggiorenne l’assegno di mantenimento come mera conseguenza della sua mancanza di indipendenza economica, senza valutare le altre circostanze relative al caso concreto (se non la capacità lavorativa del padre, elemento da solo ininfluente).

In particolare, la Corte si è limitata a dare atto che il sig. V.A. era laureato, ma senza specificare da quando e se lo stesso avesse eventualmente avviato un percorso di studi post universiatari, e si fosse o meno messo alla ricerca di un’occupazione e con quali esiti, né ha precisato a quali cause fosse riconducibile il suo mancato inserimento nel mondo del lavoro.

Come già sopra anticipato, la Corte d’Appello ha erroneamente interpretato l’art. 337-septies c.c., finendo per ritenere configurabile un automatismo tra il riconoscimento dell’assegno di mantenimento al figlio maggiorente e la sua condizione di non autosufficienza economica, omettendo ogni altra valutazione.

La Corte d’Appello è quindi incorsa nel vizio denunciato dal ricorrente>>.

Il principio è abbastanza esatto: non è automatico il mantenimento in caso di non raggiunta indipendenza, quando c’ è palese colpa del figlio. D’altro canto non basta la laurea per perdere l’assegno ma serve “un certo tempo” ad essa successivo. se il mercato del lavoro non permette l’independenza economica se non dopo molti anni, tocca al genitore il mantenimento medio tempore .

Per non dire poi che i titoli di studio son sempre più importanti per lavori soffisfacenti: non si può allora vietare di conseguirli -anche a livello post laurea- al giovane desideroso di impegnarsi .

Se l’istruzione è la chiave per soddisfazioni future, essa va favorita in tutti i modi possibili e compatibili con l’equilibrio economico familiare.

Il medesimo relatore però pare più restrittivo (ed errando a mio parere, secondo quanto appena osservato) in Cass. sez. I del 31 luglio 2023 n. 23.133:

<<Va preliminarmente osservato che questa Corte (vedi Cass. n. 29264/2022; conf. Cass. 38366/2021) ha più volte enunciato il principio di diritto secondo cui “Il figlio di genitori divorziati, che abbia ampiamente superato la maggiore età, e non abbia reperito, pur spendendo il conseguito titolo professionale sul mercato del lavoro, una occupazione lavorativa stabile o che, comunque, lo remuneri in misura tale da renderlo economicamente autosufficiente, non può soddisfare l’esigenza ad una vita dignitosa, alla cui realizzazione ogni giovane adulto deve aspirare, mediante l’attuazione dell’obbligo di mantenimento del genitore, bensì attraverso i diversi strumenti di ausilio, ormai di dimensione sociale, che sono finalizzati ad assicurare sostegno al reddito, ferma restando l’obbligazione alimentare da azionarsi nell’ambito familiare per supplire ad ogni più essenziale esigenza di vita dell’individuo bisognoso”.

Tale principio non soffre eccezioni ove il figlio (ultra)maggiorenne non autosufficiente risulti affetto da qualche patologia (nel caso di specie depressiva), ma non tale da integrare la condizione di grave handicap che comporterebbe automaticamente l’obbligo di mantenimento.

In tale fattispecie, per soddisfare le essenziali esigenze di vita del figlio maggiorenne non autosufficiente, ben può richiedersi, ove sussistano i presupposti, un sussidio di ausilio sociale, oppure può proporsi l’azione per il riconoscimento degli alimenti, i quali rappresentano un “minus” rispetto all’assegno di mantenimento, con la conseguenza che nella richiesta di un tale assegno può ritenersi compresa anche quella di alimenti>>.

L’interpretazione non pare corretta, dato il ruolo di norma generale rivestito dal combinato disposto degli artt. 147 e 315 bis cc. Anche perchè l’assistenza sociale è assai scadente in Italia per cui non può farvicisi affidamento (l’incertissima sorte ad es. del reddito di citadinanza, al centro delle cronache di questi giorni,  lo conferma).

