Ius sepulchri in un ‘azione di indebito arricchimento

Cass. sez. III, ord. 07/01/2025   n. 190, Tassone:

<<Giova premettere che questa Suprema Corte ha già avuto modo di affermare che “Nel sepolcro ereditario lo “ius sepulchri” si trasmette nei modi ordinari, per atto “inter vivos” o “mortis causa”, come qualsiasi altro diritto, dall’originario titolare anche a persone non facenti parte della famiglia, mentre nel sepolcro gentilizio o familiare – tale dovendosi presumere il sepolcro, in caso di dubbio – lo “ius sepulchri” è attribuito, in base alla volontà del testatore, in stretto riferimento alla cerchia dei familiari destinatari del sepolcro stesso, acquistandosi dal singolo “iure proprio” sin dalla nascita, per il solo fatto di trovarsi col fondatore nel rapporto previsto dall’atto di fondazione o dalle regole consuetudinarie, “iure sanguinis” e non “iure successionis”, e determinando una particolare forma di comunione fra contitolari, caratterizzata da intrasmissibilità del diritto, per atto tra vivi o “mortis causa”, imprescrittibilità e irrinunciabilità. Tale diritto di sepolcro si trasforma da familiare in ereditario con la morte dell’ultimo superstite della cerchia dei familiari designati dal fondatore, rimanendo soggetto, per l’ulteriore trasferimento, alle ordinarie regole della successione “mortis causa”. (v. Cass., n. 12957/2000; Cass., n. 700/2012).

Orbene, la corte di merito ha del tutto trascurato i suindicati principi e, per l’effetto, ha omesso di considerare che la scrittura privata di cessione era stata dichiarata nulla in prime cure sul rilievo della intrasmissibilità inter vivos dei diritti sul sepolcro gentilizio o familiare, per cui l’azione esperita da Ge.Gi. ex art. 2041 cod. civ., lungi dal risultare sussidiaria e recessiva rispetto “alle regole sulla comunione (art. 1100 e ss. cod. civ.)”, genericamente ed erroneamente richiamate nell’impugnata sentenza, risultava invece essere l’unica azione esperibile nel caso di specie, giusto il principio secondo cui “la nullità del contratto elimina il titolo su cui la relativa azione può essere fondata, rendendola non esercitabile” (Cass., 22/3/2012 n. 4620, che richiama, fra le altre, Cass., 24/2/2010 n. 4492).

L’obbligazione naturale tra conviventi more uxorio resta tale anche in presenza di dazioni successive alla fine della convivenza

Cass. sez. I, ord. 02/01/2025  n. 28, rel. Parise, con insegnamento importante e per nulla scontato:

Premessa generale:

<<3.2. Tanto precisato, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte che il Collegio intende qui ribadire, la sussistenza dell’obbligazione naturale ex art. 2034, comma 1, c.c., postula una duplice indagine, finalizzata ad accertare se ricorra un dovere morale o sociale, in rapporto alla valutazione corrente nella società, e se tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità ed adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso (tra le altre Cass. 19578/2016).

Inoltre questa Corte ha avuto modo di chiarire (cfr. da ultimo Cass. 16864/2023) che le unioni di fatto, quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale e assumono rilievo ai sensi dell’art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, doveri che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale, sicché le attribuzioni finanziarie a favore del convivente more uxorio, effettuate nel corso del rapporto per far fronte alle esigenze della famiglia (nella specie, versamenti di denaro sul conto corrente del convivente con quindici bonifici per un importo complessivo di € 74.000), configurano l’adempimento di un’ obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza, per la cui valutazione occorre tener conto di tutte le circostanze fattuali, oltre che dell’entità del patrimonio e delle condizioni sociali del solvens>>.

Sul punto specifico :

<<3.3. La questione oggetto del contendere e oggetto della specifica censura di cui si sta trattando concerne la configurabilità dei doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro in relazione ad attribuzioni economiche o patrimoniali effettuate non nel corso del rapporto di convivenza more uxorio, ma dopo la cessazione dello stesso, e su detto specifico profilo non constano pronunce di questa Corte.

Ritiene il Collegio che sia corretta la soluzione adottata dalla Corte territoriale, che ha ritenuto di poter ricondurre nell’alveo dei doveri sociali e morali, in rapporto alla valutazione corrente nella società, quello solidaristico nei confronti dell’ex-convivente more uxorio, ravvisato, cioè, sussistente e meritevole di tutela anche nel periodo successivo alla cessazione del rapporto, avuto riguardo alla specificità del caso concreto.

