Responsabilità del notaio verso terzi ma contrattuale per contatto sociale (a seguito di rogitazione di atto inefficace)

Cass. sez. II,  ord. 18/07/2024 , n. 19.849, rel. Carrato:

<<La questione che viene qui in rilievo consiste nel rispondere a se una
eventuale responsabilità del notaio possa aversi anche in danno di
possibili terzi pregiudicati dall’attività negligente del pubblico ufficiale
nel rogitare un atto inter alios, che sia risultato inefficace tra questi
ultimi (come, nel caso di specie, accertato con la sentenza di primo
grado, confermata sul punto da quella della Corte di appello).
E’ evidente che, ove lo fosse, la stessa – come già posto in risalto – si
atteggerebbe come responsabilità extracontrattuale.
Orbene, rileva il collegio che tale responsabilità si è venuta a
configurare nella fattispecie dedotta nella presente controversia, in cui
– per quanto detto e per effetto di una condotta colposa del notaio
causalmente connessa anche alla posizione del Ceruso – quest’ultimo
aveva risentito di danni conseguenti ricollegabili: – alla rilevante
conseguenza di non aver potuto stipulare l’atto pubblico di vendita –
successivo alla conclusione della relativa scrittura privata – del bene
acquistato dal Sica da parte dei germani De Bellis, privi di qualsiasi
titolo petitorio, con immediata trascrizione pregiudizievole dello stesso
per quanto innanzi evidenziato; – per non aver potuto godere del
possesso legittimo dello stesso in virtù della stipula dell’atto pubblico
confermativo della scrittura privata; – per essere stato costretto – oltre
a insistere, intervenendo volontariamente nel giudizio intentato dalla
proprietaria-venditrice, nell’azione di inefficacia dell’atto concluso tra i
De Bellis e il Sica – a intraprendere altra azione nei confronti della
Nuova Ceramica D’Agostino al fine di ottenere, poi, una sentenza di
accertamento degli effetti traslativi – quindi, in via giudiziale – dell’atto
di vendita (concluso, in precedenza, nella forma della scrittura privata)
in suo favore, al fine di dotarsi di un titolo idoneo alla trascrizione.
Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha precisato che la
cosiddetta responsabilità “da contatto sociale”, soggetta alle regole
della responsabilità contrattuale pur in assenza d’un vincolo negoziale
tra danneggiante e danneggiato, è configurabile non in ogni ipotesi in
cui taluno, nell’eseguire un incarico conferitogli da altri, rechi
nocumento a terzi, come conseguenza riflessa dell’attività così
espletata, ma – e a questo ulteriore principio di diritto dovrà
uniformarsi il giudice di rinvio – quando il danno sia derivato dalla
violazione di una o più precise regole di condotta (nella specie quelle
del notaio violatrici degli obblighi di controllo e di verifica tipiche della
diligenza qualificata esigibile da tale pubblico ufficiale), imposta dalla
legge allo specifico fine di tutelare i terzi potenzialmente esposti ai
rischi dell’attività svolta dal danneggiante, tanto più ove il fondamento
normativo della responsabilità si individui nel riferimento dell’art. 1173
c.c. agli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità
dell’ordinamento giuridico (cfr. Cass. n. 11642/2012 e Cass. n.
29711/2020)>>.

Sulla quantificazione del danno:

<<Al giudice di rinvio è rimessa pure la valutazione di quantificazione dei
relativi danni risentiti dal Ceruso, tenendo conto del principio prima
ricordato – esportabile anche con riguardo alla sfera giuridica lesa del
terzo – alla stregua del quale la misura di detti danni va parametrata
alla situazione economica nella quale il medesimo si sarebbe trovato qualora il notaio avesse diligentemente adempiuto la propria
prestazione, in relazione alla cui valutazione lo stesso giudice di rinvio
potrà ricorrere anche al criterio equitativo di cui all’art. 1226 c.c.,
come richiamato dall’art. 2056 c.c., che attiene al risarcimento del
danno da illecito extracontrattuale>>

Le attribuzioni tra coniugi costituiscono adempimento di obbligazione naturale (art. 2034 cc)

Cass. sez. III, Ord. n.  23.471, rel. Rossi Raff.:

<<Per fermo convincimento del giudice di nomofilachia, le attribuzioni patrimoniali (o le prestazioni a carattere patrimoniale) da un coniuge a favore dell’altro effettuate nel corso del matrimonio configurano, al pari di quelle eseguite tra conviventi more uxorio, l’adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., dacché espressione della solidarietà che avvince due persone unite da legame stabile e duraturo, a condizione, tuttavia, che siano rispettati i principi di proporzionalità ed adeguatezza, il cui contenuto va in concreto parametrato alle condizioni sociali ed economiche dei componenti della famiglia.