Sulla cessazione del dovere di mantenimento del figlio maggiorenne

Cass. sez. 1 n. 19530 del 10.07.2023, rel. Pazzi:

<<6.2 Va poi escluso che la condizione di disoccupazione rimanga a
carico del genitore attraverso una perpetuazione ad libitum
dell’obbligo di mantenimento.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte a questo proposito il figlio
di genitori divorziati, il quale abbia ampiamente superato la
maggiore età e non abbia reperito, pur spendendo il conseguito titolo
professionale sul mercato del lavoro, un’occupazione lavorativa
stabile o che, comunque, lo remuneri in misura tale da renderlo
economicamente autosufficiente, non può soddisfare l’esigenza a
una vita dignitosa, alla cui realizzazione ogni giovane adulto deve
aspirare, mediante l’attuazione dell’obbligo di mantenimento del
genitore, bensì attraverso i diversi strumenti di ausilio, ormai di
dimensione sociale, che sono finalizzati ad assicurare sostegno al
reddito, ferma restando l’obbligazione alimentare da azionarsi
nell’ambito familiare per supplire ad ogni più essenziale esigenza di
vita dell’individuo bisognoso (Cass. 29264/2022; Cass.
38366/2021)>>.

Opinione errata : l’art. 337 septies cc fa (a contrario id est implicitamente, ma inequivocamente) cessare il dovere di mantenimento solo al raggiungimento della “indipendenza economica”del figlio.

Violato il divieto di pubblicare l’immagine dei figli minori senza il consenso di entrambi i genitori

Trib. Roma 23.05.2023 n° 8066/2023, RG 61585/2019, giudice Pratesi sull’oggetto (immagine pubblicata a fini commerciali col consenso della mamma ma non del padre, all’epoca affidatario esclusivo):

premessa:

<<La giurisprudenza è concorde nel ritenere che l’inserimento di foto di figli minori sui social networks costituisca una operazione potenzialmente pregiudizievole in ragione delle caratteristiche proprie della rete internet. Il web consente infatti la diffusione di immagini e dati personali ad una rapidità tale da rendere difficoltosa e inefficace una qualsiasi forma di controllo sui flussi di informazioni. Da ciò consegue che – tanto più in presenza di una situazione di conflitto intrafamiliare (nella quale la manifestazione di consenso dell’uno non può far presumere analoga intenzione nell’altro) – la pubblicazione può dirsi lecita solo se consentita da entrambi i genitori. La base normativa della conclusione che precede si rinviene in una molteplicità di fonti nazionali e sovranazionali, a partire dall’art. 10 del codice civile che tutela l’interesse a
non vedere diffusa la propria immagine senza consenso, per passare poi alle
disposizioni dettate a tutela della privacy, alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre del 1989, ratificata in Italia con la L. n. 176 del 1991, ed ancora alla Convenzione Internazionale sui diritti dell’Infanzia (in particolare l’art. 19) ed alla Carta di Nizza (art. 24). Si deve pertanto ribadire che la pubblicazione di una o più immagini ritraenti una minore non sia lecita se non con il consenso di entrambi i genitori>>

Danno liquidato (per un numero elevato di immagini, in cui la mniore appariva di spalle):

  • euro 500,00 per danno patrimoniale;
  • euro 5.000 al padre iure proprio e altrettante come rappresentante della figlia per danno non patrimoniale:

<<Quanto al danno non patrimoniale, si tratta del patimento d’animo derivato dalla indebita apparizione dell’immagine della propria figlia, tanto più in quanto accostata alla struttura alberghiera gestita dal partner della propria ex compagna, ed in alcune immagini della pagina Facebook identificata con il cognome di costui.
L’apparizione non è stata episodica e marginale (si pensi a titolo esemplificativo alle circostanze di tempo e di luogo in cui la brochure è stata rinvenuta dalla teste Malagoli Togliatti) e la sua diffusività si può dire incontrollabile per quanto attiene alla pagina Facebook, destinata anch’essa a scopo pubblicitario (si consideri che nel mese di marzo l’attore ha inoltrato una diffida alla società e che nel mese di aprile l’agenzia di investigazioni ha rinvenuto la presenza delle fotografie della minore, rimosse solo in un momento imprecisato, successivo alla instaurazione della lite); per altro verso si tratta di immagini in buona parte gioiose e non offensive o sconvenienti; anche quella in cui Eleonora appare in atteggiamento affettuoso con Presutti, su cui molto si sofferma la difesa Falasca, non presenta connotati oggettivamente scabrosi, per quanto sia comprensibile che possa avere particolarmente urtato la sensibilità del padre>>.

