Il diritto di visita dei nonni è subordinato al benessere del minore: la Cassazione sull’art. 317 bis c.c.

Chiarimenti sulla retta interpretazione dell’art. 317 bis cc “Rapporti con gli ascendenti” forniti da Cass, sez. 1 n° 2881 del 31.01.2023, rel. Pazzi.

<<L’interesse superiore del minore, perciò, deve costituire la considerazione determinante e, a seconda della propria natura e gravità, può prevalere su quello dei genitori o degli altri familiari (cfr. Corte EDU, 9/2/2017, Solarino c. Italia).

6.3 E’ fuor di dubbio che ciascun minore ha un rilevante interesse a fruire di un legame, relazionale ed affettivo, con la linea articolata delle generazioni che, per il tramite dei propri genitori, costituiscono la sua scaturigine.

Queste relazioni, d’ordinario, funzionano secondo linee armoniche e spontanee, perciò fruttuose per tutti gli attori in campo.

Ciò però non può far escludere che, in casi particolari, esse generino situazioni limite che esigono l’intervento giudiziale, quando non sia sufficiente il buon senso a far superare le frizioni fra gli adulti, allo scopo di assicurare il beneficio di una frequentazione fra ascendenti e nipoti di carattere biunivoco e capace di reciproco arricchimento spirituale ed affettivo.

6.4. L’intervento del giudice in questo ambito deve tenere conto del fatto che l’art. 317-bis c.c., nel riconoscere agli ascendenti un vero e proprio diritto a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, non attribuisce allo stesso un carattere incondizionato, ma ne subordina l’esercizio e la tutela, a fronte di contestazioni o comportamenti ostativi di uno o entrambi i genitori, a una valutazione del giudice avente di mira l'”esclusivo interesse del minore”, ovverosia la realizzazione di un progetto educativo e formativo, volto ad assicurare un sano ed equilibrato sviluppo della personalità del minore, nell’ambito del quale possa trovare spazio anche un’attiva partecipazione degli ascendenti, quale espressione del loro coinvolgimento nella sfera relazionale ed affettiva del nipote (Cass. 15238/2018).

La Corte di merito, quindi, doveva preoccuparsi di verificare, in termini positivi, la possibilità di procedere a un simile coinvolgimento, costituente il presupposto indispensabile per un’utile cooperazione degli ascendenti all’adempimento degli obblighi educativi e formativi dei genitori.

Questo coinvolgimento, all’evidenza, ha una consistenza ben diversa dalla mera constatazione, compiuta nel caso di specie dalla Corte di merito, dell’insussistenza di “un reale pregiudizio nel passare del tempo con i nonni e lo zio paterni”, perché implica un accertamento non – in termini negativi – della mera mancanza di conseguenze pregiudizievoli in esito alla frequentazione, bensì – in termini positivi – della possibilità per gli ascendenti di prendere fruttuosamente parte attiva alla vita dei nipoti attraverso la costruzione di un rapporto relazionale ed affettivo e in maniera tale da favorire il sano ed equilibrato sviluppo della loro personalità>>.

In altri termini, <<non è il minore a dovere offrirsi per soddisfare il tornaconto dei suoi ascendenti a frequentarlo, ove non ne derivi un “reale pregiudizio”, ma è l’ascendente – il diritto del quale ex art. 317-bis c.c. vale nei confronti dei terzi, ma non dei nipoti, il cui interesse è destinato a prevalere – a dovere prestarsi a cooperare nella realizzazione del progetto educativo e formativo del minore, se e nella misura in cui questo suo coinvolgimento possa non solo arricchire il suo patrimonio morale e spirituale, ma anche contribuire all’interesse del discendente>>.

Se si considera che tanto l’assunzione di responsabilità da parte dei genitori, prevista dall’art. 316 c.c., quanto il diritto degli ascendenti di mantenere rapporti significati con i discendenti, riconosciuto dall’art. 317-bis c.c., <<costituiscono situazioni giuridiche “serventi” focalizzate sul primario interesse del minore, sulla sua protezione e sull’esigenza che egli cresca con il sostegno di un adeguato ambiente familiare, capace anche di assicurare il vantaggio derivante da una relazione positiva con le relazioni precedenti, ben si comprende, allora, come in caso di conflittualità fra genitori e ascendenti non si tratti di assicurare tutela a potestà contrapposte individuando quale delle due debba prevalere sull’altra, ma di bilanciare, se e fin dove è possibile, le divergenti posizioni nella maniera più consona al primario interesse del minore, il cui sviluppo è normalmente assicurato dal sostegno e dalla cooperazione dell’intera comunità parentale.

Il compito del giudice, dunque, non è quello di individuare quale dei parenti debba imporsi sull’altro nella situazione di conflitto, ma di stabilire, rivolgendo la propria attenzione al superiore interesse del minore, se i rapporti non armonici (o addirittura conflittuali) fra gli adulti facenti parte della comunità parentale si possano comporre e come ciò debba avvenire.