Detto altrimenti, la proporzionalità ed adeguatezza va vagliata alla luce di tutte le circostanze del caso specifico, dovendo la prestazione risultare adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio ed alle condizioni sociali del solvens: pertanto, la verifica sulla sussistenza di detti caratteri è compito tipicamente devoluto al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo nei circoscritti limiti dei vizi motivazionali rilevanti ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ. (diffusamente, Cass. n. 16864 del 2023, cit. ; oltre alle pronunce citate supra, si veda Cass. 25/01/2016, n. 1266)>>.

Sussidiarietà dell’azione di ingiusificato arricchiemnto (applicndo Cass. SU 33954/2023)

Cass. sez. III, ord. 13 Marzo 2024 n. 6.735, rel.  Saija.

<<Ritiene la Corte che il senso dell’arresto appena citato – contrariamente a quanto opinato dalla ricorrente, in memoria – sia che la sussidiarietà (e quindi
l’ammissibilità) dell’azione deve escludersi quando l’azione principale non sia
meramente infondata, ma quando sia rigettata per fatto sostanzialmente
imputabile all’attore (testualmente il citato arresto, in motivazione: “resta
precluso l’esercizio dell’azione di arricchimento ove l’azione suscettibile di
proposizione in via principale sia andata persa per un comportamento imputabile all’impoverito e, quindi, con riferimento ai casi di più frequente applicazione, per la prescrizione ovvero per la decadenza”) o per illiceità del titolo; se, invece, il titolo contrattuale è allegato dall’attore, è contestato dal convenuto, ma il primo non ne dà prova, ciò significa semplicemente che il titolo non c’è: dunque, nulla osta alla proponibilità della domanda subordinata ex art. 2041 c.c. e alla sua delibazione nel merito (v. in particolare par. 6 della citata Cass., Sez. Un., n. 33954/2023, pp. 27-28).
Così stando le cose, è evidente come, nella specie, non possano porsi ostacoli
alla ammissibilità dell’azione spiegata, in subordine, dal Montanari ex art. 2041
c.c., perché il potenziale concorso tra azioni s’è risolto in un concorso meramente
apparente: molto semplicemente, l’azione contrattuale proposta dal predetto è
infondata perché il titolo non esiste ab origine (id est, non è mai esistito), come
appunto accertato dal giudice del merito, sicché del tutto correttamente la Corte
fiorentina – una volta rigettata detta domanda – ha esaminato l’azione di
arricchimento senza causa>>

Sono contrari al buon costume anche i finanziamenti ad impresa già decotta

Cassazione civile sez. I, ord. 19/02/2024 n. 4.376, rel. Amatore:

Premessa generale:

<<Occorre invero ricordare che, secondo la giurisprudenza incontrastata espressa da questa Corte di legittimità, la disciplina unitaria della condictio indebiti trova il suo completamento nella norma di cui all’art. 2035 cod. civ. la quale funge da limite legale all’applicabilità del precedente art. 2033, di modo che il giudice di merito, chiamato a pronunziarsi su una “condictio ob iniustam causam”, deve procedere d’ufficio, e sulla base delle risultanze acquisite, alla ulteriore valutazione dell’atto o del contratto di cui abbia ravvisato l’illegalità o la contrarietà all’ordine pubblico, sul diverso piano della sua contrarietà al buon costume, tenendo presente, da un lato, che la nozione di negozio contrario al buon costume comprende (oltre ai negozi che infrangono le regole del pudore sessuale e della decenza) anche i negozi che urtano contro i principi e le esigenze etiche della coscienza collettiva, elevata a livello di morale sociale, in un determinato momento ed ambiente, e per altro verso che sono irripetibili, ai sensi dell’art. 2035 cod. civ. i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume, ma non pure le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative (cfr. anche: Cass. 783/87; 2081/85; Cass. 4414/81, Cass. 1035/77)>>.

E sul punto specifico;

<<Da qui la valutazione di immoralità delle prestazioni eseguite dal ricorrente e la loro irripetibilità, sulla scorta proprio di un consolidato (e qui condiviso) indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità e puntualmente richiamato nel provvedimento del Tribunale.