Occorre osservare che le convivenze di fatto sono un diffuso fenomeno sociale, anche se di origine relativamente recente, poiché dai dati statistici risulta la “moltiplicazione delle unioni libere”, che ormai sopravanzano, in numero, le famiglie fondate sul matrimonio, come affermato anche dalla Corte costituzionale, da ultimo con la pronuncia n. 148/2024, che ha ricostruito in dettaglio l’evoluzione del quadro normativo e tratteggiato le caratteristiche salienti dell’ampliamento progressivo del rilievo dato dal legislatore alle unioni di fatto.

L’affermarsi di una concezione pluralistica della famiglia, dapprima nella società e quindi nella giurisprudenza, grazie anche all’impulso dato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 21 luglio 2015, Oliari e altri contro Italia), ha trovato un approdo legislativo nella legge n. 76 del 2016, che in un unico e lungo articolo, suddiviso in 69 commi, contempla due modelli distinti: il primo, quello dell’unione civile, cui sono dedicati i primi 35 commi, è riservato alle coppie formate da persone dello stesso sesso; il secondo, quello della convivenza di fatto, è aperto a tutte le coppie, eterosessuali e omosessuali. Quanto al secondo modello (la convivenza di fatto), la legge n. 76 del 2016 abbandona la rigida alternativa tra tutela, o no, parametrata a quella riservata alla famiglia fondata sul matrimonio e valorizza l’esigenza di speciale regolamentazione dei singoli rapporti, siano essi quelli che vedono coinvolti i conviventi tra di loro, ovvero quelli tra genitori e figli o che si sviluppano con i terzi (così la sentenza citata n.148/2024). La convivenza di fatto, trovando copertura di rango costituzionale nell’art. 2, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle “formazioni sociali” ove si svolge la sua personalità, esige una tutela che si affianca a quella che l’art. 29, primo comma, Cost. riserva alla “famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (sentenze n. 269 del 2022, n. 170 del 2014 e n. 138 del 2010 della Corte Cost.).

Dunque, la convivenza di fatto implica un “legame affettivo di coppia” e plurime disposizioni di legge, nel tempo, ne hanno sancito il rilievo sotto molteplici e disparati profili (per una puntuale elencazione cfr. la citata sentenza n.148/2024; tra le più recenti cfr. la legge 27 dicembre 2017, n. 205 in tema di caregiver familiare; il decreto legislativo 30 giugno 2022, n. 105, che richiama la figura del convivente di fatto come possibile beneficiario dei permessi per assistere persone disabili; il decreto legislativo n. 105 del 2022, nella parte in cui prevede che al coniuge convivente sono equiparati, ai fini dei riposi e permessi per assistere i figli con handicap grave, sia la parte di un’unione civile, sia il convivente di fatto). Resta da aggiungere che, come rimarcato dal Giudice delle leggi, pure nell’ambito della cornice normativa dettata dalla legge n. 76 del 2016 e dai provvedimenti legislativi settoriali successivi, restano ancora affidati alla spontaneità dei comportamenti tutti quegli aspetti che caratterizzano la gestione delle esigenze della coppia, quali coabitazione, collaborazione, contribuzione ai bisogni comuni, assistenza morale e materiale, determinazione dell’indirizzo familiare e fedeltà, durata della relazione>>.

Trasferimento titoli di credito tra adempimento (valido) di obbligazione naturale, liberalità indiretta e donazione nulla per macanza di forma

Cass. sez. II, ord. 05/12/2024 n. 31.170, rel. Falaschi:

fatto:

<<con atto di citazione notificato il 25 maggio 2004 , De.Al. evocava, innanzi al Tribunale di Ravenna, Mu.Ma., chiedendo di accertare e dichiarare la nullità per vizio di forma di n. 124 atti di liberalità, sotto forma di trasferimento di titoli di credito, per una somma totale pari a Euro 144.607,93, elargiti durante la vita dall’anziano padre, De.Gi., in favore della convenuta, madre della loro figlia, riconosciuta solo dopo l’introduzione di un contenzioso, sostenendo che tali elargizioni configuravano donazioni nulle, poiché effettuate in assenza della forma prescritta ad substantiam, non al fine di contribuire al mantenimento della nipote, come sostenuto dalla Mu.Ma., ma in virtù della relazione affettiva che lo stesso De.Gi. aveva instaurato con Mu.Ma.;>>

Poi in diritto:

<< Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione degli artt. 769,782 e 2034 c.c., oltre che degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., per aver la Corte d’Appello ritenuto che le dazioni di De.Gi. integrassero donazioni nulle ex art. 769 c.c. sulla sola base del quantum dell’attribuzione e delle modalità adottate per il loro trasferimento, piuttosto che un’obbligazione naturale per l’adempimento di doveri morali ex art. 2034 c.c., derivanti dalla solidarietà familiare e, come tali, impassibili di restituzione ai sensi dell’art. 2033 c.c. Secondo la ricorrente, il giudice avrebbe omesso di compiere indagini necessarie ai fini della verifica della proporzionalità ed adeguatezza del valore delle dazioni rispetto alla situazione di ampia e diffusa disponibilità patrimoniale di De.Gi.. Inoltre, il giudice di seconde cure avrebbe giudicato in contraddizione con le prescrizioni dell’art. 115 c.p.c, non ponendo a fondamento delle sue argomentazioni le risultanze istruttorie decisive, come la risultanza istruttoria decisiva del CTP nelle proprie osservazioni del 31 dicembre 2009, formulate in sede di CTU per la sola valutazione del quantum delle dazioni.

Il motivo è privo di pregio.

Occorre preliminarmente rilevare che la consolidata giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente ribadito che il trasferimento di dossier titoli da parte del beneficiante nei confronti di un beneficiario non configura una liberalità atipica, riconducibile alla disposizione di cui all’art. 809 c.c., per ragioni quali l’entità degli importi, le modalità di trasferimento e la stabilità dell’attribuzione patrimoniale, che presuppongono la stipulazione dell’atto pubblico di donazione, predisposto dall’ordinamento al fine di tutelare il donante e assicurarsi che abbia effettiva contezza del compimento di atti di disposizione del proprio patrimonio, onde evitare scelte affrettate e conseguenze potenzialmente pregiudizievoli, integrando una donazione diretta ad esecuzione indiretta, suscettibile come tale di impugnazione per mancanza del requisito formale dell’atto pubblico (Cass., Sez. Un., n. 18725 del 2017; Cass. n. 23127 del 2021; Cass. n. 527 del 1973).

Orbene, di questo principio ha fatto corretta applicazione la Corte di merito, qualificando l’atto in questione come una donazione diretta ma nulla, poiché sprovvista del requisito di forma scritta ad substantiam, ritenendo che la volontà del nonno fosse quella di attribuire alla nipote risorse adeguate alle sue esigenze di vita futura>>.

Purtroppo mancano dettagli sul tipo di titoli e di trasferimento (124 atti in tale senso!!!).

Responsabilità del notaio verso terzi ma contrattuale per contatto sociale (a seguito di rogitazione di atto inefficace)

Cass. sez. II,  ord. 18/07/2024 , n. 19.849, rel. Carrato:

<<La questione che viene qui in rilievo consiste nel rispondere a se una
eventuale responsabilità del notaio possa aversi anche in danno di
possibili terzi pregiudicati dall’attività negligente del pubblico ufficiale
nel rogitare un atto inter alios, che sia risultato inefficace tra questi
ultimi (come, nel caso di specie, accertato con la sentenza di primo
grado, confermata sul punto da quella della Corte di appello).
E’ evidente che, ove lo fosse, la stessa – come già posto in risalto – si
atteggerebbe come responsabilità extracontrattuale.
Orbene, rileva il collegio che tale responsabilità si è venuta a
configurare nella fattispecie dedotta nella presente controversia, in cui
– per quanto detto e per effetto di una condotta colposa del notaio
causalmente connessa anche alla posizione del Ceruso – quest’ultimo
aveva risentito di danni conseguenti ricollegabili: – alla rilevante
conseguenza di non aver potuto stipulare l’atto pubblico di vendita –
successivo alla conclusione della relativa scrittura privata – del bene
acquistato dal Sica da parte dei germani De Bellis, privi di qualsiasi
titolo petitorio, con immediata trascrizione pregiudizievole dello stesso
per quanto innanzi evidenziato; – per non aver potuto godere del
possesso legittimo dello stesso in virtù della stipula dell’atto pubblico
confermativo della scrittura privata; – per essere stato costretto – oltre
a insistere, intervenendo volontariamente nel giudizio intentato dalla
proprietaria-venditrice, nell’azione di inefficacia dell’atto concluso tra i
De Bellis e il Sica – a intraprendere altra azione nei confronti della
Nuova Ceramica D’Agostino al fine di ottenere, poi, una sentenza di
accertamento degli effetti traslativi – quindi, in via giudiziale – dell’atto
di vendita (concluso, in precedenza, nella forma della scrittura privata)
in suo favore, al fine di dotarsi di un titolo idoneo alla trascrizione.
Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha precisato che la
cosiddetta responsabilità “da contatto sociale”, soggetta alle regole
della responsabilità contrattuale pur in assenza d’un vincolo negoziale
tra danneggiante e danneggiato, è configurabile non in ogni ipotesi in
cui taluno, nell’eseguire un incarico conferitogli da altri, rechi
nocumento a terzi, come conseguenza riflessa dell’attività così
espletata, ma – e a questo ulteriore principio di diritto dovrà
uniformarsi il giudice di rinvio – quando il danno sia derivato dalla
violazione di una o più precise regole di condotta (nella specie quelle
del notaio violatrici degli obblighi di controllo e di verifica tipiche della
diligenza qualificata esigibile da tale pubblico ufficiale), imposta dalla
legge allo specifico fine di tutelare i terzi potenzialmente esposti ai
rischi dell’attività svolta dal danneggiante, tanto più ove il fondamento
normativo della responsabilità si individui nel riferimento dell’art. 1173
c.c. agli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità
dell’ordinamento giuridico (cfr. Cass. n. 11642/2012 e Cass. n.
29711/2020)>>.

