1) La petizione ereditaria non si applica al credito da conto corrente. 2) Unico legittimato all’azione di restituzione dell’indebito è il percettore diretto, non il terzo cui questi ne abbia trasferito una parte

Interessante (e frequente …) fattispecie concreta decisa da Cass. sez. 2, n° 19.936 del 21.06.2022, rel. Tedesco.

Muoino a breve distanza di tempo i due contitolari, coniugi, di un  conto bancario cointestato.

Il procuratore del secondo deceduto (moglie) ritira il saldo dal conto e ne traferisce metà ad un terzo.

Essendosi però  estinta la procura col decesso, il procuratore non aveva titolo : pertanto il vero erede esperisce azione nei suoi confronti e nei confronti del terzo beneficiario

La SC riforma la corte di appello laddove aveva applicato la petizioone di eredità (art. 534 cc) e nega che questa si applichi al credito da conto corrente.

Inoltre nega che il terzo beneficiario della metà del conto corrente abbia legittimazione passiva: .

Avendo natura di indebito, l’azione di restituzione delle somme illegittimamente prelevate dall’ex procuratore è strettamente personale, per cui solo quest’ultimo è legittimato passivo.    Del resto è proprio questa l’azione data al reale creditore verso il creditore apparente (art. 1189 c. 2 cc)

Principio di diritto: “L’art. 1189 c.c., in tema di pagamento al creditore apparente, è applicabile anche nell’ipotesi di pagamento delle somme depositate in conto corrente, effettuato dalla banca dopo la morte del correntista in favore di un soggetto non legittimato a riceverlo; conseguentemente l’azione accordata all’erede per la restituzione è quella disciplinata dall’art. 2033 c.c., che è esperibile solo nei confronti del destinatario del pagamento e non anc:he nei confronti di colui al quale la somma sia stata trasferita dall’accipens dopo che egli l’abbia indebitamente riscossa dalla banca debitrice

Non è però chiaro come possa dirsi che l’ex procuratore fosse creditore apparente e cioè <legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche>, se la perocura si estingue ex lege in caso di decesso (§ 5 sentenza di Cass.)! Tanto più che il debitore (banca) è un soggetto abituato a trattare questo tipo di vicende giuridiche e operatore professionale qualificato!

Responsabilità del docente per la lesione autoinfertasi dall’alunno minore: contrattuale o aquiliana che sia, il regime probatorio resta il medesimo

Cass. ord. 25.11.2021 n. 36.723 chiarisce (e conferma) che per il danno autoprocuratosi dall’alunno minore sono responsabili in via contrattuale sia la scuola che il docente.  Quest’ultimo naturalmente a titolo di contatto sociale.

Così di preciso: <<In tema di danno cagionato dall’alunno a se stesso, questa Corte ha già avuto modo di chiarire che la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non ha natura extracontrattuale bensì contrattuale, atteso, quanto all’istituto scolastico, che l’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’allievo alla scuola, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l’allievo procuri danno a se stesso; e che, quanto al precettore dipendente dell’istituto scolastico, tra insegnante e allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico nell’ambito del quale l’insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla persona. Ne deriva che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da cd. autolesione nei confronti dell’istituto scolastico è applicabile il regime probatorio desumibile dall’art. 1218 c.c., sicchè, mentre l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull’altra parte incombe l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile nè alla scuola, nè all’insegnante (cfr., sul punto, Cass., Sez. U., n. 9346/2002, costantemente ribadita)>>.

Poco interessante: sull’unico punto teoricamente stimolante (contatto sociale, soprattuto dopo che la legge Gelli Bianco sulla responsabilità dei sanitari l’ha qualificato come fonte di r. aquiliana: L. 24/2017, art. 7.3) la SC sostanzialmente sorvola .

Più interessante il passaggio successivo :  <<Tanto premesso – pur dovendo questo giudice di legittimità, facendo uso dei poteri correttivi consentitigli dall’art. 384 c.p.c., comma 2, precisare che nella specie si sarebbe dovuto fare applicazione non della norma di cui all’art. 2048 c.c., ma dei principi in materia di responsabilità contrattuale per stabilire della fondatezza o meno della pretesa risarcitoria avanzata dai sigg. I. – osserva questa Corte che, anche rispetto alla diversa qualificazione giuridica che occorre dare all’azione esperita, la decisione di accoglimento non è censurabile, in quanto risulta acquisita agli atti di causa, secondo l’espresso accertamento compiuto dal giudice del merito, la prova dell’esclusiva responsabilità dell’insegnante nella causazione dell’evento dannoso, oltrechè della mancata adozione, in via preventiva, di misure disciplinari e organizzative tali da evitare il sorgere della situazione di pericolo. Infatti, la Corte territoriale, sulla base delle deposizioni testimoniali, ha ritenuto accertato che l’insegnante non si fosse avvicinata per prendere la mano del minore, nè si fosse attivata prontamente per fermare la sua corsa, a fronte di un comportamento del bambino altamente prevedibile in considerazione della sua tenera età e delle sue condizioni psico-fisiche. Pertanto, la decisione sul punto è conforme a legge ed è sorretta da adeguata e logica motivazione, rispetto alla quale parte ricorrente non evidenzia vizi logici, ma sostanzialmente richiede in questa sede l’inammissibile riesame del materiale probatorio per farne derivare una conclusione diversa da quella cui è pervenuta la Corte territoriale.