È stato infatti affermato da questa Corte, in termini sovrapponibili alla fattispecie concreta in esame, che “ai fini dell’applicazione della “soluti retentio” prevista dall’art. 2035 c.c., le prestazioni contrarie al buon costume non sono soltanto quelle che contrastano con le regole della morale sessuale o della decenza, ma sono anche quelle che non rispondono ai principi e alle esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico, dovendosi pertanto ritenere contraria al buon costume, e come tale irripetibile, l’erogazione di somme di denaro in favore di un’impresa già in stato di decozione integrante un vero e proprio finanziamento, che consente all’imprenditore di ritardare la dichiarazione di fallimento, incrementando l’esposizione debitoria dell’impresa trattandosi di condotta preordinata alla violazione delle regole di correttezza che governano le relazioni di mercato e alla costituzione di fattori di disinvolta attitudine “predatoria” nei confronti di soggetti economici in dissesto” (così espressamente: Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 16706 del 05/08/2020; v. anche: Sez. L, Sentenza n. 2014 del 26/01/2018; Sez. 3, Sentenza n. 9441 del 21/04/2010; Sez. 3, Sentenza n. 5371 del 18/06/1987).   (…)

1.2.8 A ciò va aggiunto che, come risulta documentato nel giudizio di merito, nella fattispecie il finanziamento è stato effettuato in favore di una società già caratterizzata da grave ed irreversibile insolvenza, e non già da uno stato di mero squilibrio finanziario, come richiesto dall’art.2467, comma 2, cod. civ., con la conseguenza che i richiami al predetto dettato normativo da parte del ricorrente risultano completamente fuori fuoco.

1.2.9 Va ulteriormente precisato che nulla vieta – contrariamente a quanto invece opinato dal ricorrente – che un contratto giudicato illecito e, come tale, nullo ai sensi dell’art.1418 cod. civ., possa essere soggetto anche alla sanzione civilistica dell’irripetibilità sancita dall’art.2035 cod. civ., ove si ravvisino – proprio come accertato nella fattispecie in esame – prestazioni dettate da finalità per l’appunto immorali. Ed invero, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che un atto negoziale giudicato in contrasto con una norma imperativa o con l’ordine pubblico possa essere, al contempo, suscettibile di una valutazione in termini di contrarietà al buon costume, proprio per gli effetti di cui al citato art. 2035 cod. civ., con la conseguenza che “chi abbia versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume” (Cass. 9441/2010, 25631/2017). Si tratta infatti di indirizzo consolidato (Cass. s.u. 4414/1981, Cass. 5371/1987) che, inquadrando la disciplina unitaria della condictio indebiti, ne precisa il completamento con la norma di cui all’art. 2035 c.c., “la quale funge da limite legale all’applicabilità del precedente art. 2033, di modo che il giudice di merito, chiamato a pronunziarsi su una condictio ob iniustam causam, deve procedere d’ufficio, e sulla base delle risultanze acquisite, alla ulteriore valutazione dell’atto o del contratto di cui abbia ravvisato l’illegalità o la contrarietà all’ordine pubblico, sul diverso piano della sua contrarietà al buon costume, tenendo presente … che sono irripetibili, ai sensi dell’art. 2035 c.c., i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume, ma non pure le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative” (Cass. 5 agosto 2020 n. 16706; Cass. 6 dicembre 2019 n. 31883). Detto altrimenti, “la contemporanea violazione, da parte di una medesima prestazione, tanto dell’ordine pubblico quanto del buon costume, attingendo ad un livello di maggiore gravità, deve ricevere il trattamento previsto per la prestazione che sia soltanto lesiva del buon costume” (v. Cass. 3 aprile 2018 n. 8169; Cass. 27 ottobre 2017 n. 25631), con la conseguenza che detta prestazione non può essere suscettibile di ripetizione, imponendosi l’applicazione dell’art. 2035 cod. civ., secondo il noto brocardo per cui in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis>>.

(notizia da ilcaso.it)

Le Sezioni Unite sulla sussidiarietà nell’azione di ingiustificato arricchimento

Cass., Sez. Un, 5 dicembre 2023, n. 33954, Pres. Virgilio, Est. Criscuolo (lik offerto da dirittodellacrisi.it) dà quirsto princiopio di dirittyO:

<<Ai fini della verifica del rispetto della regola di sussidiarietà di cui
all’art. 2042 c.c., la domanda di arricchimento è proponibile ove la
diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole
generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo.
Viceversa, resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda
alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato,
ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa
l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del
titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto
per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico>>

In motivazione:

<<Colgono nel segno le riflessioni di quella dottrina che ha
sottolineato come l’azione di arricchimento non possa far rivivere
il diritto prescritto, che è estinto e resta tale.
La regola della sussidiarietà impone di affermare che, se
l’impoverito dispone di altre difese, l’azione di arricchimento non
può essere esercitata, e ciò vale anche se le altre difese, già
pertinenti al soggetto, siano andate perdute, come appunto nel
caso della prescrizione. Né può trascurarsi l’argomento speso da
autorevole dottrina secondo cui “concedere in questi casi l’azione
di arricchimento, significherebbe frustrare la finalità di quegli
istituti, che consiste proprio nel determinare la perdita di un
diritto a danno di chi non lo ha esercitato”.
Una precisazione però si impone per le ipotesi di rigetto ovvero di
infondatezza della domanda proponibile in via principale, e ciò in
quanto, alla luce della disamina della giurisprudenza di questa
Corte, come compiuta al punto 5. che precede, la formale
adesione al principio della sussidiarietà in astratto risulta oggetto
di un costante temperamento, soprattutto nel caso in cui l’azione
principale sia fondata su una fonte contrattuale, mediante il
riconoscimento della sua esperibilità ove sia riconosciuta la nullità
del titolo contrattuale azionato (si veda da ultimo Cass. n. 13203/2023, secondo cui, nei casi in cui l’azione contrattuale è
stata rigettata per inesistenza del titolo, sarebbe contraddittorio
sostenere che la proposizione di una azione, che presuppone la
non esistenza di un contratto, possa essere impedita da una
pronuncia che abbia per l’appunto dichiarato la non esistenza di
un contratto, e ciò anche perché, se al rigetto del rimedio
contrattuale, determinato dall’inesistenza del titolo, potesse
conseguire l’improponibilità del rimedio sussidiario, costituito
dall’azione di arricchimento, l’avente diritto sarebbe privato di
qualsiasi strumento processuale per ottenere il rimborso del
pregiudizio subito; conf. Cass. n. 15496/2018).
Tuttavia, come confermato da Cass. n. 13203/2023, va ribadito
che resta preclusa la possibilità di agire ex art. 2041 c.c., anche in
caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi
dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o
con l’ordine pubblico (conf. ex multis, Cass. n. 10427/2002; Cass.
n. 14085/2010)….

Occorre quindi distinguere tra le ipotesi in cui il rigetto derivi dalriconoscimento della carenza ab origine dei presupposti fondanti
la domanda cd. principale, da quelli in cui derivi dall’inerzia
dell’impoverito ovvero dal mancato assolvimento di qualche onere
cui la legge subordinava la difesa di un suo interesse.
Nella prima ipotesi il rigetto per accertamento della carenza ab
origine del titolo fondante la domanda cd. principale comporta che
quello che appariva un concorso da risolvere ex art. 2042 c.c. in
favore della domanda principale si rivela essere in realtà un
concorso solo apparente, in quanto deve escludersi la stessa
ricorrenza di un diritto suscettibile di essere dedotto in giudizio
con la conseguente improponibilità della domanda ex art. 2041
c.c.
Viceversa, il rigetto della domanda, correlato al mancato
assolvimento dell’onere della prova in relazione alla sussistenza
del pregiudizio, non esclude che il diverso titolo sussista e che
quindi sia preclusa la domanda fondata sulla clausola residuale.
Se la domanda principale è correlata ad una pretesa scaturente
da un contratto, di cui si lamenta l’esecuzione in maniera difforme
da quanto pattuito, chiedendosi il ristoro del pregiudizio subito e
si accerta che il contratto era affetto da nullità, lo spostamento
contrattuale si palesa privo di una giusta causa e legittima quindi
la proposizione, anche in via subordinata nel medesimo giudizio,
dell’azione di arricchimento.
Se viceversa, incontestata o dimostrata l’esistenza del contratto,
il rigetto sia derivato dalla mancata prova da parte del contraente
del danno derivante dall’altrui condotta inadempiente, la domanda
di arricchimento resta preclusa in ragione della clausola di cui
all’art. 2042 c.c.

>>.

L’accertamento della macnanza delle condiuizoni ab initio per l’assegno di mantenimneto da seperazione fa nascere il credito alla restituzione da indebigto pagamento

Cass. sez. 1 del 14.11.2023 n. 31.635, rel. Pazzi:

<<Le Sezioni Unite di questa Corte, a questo proposito, hanno ritenuto che nel caso in cui si accerti nel corso del giudizio (all’interno della sentenza di primo o secondo grado) l’insussistenza ab origine, in capo all’avente diritto, dei presupposti per il versamento dell’assegno di mantenimento separativo, ancorché riconosciuto in sede presidenziale o dal giudice istruttore in sede di conferma o modifica, opera la regola generale della condictio indebiti (cfr. Cass., Sez. U., 32914/2022, dove, al punto 8.3, si precisa che “ove con la sentenza venga escluso in radice e “ab origine” (non per fatti sopravvenuti) il presupposto del diritto al mantenimento, separativo o divorzile, per la mancanza di uno “stato di bisogno” del soggetto richiedente (inteso, nell’accezione più propria dell’assegno di mantenimento o di divorzio, come mancanza di redditi adeguati)…. non vi sono ragioni per escludere l’obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite, ai sensi dell’art. 2033 c.c. (con conseguente piena ripetibilità)”).