Sulla quantificazione del danno:

<<Al giudice di rinvio è rimessa pure la valutazione di quantificazione dei
relativi danni risentiti dal Ceruso, tenendo conto del principio prima
ricordato – esportabile anche con riguardo alla sfera giuridica lesa del
terzo – alla stregua del quale la misura di detti danni va parametrata
alla situazione economica nella quale il medesimo si sarebbe trovato qualora il notaio avesse diligentemente adempiuto la propria
prestazione, in relazione alla cui valutazione lo stesso giudice di rinvio
potrà ricorrere anche al criterio equitativo di cui all’art. 1226 c.c.,
come richiamato dall’art. 2056 c.c., che attiene al risarcimento del
danno da illecito extracontrattuale>>

Le attribuzioni tra coniugi costituiscono adempimento di obbligazione naturale (art. 2034 cc)

Cass. sez. III, Ord. n.  23.471, rel. Rossi Raff.:

<<Per fermo convincimento del giudice di nomofilachia, le attribuzioni patrimoniali (o le prestazioni a carattere patrimoniale) da un coniuge a favore dell’altro effettuate nel corso del matrimonio configurano, al pari di quelle eseguite tra conviventi more uxorio, l’adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 cod. civ., dacché espressione della solidarietà che avvince due persone unite da legame stabile e duraturo, a condizione, tuttavia, che siano rispettati i principi di proporzionalità ed adeguatezza, il cui contenuto va in concreto parametrato alle condizioni sociali ed economiche dei componenti della famiglia.

Detto altrimenti, la proporzionalità ed adeguatezza va vagliata alla luce di tutte le circostanze del caso specifico, dovendo la prestazione risultare adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio ed alle condizioni sociali del solvens: pertanto, la verifica sulla sussistenza di detti caratteri è compito tipicamente devoluto al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo nei circoscritti limiti dei vizi motivazionali rilevanti ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ. (diffusamente, Cass. n. 16864 del 2023, cit. ; oltre alle pronunce citate supra, si veda Cass. 25/01/2016, n. 1266)>>.

Sussidiarietà dell’azione di ingiusificato arricchiemnto (applicndo Cass. SU 33954/2023)

Cass. sez. III, ord. 13 Marzo 2024 n. 6.735, rel.  Saija.

<<Ritiene la Corte che il senso dell’arresto appena citato – contrariamente a quanto opinato dalla ricorrente, in memoria – sia che la sussidiarietà (e quindi
l’ammissibilità) dell’azione deve escludersi quando l’azione principale non sia
meramente infondata, ma quando sia rigettata per fatto sostanzialmente
imputabile all’attore (testualmente il citato arresto, in motivazione: “resta
precluso l’esercizio dell’azione di arricchimento ove l’azione suscettibile di
proposizione in via principale sia andata persa per un comportamento imputabile all’impoverito e, quindi, con riferimento ai casi di più frequente applicazione, per la prescrizione ovvero per la decadenza”) o per illiceità del titolo; se, invece, il titolo contrattuale è allegato dall’attore, è contestato dal convenuto, ma il primo non ne dà prova, ciò significa semplicemente che il titolo non c’è: dunque, nulla osta alla proponibilità della domanda subordinata ex art. 2041 c.c. e alla sua delibazione nel merito (v. in particolare par. 6 della citata Cass., Sez. Un., n. 33954/2023, pp. 27-28).
Così stando le cose, è evidente come, nella specie, non possano porsi ostacoli
alla ammissibilità dell’azione spiegata, in subordine, dal Montanari ex art. 2041
c.c., perché il potenziale concorso tra azioni s’è risolto in un concorso meramente
apparente: molto semplicemente, l’azione contrattuale proposta dal predetto è
infondata perché il titolo non esiste ab origine (id est, non è mai esistito), come
appunto accertato dal giudice del merito, sicché del tutto correttamente la Corte
fiorentina – una volta rigettata detta domanda – ha esaminato l’azione di
arricchimento senza causa>>