Proprio in virtù del fatto che, ai fini del regime probatorio applicabile, è indifferente che venga invocata la responsabilità extracontrattuale per omissione delle cautele necessarie ovvero la responsabilità contrattuale per negligente adempimento dell’obbligo di sorveglianza (cfr., da ultimo, Cass., Sez. VI-3, ord. n. 3081/2015), il motivo incorre nella declaratoria di inammissibilità per difetto di interesse, dovendo all’uopo essere richiamato il principio secondo cui il motivo di impugnazione con cui si deduca la violazione di norme giuridiche priva di qualsivoglia influenza in relazione alle domande proposte, e che sia diretta, quindi, all’emanazione di una pronuncia senza rilievo pratico, risulta inammissibile (cfr., da ultimo, Cass., Sez. ord. n. 12678/2020).>>

In breve, che la si qualifichi come resp. contrattuale o aquiliana, il regime probatorio (cioè quello relativo all’onere della prova, parrebbe) non cambia.

L’affermazione, assai significativa a livello teorico, avrebbe meritato qualche passaggio argomentativo in più.

Concessione abusiva di credito all’impresa poi fallita e responsabilità del finanziatore

Altro intervento della sez. I della Cass. sul tema (Cass. 24.725 del 14.09.2021, rel. Nazzicone, fall. Edilmorelli Costruzioni srl c. Banca popolare di Spoleto).

Riprende Cass. 18.610 del 30 giugno u.s., stesso relatore, già ricordata qui: il ragionamento è del tutto analogo.

Due sole osservazioni.

1) non è chiara la fonte normativa dell’affermato dovere della banca di controllare l’utilità del finanziamento per il cliente, in mancanza di disposizione ad hoc (come ad es.:  – l’art. 124/5 TU credito; – svariati articoli del TUF , ad es. artt. 21, 24, 24 bis; – la tutela preventiva del cliente posta dalla disciplina c.d. product oversight&governance nell’ideazione e distribuzione dei prodotti assicurativi ex dir. UE 2016/97 e reg. deleg. UE 2358/2017, poi recepiti in cod. ass. priv. art. 30 decies, 121 bis e 121 ter ).

E’ però assai dubbio che dal dovere di <sana e prudente gestione> nascano pretese azionabili dal cliente verso la banca, consistenti in un fattivo contributo della seconda nel verificare l’appropriatezza per il primo dell’erogazione chiesta/proposta: come invece vorrebbe la SC (parla di <indissolubilità del legame tra la sana e prudente gestione dell’attività e la tutela della clientela> pure CAMEDDA, La product oversight and governance nel sistema dei governo societario dell’impresa di assicurazione, BBTC, 2021, 2, 238 , che sarebbe sancita dalla direttiva Insolvency II)

2) non è chiaro come la SC superi l’eccezione per cui l’impresa finanziata non può essere “nel contempo autore dell’illecito e vittima del medesimo”, § 2.6.2. Il finanaziamento era infatti stato stipulato senza errore/violenza/dolo nè operano altri titoli impugnatori (revocatoria). Ci sarà forse azione di danno verso gli amministratori; però disconoscere il contratto finanziatorio (così avviene in sostanza, anche se non si tratta tecnicamente di impugnazione, visto che i suoi effetti permangono; sottilizzare tra conseguenza reale e solo obbligatoria non giova) pare difficilmente giustificabile.

Responsabilità per concessione abisiva di credito: dovere del banchiere di prudente valutazione e legittimazione del curatore (Cass. 18.601 / 2021)

Cass. 16.810 del 30.06.2021, rel. Nazzicone, riepiloga lo stato dell’arte sul tema in oggetto.

Nella prima parte la SC discute in dettaglio il dovere del finanziatore (bancario spt.) di valutare con prudenza l’affidabilità di chi ha chiesto credito, § 3.1 ss.

Per cui difficile è la scelta del banchiere: <<Vero è che, di fronte alla richiesta di una proroga o reiterazione di finanziamento, la scelta del “buon banchiere” si presenta particolarmente complessa: astretto com’è tra il rischio di mancato recupero dell’importo in precedenza finanziato e la compromissione definitiva della situazione economica del debitore, da un lato, e la responsabilità da incauta concessione di credito, dall’altro lato.

Onde ogni accertamento, ad opera del giudice del merito, dovrà essere rigoroso e tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, secondo il suo prudente apprezzamento, soprattutto ai fini di valutare se il finanziatore abbia (a parte il caso del dolo) agìto con imprudenza, negligenza, violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline, ai sensi dell’art. 43 c.p., o abbia viceversa, pur nella concessione del credito, attuato ogni dovuta cautela, al fine di prevenire l’evento.