Nel caso di specie la stessa Corte d’appello ha registrato (a pag. 7) che il primo giudice aveva rilevato che “la S. non (aveva) fornito prova sufficiente della esistenza dei presupposti richiesti per avere diritto all’assegno in questione”.

Il riconoscimento dell’originaria insussistenza dei presupposti per il versamento del contributo di mantenimento già riconosciuto in sede presidenziale determinava, quindi, la piena ripetibilità delle somme versate a tale titolo, a prescindere dal fatto che la richiedente avesse agito con mala fede o colpa grave>>.

La locazione stipulata da un comproprietario (nel caso specifico: a favore di altro comproprietario) va inquadrata nella gestione di affari

Cass. sez. III del 18/07/2023 n. 20.885, rel. Condello;

<<4. Il primo ed il secondo motivo, strettamente connessi, possono essere congiuntamente trattati e sono infondati, avendo, del tutto correttamente, la Corte d’appello ricondotto la fattispecie qui in esame, in cui si controverte della locazione di un bene comune da parte di un solo comproprietario, all’istituto della gestione d’affari, in conformità a quanto statuito dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 11135/2012.

Con tale sentenza è stato enunciato il seguente principio: “La locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari rientra nell’ambito della gestione di affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all’art. 2032 c.c., sicché, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore può ratificare l’operato del gestore e, ai sensi dell’art. 1705 c.c., comma 2, applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 c.c., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla rispettiva quota di proprietà indivisa”.

A tale approdo le Sezioni Unite sono pervenute all’esito di un lungo excursus delle diverse posizioni emerse nella giurisprudenza di legittimità in merito alla questione relativa alla legittimazione del comproprietario non locatore ad agire direttamente per l’esercizio dei diritti e dei poteri contrattuali derivanti dalla stipulazione del contratto da parte dell’altro comproprietario, confermando che la locazione svolge pienamente i suoi effetti anche quando il locatore abbia violato i limiti dei poteri che gli spettano ex art. 1105 c.c. e ss., essendo sufficiente ai fini della stipula della locazione che abbia la disponibilità della cosa locata.

A fronte delle diverse soluzioni prospettate dalla giurisprudenza sul tema, le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover inquadrare la fattispecie nell’ambito della gestione di affari altrui ex art. 2028 c.c., “consentendo tale disciplina di offrire una soluzione che vale a contemperare gli interessi e le posizioni dei vari soggetti coinvolti”.

Nel rilevare che l’esistenza di una situazione di contitolarità del bene da parte del gestore non è di ostacolo all’applicazione dell’art. 2028 c.c., hanno avuto cura di sottolineare che “elemento caratterizzante della gestione di affari è il compimento di atti giuridici spontaneamente ed utilmente nell’interesse altrui, in assenza di un obbligo legale o convenzionale di cooperazione” e che, a tal fine, si richiede, insieme alla spontaneità dell’intervento del gestore, all’animus aliena negotia gerendi, all’alienità dell’affare, all’utilità della gestione (utiliter coeptum), anche l’absentia domini, da intendersi non come impossibilità oggettiva o soggettiva di curare i propri interessi, bensì come semplice mancanza di un rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento senza opposizione e/o divieto del dominus.

Sulla base di tali premesse, le Sezioni Unite hanno desunto le seguenti conclusioni: l’opposizione del comproprietario non locatore rileva solo se portata a conoscenza e manifestata prima della stipula del contratto, ai sensi dell’art. 2031 c.c., rimanendo, in caso contrario, il contratto di locazione pienamente efficace, ancorché non vi sia il consenso del comproprietario che non ha stipulato il contratto; il comproprietario non locatore che abbia ratificato l’operato dell’altro comunista, ai sensi dell’art. 1705 c.c., potrà sostituirsi al comproprietario locatore per il solo esercizio dei diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato con preclusione del compimento di ogni altra azione derivante dal contratto.