Sono contrari al buon costume anche i finanziamenti ad impresa già decotta

Cassazione civile sez. I, ord. 19/02/2024 n. 4.376, rel. Amatore:

Premessa generale:

<<Occorre invero ricordare che, secondo la giurisprudenza incontrastata espressa da questa Corte di legittimità, la disciplina unitaria della condictio indebiti trova il suo completamento nella norma di cui all’art. 2035 cod. civ. la quale funge da limite legale all’applicabilità del precedente art. 2033, di modo che il giudice di merito, chiamato a pronunziarsi su una “condictio ob iniustam causam”, deve procedere d’ufficio, e sulla base delle risultanze acquisite, alla ulteriore valutazione dell’atto o del contratto di cui abbia ravvisato l’illegalità o la contrarietà all’ordine pubblico, sul diverso piano della sua contrarietà al buon costume, tenendo presente, da un lato, che la nozione di negozio contrario al buon costume comprende (oltre ai negozi che infrangono le regole del pudore sessuale e della decenza) anche i negozi che urtano contro i principi e le esigenze etiche della coscienza collettiva, elevata a livello di morale sociale, in un determinato momento ed ambiente, e per altro verso che sono irripetibili, ai sensi dell’art. 2035 cod. civ. i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume, ma non pure le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative (cfr. anche: Cass. 783/87; 2081/85; Cass. 4414/81, Cass. 1035/77)>>.

E sul punto specifico;

<<Da qui la valutazione di immoralità delle prestazioni eseguite dal ricorrente e la loro irripetibilità, sulla scorta proprio di un consolidato (e qui condiviso) indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità e puntualmente richiamato nel provvedimento del Tribunale.

È stato infatti affermato da questa Corte, in termini sovrapponibili alla fattispecie concreta in esame, che “ai fini dell’applicazione della “soluti retentio” prevista dall’art. 2035 c.c., le prestazioni contrarie al buon costume non sono soltanto quelle che contrastano con le regole della morale sessuale o della decenza, ma sono anche quelle che non rispondono ai principi e alle esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico, dovendosi pertanto ritenere contraria al buon costume, e come tale irripetibile, l’erogazione di somme di denaro in favore di un’impresa già in stato di decozione integrante un vero e proprio finanziamento, che consente all’imprenditore di ritardare la dichiarazione di fallimento, incrementando l’esposizione debitoria dell’impresa trattandosi di condotta preordinata alla violazione delle regole di correttezza che governano le relazioni di mercato e alla costituzione di fattori di disinvolta attitudine “predatoria” nei confronti di soggetti economici in dissesto” (così espressamente: Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 16706 del 05/08/2020; v. anche: Sez. L, Sentenza n. 2014 del 26/01/2018; Sez. 3, Sentenza n. 9441 del 21/04/2010; Sez. 3, Sentenza n. 5371 del 18/06/1987).   (…)

1.2.8 A ciò va aggiunto che, come risulta documentato nel giudizio di merito, nella fattispecie il finanziamento è stato effettuato in favore di una società già caratterizzata da grave ed irreversibile insolvenza, e non già da uno stato di mero squilibrio finanziario, come richiesto dall’art.2467, comma 2, cod. civ., con la conseguenza che i richiami al predetto dettato normativo da parte del ricorrente risultano completamente fuori fuoco.

1.2.9 Va ulteriormente precisato che nulla vieta – contrariamente a quanto invece opinato dal ricorrente – che un contratto giudicato illecito e, come tale, nullo ai sensi dell’art.1418 cod. civ., possa essere soggetto anche alla sanzione civilistica dell’irripetibilità sancita dall’art.2035 cod. civ., ove si ravvisino – proprio come accertato nella fattispecie in esame – prestazioni dettate da finalità per l’appunto immorali. Ed invero, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che un atto negoziale giudicato in contrasto con una norma imperativa o con l’ordine pubblico possa essere, al contempo, suscettibile di una valutazione in termini di contrarietà al buon costume, proprio per gli effetti di cui al citato art. 2035 cod. civ., con la conseguenza che “chi abbia versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume” (Cass. 9441/2010, 25631/2017). Si tratta infatti di indirizzo consolidato (Cass. s.u. 4414/1981, Cass. 5371/1987) che, inquadrando la disciplina unitaria della condictio indebiti, ne precisa il completamento con la norma di cui all’art. 2035 c.c., “la quale funge da limite legale all’applicabilità del precedente art. 2033, di modo che il giudice di merito, chiamato a pronunziarsi su una condictio ob iniustam causam, deve procedere d’ufficio, e sulla base delle risultanze acquisite, alla ulteriore valutazione dell’atto o del contratto di cui abbia ravvisato l’illegalità o la contrarietà all’ordine pubblico, sul diverso piano della sua contrarietà al buon costume, tenendo presente … che sono irripetibili, ai sensi dell’art. 2035 c.c., i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume, ma non pure le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative” (Cass. 5 agosto 2020 n. 16706; Cass. 6 dicembre 2019 n. 31883). Detto altrimenti, “la contemporanea violazione, da parte di una medesima prestazione, tanto dell’ordine pubblico quanto del buon costume, attingendo ad un livello di maggiore gravità, deve ricevere il trattamento previsto per la prestazione che sia soltanto lesiva del buon costume” (v. Cass. 3 aprile 2018 n. 8169; Cass. 27 ottobre 2017 n. 25631), con la conseguenza che detta prestazione non può essere suscettibile di ripetizione, imponendosi l’applicazione dell’art. 2035 cod. civ., secondo il noto brocardo per cui in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis>>.