Tale seconda situazione potrà, ad esempio, verificarsi ove la banca – pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi dell’impresa – abbia operato nell’intento del risanamento aziendale, erogando credito ad impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di razionale permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito allo scopo del risanamento aziendale, secondo un progetto oggettivo, ragionevole e fattibile.>>, § 3.5.3.

Nella seconda parte la SC applica l’interpretazione al caso concreto. Qui però deve affrotnare la questione, tipicametne concorsuale, del se tale azione competa alla curatela (legittimazione di questa). E sceglie la via della risposta positiva: il curatore ha legittimazione.

Infatti <<Tale azione – in effetti – spetta senz’altro al curatore, come successore nei rapporti del fallito, ai sensi dell’art. 43 L. Fall., che sancisce, per i rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, la legittimazione esclusiva del predetto, trattandosi di lesione del patrimonio dell’impresa fallita e di un diritto rinvenuto dal curatore nel patrimonio di questa.

Nel contempo, tuttavia, occorre altresì considerare come, aperto sul patrimonio del fallito il concorso dei creditori, come prevedono gli artt. 51 e 52 L. Fall. questi non possono più agire individualmente in via esecutiva o cautelare sui beni compresi in quel patrimonio, ma solo partecipare al concorso.

Al curatore, invero, spetta la legittimazione per le c.d. azioni di massa, volte alla ricostituzione della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c., di cui tutti creditori beneficeranno; così, al curatore spettano le azioni revocatorie di cui all’art. 2901 c.c. e art. 66 L. Fall., nonchè le azioni di responsabilità contro gli organi sociali, ivi compresa quella dei creditori per “l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale” (art. 2394-bis c.c. e art. 146 L. Fall.).

In definitiva, è pur vero che il curatore non è legittimato all’azione di risarcimento del danno diretto patito dal singolo creditore per l’abusiva concessione del credito quale strumento di reintegrazione del suo patrimonio singolo, ove quest’ultimo dovrà dimostrare lo specifico pregiudizio a seconda della relazione contrattuale intrattenuta con il debitore fallito, e ciò con specifico riguardo al diritto leso a potersi determinare ad agire in autotutela, oppure ad entrare in contatto con contraenti affidabili – posto che la concessione del credito bancario lo abbia indotto, ove creditore anteriore, a non esercitare i rimedi predisposti dall’ordinamento a tutela del credito, e, ove creditore successivo a quella concessione, a contrattare con soggetto col quale altrimenti non avrebbe contrattato – in quanto si tratta di diritto soggettivo afferente la sfera giuridica di ciascun creditore.

E, tuttavia, la situazione muta, ove si prospetti un’azione a vantaggio di tutti i creditori indistintamente, perchè recuperatoria in favore dell’intero ceto creditorio di quanto sia andato perduto, a causa dell’indebito finanziamento, del patrimonio sociale, atteso che il fallimento persegue, appunto, l’obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori nel rispetto della par condicio.

Si tratta di un danno al patrimonio dell’impresa, con la conseguente diminuita garanzia patrimoniale della stessa, ai sensi dell’art. 2740 c.c., scaturita dalla concessione abusiva del credito, che abbia permesso alla stessa di rimanere immeritatamente sul mercato, continuando la propria attività ed aumentando il dissesto, donde il danno riflesso ai tutti i creditori.

Ecco dunque che il curatore che agisce per il ristoro del danno alla società tutela nel contempo la massa creditoria dalla diminuzione patrimoniale medesima.

Un simile danno riguarda tutti i creditori: quelli che avevano già contrattato con la società prima della concessione abusiva del credito de qua, perchè essi vedono, a cagione di questa, aggravarsi le perdite e ridursi la garanzia ex art. 2740 c.c.; quelli che abbiano contrattato con la società dopo la concessione di credito medesima, perchè (se è vero che a ciò possa aggiungersi pure la causa petendi di essere stati indotti in errore, ed allora individualmente, dall’apparente stato non critico della società, è pur vero che) del pari avranno visto progressivamente aggravarsi l’insufficienza patrimoniale della società, con pregiudizio alla soddisfazione dei loro crediti.>> § 3.6.2.

Irripetibilità del versato ex art. 2035 cc (contrarietà a buon costume) in sede fallimentare

Cass. 16706  del 5 agosto 2020, rel. Massimo Ferro, si pronuncia sulla irripetibilità del versamento eseguito in contrasto col buon costume in sede di operazioni imprenditoriali

Precisamente il versamento è contrario ad un buon costume non etico-morale generale, ma a quello economico: finanziamemto di impresa eseguito per tenerla in vita quando già sostganzialmente insolvente.

Vediamo i passa salienti della motivazione.

L’insinuante aveva chiesto l’ammissione al passivo per la restituizione di veramenti eseguiti come “anticipi in conto forniture”.