Il contratto sottoscritto dal comproprietario locatore e dal conduttore è dunque valido ed efficace, cosicché la posizione del conduttore è posta al riparo da eventuali contrasti che dovessero insorgere tra i comproprietari in ordine alla gestione del bene comune, mentre il comproprietario non locatore, che sia a conoscenza dell’intenzione dell’altro comproprietario di addivenire alla stipula del contratto di locazione del bene comune, deve manifestare preventivamente il proprio dissenso, il che lo esonera dal dover adempiere le obbligazioni assunte dal gestore, ma conserva comunque la facoltà di ratificare il contratto stipulato dal comproprietario locatore (in senso conforme, Cass., sez. 3, 10/10/2019, n. 25433; Cass., sez. 3, 10/09/2019, n. 22540; Cass., sez. 3, 09/04/2021, n. 9476).

A siffatti principi occorre attenersi anche nella fattispecie in esame, a nulla rilevando, come ritenuto dalla parte ricorrente, la qualità di comproprietario del bene in capo al conduttore A.G.. Come evidenziato dai giudici d’appello, “una volta riconosciuta ad un comproprietario la detenzione esclusiva della res comune in virtù di un contratto di locazione, ad opera del comproprietario che tale detenzione possa trasferire, a tale contratto, fondante un titolo di detenzione esclusiva, dovrà farsi riferimento nei rapporti con il comproprietario conduttore, potendo poi la disciplina in tema di rendiconto dei frutti e delle rendite senz’altro rilevare nei rapporti tra comproprietario locatore, che abbia riscosso per intero il canone di locazione, e gli altri comunisti, che siano rimasti estranei al contratto di locazione”.

La logica indicata dalle Sezioni Unite, cioè quella della gestione d’affari, è perfettamente ricorrente nel caso in cui uno dei comproprietari stipuli la locazione della cosa comune con altro comproprietario. Si potrebbe pensare che essa difetti, perché il comproprietario che assume le vesti di conduttore non potrebbe connotarsi contemporaneamente come soggetto per cui il comproprietario che assume la veste di conduttore agisca coma gerente. Ma, data la diversità della posizione di comproprietario e di quella di stipulante la locazione come conduttore, non si configura alcuna incompatibilità, trattandosi di posizioni giuridicamente distinte. Semmai, il comproprietario che riceve la res in locazione dovrà essere considerato – per un evidente principio di non contraddizione – automaticamente ratificante, per così dire ilico et immediate l’operato del suo collega stipulante come locatore.

In questa ottica, dunque, il contratto concluso dal comproprietario locatore, C.R., e A.G. conserva piena validità ed è dunque opponibile all’odierna ricorrente, comproprietaria del bene, che, come accertato dalla Corte d’appello, non essendosi preventivamente opposta alla stipula del contratto di locazione, non può pretendere la risoluzione del medesimo contratto, ma può soltanto chiedere il pagamento pro quota dei canoni di locazione maturati in data successiva alla intervenuta ratifica, coincidente con la data di notificazione dell’atto di intimazione dello sfratto per morosità>>.

Erogazioni al convivente di fatto tra mutuo , liberalità indiretta e adempimento di obbligazione naturale

Dopo anni di convivenza e aver messo al mondo tre figli con lei, lui le chiede la restituzione di 170.000 euro ca. a titolo di rimborso di presunto mutuo.

Lei contesta che la ragione era invece stata l’indennizzo per una previa permanenza di lui nella casa di lei per anni e il suo dovere di mantimento dei figli.

Il Tribunale di Milano n° 4432/2023 del 29 maggio 2023, RG 16556/2021, g.u. Guantario, rigetta la domanda di lui perchè non provato il titolo azionato.