(notizia da ilcaso.it)

Le Sezioni Unite sulla sussidiarietà nell’azione di ingiustificato arricchimento

Cass., Sez. Un, 5 dicembre 2023, n. 33954, Pres. Virgilio, Est. Criscuolo (lik offerto da dirittodellacrisi.it) dà quirsto princiopio di dirittyO:

<<Ai fini della verifica del rispetto della regola di sussidiarietà di cui
all’art. 2042 c.c., la domanda di arricchimento è proponibile ove la
diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole
generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo.
Viceversa, resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda
alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato,
ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa
l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del
titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto
per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico>>

In motivazione:

<<Colgono nel segno le riflessioni di quella dottrina che ha
sottolineato come l’azione di arricchimento non possa far rivivere
il diritto prescritto, che è estinto e resta tale.
La regola della sussidiarietà impone di affermare che, se
l’impoverito dispone di altre difese, l’azione di arricchimento non
può essere esercitata, e ciò vale anche se le altre difese, già
pertinenti al soggetto, siano andate perdute, come appunto nel
caso della prescrizione. Né può trascurarsi l’argomento speso da
autorevole dottrina secondo cui “concedere in questi casi l’azione
di arricchimento, significherebbe frustrare la finalità di quegli
istituti, che consiste proprio nel determinare la perdita di un
diritto a danno di chi non lo ha esercitato”.
Una precisazione però si impone per le ipotesi di rigetto ovvero di
infondatezza della domanda proponibile in via principale, e ciò in
quanto, alla luce della disamina della giurisprudenza di questa
Corte, come compiuta al punto 5. che precede, la formale
adesione al principio della sussidiarietà in astratto risulta oggetto
di un costante temperamento, soprattutto nel caso in cui l’azione
principale sia fondata su una fonte contrattuale, mediante il
riconoscimento della sua esperibilità ove sia riconosciuta la nullità
del titolo contrattuale azionato (si veda da ultimo Cass. n. 13203/2023, secondo cui, nei casi in cui l’azione contrattuale è
stata rigettata per inesistenza del titolo, sarebbe contraddittorio
sostenere che la proposizione di una azione, che presuppone la
non esistenza di un contratto, possa essere impedita da una
pronuncia che abbia per l’appunto dichiarato la non esistenza di
un contratto, e ciò anche perché, se al rigetto del rimedio
contrattuale, determinato dall’inesistenza del titolo, potesse
conseguire l’improponibilità del rimedio sussidiario, costituito
dall’azione di arricchimento, l’avente diritto sarebbe privato di
qualsiasi strumento processuale per ottenere il rimborso del
pregiudizio subito; conf. Cass. n. 15496/2018).
Tuttavia, come confermato da Cass. n. 13203/2023, va ribadito
che resta preclusa la possibilità di agire ex art. 2041 c.c., anche in
caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi
dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o
con l’ordine pubblico (conf. ex multis, Cass. n. 10427/2002; Cass.
n. 14085/2010)….

