Cass. 16706 del 5 agosto 2020, rel. Massimo Ferro, si pronuncia sulla irripetibilità del versamento eseguito in contrasto col buon costume in sede di operazioni imprenditoriali
Precisamente il versamento è contrario ad un buon costume non etico-morale generale, ma a quello economico: finanziamemto di impresa eseguito per tenerla in vita quando già sostganzialmente insolvente.
Vediamo i passa salienti della motivazione.
L’insinuante aveva chiesto l’ammissione al passivo per la restituizione di veramenti eseguiti come “anticipi in conto forniture”.
Il Tribunale ne aveva oppsto l’irripetibilità ex art. 2035 , eccependo la simulazione del titolo giuridico allegato: <<l’improprio mantenimento in vita della impresa è stato a sua volta correlato dal tribunale al contributo causale assunto dal citato finanziamento e alla relativa consapevolezza compartecipativa rispetto al ritardo nell’apertura della vicenda concorsuale ovvero all’intensificazione del dissesto … sorretto da una pluralità di indici (tra cui durata del finanziamento, progressività degli assetti negoziali perseguiti, inadempimenti, dissimulazione negoziale, insistenza del ricorso al credito privato piuttosto che a quello bancario, esposizione debitoria già nel bilancio 2009 con “utile ridottissimo” rispetto alle dimensioni d’impresa, perdita poi certificata nel bilancio 2010, assets e attivi privi di connotazioni di liquidità, scarsa competitività); ne è derivato l’accertamento … di una compartecipazione negli stessi fatti di bancarotta semplice tratteggiati alla L. Fall., art. 217, comma 1, n. 4, per i quali occorre aver “aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa”>>, § 13.
Non è accolta la qualificazione come “concessione abusiva di credito” con i correlati limiti cui è in tale caso soggetta la legittimazione ad agire della curatela,. Infatti <posto che la illiceità della condotta di finanziamento discende, nella motivata ricostruzione del tribunale, non da siffatta figura bensì dalla coincidenza con la menzionata fattispecie penale di concorso, cui pianamente consegue la nullità civilistica; è invero principio consolidato che “in tema di cause di nullità del negozio giuridico, per aversi contrarietà a norme penali ai sensi dell’art. 1418 c.c., occorre che il contratto sia vietato direttamente dalla norma penale, nel senso che la sua stipulazione integri reato” (Cass. 18016/2018, 14234/2003), regola applicabile ad ogni fattispecie contrattuale, come nel caso del finanziamento ad impresa in dissesto, che s’inserisca, ritardandolo, nell’iter organizzativo e di progressione delle proprie scelte, già ricadenti come doveri giuridici specifici a carico dell’imprenditore, di richiedere senza indugio il proprio fallimento o comunque di non espandere le dimensioni della propria insolvenza mediante operazioni dilatorie, versando in grave colpa>, § 14.
Nemmeno è pertinente il richiamo agli istituti di supporto ordinario ai deficit di liquidità delle imprese in crisi. Infatti i negozi posti in essere dalla ricorrente non avevano <assunto con chiarezza originaria … in concorso con la fallita e sulla base dell’accertamento condotto dal giudice di merito, i tratti sostanziali di alcuna delle figure di cui alla L. Fall., art. 182 quater (o della L. Fall., art. 67, comma 3, lett. d)) o di altri negozi connotati da formalizzato progetto di sostegno ad impresa in crisi; se è vero, ed anzi ovvio, che è ben possibile e lecito il finanziamento all’impresa in crisi anche da parte di soggetti diversi da istituti che esercitino professionalmente il credito, nondimeno l’invocazione in questa sede della apparente non speculatività dell’apporto di provvista (non dotato di specifiche garanzie e nemmeno formulato per un’ipotesi di prededuzione) non integra di per sè anche la sua immunità da una concorrente valutazione di illiceità ove inserito in un contesto di ambigua negoziazione iniziale, tardiva qualificazione giuridica e finale innesto in una vicenda di aggravamento riprovevole del dissesto dell’impresa finanziata>, § 15.
La contrarietà ai principi dell’ordine pubblico economico <si palesa inoltre come aggiuntiva ratio nella qualificazione di illiceità dei negozi, sotto il profilo causale, ai sensi degli artt. 1343 e 1418 c.c., e con esplicitazione della fattispecie quale esempio di violazione del buon costume, ai fini della irripetibilità della prestazione resa, come voluto dall’art. 2035 c.c.>, § 16.1.a. Pare di capire che la SC consideri la nullità ex art. 1343 e quella per contrarietà al buon costume come due distinti motivi di illiceità (v. subito sotto, ove ricordo il § 18).