In una prospettiva avente di mira, costantemente, il superiore interesse del minore occorrerà, allora, verificare – in caso di non armonici rapporti fra genitori e ascendenti – se si possa in qualche modo attuare una cooperazione fra gli adulti partecipanti alla comunità parentale nella realizzazione del progetto educativo e formativo del bambino, determinare le concrete modalità di questa necessaria collaborazione, tenendo conto dei differenti ruoli educativi, e stabilire, di conseguenza, – per ciascuno dei minori coinvolti, anche procedendo al loro ascolto nei termini previsti dall’art. 315-bis c.c., comma 3, e rispetto a ognuno degli ascendenti aventi interesse a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni – i sistemi più proficui di frequentazione e le più opportune modalità di organizzazione degli incontri>>.

Assegno vitalizio ex art. 580 cc al figlio non riconoscibile per sua scelte di non far rimuovere giudizialmente lo status incompatibile attuale

Interessante precisazione sull’assegno vitalizio ex artt. 580-279 cc da Cass. sez. 1 del 26.10.2022 n° 31.672, rel. Parise:

Premessa generale:

<<Occorre premettere, ricostruendo in estrema sintesi il sistema specialmente come delineato con l’ultima riforma (I. n. 219/2012 e d. legisl. n. 154/2013), che, pur essendo il fatto procreativo e la successiva nascita del figlio i presupposti per il sorgere della responsabilità del genitore ex art. 316 e ss. c.c., questa viene in essere e produce effetti giuridici, compresi quelli di carattere patrimoniale, soltanto a seguito di accertamento dello status, che è requisito essenziale per la piena titolarità e l’esercizio di situazioni giuridiche soggettive derivanti dal rapporto filiale.    In altri termini, il fatto procreativo non determina automaticamente la costituzione del rapporto giuridico di filiazione e la relativa attribuzione con efficacia erga omnes dello status, occorrendo a tal fine, come ben evidenziato dalla dottrina richiamata anche dal controricorrente, o un atto di autoresponsabilità del genitore, o un provvedimento del giudice, o comunque – con riferimento alla filiazione matrimoniale – l’operare del sistema di presunzioni di cui agli artt. 231 ss. c.c..

In quest’ottica di sistema si innesta l’ulteriore rilievo che, in talune fattispecie legali, il fatto procreativo in sé può assumere una ben minore valenza, diversa sia per natura sia per conseguenze giuridiche, poiché può determinare solo il sorgere di una responsabilità patrimoniale limitata del genitore, senza che avvenga la costituzione dello status, come per l’appunto si verifica nelle ipotesi previste dalla legge, derogatorie ed eccezionali, di accertamento cd. indiretto della paternità, nel cui alveo si inquadra la fattispecie disciplinata dall’art. 580 c.c..

Ritiene, infatti, il Collegio di dover dare continuità a quanto affermato da questa Corte con le pronunce sopra citate, secondo cui la ratio della disposizione di cui trattasi è quella di assicurare, in via eccezionale e derogatoria, una tutela patrimoniale successoria sui generis, ossia un diritto di credito nei confronti dell’eredità del genitore biologico, senza attribuzione né della qualità di erede dello status di figlio, ai soggetti sprovvisti di un titolo di stato di filiazione nei confronti del de cuius.

Pertanto il fatto procreativo, come puro fatto materiale, nei casi di accertamento cd. indiretto di paternità connotati dalla “non riconoscibilità” del figlio, determina solo il sorgere di un rapporto obbligatorio ex lege a limitati fini patrimoniali.

Le ipotesi a cui la tutela è certamente riferibile sono quelle in cui il figlio si trova dinanzi ad un ostacolo alla rimozione dello stato di “figlio altrui” non dipendente dalla propria volontà (figli non riconoscibili perché nati da genitori che non abbiano compiuto il sedicesimo anno di età, salva l’autorizzazione del giudice – art. 250, comma 5, c.c.; figlio infraquattrodicenne non riconoscibile per mancanza di consenso del genitore che abbia già effettuato il riconoscimento, salva l’autorizzazione del Tribunale – art. 250, commi 3 e 4, come modificato dall’arti, comma 2, lett. d) I.n. 219/2012; figlio privo di assistenza morale e materiale, per il quale siano intervenuti la dichiarazione di adottabilità e l’affidamento preadottivo – art. 11, ultimo comma, I.n. 184/1983- per essere in tale ipotesi il riconoscimento divenuto inefficace).>> [si noti l’elenco di casi di non riconoscibilità].

Ritiene il Collegio che <<nel novero della categoria dei figli “non riconoscibili” propria della fattispecie disciplinata dall’art. 580 c.c., il cui testo è rimasto sostanzialmente immutato dopo l’ultima riforma, che, dunque, né lo ha abrogato, né ne ha specificato l’ambito soggettivo di applicazione, debbano comprendersi anche coloro che, avendo un diverso stato di filiazione, per scelta consapevole non hanno impugnato il precedente riconoscimento o non hanno proposto azione di disconoscimento di paternità, e ciò in linea di continuità evolutiva rispetto a quanto statuito dalla citata Cass. 6365/2004, che ha attribuito rilevanza anche all’impossibilità sopravvenuta, ossia derivante dall’omessa proposizione dell’azione di disconoscimento di paternità entro il termine di decadenza in allora vigente per il figlio, ai fini del riconoscimento ex art. 279 c.c.>>.