Il Tribunale ne aveva oppsto l’irripetibilità ex art. 2035 , eccependo la simulazione del titolo giuridico allegato: <<l’improprio mantenimento in vita della impresa è stato a sua volta correlato dal tribunale al contributo causale assunto dal citato finanziamento e alla relativa consapevolezza compartecipativa rispetto al ritardo nell’apertura della vicenda concorsuale ovvero all’intensificazione del dissesto … sorretto da una pluralità di indici (tra cui durata del finanziamento, progressività degli assetti negoziali perseguiti, inadempimenti, dissimulazione negoziale, insistenza del ricorso al credito privato piuttosto che a quello bancario, esposizione debitoria già nel bilancio 2009 con “utile ridottissimo” rispetto alle dimensioni d’impresa, perdita poi certificata nel bilancio 2010, assets e attivi privi di connotazioni di liquidità, scarsa competitività); ne è derivato l’accertamento … di una compartecipazione negli stessi fatti di bancarotta semplice tratteggiati alla L. Fall., art. 217, comma 1, n. 4, per i quali occorre aver “aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa”>>, § 13.

Non è accolta la qualificazione come “concessione abusiva di credito” con i correlati limiti cui è in tale caso soggetta la legittimazione ad agire della curatela,. Infatti <posto che la illiceità della condotta di finanziamento discende, nella motivata ricostruzione del tribunale, non da siffatta figura bensì dalla coincidenza con la menzionata fattispecie penale di concorso, cui pianamente consegue la nullità civilistica; è invero principio consolidato che “in tema di cause di nullità del negozio giuridico, per aversi contrarietà a norme penali ai sensi dell’art. 1418 c.c., occorre che il contratto sia vietato direttamente dalla norma penale, nel senso che la sua stipulazione integri reato” (Cass. 18016/2018, 14234/2003), regola applicabile ad ogni fattispecie contrattuale, come nel caso del finanziamento ad impresa in dissesto, che s’inserisca, ritardandolo, nell’iter organizzativo e di progressione delle proprie scelte, già ricadenti come doveri giuridici specifici a carico dell’imprenditore, di richiedere senza indugio il proprio fallimento o comunque di non espandere le dimensioni della propria insolvenza mediante operazioni dilatorie, versando in grave colpa>, § 14.

Nemmeno è pertinente il richiamo agli istituti di supporto ordinario ai deficit di liquidità delle imprese in crisi. Infatti i negozi posti in essere dalla ricorrente non avevano  <assunto con chiarezza originaria … in concorso con la fallita e sulla base dell’accertamento condotto dal giudice di merito, i tratti sostanziali di alcuna delle figure di cui alla L. Fall., art. 182 quater (o della L. Fall., art. 67, comma 3, lett. d)) o di altri negozi connotati da formalizzato progetto di sostegno ad impresa in crisi; se è vero, ed anzi ovvio, che è ben possibile e lecito il finanziamento all’impresa in crisi anche da parte di soggetti diversi da istituti che esercitino professionalmente il credito, nondimeno l’invocazione in questa sede della apparente non speculatività dell’apporto di provvista (non dotato di specifiche garanzie e nemmeno formulato per un’ipotesi di prededuzione) non integra di per sè anche la sua immunità da una concorrente valutazione di illiceità ove inserito in un contesto di ambigua negoziazione iniziale, tardiva qualificazione giuridica e finale innesto in una vicenda di aggravamento riprovevole del dissesto dell’impresa finanziata>, § 15.

La contrarietà ai principi dell’ordine pubblico economico <si palesa inoltre come aggiuntiva ratio nella qualificazione di illiceità dei negozi, sotto il profilo causale, ai sensi degli artt. 1343 e 1418 c.c., e con esplicitazione della fattispecie quale esempio di violazione del buon costume, ai fini della irripetibilità della prestazione resa, come voluto dall’art. 2035 c.c.>, § 16.1.a.      Pare di capire che la SC consideri la nullità ex art. 1343 e quella per contrarietà al buon costume come due distinti motivi di illiceità (v. subito sotto, ove ricordo il § 18).

La SC passa poi ad esaminare direttamente l’applicabilità della soluti retentio disposta dall’art. 2035 cc. <“ai fini dell’applicabilità della “soluti retentio” prevista dall’art. 2035 c.c., la nozione di buon costume non si identifica soltanto con le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza, ma comprende anche quelle contrastanti con i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico; pertanto, chi abbia versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perchè tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume “ >, § 17.