La SC passa poi ad esaminare direttamente l’applicabilità della soluti retentio disposta dall’art. 2035 cc. <“ai fini dell’applicabilità della “soluti retentio” prevista dall’art. 2035 c.c., la nozione di buon costume non si identifica soltanto con le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza, ma comprende anche quelle contrastanti con i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico; pertanto, chi abbia versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perchè tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume “ >, § 17.
Arriviamo ora ai passi centrali dell’iter motivatorio:
Secondo la SC, il tribunale <ha giustapposto la ricognizione di contrarietà alla norma imperativa penale, laddove vieta di aggravare (e, quanto al terzo, di concorrere nella relativa condotta) il dissesto dell’imprenditore commerciale, alla illiceità della causa del complesso meccanismo negoziale adottato dalle parti, per contrarietà al buon costume [duplice motivazione sopra ancitipata] ; tale seconda, concorrente, violazione promana dal riconoscimento al contempo del pregiudizio obiettivamente occorso alla massa dei creditori per effetto dell’incremento delle dimensioni della decozione, causato – come unico scopo, ai fini qui ora in rilievo – da condotte consapevolmente compartecipative nel mantenere al di fuori della concorsualità l’imprenditore che già versava in tutti i suoi presupposti oggettivi e che, di lì a pochi mesi, avrebbe intrapreso il percorso concordatizio, per poi fallire, perseguendo inoltre una condotta di articolazione potenzialmente predatoria con lo strumento di un anomalo, perchè acausale e artatamente fungibile, “anticipo di prezzo”, deducibile ed invero dedotto quale corrispettivo di acquisto del (capitale del) soggetto in realtà finanziato o degli assets al medesimo in vario modo riconducibili; si tratta di un complessivo profilo di disvalore, all’altezza dello scrutinio in concreto della iniziativa economica delle parti del rapporto di finanziamento e cessione di attivi, imperniato su una compatibile reattività costituzionale (ex art. 41 Cost., comma 2) laddove le prestazioni di finanziamento dissimulate, a fronte di forniture nè pattuite nè eseguite (alla stregua del netto accertamento del giudice di merito), non si sono esaurite in mera sovvenzione all’imprenditore già insolvente, ma sono state progressivamente dedotte – al di là dell’insuccesso finale – in un programma di rilievo dei relativi assets, così fungendo il credito da mera leva per l’acquisizione del capitale della fallita o di patrimonio immobiliare di società collegata (da pagarsi con lo stesso credito, divenuto “corrispettivo alieno” a tenore del decreto) in danno dei creditori e a detrimento finale della soggettività economica del finanziato, posto che l’espansione dei relativi debiti non esprimeva alcuna utilità sociale; in questo limitato senso può convenirsi, per la peculiarità della fattispecie, che effettivamente nella condotta preordinatamente volta ad alterare altresì la correttezza delle relazioni di mercato e a costituire fattori di disinvolta attitudine cd. predatoria rispetto ad altro soggetto economico in dissesto, vi sia violazione delle regole giuridiche del buon costume, secondo “i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico”, allorchè la “prestazione” sia stata “eseguita” per uno “scopo” costituente, anche per l’autore che ora ne domandi la restituzione indiretta (id est, l’ammissione al passivo del credito), “offesa al buon costume>>, § 18.