<<Nel caso in esame ritiene il Collegio che possano mutuarsi gli stessi principi, con gli opportuni adattamenti. Nello specifico, una volta affermato che il favor veritatis non ha valenza costituzionale., nonché ribadito che è salvaguardato il principio dell’unicità dello stato di filiazione poiché uno solo resta il titolo di stato, subordinare il riconoscimento dei diritti patrimoniali successori del figlio biologico alla rimozione dello status preesistente significherebbe violare il suo diritto all’identità familiare, declinato ex art. 30 Cost. e anche ex art. 8 Cedu, che tutela il diritto alla stabilità dell’identità familiare del figlio in tutti casi in cui, sul piano fattuale e sostanziale, si sia instaurato, per un periodo apprezzabile, un rapporto corrispondente alla genitorialità (cfr. parere consultivo del 10 aprile 2019 Grande Chambre della Corte Europea dei diritti dell’uomo).>>

<<. Da quest’impostazione evolutiva, in linea anche con l’art. 2 Cost. oltre che con l’ordinamento sovranazionale, discende che non può negarsi al figlio, pena la violazione delle citate norme, la possibilità di scegliere tra la minore tutela successoria di cui all’art. 580 c.c., non subordinata alla previa rimozione dello status di figlio altrui, e quella “piena” che gli competerebbe ove facesse giuridicamente accertare la filiazione biologica. Come rimarcato dalla dottrina richiamata anche dal controricorrente, solo attribuendo la suddetta scelta al figlio gli si consente di operare un bilanciamento dipendente da sue valutazioni soggettive e personali correlate a più diritti meritevoli di tutela, ossia solo in tal modo gli si può consentire di decidere di preservare lo status e l’identità familiare con il genitore sociale, in forza di un legame affettivo verosimilmente consolidatosi in maniera continuativa per anni, senza dovere, al contempo, rinunciare ad ottenere quanto dovuto dal genitore biologico per i limitati diritti patrimoniali successori previsti dalla legge.>>

Principio di diritto ex art. 384 c.p.c.: “Il diritto all’assegno vitalizio di cui all’art. 580 c.c., che sorge “ex lege” per responsabilità patrimoniale del genitore biologico avente fonte nel fatto procreativo, spetta anche al figlio che abbia già il diverso “status” di figlio altrui e nel novero dei figli “non riconoscibili” devono comprendersi anche coloro che, avendo un diverso stato di filiazione, per scelta consapevole non hanno impugnato il precedente riconoscimento o non hanno proposto azione di disconoscimento di paternità, non potendo negarsi al figlio, pena la violazione degli artt. 2 e 30 Cost. e 8CEDU, la possibilità di scegliere tra la minore tutela successoria di cui all’art. 580 c.c., conservando la stabilità della sua identità familiare precedente, e quella “piena” che gli competerebbe ove facesse giuridicamente accertare la filiazione biologica”.

Assegno di mantenimento del figlio una volta divenuto (abbondantemente) maggiorenne

Cass. sez. 1 n° 358 del 10.02.2023, rel. Casadonte, sulloggetto (figlia quarantenne: § 9).

Domanda basata sull’art. 337 quinquies cc (dopo la statuzione iniziale contenuta nellla sentenza che -a conclusione di precedente giudizio- riconosceva lo status di figlio naturale e dava i comandi conseguenti).

Circostanze addotte dal padre ricorrente:

<<A sostegno della domanda, il sig. Martella ha esposto di aver
corrisposto ingenti quantità di denaro a favore della figlia, la quale
era tuttavia rimasta inerte nel reperire un’attività lavorativa,
avendo impiegato le risorse ricevute dal padre per acquistare un
immobile in una località balneare. Il medesimo ha inoltre lamentato
una drastica contrazione delle proprie consistenze conseguente alla
sua attuale condizione di pensionato, alla dismissione delle attività
imprenditoriali in precedenza intraprese, all’utilizzazione del
ricavato derivante dalla vendita di immobili di sua proprietà per
affrontare le spese del proprio sostentamento. Inoltre, ha allegato
il sopravvenuto obbligo di versare una tantum la somma di euro
100.000,00 in favore della moglie, in ragione dell’intervenuta
separazione consensuale tra i due avvenuta nel 2017>>.

Per il Tribunale adito si trattava di circostanze già vagliate.

Ma il ricorrente replica che, se viste in luce (cronologicamente) dinamica (cioè nella loro proieizonie temporale), erano sopravvenute.

La SC gli dà ragione:

<<Le doglianze del ricorrente, segnatamente quelle contenute
nel primo motivo di ricorso, colgono nel segno, giacché in base al
consolidato insegnamento giurisprudenziale, puntualmente
richiamato nel ricorso, ai fini del riconoscimento dell’obbligo di
mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti
economicamente, ovvero del diritto all’assegnazione della casa
coniugale, il giudice di merito è tenuto a valutare, con prudente
apprezzamento, caso per caso e con criteri di rigore
proporzionalmente crescenti in rapporto all’età dei beneficiari, le
circostanze che giustificano il permanere del suddetto obbligo o
l’assegnazione dell’immobile, fermo restando che tale obbligo non
può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura,
poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di
un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto
delle sue capacità, inclinazioni e (purché compatibili con le
condizioni economiche dei genitori) aspirazioni” (cfr. Cass., n.
17183/2020)>>

Sulla retroattività o meno della modifica in corso di causa degli assegni di mantenimento e divorzili inizialmente disposti hanno deciso le Sezioni Unite

Cass. sez. un. n. 32914 del 8 novembre 2022, rel. Iofrida , si sono pronunciate sul punto in oggetto con lunga sentenza qqui ricordata solo sul principio di diritto (largamente -ma non totalmente- incline verso la retroattività e quindi la ripetibilità):

«In materia di famiglia e di condizioni economiche nel rapporto tra coniugi separati o ex coniugi, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, occorre distinguere:

a) opera la «condictio indebiti» ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, in presenza di una rivalutazione della condizione «del richiedente o avente diritto», ove si accerti l’insussistenza «ab origine» dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile;

b) non opera la «condictio indebiti» e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, «delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione)», sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purché sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica;

c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità».