<<Come noto, “l’attore che chiede la restituzione di somme date a mutuo
è tenuto, ex art. 2697, comma 1, c.c., a provare gli elementi
costitutivi della domanda e, quindi, non solo la consegna, ma anche
il titolo da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione; ed
infatti l’esistenza di un contratto di mutuo non può desumersi dalla
mera consegna di assegni bancari o somme di denaro (che, ben potendo
avvenire per svariate ragioni, non vale, di per sé, a fondare una
richiesta di restituzione allorquando l'”accipiens” – ammessa la
ricezione – non confermi, altresì, il titolo posto dalla controparte
a fondamento della propria pretesa, ma ne contesti, anzi, la
legittimità), essendo l’attore tenuto a dimostrare per intero il
fatto costitutivo della sua pretesa, senza che la contestazione del
convenuto (il quale, pur riconoscendo di aver ricevuto la somma, ne
deduca una diversa ragione) possa tramutarsi in eccezione in senso
sostanziale e, come tale, determinare l’inversione dell’onere della
prova (tra le altre Cass.24328/2017)
Ebbene, nel caso di specie la convenuta negava che le somme ricevute
dall’attore le fossero state versate a titolo di prestito, sostenendo
che invece le erano corrisposte dal sig. Ranzani in adempimento di
doveri morali e sociali nei suoi confronti, anche per avere vissuto
per 7 anni nella casa di sua proprietà esclusiva di San Donato Milanese, senza versare alcunché; affermava inoltre che l’attore
aveva così contribuito al mantenimento dei tra figli della coppia e
dunque alle loro esigenze abitative, alimentari e di cura.
A fronte di tale contestazione, pertanto, il sig. Ranzani avrebbe
dovuto provare di avere concordato con la signora Delledonne la
restituzione degli importi versati e che pertanto la stessa avesse
assunto un obbligo in tal senso. Come chiarito dalla sentenza citata,
non incombeva invece su parte convenuta, la prova del diverso titolo
allegato.
Ciò posto, nessun documento veniva prodotto da parte attrice neppure
a dimostrazione di avere richiesto, prima della diffida del febbraio
2021 (doc. 2 di parte attrice) la restituzione di importi versati per
la maggior parte nel 2011 e comunque non oltre il 2014, così da
rendere implausibile che tre le parti fosse stato stipulato un
prestito.
Nemmeno i capitoli articolati, erano idonei a dimostrare che le somme
per cui è causa fossero state concesse a tale titolo. Al contrario lo
stesso attore allegava che, nonostante le raccomandazioni del proprio
legale, decideva di non formalizzare alcun accordo con la signora
Delledonne per riottenere, anche in caso di cessazione delle
convivenza, quanto versatole.
A ciò si aggiunga che, fermo restando quanto sopra detto in punto di
onere della prova, la qualificazione dei versamenti effettuati
dall’attore in favore della convenuta in termini di adempimento di
obbligazioni naturali e di contribuzione al ménage familiare è del
tutto conforme al principio secondo il quale le unioni di fatto,
quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la
famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale e assumono
rilievo ai sensi dell’art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di
natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti
dell’altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura
patrimoniale>>.

Non risulta azionata una  domanda restitutoria basata su donazione nulla per carenza di forma.

Resta da precisare che i doveri verso i figli, pur non nati da matrimonio, sono obbligo non naturale ma giuridico (art. 337 ter c.c.).

La sussidiarietà dell’azione di arricchimento non la impedisce, quando l’azione contrattuale è stata in precedenza rigettata per inesistenza di un patto sul credito azionato

interessante precisazione in Cass. sez. III del 15.05.2023 n. 13.203, rel. Gianniti, circa il sempre controverso requisito della sussidiarietà ex art. 2042 cc:

<< B) Ciò posto, il Collegio, per dare una risposta alla questione oggetto del presente giudizio, richiamata la rassegna giurisprudenziale operata nella suddetta ordinanza di rimessione, rileva che la ratio della natura sussidiaria dell’azione in esame riposta (in via alternativa, ma talvolta anche congiuntamente): a) nell’esigenza di evitare che, attraverso il cumulo delle azioni, possano aversi duplicazioni di tutela; b) nella necessità di evitare che l’avente diritto, mediante l’esercizio dell’azione di ingiustificato arricchimento, possa sottrarsi alle conseguenze del rigetto della diversa azione contrattuale che l’ordinamento gli concede a tutela del diritto; c) nella esigenza di evitare che colui che ha fondato il suo diritto su un contratto, che è risultato nullo (per contrarietà a norme imperative o di ordine pubblico), possa comunque coltivare la sua pretesa sia pure attraverso altro titolo.

Orbene, nel caso di specie, non ricorre nessuna delle suddette tre ratio: non la prima, in quanto nel primo processo l’azione contrattuale era stata respinta nel merito; non la seconda, in quanto detto rigetto era stato giustificato dalla ritenuta inesistenza del titolo contrattuale; non la terza, in quanto nel caso di specie il N. ha chiesto il rimborso delle spese sostenute per il riavvio dell’azienda prima della stipulazione del contratto di affitto e tale sua pretesa non è preclusa da nessuna norma imperativa o di ordine pubblico.

Pertanto, se è vero che l’esercizio dell’azione ex art. 2041 c.c. è in grado di produrre un aggiramento della decisione di rigetto dell’azione contrattuale è altrettanto vero che ciò non accade sempre e comunque.