Occorre quindi distinguere tra le ipotesi in cui il rigetto derivi dalriconoscimento della carenza ab origine dei presupposti fondanti
la domanda cd. principale, da quelli in cui derivi dall’inerzia
dell’impoverito ovvero dal mancato assolvimento di qualche onere
cui la legge subordinava la difesa di un suo interesse.
Nella prima ipotesi il rigetto per accertamento della carenza ab
origine del titolo fondante la domanda cd. principale comporta che
quello che appariva un concorso da risolvere ex art. 2042 c.c. in
favore della domanda principale si rivela essere in realtà un
concorso solo apparente, in quanto deve escludersi la stessa
ricorrenza di un diritto suscettibile di essere dedotto in giudizio
con la conseguente improponibilità della domanda ex art. 2041
c.c.
Viceversa, il rigetto della domanda, correlato al mancato
assolvimento dell’onere della prova in relazione alla sussistenza
del pregiudizio, non esclude che il diverso titolo sussista e che
quindi sia preclusa la domanda fondata sulla clausola residuale.
Se la domanda principale è correlata ad una pretesa scaturente
da un contratto, di cui si lamenta l’esecuzione in maniera difforme
da quanto pattuito, chiedendosi il ristoro del pregiudizio subito e
si accerta che il contratto era affetto da nullità, lo spostamento
contrattuale si palesa privo di una giusta causa e legittima quindi
la proposizione, anche in via subordinata nel medesimo giudizio,
dell’azione di arricchimento.
Se viceversa, incontestata o dimostrata l’esistenza del contratto,
il rigetto sia derivato dalla mancata prova da parte del contraente
del danno derivante dall’altrui condotta inadempiente, la domanda
di arricchimento resta preclusa in ragione della clausola di cui
all’art. 2042 c.c.

>>.

L’accertamento della macnanza delle condiuizoni ab initio per l’assegno di mantenimneto da seperazione fa nascere il credito alla restituzione da indebigto pagamento

Cass. sez. 1 del 14.11.2023 n. 31.635, rel. Pazzi:

<<Le Sezioni Unite di questa Corte, a questo proposito, hanno ritenuto che nel caso in cui si accerti nel corso del giudizio (all’interno della sentenza di primo o secondo grado) l’insussistenza ab origine, in capo all’avente diritto, dei presupposti per il versamento dell’assegno di mantenimento separativo, ancorché riconosciuto in sede presidenziale o dal giudice istruttore in sede di conferma o modifica, opera la regola generale della condictio indebiti (cfr. Cass., Sez. U., 32914/2022, dove, al punto 8.3, si precisa che “ove con la sentenza venga escluso in radice e “ab origine” (non per fatti sopravvenuti) il presupposto del diritto al mantenimento, separativo o divorzile, per la mancanza di uno “stato di bisogno” del soggetto richiedente (inteso, nell’accezione più propria dell’assegno di mantenimento o di divorzio, come mancanza di redditi adeguati)…. non vi sono ragioni per escludere l’obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite, ai sensi dell’art. 2033 c.c. (con conseguente piena ripetibilità)”).

Nel caso di specie la stessa Corte d’appello ha registrato (a pag. 7) che il primo giudice aveva rilevato che “la S. non (aveva) fornito prova sufficiente della esistenza dei presupposti richiesti per avere diritto all’assegno in questione”.

Il riconoscimento dell’originaria insussistenza dei presupposti per il versamento del contributo di mantenimento già riconosciuto in sede presidenziale determinava, quindi, la piena ripetibilità delle somme versate a tale titolo, a prescindere dal fatto che la richiedente avesse agito con mala fede o colpa grave>>.

La locazione stipulata da un comproprietario (nel caso specifico: a favore di altro comproprietario) va inquadrata nella gestione di affari

Cass. sez. III del 18/07/2023 n. 20.885, rel. Condello;

<<4. Il primo ed il secondo motivo, strettamente connessi, possono essere congiuntamente trattati e sono infondati, avendo, del tutto correttamente, la Corte d’appello ricondotto la fattispecie qui in esame, in cui si controverte della locazione di un bene comune da parte di un solo comproprietario, all’istituto della gestione d’affari, in conformità a quanto statuito dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 11135/2012.

Con tale sentenza è stato enunciato il seguente principio: “La locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari rientra nell’ambito della gestione di affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all’art. 2032 c.c., sicché, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore può ratificare l’operato del gestore e, ai sensi dell’art. 1705 c.c., comma 2, applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 c.c., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla rispettiva quota di proprietà indivisa”.

A tale approdo le Sezioni Unite sono pervenute all’esito di un lungo excursus delle diverse posizioni emerse nella giurisprudenza di legittimità in merito alla questione relativa alla legittimazione del comproprietario non locatore ad agire direttamente per l’esercizio dei diritti e dei poteri contrattuali derivanti dalla stipulazione del contratto da parte dell’altro comproprietario, confermando che la locazione svolge pienamente i suoi effetti anche quando il locatore abbia violato i limiti dei poteri che gli spettano ex art. 1105 c.c. e ss., essendo sufficiente ai fini della stipula della locazione che abbia la disponibilità della cosa locata.

A fronte delle diverse soluzioni prospettate dalla giurisprudenza sul tema, le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover inquadrare la fattispecie nell’ambito della gestione di affari altrui ex art. 2028 c.c., “consentendo tale disciplina di offrire una soluzione che vale a contemperare gli interessi e le posizioni dei vari soggetti coinvolti”.