Significativa è l’analisi del concetto di assegno alimentare e della presunta sua irripetibilità in caso di successiva modifca o cancellazione.

In generale è logico che la statuzione definitiva metta nel nulla tutti gli effetti giuiridici prodotti dalle statuizioni anteriori , come tali provvisorie (tutte quelle anteriori al giudicato).

Appello Firenze sul danno c.d. endofamiliare

Una figlia chiede i danni al padre per non aver adempiuto al dovere di <istruire educare> lei stessa ex art. (oggi) 315 bis cc : disposizione che anzi aggiunge quello di <moralmente assistere> i figlio (nel caso de quo sopratutto quest’ultimo)

Domanda respinta in entrambi i gradi.

La corte d’appello di Firenze ricorda la disciplina del danno c.d. endofamiliare con sentenza n° 1949/2022 , RG 873/2019, del giorno 08.09.2022, rel. ed est. Carrano.

<< Ritiene questo Collegio di aderire all’insegnamento di nomofiliachia della S.C.
(3079/2015) secondo cui “
Il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una
figlia naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed
educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di
filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 della Costituzione – oltre che nelle norme di
natura internazionale recepite nel nostro ordinamento – un elevato grado di
riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi
dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., di un’autonoma
azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole.”.
Per
quanto concerne la domanda avente ad oggetto il risarcimento del danno non
patrimoniale ex art. 2059 c.c. ritiene questa Corte che la menzionata decisione della
S.C. aveva chiarito che la domanda avanzata dalla figlia dava luogo ad una autonoma
domanda di risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.-, denominato
danno cd. endofamiliare. L’obbligo di un genitore di concorrere al mantenimento della
figlia si poneva in connessione eziologica con la procreazione e sorgeva con la nascita
della figlia, ancorché il rapporto di filiazione venisse accertato solo successivamente
con sentenza (S.C. 27653/2011): l’automatismo che sussisteva tra responsabilità
genitoriale e procreazione costituiva il fondamento della responsabilità aquiliana da
illecito endofamiliare, ogni qual volta alla procreazione non seguiva il riconoscimento
e l’assolvimento degli obblighi connessi alla condizione di genitore. Secondo
l’insegnamento della S.C.-, presupposto della responsabilità e del conseguente diritto
della figlia al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, era la
consapevolezza del concepimento come proprio figlio da parte del genitore.

Quanto al danno non patrimoniale lamentato deve osservarsi che la giurisprudenza di
legittimità e di merito ha costantemente affermato che il danno da privazione della
figura paterna non possa considerarsi
in re ipsa (S.C. 10527/2011) ma deve essere
oggetto di prova.

(…)

Questo Collegio ritiene di aderire alla valutazione approfondita effettuata dal C.T.U.-,
della quale condivide il percorso logico e le conclusioni, non contestate in modo
pregnante e specificamente dall’appellante principale secondo cui il descritto
comportamento del padre non era stata la causa della patologia accertata dal C.T.U.
come condivisa dai C.T.P.-. Il comportamento nel suo complesso tenuto dal padre di
Federica non aveva cagionato un danno ingiusto alla figlia, suscettibile di essere
risarcito.
Condivisibilmente il primo Giudice aveva ritenuto che non risultava provato il nesso di
causa tra il comportamento del padre e la patologia della figlia
>>

Il danno è da violazione di obbligo e quindi contrattuale, non aquiliano (non è chniaro cosa intenda la SC per <illecito civile>)

L’assegno di mantenimento da separazione è diverso da quello divorzile

Cass., sez. 1, 13.09.2022 n. 26.890, rel. Lamorgese:

L’appello riduceva l’assegno a favopre del marito così motiovando:

<<Il G., all’epoca della separazione nel 2012, aveva quarantasette anni ed era dotato di piena capacità lavorativa e notevole professionalità, avendo goduto di un ottimo stipendio fino al 2007, quando aveva lasciato il lavoro per dedicarsi all’accudimento del figlio (bisognoso di sostegno e di essere seguito nelle attività sportive) e alla cura della prestigiosa abitazione coniugale acquistata con proventi della moglie; egli “era dotato di tutte le risorse personali e professionali per provvedere autonomamente al proprio dignitoso mantenimento” ed era diventato istruttore di tecnica equestre, né aveva dimostrato che le somme erogategli dalla moglie (indicate dal ricorrente in circa Euro 10000,00 al mese) servissero per le proprie esigenze personali piuttosto che per i bisogni del figlio; il G. non contribuiva al mantenimento del figlio, al quale provvedeva la T.; il tenore di vita del G. aveva subito “un rilevante ridimensionamento, con la perdita dell’abitazione familiare… e la necessità di reperire altra abitazione a pagamento, non disponendo egli di proprietà immobiliari”, sicché l’assegno mensile di Euro 300,00 serviva “per consentirgli di disporre di una adeguata abitazione”; dal canto suo, la T. “continua a godere del tenore di vita precedente alla separazione, grazie alle sue numerose proprietà immobiliari e ai proventi che le derivano dalla sua famiglia, pur dovendo provvedere in via esclusiva a mantenere il figlio”>>.