Al riguardo, invero, occorre distinguere i casi nei quali, come quello in esame, l’azione contrattuale è stata rigettata per inesistenza del titolo contrattuale posto a fondamento dalla domanda, da tutti gli altri casi, nei quali l’azione contrattuale è stata respinta per qualsiasi altra ragione (di rito o di merito, ma comunque diversa dall’inesistenza del titolo): nei primi colui che ha agito in giudizio non poteva proporre una azione di ingiustificato arricchimento, in quanto per l’appunto, per far valere la sua pretesa, disponeva di una azione contrattuale (che, tuttavia, è stata poi respinta per ragioni di rito o di merito, ma comunque non per inesistenza del titolo); al contrario, nei casi in cui l’azione contrattuale è stata rigettata per inesistenza del titolo, sarebbe contraddittorio sostenere che la proposizione di una azione, che presuppone la non esistenza di un contratto, possa essere impedita da una pronuncia che abbia per l’appunto dichiarato la non esistenza di un contratto; d’altronde, se al rigetto del rimedio contrattuale, determinato dall’inesistenza del titolo, potesse conseguire l’improponibilità del rimedio sussidiario, costituito dall’azione di arricchimento, l’avente diritto sarebbe privato di qualsiasi strumento processuale per ottenere il rimborso del pregiudizio subito.

In definitiva, la presente controversia, dando continuità ad un orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte (Cas. N. 15496 del 2018, n. 11489 del 2011 e 6537 del 1984) viene decisa sulla base del seguente principio di diritto:

La sentenza, che abbia dichiarato l’inesistenza del contratto, se in negativo esclude che l’avente diritto possa nuovamente esercitare l’azione contrattuale, in positivo accerta la sussistenza del presupposto della sussidiarietà (cioè dell’indisponibilità di un rimedio alternativo a quello contrattuale), che deve ricorrere per l’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento: in tal caso, l’azione ex art. 2041 è proponibile proprio in quanto il danneggiato, non esistendo il contratto, ha a disposizione soltanto detta azione per far valere il suo diritto all’indennizzo per il pregiudizio subito”   >>.

Il legame tra uomo e cane arriva in Cassazione

Interessanti questioni esaminate da Cass. sez. 3 del 24.03.2023 n. 8459, rel. Oliva.

Domanda originaria: <<Con atto di citazione ritualmente notificato F.C. evocava in giudizio B.A. innanzi il Tribunale di Padova, chiedendo che venisse accertata la sua qualità di comproprietaria di un cane, acquistato nel corso della precedente relazione affettiva stabile intercorsa tra le parti, nonché lo scioglimento della relativa comunione con affidamento dell’animale e risarcimento dei danni, emotivi e patrimoniali>>.

Diritto di comproprietà escluso dal giudice del marito, come confermato dalla SC

Negato pure il dirito di visita all’animale per assenza/insufficienza del rapporto di affezione: <<Con il secondo e terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione della L. n. 76 del 2016 e dell’art. 132, comma 2, c.p.c. per aver la Corte omesso di valutare, senza motivare sul punto, la sussistenza di un rapporto tra le parti qualificabile come coppia di fatto e, di conseguenza, per aver escluso l’esistenza di un legame affettivo stabile con l’animale.

Entrambi i motivi, suscettibili di trattazione congiunta, sono inammissibili.

Le censure, infatti, non si confrontano con la motivazione della sentenza, la quale -oltre ad aver effettivamente considerato la possibile sussistenza di una famiglia di fatto tra le parti, escludendola sulla base della carenza del minimo requisito della convivenza e della brevità della relazione- ha negato il diritto di visita della ricorrente sulla base non della insussistenza della coppia di fatto, bensì per la carenza di prova dell’instaurazione di un rapporto significativo tra la ricorrente e il cane, vista la breve relazione sentimentale che l’aveva legata al suo padrone (cfr. pagg. 21-22 della sentenza: “La coppia B.- F. non costituiva famiglia nemmeno di fatto, né era definibile quale nucleo familiare in cui l’animale si trovava inserito. Si trattava di una relazione sentimentale molto breve che non aveva condotto le parti nemmeno alla convivenza. (…) Al di là della circostanza pacifica che la frequentazione della sig.ra F. con il cane, nell’ambito della sua relazione sentimentale con il sig. B., si sia limitata a circa 4 mesi, l’appellata non ha provato che, nonostante il breve periodo, si sia instaurato con l’animale un rapporto tale da far presumere che le possa essere riconosciuto un diritto di visita nei confronti dell’animale”)>>.

Quindi, anche in assenza di famiglia di fatto, il rapporto di affezione con il cane, se significativo, fa nascere un diritto di visitarlo. Su che base normativa? “Ogni altro fatto idoneo a produrle” ex art. 1173 cc?

Ma solo con un cane o pure con altri animali? E con cose?