Nel rilevare che l’esistenza di una situazione di contitolarità del bene da parte del gestore non è di ostacolo all’applicazione dell’art. 2028 c.c., hanno avuto cura di sottolineare che “elemento caratterizzante della gestione di affari è il compimento di atti giuridici spontaneamente ed utilmente nell’interesse altrui, in assenza di un obbligo legale o convenzionale di cooperazione” e che, a tal fine, si richiede, insieme alla spontaneità dell’intervento del gestore, all’animus aliena negotia gerendi, all’alienità dell’affare, all’utilità della gestione (utiliter coeptum), anche l’absentia domini, da intendersi non come impossibilità oggettiva o soggettiva di curare i propri interessi, bensì come semplice mancanza di un rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento senza opposizione e/o divieto del dominus.

Sulla base di tali premesse, le Sezioni Unite hanno desunto le seguenti conclusioni: l’opposizione del comproprietario non locatore rileva solo se portata a conoscenza e manifestata prima della stipula del contratto, ai sensi dell’art. 2031 c.c., rimanendo, in caso contrario, il contratto di locazione pienamente efficace, ancorché non vi sia il consenso del comproprietario che non ha stipulato il contratto; il comproprietario non locatore che abbia ratificato l’operato dell’altro comunista, ai sensi dell’art. 1705 c.c., potrà sostituirsi al comproprietario locatore per il solo esercizio dei diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato con preclusione del compimento di ogni altra azione derivante dal contratto.

Il contratto sottoscritto dal comproprietario locatore e dal conduttore è dunque valido ed efficace, cosicché la posizione del conduttore è posta al riparo da eventuali contrasti che dovessero insorgere tra i comproprietari in ordine alla gestione del bene comune, mentre il comproprietario non locatore, che sia a conoscenza dell’intenzione dell’altro comproprietario di addivenire alla stipula del contratto di locazione del bene comune, deve manifestare preventivamente il proprio dissenso, il che lo esonera dal dover adempiere le obbligazioni assunte dal gestore, ma conserva comunque la facoltà di ratificare il contratto stipulato dal comproprietario locatore (in senso conforme, Cass., sez. 3, 10/10/2019, n. 25433; Cass., sez. 3, 10/09/2019, n. 22540; Cass., sez. 3, 09/04/2021, n. 9476).

A siffatti principi occorre attenersi anche nella fattispecie in esame, a nulla rilevando, come ritenuto dalla parte ricorrente, la qualità di comproprietario del bene in capo al conduttore A.G.. Come evidenziato dai giudici d’appello, “una volta riconosciuta ad un comproprietario la detenzione esclusiva della res comune in virtù di un contratto di locazione, ad opera del comproprietario che tale detenzione possa trasferire, a tale contratto, fondante un titolo di detenzione esclusiva, dovrà farsi riferimento nei rapporti con il comproprietario conduttore, potendo poi la disciplina in tema di rendiconto dei frutti e delle rendite senz’altro rilevare nei rapporti tra comproprietario locatore, che abbia riscosso per intero il canone di locazione, e gli altri comunisti, che siano rimasti estranei al contratto di locazione”.

La logica indicata dalle Sezioni Unite, cioè quella della gestione d’affari, è perfettamente ricorrente nel caso in cui uno dei comproprietari stipuli la locazione della cosa comune con altro comproprietario. Si potrebbe pensare che essa difetti, perché il comproprietario che assume le vesti di conduttore non potrebbe connotarsi contemporaneamente come soggetto per cui il comproprietario che assume la veste di conduttore agisca coma gerente. Ma, data la diversità della posizione di comproprietario e di quella di stipulante la locazione come conduttore, non si configura alcuna incompatibilità, trattandosi di posizioni giuridicamente distinte. Semmai, il comproprietario che riceve la res in locazione dovrà essere considerato – per un evidente principio di non contraddizione – automaticamente ratificante, per così dire ilico et immediate l’operato del suo collega stipulante come locatore.

In questa ottica, dunque, il contratto concluso dal comproprietario locatore, C.R., e A.G. conserva piena validità ed è dunque opponibile all’odierna ricorrente, comproprietaria del bene, che, come accertato dalla Corte d’appello, non essendosi preventivamente opposta alla stipula del contratto di locazione, non può pretendere la risoluzione del medesimo contratto, ma può soltanto chiedere il pagamento pro quota dei canoni di locazione maturati in data successiva alla intervenuta ratifica, coincidente con la data di notificazione dell’atto di intimazione dello sfratto per morosità>>.