La Sc però accoglie , così censurandolo

<<Da queste argomentazioni traspare che il criterio seguito per la quantificazione del contributo di mantenimento a favore del G. non è quello seguito dalla giurisprudenza di legittimità, che è espresso dal principio secondo cui i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge separato, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio nella fase temporanea della separazione, stante la permanenza del vincolo coniugale e l’attualità del dovere di assistenza materiale, derivando dalla separazione – a differenza di quanto accade con l’assegno divorzile che postula lo scioglimento del vincolo coniugale – solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione (ex plurimis, Cass. 5605 del 2020, 16809 del 2019, 12196 del 2017).

Ed infatti, il contributo di mantenimento in favore del G. non è stato quantificato in misura idonea a garantirgli, in via tendenziale, la conservazione del tenore di vita matrimoniale – che, come accertato dalla Corte di merito, aveva subito un rilevante ridimensionamento dopo la separazione, contrariamente alla T., la quale poteva contare su notevoli risorse a sua disposizione – ma solo a consentirgli di procurarsi una abitazione, nell’ottica di un aiuto a provvedere al proprio “dignitoso mantenimento”.

Apodittica è l’affermazione secondo cui il G. sarebbe titolare di idonee risorse personali e professionali, essendo priva di una comprensibile esplicitazione dei fatti idonei a corroborarla. Ne’ è chiaro il significato dell’ulteriore affermazione secondo cui “egli peraltro ha goduto per quattro anni di un contributo mensile da parte della moglie di Euro 1500,00 mensili (attribuitogli in sede presidenziale)”, non comprendendosi se e quali elementi rilevanti la Corte ne abbia tratto sul piano decisorio.

Si tratta di una motivazione in fatto perplessa e sostanzialmente apparente, dunque censurabile in sede di legittimità>>.

La Cassazione sulla revisione dell’assegno divorzile di mantenimento dei figli

Precisazioni da  Cass. 12 luglio 2022 n. 22.075, sez. 1, rel. Reggiani.

1) <Come più volte affermato da questa Corte, il principio sancito dall’art. 337 quinquies c.c., secondo cui i genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni relative ai figli (affidamento e contributo al mantenimento) va, infatti, coniugato con i principi che regolano il relativo procedimento. Il che comporta che il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti di siffatte statuizioni sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti già compiuta in seno al precedente titolo e, dunque, non può dare ingresso a fatti anteriori alla definitività del titolo stesso, o a quelli che comunque avrebbero potuto essere fatti valere con gli strumenti concessi per impedirne la definitività, dovendo quel giudice limitarsi a verificare se, ed in che misura, le circostanze, sopravvenute e provate dalle parti, abbiano alterato l’assetto tenuto in considerazione in sede di formazione del titolo (v. da ultimo, Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 283 del 09/01/2020; con riferimento alle statuizioni relative ai figli nati fuori del matrimonio, assimilate a quelle adottate in sede di separazione e divorzio che riguardano i figli di coppie coniugate, v. Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 18608 del 30/06/2021, ove a fondamento della richiesta di revisione del contributo al mantenimento sono state poste solo modifiche delle condizioni economiche; v. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6132 del 26/03/2015, Rv. 634872-01 e Cass., Sez. 1, Sentenza n. 3192 del 07/02/2017, Rv. 643720-01)>.

Punto importante, da certa dottrina avversato.

2) <<5.5. In tale ottica, perché possa essere operata la revisione del contributo al mantenimento del figlio, non basta che si determini un mutamento di alcuni dei parametri di riferimento previsti dall’art. 337 ter c.c., comma 4, essendo necessario che tale mutamento comporti un’alterazione del principio della proporzionalità che aveva determinato la misura dell’assegno in questione.

In particolare, se sono ritenute esistenti maggiori spese per il mantenimento del figlio (art. 337 ter c.c., comma 4, n. 1), ciò non comporta un automatico aumento del contributo al mantenimento a carico del genitore obbligato, perché deve sempre essere garantito il rispetto del sopra menzionato principio della proporzionalità, da verificarsi in base ai parametri sopra indicati ai nn. 3, 4, e 5 dell’art. 337 ter c.c.