Differenza tra gli assegni di mantenimento da separazione e divorzile

Cass. sez. I ord. 24.05.2023 n. 14.343, rel. Caprioli:
In materia di assegno di mantenimento in favore del coniuge separato ai sensi dell’art. 156 c.c., il giudice deve verificare la mancanza da parte del richiedente di adeguati redditi propri, ovvero di redditi sufficienti a garantire la conservazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Infatti, l’assegno di separazione presuppone la permanenza del vincolo coniugale, e, conseguentemente, la correlazione dell’adeguatezza dei redditi con il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; al contrario tale parametro non rileva in sede di fissazione dell’assegno divorzile, che deve invece essere quantificato in considerazione della sua natura assistenziale, compensativa e perequativa.
La valutazione relativa alle capacità di lavoro del coniuge beneficiario dell’assegno non potrà che avere ad oggetto l’effettiva e concreta possibilità di procurarsi mezzi propri mediante l’espletamento di un’attività lavorativa, essendo irrilevanti, per contro, valutazioni astratte
Niente di nuovo: ius receptum.
(massime di Valeria Cianciolo in www.osservatoriofamiglia.it)

Obbligo dei nonni e dei genitori per il mantenimento dei figli

Cass. Sez. I, ord. 16 maggio 2023 n. 13345 , Rel. Russo, sul concorso del dovere dei genitori con quello dei nonno (art. 316 bis cc):

<<L’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli – che investe contemporaneamente tutti gli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori – va inteso non solo nel senso che l’obbligazione degli ascendenti è subordinata e, quindi, sussidiaria rispetto a quella, primaria, dei genitori, ma anche nel senso che agli ascendenti non ci si possa rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro genitore è in grado di mantenerli.
Nel caso in esame, sussistevano i presupposti per ritenere l’obbligo degli ascendenti, in ragione della complessiva considerazione delle condizioni economiche dei genitori e dei loro comportamenti. In particolare, il comportamento del padre, non solo elusivo, ma anche doloso, posto che era stato condannato in sede penale, e che restando di fatto irreperibile, era venuto meno non solo a doveri di mantenimento ma anche a quelli di cura, educazione ed istruzione che di conseguenza gravavano per intero sulla madre, capace di una produzione reddituale inadeguata al mantenimento dei minori>>.

(massima di Valeria Cianciolo, osservatoriofamiglia.it)

Revisione dell’assegno di mantenimento dei figli e sua retroattività

In relazione all’art. 337 ter c.c. e in  una complessa lite tra genitori non legati da matrimonio sulla determinazione dell’assegno di mantenimento della figlia, offre utili precisazioni Cass. sez. I del 26.04.2023 n. 10.974, rel. Iofrida, circa la retroattività della sua revisione:

<<Anche le disposizioni di natura economica attinenti ai figli sono soggette a modifica nel caso di variazione dei presupposti sui cui si fondava la decisione precedente.

Questa Corte ha affermato il principio secondo cui in materia di revisione dell’assegno di mantenimento per i figli, il diritto di un coniuge a percepirlo ed il corrispondente obbligo dell’altro a versarlo, nella misura e nei modi stabiliti dalla sentenza di separazione o dal verbale di omologazione, conservano la loro efficacia sino a quando non intervenga la modifica di tali provvedimenti, rimanendo del tutto ininfluente il momento in cui, di fatto, sono maturati i presupposti per la modificazione o la soppressione dell’assegno, con la conseguenza che, in mancanza di specifiche disposizioni, la decisione giurisdizionale di revisione non può avere decorrenza dal momento dell’accadimento innovativo, anteriore nel tempo rispetto alla data della domanda di modificazione (Cass. 16173/2015; Cass. n. 3922/2012; Cass. 11913/2009; Cass., n. 28/2008; Cass., n. 19722/2008; Cass., n. 22941/2006; Cass., n. 6975/2005; Cass., n. 8235/2000).

Da ultimo, Cass. 4224/ 2021 ha chiarito che “la decisione del giudice relativa al contributo dovuto dal genitore non affidatario o collocatario per il mantenimento del figlio non ha effetti costitutivi, bensì meramente dichiarativi di un obbligo che è direttamente connesso allo “status” genitoriale e il diritto alla corresponsione del contributo sussiste finché non intervenga la modifica di tale provvedimento, sicché rimane ininfluente il momento in cui sono maturati i presupposti per la modificazione o la soppressione dell’obbligo, decorrendo gli effetti della decisione di revisione sempre dalla data della domanda di modificazione”.