Arriviamo ora ai passi centrali dell’iter motivatorio:

Secondo la SC, il tribunale <ha giustapposto la ricognizione di contrarietà alla norma imperativa penale, laddove vieta di aggravare (e, quanto al terzo, di concorrere nella relativa condotta) il dissesto dell’imprenditore commerciale, alla illiceità della causa del complesso meccanismo negoziale adottato dalle parti, per contrarietà al buon costume [duplice motivazione sopra ancitipata] ; tale seconda, concorrente, violazione promana dal riconoscimento al contempo del pregiudizio obiettivamente occorso alla massa dei creditori per effetto dell’incremento delle dimensioni della decozione, causato – come unico scopo, ai fini qui ora in rilievo – da condotte consapevolmente compartecipative nel mantenere al di fuori della concorsualità l’imprenditore che già versava in tutti i suoi presupposti oggettivi e che, di lì a pochi mesi, avrebbe intrapreso il percorso concordatizio, per poi fallire, perseguendo inoltre una condotta di articolazione potenzialmente predatoria con lo strumento di un anomalo, perchè acausale e artatamente fungibile, “anticipo di prezzo”, deducibile ed invero dedotto quale corrispettivo di acquisto del (capitale del) soggetto in realtà finanziato o degli assets al medesimo in vario modo riconducibili; si tratta di un complessivo profilo di disvalore, all’altezza dello scrutinio in concreto della iniziativa economica delle parti del rapporto di finanziamento e cessione di attivi, imperniato su una compatibile reattività costituzionale (ex art. 41 Cost., comma 2) laddove le prestazioni di finanziamento dissimulate, a fronte di forniture nè pattuite nè eseguite (alla stregua del netto accertamento del giudice di merito), non si sono esaurite in mera sovvenzione all’imprenditore già insolvente, ma sono state progressivamente dedotte – al di là dell’insuccesso finale – in un programma di rilievo dei relativi assets, così fungendo il credito da mera leva per l’acquisizione del capitale della fallita o di patrimonio immobiliare di società collegata (da pagarsi con lo stesso credito, divenuto “corrispettivo alieno” a tenore del decreto) in danno dei creditori e a detrimento finale della soggettività economica del finanziato, posto che l’espansione dei relativi debiti non esprimeva alcuna utilità sociale; in questo limitato senso può convenirsi, per la peculiarità della fattispecie, che effettivamente nella condotta preordinatamente volta ad alterare altresì la correttezza delle relazioni di mercato e a costituire fattori di disinvolta attitudine cd. predatoria rispetto ad altro soggetto economico in dissesto, vi sia violazione delle regole giuridiche del buon costume, secondo “i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico”, allorchè la “prestazione” sia stata “eseguita” per uno “scopo” costituente, anche per l’autore che ora ne domandi la restituzione indiretta (id est, l’ammissione al passivo del credito), “offesa al buon costume>>, § 18.

Ne segue allora che <il credito della ricorrente, frutto della sua iniziativa economica, esprime così – per come complessivamente ricostruito dal giudice di merito – una posizione soggettiva che, per essere in astratto costituzionalmente tutelata in misura condizionata all’utilità sociale, finisce con il divenire in concreto cedevole rispetto ad altri valori omogenei parimenti protetti, quali i crediti di terzi e per i quali non solo l’ordinamento giuridico appresta specifici istituti organizzativi del relativo conflitto (i sistemi concorsuali e anche le figure di negoziazione della crisi preconcorsuali), ma indica, ad iniziare dalla previsione penalistica del divieto di aggravamento del dissesto, una convergente riprovazione verso condotte di occultamento o pratiche di egoistica ritrazione d’interesse singolare a fronte di una insolvenza oramai coinvolgente in termini di rischio l’adempimento verso una massa di soggetti creditori; per questa chiave, la “offesa al buon costume” di cui all’art. 2035 c.c., al pari della “contrarietà al buon costume” di cui all’art. 1343 c.c., non esprime solo una proiezione già formalizzata nell’ordinamento giuridico, ma mantiene il ruolo di termine di rinvio della legge permettendo – come osservato in dottrina – che la stessa giurisprudenza enunciativa assicuri l’intermediazione aggiornata delle plurime clausole generali di corretta condotta commerciale e delle relazioni di mercato fra competitori da perseguirsi tra imprenditori e specie nelle relazioni con quelli in crisi; tutte le indicazioni normative, dalla DIRETTIVA (UE) 2019/1023 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 20 giugno 2019 sulla ristrutturazione e sull’insolvenza fino al Codice della crisi e dell’insolvenza del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 già operano in tale direzione: la prima, guidando la disciplina domestica innovativa ovvero l’adeguamento di quella esistente verso una precocità della emersione delle difficoltà finanziarie e delle relative informazioni quali contributi al corretto funzionamento del mercato, in diretto rapporto con istituti di vantaggio improntati alla cooperazione trasparente degli attori, la seconda fondandosi sul medesimo obiettivo anticipatorio – anche per la parte già vigente – ove al riformato art. 2086 c.c., impone la rilevazione interna tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale e, più in generale e a regime, indirizzando i debitori all’adozione degli strumenti concorsuali appropriati per ristrutturare i debiti;>, § 19.