Ciò significa che, se risultano immutati tutti gli altri elementi di valutazione, che attengono al riparto interno dell’obbligo di mantenimento, l’aumento delle spese di mantenimento legate alla crescita del figlio, in relazione alle specifiche esigenze di quest’ultimo, deve comportare un aumento del contributo al mantenimento gravante sul genitore obbligato, perché altrimenti le maggiori spese graverebbero ingiustamente solo sull’altro.>>

In sintesi, <a fronte della richiesta di revisione dell’assegno di mantenimento dei figli minorenni o maggiorenni e non autosufficienti economicamente giustificata dall’insorgenza di maggiori oneri legati alla crescita di questi ultimi, il giudice di merito, che ritenga esistenti tali maggiori spese, non è chiamato ad accertare l’esistenza di sopravvenienze nel reddito del genitore obbligato in grado di giustificare l’aumento del contributo, ma deve limitarsi a verificare se tali maggiori spese comportino la necessità di rivedere l’assegno per assicurare la proporzionalità del suo contributo alla luce dei parametri fissati dall’art. 337 ter c.c., comma 4, ben potendo l’incremento di spesa determinare un maggiore contributo con redditi (dei genitori) immutati (o mutati senza modificare la rispettiva debenza), ovvero non incidere sulla misura del contributo, ove le attuali consistenze economiche dei genitori non rilevino per la misura del contributo, come già determinato.>

Rifoprmulato nel principio di diritto <<“Nel giudizi separativi, a fronte della richiesta di revisione dell’assegno di mantenimento dei figli (minorenni o maggiorenni e non autosufficienti economicamente), giustificata dall’insorgenza di maggiori oneri legati alla crescita di questi ultimi, il giudice di merito, che ritenga necessarie tali maggiori spese, non è tenuto, i via preliminare, ad accertare l’esistenza di sopravvenienze nel reddito del genitore obbligato, ma a verificare se tali maggiori spese comportino la necessita di rivedere l’assegno, ben potendo l’incremento di spesa determinare un maggiore contributo anche a condizioni economiche dei genitori immutate (o mutate senza alterare le proporzioni delle misure di ciascuno dei due), ovvero non incidere sulla misura del contributo di uno o di entrambi gli onerati, ove titolari di risorse non comprimibili ulteriormente.”>>

3)  <E’ stato già evidenziato come l’art. 337 ter c.c. preveda che il riparto tra i genitori degli oneri legati al mantenimento dei figli sia regolato dal principio della proporzionalità al reddito di ciascuno. Ciò comporta che il genitore che gode di redditi maggiori sostiene maggiori spese anche se la proporzione tra spese e reddito è la stessa. E’ dunque evidente che la misura del contributo di ciascuno di essi dipende dalla misura del contributo dell’altro, sempre regolato dal principio della proporzionalità. E’ per questo che, in modo inequivoco, l’art. 337 ter c.c., comma 4, n. 4), espressamente indica, tra i parametri per la determinazione del contributo al mantenimento del figlio, le risorse economiche di entrambi i genitori.

Tale considerazione non cambia, ove la valutazione debba essere fatta in sede di revisione del contributo in questione, poiché, come sopra evidenziato, le sopravvenienze poste a fondamento della richiesta di modifica di tale contributo devono essere tali da incidere sulla proporzione che regola il riparto delle spese tra genitori.

In particolare, anche quando sia posta a fondamento della richiesta di modifica del contributo l’insorgenza di maggiori spese legate alla crescita dei figli, ove – come nella specie – sia controversa la permanenza della stessa situazione economica dei coniugi rispetto al tempo della determinazione originaria dell’assegno, il giudice è chiamato ad effettuare la valutazione delle risorse economiche di entrambi i genitori, proprio per valutare se la sopravvenienza dedotta incide o meno sull’ammontare del contributo gravante sul genitore obbligato in applicazione del principio della proporzionalità.

L’accertamento non deve essere limitato alle consistenze dell’obbligato, ma al reddito e al patrimonio di entrambi i genitori, per verificare se la sopravvenienza dedotta ha alterato la proporzione che regola, tra loro, il riparto dell’obbligo di contribuzione al mantenimento dei figli, giustificando un aumento del contributo al mantenimento da parte del genitore a ciò obbligato.

Nel caso di specie, la Corte di appello, ha effettuato tale valutazione e ha escluso che la sopravvenienza dedotta abbia inciso sul menzionato rapporto di proporzionalità, affermando che, se vi era stato un miglioramento delle condizioni economiche, quello era in favore della madre con cui i figli vivevano.>

La tolleranza di infedeltà pregressa è di ostacolo all’addebito della separazione? La Cassazione sulla separazione Ferragamo

E’ stato diffuso il testo di   Cass. 25.966 del 02.09.2022 sez. 1, rel. Mercolino dal collega Alessandro Casartelli.

La SC accoglie la critica al rigetto della domanda di addebito avanzata dal marito.

Premette che <<Grava dunque sulla parte che richieda l’addebito della separazione all’altro coniuge, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre spetta a chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi l’inidoneità dell’infedeltà a determinare l’intollerabilità della convivenza, fornire la prova delle circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire dell’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà (cfr. Cass., Sez. VI, 19/02/2018, n. 3923; Cass., Sez. I, 14/02/2012, n. 2059). Ai fini di tale accertamento, è stata ritenuta peraltro irrilevante la prova della tolleranza eventualmente manifestata da un coniuge nei confronti della condotta infedele tenuta dall’altro, essendosi esclusa la configurabilità della stessa come “esimente oggettiva”, idonea a far venire meno l’illiceità del comportamento, o l’ammissibilità di una rinuncia tacita allo adempimento dei doveri coniugali, in quanto aventi carattere indisponibile, ed essendosi ritenuto che la sopportazione dell’infedeltà del coniuge possa essere piuttosto presa in considerazione, unitamente ad altri elementi, quale indice rivelatore di una crisi in atto da tempo, nell’ambito di una più ampia valutazione volta a stabilire se tra le parti fosse già venuta meno raffectio coniugalis (cfr. Cass., Sez. I, 20/09/2007, n. 19450; 27/06/1997, n. 5762; 2/03/1987, n. 2173)>>.