(…)  Nella motivazione [di Cass. sez. un. sez. un. n. 32914 del 8 novembre 2022]  si è tuttavia, in particolare, evidenziato come: a) non vi è una norma che sancisce la irripetibilità dell’assegno in senso stretto alimentare provvisoriamente concesso, e dunque, a fortiori, non potrebbe affermarsi, per via analogica, la irripetibilità dell’assegno di mantenimento separativo o divorzile provvisoriamente (o comunque non definitivamente) attribuito; b) un temperamento al principio di piena ripetibilità trova giustificazione solo per ragioni equitative, sulla base dei principi costituzionali di solidarietà umana (Cost., art. 2) e familiare in senso ampio (Cost., art. 29), e solo nella misura in cui si esoneri il soggetto beneficiario dal restituire quanto percepito provvisoriamente anche “per finalità alimentare”, sul presupposto che le somme versate in base al titolo provvisorio siano state verosimilmente consumate per far fronte proprio alle essenziali necessità della vita (arg. ex art. 438, comma 2 c.c.); c) occorre, allora, dare il giusto rilievo alle esigenze equitative e solidaristiche anche con riferimento alla crisi della famiglia, nel cui ambito si collocano gli assegni di mantenimento, esigenze che inducono a temperare la generale operatività della regola civilistica della ripetizione dell’indebito (art. 2033 c.c.), nel quadro di una interpretazione costituzionalmente orientata della stessa; d) non si tratta di dettare una regola di “automatica irripetibilità” delle prestazioni rese in esecuzione di obblighi di mantenimento, quanto di operare un necessario bilanciamento tra l’esigenza di legalità e prevedibilità delle decisioni e l’esigenza, di stampo solidaristico, di tutela del soggetto che sia stato riconosciuto parte debole del rapporto; e) ove con la sentenza venga escluso in radice e “ab origine” (non per fatti sopravvenuti) il presupposto del diritto al mantenimento, separativo o divorzile, per la mancanza di uno “stato di bisogno” o, comunque, per la insussistenza di una sperequazione tra redditi tra i soggetti della coppia in crisi, ovvero sia addebitata la separazione al coniuge che, nelle more, abbia goduto di un assegno con funzione non meramente alimentare, non vi sono ragioni per escludere l’obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite, ai sensi dell’art. 2033 c.c. (con conseguente piena ripetibilità); f) invece, non sorge, a favore del coniuge separato o dell’ex coniuge, obbligato o richiesto, il diritto di ripetere le maggiori somme provvisoriamente versate sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione) sia nel caso in cui l’assegno stabilito in sede presidenziale (o nel rapporto tra la sentenza definitiva di un grado di giudizio rispetto a quella, sostitutiva, del grado successivo) venga rimodulato “al ribasso”, il tutto sempre se l’assegno in questione non superi la misura che garantisca al soggetto debole di far fronte alle normali esigenze di vita della persona media, tale che la somma di denaro possa ragionevolmente e verosimilmente ritenersi pressoché tutta consumata, nel periodo per il quale è stata prevista la sua corresponsione; g) l’entità, necessariamente modesta, di tale somma di denaro non può essere determinata in maniera fissa e astratta essendosi ritenuta necessaria una valutazione personalizzata e in concreto, la cui determinazione è riservata al giudice di merito, valutate tutte le variabili del caso concreto, la situazione personale e sociale del coniuge debole, le ragionevoli aspettative di tenore di vita ingenerate dal rapporto matrimoniale ovvero di non autosufficienza economica, nonché il contesto socioeconomico e territoriale in cui i coniugi o gli ex coniugi sono inseriti.

Nella fattispecie in esame, si discute, in sede di giudizio avviato nel settembre 2012 per la modifica delle condizioni concordate dai genitori nel 2002 e trasposte nel decreto presidenziale del 29/10/2002, riguardanti l’affidamento ed il mantenimento della figlia nata dalla loro unione al di fuori del matrimonio, dell’intervenuta rimodulazione al ribasso, in via provvisoria, nel corso del giudizio, da Euro 1.500,00 + 500,00 (a titolo di contributo per il canone locatizio) a Euro 1.000,00, oltre spese straordinarie, dell’ assegno di mantenimento della figlia, minorenne prima e poi maggiorenne ma non autosufficiente economicamente (per quanto risulta), che viveva, sino al luglio 2016, presso la madre.