Ne segue allora che <il credito della ricorrente, frutto della sua iniziativa economica, esprime così – per come complessivamente ricostruito dal giudice di merito – una posizione soggettiva che, per essere in astratto costituzionalmente tutelata in misura condizionata all’utilità sociale, finisce con il divenire in concreto cedevole rispetto ad altri valori omogenei parimenti protetti, quali i crediti di terzi e per i quali non solo l’ordinamento giuridico appresta specifici istituti organizzativi del relativo conflitto (i sistemi concorsuali e anche le figure di negoziazione della crisi preconcorsuali), ma indica, ad iniziare dalla previsione penalistica del divieto di aggravamento del dissesto, una convergente riprovazione verso condotte di occultamento o pratiche di egoistica ritrazione d’interesse singolare a fronte di una insolvenza oramai coinvolgente in termini di rischio l’adempimento verso una massa di soggetti creditori; per questa chiave, la “offesa al buon costume” di cui all’art. 2035 c.c., al pari della “contrarietà al buon costume” di cui all’art. 1343 c.c., non esprime solo una proiezione già formalizzata nell’ordinamento giuridico, ma mantiene il ruolo di termine di rinvio della legge permettendo – come osservato in dottrina – che la stessa giurisprudenza enunciativa assicuri l’intermediazione aggiornata delle plurime clausole generali di corretta condotta commerciale e delle relazioni di mercato fra competitori da perseguirsi tra imprenditori e specie nelle relazioni con quelli in crisi; tutte le indicazioni normative, dalla DIRETTIVA (UE) 2019/1023 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 20 giugno 2019 sulla ristrutturazione e sull’insolvenza fino al Codice della crisi e dell’insolvenza del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 già operano in tale direzione: la prima, guidando la disciplina domestica innovativa ovvero l’adeguamento di quella esistente verso una precocità della emersione delle difficoltà finanziarie e delle relative informazioni quali contributi al corretto funzionamento del mercato, in diretto rapporto con istituti di vantaggio improntati alla cooperazione trasparente degli attori, la seconda fondandosi sul medesimo obiettivo anticipatorio – anche per la parte già vigente – ove al riformato art. 2086 c.c., impone la rilevazione interna tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale e, più in generale e a regime, indirizzando i debitori all’adozione degli strumenti concorsuali appropriati per ristrutturare i debiti;>, § 19.
Del resto il perimetro applicativo dell’art. 2035 c.c. , dice la SC, <è invero, per un verso, compatibile con una nozione empirica di “prestazione”, nella quale cioè non sussiste vincolo a monte di ricomprendere in essa o di escludervi uno o più contratti, sol bastando che essi – ove conclusi – si siano tradotti, come avvenuto nella specie, in attribuzioni patrimoniali; per altro verso, è sufficiente che il perseguimento di uno scopo, anche per il solvens, costituisca offesa al buon costume, ciò pregiudicando il titolo della prestazione così da renderlo nullo, ipotesi che può realizzarsi in presenza di un presupposto contrattuale (ove stipulato) che sia in contrasto con i boni mores sotto il profilo causale o dell’oggetto o anche solo del motivo comune, ove l’unico a determinare i contraenti alla stipulazione; il fondamento attuale dell’effetto dell’irripetibilità è stato così condivisibilmente individuato anche in dottrina (sulla scorta della Relazione al codice civile) sia nell’esigenza di escludere dalla tutela giudiziaria conseguente all’esercizio dell’azione ex indebito colui che, per goderne, dovrebbe allegare il fatto della propria immoralità, sia nella configurazione di una misura sanzionatoria a carico dell’autore della prestazione eseguita per uno scopo turpe, in quanto soggetto che l’ordinamento reputa indegno di ricevere protezione giuridica;>, § 20.
E’ quindi giusto quanto osserva il Tribunale, ricorda la SC: <in questo senso le pur stringate osservazioni finali del decreto impugnato colgono nel segno ove, riferendosi ad una “sanzione” (civile), danno conto di un soggetto che ha condotto un comportamento disdicevole alla luce del sentire comune, così valorizzando – come detto – le clausole generali volte ad imporre, a chi si immette nel traffico giuridico e nelle reti interimprenditoriali in particolare, prestazioni conformate secondo buona fede, secondo criteri non moralistici, si può aggiungere, ma di concorrente condivisa opportunità e utilità sociale nelle relazioni ordinate di mercato, che non sopportano la permanenza artificiale in esso di concorrenti decotti, la cui insolvenza sia resa occulta ovvero ingiustificatamente ritardata nella sua emersione e strumentalizzata per operazioni in danno dei creditori; in questo ambito, la regola non assume una finalità educativa, ma pur sempre si riferisce a rapporti giuridici e non a soggetti in sè intesi, permettendo allora che il diritto – cui essa tuttora appartiene – neghi le sue tutele a negozi giuridici compiuti in violazione di principi, come detto, immanenti nei contesti in cui vengono conclusi, come nel caso il principio del corretto e leale svolgimento della competizione economica>, § 21
La soluti retentio ex art. 2035 c.c. attua perciò una <espressione sanzionatoria o punitiva, quale mera conseguenza di cui, per converso, la controparte (accipiens) beneficia … solo di riflesso e su un piano fattuale>, § 22.