Va poi al caso sub iudice, con l’interessante precisaizone:

<< deve riternersi che la tolleranza manifestata dal ricorrente nei confronti della relazione extraconiugale intrapresa dalla moglie alcuni anni prima della proposizione della domanda in tanto potesse impedirgli di far valere la violazione del dovere di fedeltà, in quanto fosse stato dedotto e dimostrato che la predetta relazione non aveva costituito causa della crisi coniugale, all’epoca già in atto e mai più sanata, ovvero che la stessa era rimasta un episodio isolato, eventualmente dovuto ad un temporaneo appannamento del vincolo affettivo tra i coniugi, e superato da una piena e completa ripresa dei rapporti tra gli stessi, nuovamente deterioratisi in epoca successiva per altre ragioni.

A sostegno della domanda di addebito, il ricorrente aveva invece allegato e chiesto di essere ammesso a provare che la predetta relazione era stata seguita da altre, intraprese successivamente alla cessazione della prima e fino all’instaurazione del giudizio di separazione, in tal modo lasciando chiaramente intendere che la tolleranza da lui inizialmente manifestata nei confronti della condotta del coniuge era venuta meno, a causa della reiterata violazione del dovere di fedeltà da parte dello stesso, che aveva determinato il fallimento dell’unione. A fronte di tale allegazione, l’atteggiamento tenuto dal ricorrente nei confronti della prima relazione non poteva essere considerato sufficiente a giustificare il rigetto della domanda di addebito della separazione, a tal fine occorrendo prendere in esame la successiva evoluzione del rapporto coniugale, ed in particolare accertare se si fossero verificate nuove violazioni del dovere di fedeltà da parte della G., e quale fosse stata la reazione del F.: soltanto ove fosse risultato che a seguito delle cessazione della predetta relazione la vita coniugale era ripresa regolarmente senza ulteriori violazioni del dovere di fedeltà, oppure che la donna aveva intrapreso altre relazioni extraconiugali senza che l’uomo vi desse importanza, si sarebbe potuto concludere che non erano state le predette infedeltà ad impedire la prosecuzione della convivenza, divenuta intollerabile per altre ragioni, che avevano fatto venir meno l’affectio coniugalis.>>

Quindi cassa con rinvio.

Però non ritiene assorbito il motivo impugnatorio relativo alla determinazione dell’assegno: <<se è vero, infatti, che, ai sensi dell’art. 156 c.c., comma 1, l’esclusione dell’addebito costituisce presupposto indispensabile per il riconoscimento dell’assegno, è anche vero, però, che nel caso in cui la predetta statuizione dovesse trovare conferma a conclusione del giudizio di rinvio, la questione posta con il secondo motivo diverrebbe nuovamente rilevante, sicché non può escludersi l’interesse delle parti all’esame della stessa, il cui esito resta tuttavia condizionato a quello del riesame della domanda di addebito (cfr. Cass., Sez. I, 27/09/2017, n. 22602; Cass., Sez. III, 29/02/2008, n. 5513; 6/06/ 2006, n. 13259).>>. Motivo però che viene respinto perchè non in diritto ma sostanzialmente volto a rivalutare il giudizio fattuale, senza rispettare l’art. 360 n. 5 cpc

Poteri di indagine del giudice nella quantificazione dell’assegno di mantenimento da separazione personale e rilevanza di redditi non dichiarati

Cass., sez. 1, del 19.07.2022 n. 22.616, rel. Reggiani, affronta analiticamente i temi in oggetto.

Dopo iniziali esatte considerazioni, così conclude sui redditi evasi:

<<Dall’esame delle norme sopra richiamate si evince con chiarezza che ciò che rileva, ai fini della determinazione degli assegni di mantenimento del coniuge e dei figli in sede di separazione, è l’accertamento del tenore di vita condotto dai coniugi quando vivevano insieme, a prescindere, pertanto, dalla provenienza delle consistenze reddituali o patrimoniali da questi ultimi godute, assumendo rilievo anche i redditi occultati al fisco, in relazione ai quali l’ordinamento prevede, anzi, strumenti processuali, anche ufficiosi, che ne consentano l’emersione ai fini della decisione.

Le indagini della polizia tributaria hanno proprio tale funzione, posto che, di fronte a risultanze incomplete o inattendibili, il giudice ha la possibilità di fare ricorso, anche d’ufficio, a tale mezzo di ricerca della prova, poiché l’occultamento di risorse economiche rende per definizione estremamente difficile la dimostrazione della realtà delle stesse in base alle regole dell’ordinario riparto dell’onere della prova, rischiando di pregiudicare il diritto di difesa di chi ha interesse alla loro emersione processuale>>

Sul potere del giuduce di disporre indagini tramite Polizia Tributaria:

<<4.2. Il potere del giudice di disporre indagini della polizia tributaria è la massima espressione della particolarità della disciplina regolatrice dei procedimenti in esame. Qualora ritenga che gli elementi di prova offerti non siano sufficienti o attendibili, infatti, è lo stesso giudice che, per il tramite della polizia tributaria, interviene dando disposizioni ufficiose, per accertare la reale situazione economica e patrimoniale dei coniugi.