Ora, l’assegno in oggetto ha comunque natura para-alimentare, rispondendo il contributo al mantenimento dei figli minorenni o maggiorenni non autosufficienti economicamente, al pari degli alimenti, alla necessità di sopperire, in rapporto alle esigenze anche presunte in relazione all’età, agli studi, etc…, ai bisogni di vita della persona, sia pure in un’accezione più ampia e pur non essendo necessario uno stato di indigenza, come negli alimenti (cfr. sul carattere “sostanzialmente alimentare” dell’assegno Cass. 28987/2008; Cass. 13609/2016; Cass. 23569/2016; Cass. 11689/2018).

Deve quindi affermarsi che, in ogni ipotesi di riduzione del contributo al mantenimento del figlio a carico del genitore, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti provvisori adottati, è esclusa la ripetibilità della prestazione economica eseguita; il diritto di ritenere quanto è stato pagato non opera nell’ipotesi in cui sia accertata la non sussistenza, quanto al figlio maggiorenne, ab origine dei presupposti per il versamento (vale a dire la non autosufficienza economica, in rapporto all’età ed al percorso formativo e/o professionale sul mercato del lavoro avviato, Cass. 38366/21) e sia disposta la riduzione o la revoca del contributo, con decorrenza comunque sempre dalla domanda di revisione o, motivatamente, da periodo successivo>>.

Separazione personale, permanenza del vincolo coniugale e determinazione dell’assegno di mantenimento

Cass . , sez. I, ord., 23 marzo 2023 n. 8254:

<<7.1. — Costituisce principio interpretativo ormai acquisito che la separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 cod. civ., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio (cfr. Cass. 12196/2017; id. 16809/2019; id. 5605/2020; id.4327/2022).
7.2. — Ciò posto è stato altresì precisato, in relazione allo stato di bisogno che giustifica il contributo e rispetto al quale rilevano sia i redditi percepiti dal coniuge richiedente che la sua capacità lavorativa, che l’attitudine al lavoro proficuo valutabile ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento da parte del giudice, è costituita dalla effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, senza limitare l’accertamento al solo mancato svolgimento di un ‘attività lavorativa e con esclusione di mere valutazioni astratte e ipotetiche (Cass.24049/2021).
7.3. — Ebbene, nel caso di specie la corte territoriale non si è attenuta a questi principi là dove ha respinto la domanda di mantenimento della sig.ra D’E. senza alcuna considerazione, da un canto del tenore di vita matrimoniale, ed ancora rilevante ai fini del contributo di mantenimento, e dall’altro, all’effettiva possibilità di reperire un lavoro adeguato nella zona di trasferimento (Monte di Procida prima e San Prisco dopo).
7.4.— Infatti, per quanto riguarda il tenore di vita non è contestato che la famiglia abbia potuto beneficiare di una buona disponibilità finanziaria assicurata dal lavoro del sig. P. – conduttore radiofonico e disc-jochey, noto con lo pseudonimo di R. F. – e che ciò sia proseguito anche dopo il trasferimento in Campania della sig.ra D’E. con la figlia mediante il versamento da parte del marito della somma mensile di circa euro 3.400,00 (euro 2000,00 oltre euro 700,00 per affitto ed oltre euro 700,00 per la governante).
7.5.— Tale disponibilità non è stata considerata dalla corte territoriale mentre è in realtà rilevante ai fine di ricostruire l’effettivo livello di vita matrimoniale e il contributo dalla stessa fornito.
7.6.— Inoltre, la corte d’appello non ha considerato l’effettiva possibilità per la sig.ra D’E. di reperire un’adeguata attività lavorativa, in una regione che conosce notoriamente tali problemi, ma anche in ragione delle caratteristiche specifiche delle esigenze di cura della figlia e delle difficoltà, pure riconosciute, quali l’indisponibilità di un mezzo di trasporto personale.
7.7. — A questo riguardo, infatti, la corte territoriale ha motivato erroneamente il rigetto con la “poco incisiva” ricerca di un posto di lavoro allegata dall’appellante e con il mancato riferimento all’eventuale richiesta del reddito di cittadinanza, in una prospettiva astratta che non può automaticamente condurre ad escludere l’osservanza dell’obbligo, ancora normativamente esistente in sede separativa, di assistenza materiale a favore del coniuge che non disponga di propri mezzi adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale. >>

Non trascrivibilità dell’atto matrimoniale estero e non registrabilità dell’atto di nascita di figlio da genitori omossessuali a seguito di maternità surrogata

Importante intervento nomofilattico di Cass. sez. un. 30.12.2022 n. 38.162 , rel. Giusti, di cui hanno dato conto tutti i media.

fatto : <<Il caso che ha dato origine al giudizio riguarda un bambino nato all’estero da maternità surrogata.