Del resto il perimetro applicativo dell’art. 2035 c.c. , dice la SC, <è invero, per un verso, compatibile con una nozione empirica di “prestazione”, nella quale cioè non sussiste vincolo a monte di ricomprendere in essa o di escludervi uno o più contratti, sol bastando che essi – ove conclusi – si siano tradotti, come avvenuto nella specie, in attribuzioni patrimoniali; per altro verso, è sufficiente che il perseguimento di uno scopo, anche per il solvens, costituisca offesa al buon costume, ciò pregiudicando il titolo della prestazione così da renderlo nullo, ipotesi che può realizzarsi in presenza di un presupposto contrattuale (ove stipulato) che sia in contrasto con i boni mores sotto il profilo causale o dell’oggetto o anche solo del motivo comune, ove l’unico a determinare i contraenti alla stipulazione; il fondamento attuale dell’effetto dell’irripetibilità è stato così condivisibilmente individuato anche in dottrina (sulla scorta della Relazione al codice civile) sia nell’esigenza di escludere dalla tutela giudiziaria conseguente all’esercizio dell’azione ex indebito colui che, per goderne, dovrebbe allegare il fatto della propria immoralità, sia nella configurazione di una misura sanzionatoria a carico dell’autore della prestazione eseguita per uno scopo turpe, in quanto soggetto che l’ordinamento reputa indegno di ricevere protezione giuridica;>, § 20.

E’ quindi giusto quanto osserva il Tribunale, ricorda la SC: <in questo senso le pur stringate osservazioni finali del decreto impugnato colgono nel segno ove, riferendosi ad una “sanzione” (civile), danno conto di un soggetto che ha condotto un comportamento disdicevole alla luce del sentire comune, così valorizzando – come detto – le clausole generali volte ad imporre, a chi si immette nel traffico giuridico e nelle reti interimprenditoriali in particolare, prestazioni conformate secondo buona fede, secondo criteri non moralistici, si può aggiungere, ma di concorrente condivisa opportunità e utilità sociale nelle relazioni ordinate di mercato, che non sopportano la permanenza artificiale in esso di concorrenti decotti, la cui insolvenza sia resa occulta ovvero ingiustificatamente ritardata nella sua emersione e strumentalizzata per operazioni in danno dei creditori; in questo ambito, la regola non assume una finalità educativa, ma pur sempre si riferisce a rapporti giuridici e non a soggetti in sè intesi, permettendo allora che il diritto – cui essa tuttora appartiene – neghi le sue tutele a negozi giuridici compiuti in violazione di principi, come detto, immanenti nei contesti in cui vengono conclusi, come nel caso il principio del corretto e leale svolgimento della competizione economica>, § 21

La soluti retentio ex art. 2035 c.c. attua perciò una <espressione sanzionatoria o punitiva, quale mera conseguenza di cui, per converso, la controparte (accipiens) beneficia … solo di riflesso e su un piano fattuale>, § 22.

Il Tribunale di Verona afferma la responsabilità civile della Banca nella questione delle vendite di diamanti

Sulla vendita  dei diamanti tramite banca  (sui cui ci sono nuovi sviluppi, scrive la Reuters), interviene il Tribunale civile di Verona RG 5251/2018 del 20.05.2019 , accogliendo la domanda dei clienti/investitori.

Questi ultimi avevano citato sia la Intermarket Diamond Business s.p.a. (IDB)  sia la Banca per ottenere ristoro del danno subito dal cattivo investimento loro proposto.

Qui interessa solamente il ruolo della Banca, la quale dall’istruttoria risulta aver promosso l’investimento in diamanti, che si sarebbe poi concretizzato in un contratto tra investitori e IDB.

Segnalo due passaggi della sentenza veronese.

Nel primo, il giudice scrive (p. 15): <<La fonte della responsabilità della banca va invece individuata, come proposto in via alternativa dal ricorrente, nel rapporto che, come si è visto, è indubbiamente intercorso tra la e l’istituto di credito in relazione all’acquisto dei diamanti e nell’ambito del quale la prima, per le ragioni dette al termine del precedente paragrafo, ha posto affidamento in un dovere di diligenza gravante in capo al secondo, in virtù delle sue specifiche competenze professionali.

Di tale competenza la ….. che era abituale investitore attraverso la banca, non avrebbe potuto ragionevolmente dubitare, dato che l’opportunità dell’acquisto dei diamanti le era stata presentata dal proprio referente investimenti contestualmente e in collegamento all’offerta di prodotti finanziari (quote di fondi comuni di investimento) e la valutazione di forme alternative di impiego del risparmio rientra nel servizio di consulenza finanziaria offerto dal personale dell’istituto di credito ai propri clienti.

E’ appena il caso di evidenziare che il comportamento tenuto in concreto dalla banca ha tradito quell’affidamento e molto probabilmente, per una sorta di eterogenesi dei fini, ha anche pregiudicato quel risultato di fidelizzazione della clientela che la resistente si prefiggeva di realizzare collaborando con IDB.