In quanto deroga ai generali principi dell’onere della prova, è di fondamentale rilievo la delimitazione dell’ambito di operatività di tale potere ufficioso.

4.3. In tale ottica, questa Corte ha più volte precisato che la L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, non può essere letto nel senso che il “potere” del giudice di disporre indagini di polizia tributaria debba essere considerato come un “dovere” imposto dalla “mera contestazione” delle parti in ordine alle rispettive condizioni economiche (v. Cass. Sez. 1, n. 10344 del 17/05/2005).

La relativa istanza e la contestazione dei fatti incidenti sulla posizione reddituale del coniuge devono, infatti, basarsi su fatti specifici e circostanziati (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 23263 del 15/11/2016, con riferimento all’assegno divorzile; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 2098 del 28/01/2011, con riguardo al contributo al mantenimento dei figli).

Lo stesso principio è stato enunciato espressamente con riguardo ai giudizi di separazione, in virtù della sopra menzionata applicazione analogica della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9 (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 10344 del 17/05/2005).

Per poter fondatamente richiedere l’attivazione dei poteri ufficiosi in questione, non basta, dunque, contestare genericamente la veridicità delle allegazioni e delle prove altrui, ma occorre che siano offerti fatti concreti, in grado di mettere in discussione la rappresentazione della parte avversa in ordine alle condizioni di vita delle parti, come avviene proprio nel caso in cui siano prospettate entrate occultate al fisco.

Ovviamente tale onere di allegazione probante non arriva fino alla dimostrazione dell’effettiva maggiore entità delle consistenze reddituali della controparte e dell’incidenza delle stesse sul tenore di vita familiare o sulle condizioni economiche delle parti.

Ciò che rileva è la deduzione di fatti concreti, risultanti dagli atti di causa, che inducano a far ritenere che la parte detenga sostanze economiche o patrimoniali ulteriori rispetto a quelle rappresentate in giudizio.

Si tratta, in sintesi, della necessità di far emergere elementi circostanziati in ordine all’incompletezza o all’inattendibilità della rappresentazione delle condizioni reddituali o patrimoniali delle parti.

4.4. Questa Corte ha più volte affermato che il diniego delle indagini in questione non è sindacabile, purché esso sia correlabile, anche per implicito, ad una valutazione di superfluità dell’iniziativa e di sufficienza dei dati istruttori acquisiti (così Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 8744 del 28/03/2019; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 14336 del 06/06/2013; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 16575 del 18/06/2008; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 9861 del 28/04/2006).

E’, tuttavia, evidente che tale valutazione di superfluità deve fondarsi su corretti presupposti giuridici, tra cui quelli inerenti alla individuazione degli elementi che rilevano ai fini della decisione.

In particolare, si deve tenere conto del fatto che, ai fini dell’accertamento del tenore di vita familiare, funzionale alla quantificazione dell’assegno di mantenimento in favore di moglie e figli in sede di separazione, rilevano anche i redditi sottratti al fisco e goduti dalla famiglia.

Inoltre, come precisato in alcune pronunce di legittimità pienamente condivise dal Collegio, e qui ribadite, esiste un limite alla menzionata discrezionalità del giudice.

Tale limite è rappresentato dal fatto che quest’ultimo, pur potendosi avvalere delle indagini della polizia tributaria, non può rigettare le richieste delle parti relative al riconoscimento ed alla determinazione dell’assegno sotto il profilo della mancata dimostrazione, da parte loro, degli assunti sui quali le richieste si basano, avendo in tal caso l’obbligo di disporre tali accertamenti (così Cass., Sez. 1, n. 10344 del 17/05/2005 e Cass., Sez. 1, n. 8417 del 21/06/2000; v. già Sez. 1, Sentenza n. 3529 del 21/03/1992 e Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6087 del 03/07/1996).

In altre parole, se la parte ha offerto elementi concreti e specifici a sostegno della richiesta di indagini della polizia tributaria, il giudice di merito non può rigettare la richiesta e, nel contempo, rigettare anche le domande su di essa fondate.

Tale soluzione interpretativa risponde alla ratio della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, che, come sopra evidenziato, attribuisce al giudice il potere ufficioso di disporre accertamenti patrimoniali, al fine di far emergere nel processo consistenze economiche non palesate dalle parti, quando, in ragione del loro occultamento, l’ordinaria ripartizione dell’onere della prova renderebbe estremamente difficoltosa, se non impossibile, la loro rivelazione.

Una soluzione diversa porterebbe ad un esito del tutto contrario alla ratio appena ricordata, consentendo di creare quello “sbarramento istruttorio” lamentato dalla ricorrente, per effetto del quale, ritenute superflue le indagini della polizia tributaria, anche le domande fondate sull’esito di tali indagini vengono rigettate a causa della mancanza di prova degli assunti fondanti che, invece, avrebbero potuto essere confermati dalle indagini non disposte>>