In base al progetto procreativo condiviso dalla coppia omoaffettiva, uno dei due uomini ha fornito i propri gameti, che sono stati uniti nella fecondazione in vitro con l’ovocita di una donatrice. L’embrione è stato poi trasferito nell’utero di una diversa donna, non anonima, che ha portato a termine la gravidanza e partorito il bambino.

I due uomini, entrambi di cittadinanza italiana, si sono uniti in matrimonio in Canada e l’atto è stato trascritto in Italia nel registro delle unioni civili.

Il bambino, di nome P., è nato nel (Omissis).

Quando il bambino è venuto alla luce, le autorità canadesi hanno formato un atto di nascita che indicava come genitore il solo padre biologico, F.P., mentre non sono stati menzionati né il padre intenzionale, B.F., né la madre surrogata, né la donatrice dell’ovocita.

Accogliendo il ricorso della coppia, nel 2017 la Corte Suprema della British Columbia ha dichiarato che entrambi i ricorrenti devono figurare come genitori del bambino e ha disposto la corrispondente rettifica dell’atto di nascita in (Omissis).

Costoro, sulla base del provvedimento della Corte Suprema della British Columbia, hanno chiesto all’ufficiale di stato civile italiano di rettificare anche l’atto di nascita del bambino in Italia, che indicava come genitore il solo padre biologico.

L’ufficiale di stato civile ha rifiutato la richiesta, sia perché esisteva già un atto di nascita trascritto, sia per l’assenza di dati normativi certi e di precedenti favorevoli da parte della giurisprudenza di legittimità.>>

Risposta: istanza non accoglibile visto che la maternità surrogata è contraria al ns ordine pubblico e non può permettere la genitorialità al genitore cd intenzionale. La tutela del minore avverrà tramite l’adozione “in casi particolare” che può chiedere il genitore “intenzionale” medesimo.

Copio solo gli ultimi §§ di un ragionamento appprofondito, che si confronta apertamente con  gli argomenti contrari:

<<20. – Poste queste coordinate, deve allora escludersi la trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori dell’originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il padre d’intenzione. L’ineludibile esigenza di garantire al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è assicurata attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d), che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame con il partner del genitore biologico che ha condiviso il progetto genitoriale e ha di fatto concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita.
21. – Il provvedimento giudiziario straniero non è trascrivibile per un triplice ordine di considerazioni.
21.1. – In primo luogo, perché nella non trascrivibilità si esprime la legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo, spesso a scapito delle donne maggiormente vulnerabili sul piano economico e sociale.
Il riconoscimento ab initio, mediante trascrizione o delibazione del provvedimento straniero di accertamento della genitorialità, dello status filiationis del nato da surrogazione di maternità anche nei confronti del committente privo di legame biologico con il bambino, finirebbe in realtà per legittimare in maniera indiretta e surrettizia una pratica degradante.
L’automatismo del riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione sulla base del contratto di maternità surrogata e degli atti di autorità straniere che riconoscono la filiazione risultante dal contratto, non è funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, attuando semmai quello degli adulti che aspirano ad avere un figlio a tutti i costi.
L’interesse superiore del minore è uno dei valori in cui si sostanzia l’ordine pubblico internazionale.
Esso costituisce non soltanto il valore fondante di ogni disciplina che riguardi i minori, ma anche l’indice concreto ed effettivo al quale la tutela deve essere commisurata.
Il fatto che l’interesse del minore debba essere oggetto di valutazione prioritaria non significa, tuttavia, che lo Stato sia obbligato a riconoscere sempre e comunque uno status validamente acquisito all’estero.
21.2. – In secondo luogo, perché va escluso che il desiderio di genitorialità, attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita lasciata alla autodeterminazione degli interessati, possa legittimare un presunto diritto alla genitorialità comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo (Corte Cost., sentenza n. 79 del 2022).
Non v’é nel sistema normativo un paradigma genitoriale fondato unicamente sulla volontà degli adulti di essere genitori e destinato a concorrere liberamente con quello naturalistico.
È esatto che l’accertamento della filiazione prescinde, oggi, dalla rigida dicotomia, che in passato costituiva il fondamento del sistema, tra filiazione biologica, basata sulla discendenza ingenita, e filiazione adottiva, incentrata sulla affettività e sulla necessità per il minore di crescere in un ambiente familiare idoneo all’accoglienza.
L’ordinamento – è vero – già conosce e tutela rapporti di filiazione non originati dalla genetica, ma sorti sulla base della “scelta”, e quindi dell’assunzione di responsabilità, di dar vita a un progetto genitoriale comune.
La L. n. 40 del 2004 ha dato ingresso alla possibilità di costituire in via diretta lo stato di figlio a prescindere dalla trasmissione di geni anche al di fuori delle ipotesi di adozione.
La scelta di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita eterologa non consente ripensamenti rispetto alla creazione del rapporto di filiazione (artt. 8 e 9 della legge citata). Il consenso è integralmente sostitutivo della mancanza di discendenza genetica.
La disciplina del fenomeno procreativo ormai si compone di modelli fondati sul legame biologico realizzato attraverso il rapporto sessuale e modelli affidati all’intervento in via assistita di tecniche mediche, anche con il contributo genetico di un soggetto terzo rispetto alla coppia, la quale si assume la responsabilità dell’evento procreativo.
La genitorialità del nato a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita è legata anche al consenso prestato e alla responsabilità conseguentemente assunta.
Con la L. n. 40 del 2004, artt. 8 e 9 il legislatore ha inteso definire lo status di figlio del nato da procreazione medicalmente assistita anche eterologa, ancor prima che fosse dichiarata l’illegittimità costituzionale del relativo divieto (sentenza n. 162 del 2014).
Nel fondare un progetto genitoriale comune, i soggetti maggiorenni che, all’interno di coppie di sesso diverso, coniugate o conviventi, abbiano consensualmente fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita (L. n. 40 del 2004, art. 5), divengono, per ciò stesso, responsabili nei confronti dei nati, destinatari naturali dei doveri di cura, pur in assenza di un legame biologico.
Dalla disciplina della L. 40 del 2004, artt. 8 e 9 tuttavia, non possono trarsi argomenti per sostenere l’idoneità del consenso a fondare lo stato di figlio nato a seguito di surrogazione di maternità.
Lo spazio entro il quale il consenso risulta idoneo ad attribuire lo stato di figlio in difetto di legame genetico è circoscritto ad una specifica fattispecie – la fecondazione eterologa – ben diversa e ben distinta dalla surrogazione di maternità. In caso di maternità surrogata, la genitorialità giuridica non può fondarsi sulla volontà della coppia che ha voluto e organizzato la procreazione assistita, così come avviene per la fecondazione assistita.
21.3. – In terzo luogo, perché il riconoscimento della genitorialità non può essere affidato ad uno strumento di carattere automatico. L’instaurazione della genitorialità e il giudizio sulla realizzazione del miglior interesse del minore non si coniugano con l’automatismo e con la presunzione, ma richiedono una valutazione di concretezza: quella valutazione di concretezza che postula il riscontro del preminente interesse del bambino a continuare, con la veste giuridica dello status, un rapporto di cura e di affettività che, già nei fatti, si atteggia a rapporto genitoriale.
Una diversa soluzione porterebbe a fondare l’acquisto della genitorialità sulla sola scelta degli adulti, anziché su una relazione affettiva già di fatto instaurata e consolidata.
La Corte costituzionale ha indicato la strada, che non è quella della delibazione o della trascrizione dei provvedimenti stranieri, secondo un più o meno accentuato automatismo funzionale ad assecondare il mero desiderio di genitorialità degli adulti che ricorrono all’estero ad una pratica vietata nel nostro ordinamento>>.