Il rapporto intercorso tra le parti ha anche generato a carico di Banco Bpm un obbligo di informazione e di protezione nei confronti del cliente a salvaguardia dell’affidamento in lui generato e il suo fondamento normativo può essere individuato, come suggerito dalla difesa attorea, nel disposto dell’art. 1173 c.c. (sul punto si veda Cass., sez. un., 26 giugno 2007 n. 14712 in tema di fondamento della responsabilità della banca negoziatrice per avere consentito, in violazione delle specifiche regole poste dall’art. 43 legge assegni l’incasso di un assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità, a persona diversa dal beneficiario del titolo) e a tale conclusione non ostano le pronunce di merito prodotte dalla resistente, che non hanno esaminato tale questione poiché non era agitata in quei giudizi (la pronuncia del Tribunale di Milano dell’8 gennaio 2019 anzi ha evidenziato come la responsabilità della banca avrebbe potuto essere prospettata proprio sotto il profilo della violazione dell’obbligo di protezione).>>

In breve la Banca avrebbe violato un obbligo di informazione/protezione del cliente/investitore e dunque l’affidamento da questi riposto sulla professionalità e competenza della Banca stessa. Emerge dalla sentenza che l’investimento in diamanti era stato proposto dalla Banca al cliente/investitore in alternativa ad altri possibili e in sostituzione di un precedente investimento scaduto.

Sembra dunque che si sia trattato, secondo il giudice, di violazione di un obbligo e quindi di responsabilità contrattuale.

Bisogna però trovare la fonte di tale obbligo. Il giudice lo trova nell’art. 1173 cc..  L’affermazione lascia un pò perplessi, dato che la norma non pone obblighi ma si limita ad elencare le possibili fonti, quindi rinviando ad altre norme. Infatti così recita: <<art. 1173 (Fonti delle obbligazioni). Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformita’ dell’ordinamento giuridico>>.

Il giudice avrebbe quindi dovuto individuare uno specifico <<atto o fatto idoneo a produrre in conformita’ dell’ordinamento giuridico>> il dovere di informazione/protezione sub iudice.

Il che poteva avvenire, volendo restare come detto nella responsabilità contrattuale, tramite la teoria del dovere di protezione sorgente da un’obbligazione senza prestazione (meglio: rapporto obbligatorio senza obbligo primario di prestazione), fondato sull’affidamento, ogni volta che questo sia serio e cioè fondato sulla professionalità della controparte: principio generale, di cui la responsabilità precontrattuale sarebbe solo una manifestazione, e che non può essere limitato a questa. Questa è la tesi di C. Castronovo (seguito da A. Nicolussi, voce Obblighi di protezione, Enc. del dir., Annali, VIII, 664.) , esposta in più scritti, tra cui: C. Castronovo, Ritorno all’obbligazione senza prestazione, Eur. dir. priv., 2009, 679 ss, § 1 e § 4, pp. 680-681 e 694-699 ed ora C. Castronovo, Responsabilità civile, Giuffrè, 2018, 540-554. Castronovo trae dall’art. 1337 c.c. sulla c.d responsabilità precontrattuale un principio generale di tutela dell’affidamento, quando riposto in soggetti titolari di uno status professionale.

Oppure, non concordando su ciò (lo status professionale infatti non è alla base dell’art. 1337, come sarebbe invece necessario per ravvisare somiglianza a fini analogici: Lambo L. sia in Obblighi di protezione, CEDAM, 2007, 385 ss, spt. 390, che in La responsabilità del medico dipendente e il gioco dell’oca (obblighi di protezione c. alterum non laedere, Il Foro it., 2017, V, 242, § 5), si poteva prudentemente cercare l’estensione analogica di altre norme, come propone Zaccaria A. (ad es. in Contatto sociale e affidamento, attori protagonisti di una moderna commedia degli equivoci, in Principi, regole, interpretazione. contratti e obbligazioni, famiglie e successioni. Scritti in onore di Giovanni Furgiuele, a cura di G. Conte e S. Landini, Universitas Studiorum S.r.l. – Casa Editrice, 2017, 611 ss). Anche questo a. propone l’estensione dell’art. 1337 cc ma solo ai contatti negoziali e ai contatti simili a quelli negoziali (prestazioni per puro spirito di cortesia) (p. 615): per cui sul punto si avvicina molto alla tesi di Castronovo, la differenza dal quale allora sta nel fatto che secondo quest’ultimo dall’art. 1337 può trarsi un principio generale per cui l’affidamento va tutelato tramite l’obbligazione in tutti i casi “che mettono la sfera giuridica di ciascuna parte alla mercè di dell’altra” (Ritorno all’obbligazione senza prestazione, cit., 696-697).

Però il nostro caso riguarda bensì contatti in vista di una possibile stipula contrattuale, ma nei quali il soggetto, su cui è riposta la fides (banca), non è quello con cui il suo cliente eventualmente stipulerà (stipulerò infatti eventualmente l’IDB). Quindi si tratterebbe di estendere sotto il profilo soggettivo la regola del 1337 cc. Mi pare tuttavia che si possa procedere in tale senso: il venditore IDB non può pensare di sottrarvisi, delegando le trattative alla banca. Il cliente potrà infatti agire in risarcimento verso colui, che ha di fatto avuto di fronte durante le trattative stesse, se è stato costui a fornirgli informazioni inesatte e/o scorrette.