Il §§ 22 spuea che la tuytela del minire avviene con l’adoione incasi particolari

Inoltre le SSUU spiegano che <<Va da sé che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore non può fondarsi sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner.
L’orientamento sessuale della coppia non incide sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Cass., Sez. I, 2 giugno 2016, n. 12962; Corte Cost., sentenza n. 230 del 2020).
La giurisprudenza ha in più occasioni chiaramente respinto la tesi che l’omosessualità sia una condizione in sé ostativa all’assunzione e allo svolgimento dei compiti genitoriali.>>

Infine inerssanti i §§ 7-8  di teoria civilistica sul concetto di clausola generale e sul  ruolo creativo/meramente applicativo della giurisdizione (data anche la preparazione del relatore, studioso del diritto civile):

<<Anche quando non si trova al cospetto di un enunciato normativo concepito come regola a fattispecie, ma è investito del compito di concretizzare la portata di una clausola generale come l’ordine pubblico internazionale, che rappresenta il canale attraverso cui l’ordinamento si confronta con la pluralità degli ordinamenti salvaguardando la propria coerenza interna, o di un principio, come il migliore interesse del minore, in cui si esprime un valore fondativo dell’ordinamento, il giudice non detta né introduce una nuova previsione normativa.

La valutazione in sede interpretativa non può spingersi sino alla elaborazione di una norma nuova con l’assunzione di un ruolo sostitutivo del legislatore.

La giurisprudenza non è fonte del diritto.

Soprattutto in presenza di questioni, come quella oggetto del presente giudizio, controverse ed eticamente sensibili, che finiscono con l’investire il significato della genitorialità, al giudice è richiesto un atteggiamento di attenzione particolare nei confronti della complessità dell’esperienza e della connessione tra questa e il sistema.

Si tratta di temi, infatti, in rapporto ai quali lo stesso diritto di famiglia, nel mentre riflette, come uno specchio, lo stato dell’evoluzione delle relazioni familiari nel contesto sociale, tuttavia non può prescindere dal sistema, affidato anche alle cure del legislatore.

Ciò vale soprattutto in una vicenda, come l’attuale, nella quale si profila un ambito di discrezionalità del legislatore che la Corte costituzionale ha inteso preservare, indicando un percorso di collaborazione istituzionale nel quadro di un bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso alla maternità surrogata e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori.

Una pluralità di ragioni giustifica l’indicato approccio metodologico.

Il rispetto del pluralismo e dell’equilibrio tra i poteri, profilo centrale della democrazia, perché la ricerca dell’effettività deve seguire precise strade compatibili con il principio di leale collaborazione e con il dialogo istituzionale che la Corte costituzionale ha avviato con il legislatore.

La presa d’atto che talora la ricerca dell’effettività richiede un camminare in direzione di una meta non ancora completamente a portata di mano, perché la gradualità concorre a far assorbire il cambiamento e le novità nel sistema, con la giurisprudenza che accompagna ed asseconda l’evoluzione che si realizza nel costume e nella coscienza sociale.

La coerenza degli orientamenti giurisprudenziali, giacché le nuove frontiere dell’interpretazione che aspirino a offrire stabilità e certezza non conseguono a bruschi cambiamenti di rotta, ma sono il frutto di un progredire nel dialogo con i precedenti, con le altre Corti e con la cultura giuridica.

Non c’è spazio, in altri termini, né per una penetrazione diretta – attraverso la ricerca di un bilanciamento diverso da quello già operato dal Giudice delle leggi – di quell’ambito di discrezionalità legislativa che la Corte costituzionale ha inteso far salvo, né per una messa in discussione del punto di equilibrio da essa indicato.

  1. – La Corte costituzionale, rivolgendosi in prima battuta al legislatore, ha riconosciuto il ruolo primario del legislatore e della sua discrezionalità a fronte del ventaglio delle opzioni possibili.

Ciò nondimeno, al giudice compete pur sempre di valutare la situazione rimasta in attesa di una migliore disciplina per via legislativa.

La giurisprudenza, nell’interpretazione e nell’applicazione della legge, dà vita al testo normativo e dà contenuto alle clausole generali, elaborando la regola del caso concreto e poi reiterando la regola del caso nelle successive decisioni.

La riserva espressa della competenza del legislatore si riferisce, evidentemente, al piano della normazione primaria, al livello cioè delle fonti del diritto: come tale, essa non estromette il giudice comune, nel ruolo – costituzionalmente diverso da quello affidato al legislatore – di organo chiamato, non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema, nel quadro dell’equilibrio dei valori già indicato con chiarezza dalla Corte costituzionale.>>

Tutto molto bello e giusto: solo che ciò è diritto nuovo, non presente nella clausola generale. La attispecie sub iudice è nei fatti governata dal decisum del giudice, non dalla clausola stessa.

Il principio sul riconoscimento dello status , affermato dalle S.U., è ora riaffermato da Cass. Sez. I, ord. 3 gennaio 2024 n. 85 , rel. Tricomi.