Non accettando ciò, si potrebbe restare nell’area del dovere violato, invocando la seconda parte della teoria di Zaccaria. Egli , infatti, per i contatti diversi sia da quelli negoziali che da quelli simili ai negoziali, propone la tutela dell’affidamento tramite l’obbligazione protettiva, solo quando si possa procedere con l’analogia da regole positivamente poste (Id., Contatto sociale e affidamento, cit., 617/8). E nel nostro caso la regola potrebbe essere ravvisata, se non l’art. 1337 cc., almeno nel dovere di  informazione a carico del mediatore (art. 1759 cc). Quest’ultimo è da tempo oggetto di applicazione estensiva, dato che lo si estende non solo alle circostanze (già) note al mediatore, ma anche a quelle che avrebbe potuto conoscere attivandosi diligentemente alla loro ricerca e comunque sempre dopo averle verificate (Giacobbe E., Il contratto di mediazione, Tratt. di dir. priv. dir. da Bessone, Giappichelli, 2015, 145-147).

Il che coprirebbe pure la tesi della Banca, secondo cui essa si sarebbe limitata a segnalare ad IDB l’interesse dei propri clienti all’investimento in diamanti, svolgendo quindi sostanzialmente una attività mediatoria.

Il secondo passaggio da segnalare concerne la possibile invocazione alternativa di altra responsabilità della banca. Il Tribunale infatti aggiunge:

<<Degli obblighi gravati su Banco Bpm può peraltro ravvisarsi, sulla base dei fatti di causa, anche una base contrattuale, con conseguente applicabilità dell’art. 1218 c.c., atteso che l’attività di vendita di beni preziosi, alla quale Banco Bpm ha sicuramente contribuito, può ricondursi al novero delle attività connesse a quella bancaria che l’art.8, comma 3, del D.M. Tesoro 6 luglio 1994 definisce come “attività accessoria che comunque consente di sviluppare l’attivita’ esercitata” aggiungendo che: “A titolo indicativo, costituiscono attivita’ connesse la prestazione di servizi di: a) informazione commerciale; b) locazione di cassette di sicurezza”.

Sulla base di tali indicazioni, da non considerarsi esaustive, possono ricondursi alle attività connesse anche la intermediazione nella conclusione di polizze rc auto o di compravendita di biglietti per eventi culturali o a musei e attrazioni varie, alle quali gli istituti di credito sono dediti da tempo.

In tale prospettiva viene allora in rilievo il consolidato indirizzo della Suprema Corte secondo cui nello svolgimento del rapporto contrattuale la buona fede implica non soltanto il rispetto della legge e delle pattuizioni contrattuali, ma altresì obblighi di protezione dell’altro contraente: in particolare sono dovute quelle cautele e attività ulteriori che, senza sacrificio eccessivo per una parte, consentono all’altra di conservare o conseguire le utilità nascenti dal contratto (c.d. buona fede integrativa, richiamata da Cass. 26 ottobre 2017, n. 25512; Cass. 7 novembre 2011, n. 23033 che parla in proposito di dovere di solidarietà contrattuale). E’ noto poi come la violazione degli obblighi informativi nella fase precontrattuale si traduca in una responsabilità contrattuale se il contratto si conclude>>.

Si può osservare che il DM 6 luglio 1994 parrebbe essere stato sostituito dal DM Economia e Finanze 17 febbraio 2009 n. 29 (v. art. 24); ma questo non è così importante, dato che la norma corrispondente -in entrambi casi, l’art. 8 c.3- non presenta variazioni.

Si può inoltre osservare quanto segue.

Una cosa  è capire se una certa attività costituisce o meno concessione di finanziamenti al pubblico e quindi se ricade o meno nella riserva soggettiva posta dall’art. 106 /1 TU credito, 385/1993. L’art. 8 esordisce infatti con <<1. Gli intermediari finanziari possono esercitare attività strumentali o connesse a quelle finanziarie svolte.>>. Altra cosa è se nel caso specifico vi sia stata o meno lo svolgimento di queste attività, con conseguenti eventuali obblighi protettivi generali dall’esecuzione secondo buona fede. Altra cosa ancora, infine, è capire la rilevanza dell’invocazione di tale norma: fermi i fatti storici, se la Banca non fosse stata autorizzata a tale attività , sarebbe venuta meno la possibilità di ravvisare nella fattispecie la violazione del dovere de quo?

Di quale dovere, poi? Il giudice scrive dei doveri di protezione dovuti da un contraente all’altro “nello svolgimento del rapporto contrattuale”. Qui però il contratto finale sarebbe stato stipulato con IDB, non con la Banca. Si torna quindi al ruolo della Banca da individuare al di fuori del rapporto contrattuale fonte di obblighi primari di prestazione: per cui resta da chiarire quale sia la diversa fonte di dovere contrattuale, prospettata in alternativa dal giudice.

In conclusione, circa questo secondo profilo, non è chiarissima nè la pertinenza della norma bancaria invocata dal Giudice nè la fonte del dovere di buona fede gravante sulla Banca, dato che il rapporto contrattuale si sarebbe instaurato solo con IDB