ll medico convenzionato col SSN, che interviene su un turista fuori sede, non perde la qualità di medico convenzionato, sicchpè del suo operato risponde l’ASL ex art. 1228 cc

Cass. sez. III, 04/03/2025 n. 5.673, rel. Rubino:

Premessa generale:

<<Va premesso che è principio ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che la ASL è responsabile, ai sensi dell’art. 1228 c.c., del fatto colposo del medico di base, convenzionato con il SSN, essendo tenuta per legge – nei limiti dei livelli essenziali di assistenza – ad erogare l’assistenza medica generica e la relativa prestazione di cura, avvalendosi di personale medico alle proprie dipendenze o in rapporto di convenzionamento (Cass. n. 14846 2024, Cass. n. 6243 2015).

L’affermazione si fonda sulla norma fondamentale di cui all’art. 25, comma 3, legge n. 833 del 1978 (“l’assistenza medicogenerica e pediatrica è prestata dal personale dipendente o convenzionato del servizio sanitario nazionale operante nelle unità sanitarie locali o nel comune di residenza del cittadino”).

Il soggetto pubblico, per l’adempimento dell’obbligazione di fornire l’assistenza medico-generica cui per legge è obbligato, si vale dell’opera del terzo, cioè di un esercente la professione sanitaria il quale non è dipendente del soggetto obbligato, ma costituisce personale “convenzionato” (in alternativa a quello “dipendente”, secondo l’indicazione fornita dall’art. 25, comma 3, legge n. 833 del 1978).

Trattasi, come precisa Cass. n. 14846 del 2024, di una fattispecie di responsabilità, identificata in sede interpretativa dalla giurisprudenza, che è stata poi recepita dal legislatore con l’art. 7 legge n. 24 del 2017 (“1. La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose. 2. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina”), secondo una linea di continuità fra l’interpretazione giurisprudenziale dell’ordinamento ed il successivo intervento legislativo, quale argomento ex post a sostegno della detta interpretazione (il primo comma del citato articolo 7 stabilisce chiaramente la correlazione fra la collocazione lavorativa dell’esercente ed il titolo di responsabilità per il dipendente vale l’art. 1218, per il non dipendente l’art. 1228).

Trattasi quindi di una ipotesi di responsabilità diretta della ASL, per fatto del proprio ausiliario>>.

Andando alla fattispecie de qua:

<<La peculiarità della fattispecie in esame è che il comportamento del medico denunciato come fonti di danni per la paziente non è stato tenuto dal medico di base della defunta signora Mo..   Sono queste le ipotesi che, finora, hanno condotto alla affermazione della responsabilità della ASL nei termini predetti, in cui cioè il rapporto tra paziente che fruisce del SSN e medico convenzionato, è un rapporto di durata che si instaura a mezzo della libera scelta del proprio medico di base, effettuata dall’utente iscritto al S.S.N. in un novero di medici già selezionati nell’accesso al rapporto di convenzionamento e in un ambito territoriale delimitato, rapporto inquadrato nell’ambito dei rapporti di lavoro autonomo “parasubordinati”.

Nel caso di specie, invece, il dottor Ch.Se. non era il medico di base della defunta signora Mo., che si trovava, ospite di una struttura alberghiera, a centinaia di chilometri dal suo luogo di residenza.

L’inquadrabilità del rapporto svolto nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale, e di conseguenza la configurabilità anche in questo caso di una responsabilità, diretta, della struttura sanitaria per il fatto del medico convenzionato suo ausiliario ha un suo autonomo fondamento normativo, che si rinviene nel quarto comma dell’art. 19 della legge n. 833 del 1978, che prevede “Gli utenti hanno diritto di accedere, per motivate ragioni o in casi di urgenza o di temporanea dimora in luogo diverso da quello abituale, ai servizi di assistenza di qualsiasi unità sanitaria locale.”

Come poi previsto dagli Accordi Collettivi nazionali di categoria, il medico convenzionato non è obbligato a prestare la propria opera in regime di assistenza diretta ai cittadini non residenti (che non siano suoi assistiti), ma se accetta di prestarla, in favore appunto dei cittadini che si trovino eccezionalmente al di fuori del proprio Comune di residenza, eroga una prestazione che si inquadra nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale, per la quale peraltro può ricevere anche un compenso, tariffato dall’accordo collettivo e in relazione alla quale la Ausl è responsabile per l’attività svolta dal medico, che si inquadra nell’ambito delle prestazioni del SSN erogate da medico con esso convenzionato in favore dei pazienti.

Tutto ciò premesso, e ritenuto che emergesse pacificamente che la signora Mo. si trovava ospite della struttura alberghiera per un soggiorno turistico e termale, che la stessa ebbe un malore, che fu chiamato un medico convenzionato con la ASL che visitò in due diverse occasioni la paziente prescrivendo una terapia, cioè l’astratta riconducibilità della situazione all’ipotesi di cui all’art. 19, quarto comma della legge n. 833 del 1978, cui consegue come in tutti i casi di prestazione erogata dal medico del Servizio Sanitario nazionale con conseguente instaurazione di un contatto sociale tra medico e paziente la responsabilità della ASL ex art. 1228 c.c., deve ritenersi che incombesse sulla ASL provare il fatto estintivo dell’altrui pretesa, ovvero che il medico intervenne non quale medico convenzionato ma puramente come libero professionista, del quale l’albergo intendeva avvalersi a favore della ospite che ne aveva necessità. Non può invece ritenersi che gravi sulla paziente – o sui suoi congiunti, come in questo caso – provare che non esistessero elementi atti a dimostrare che la prestazione erogata, riconducibile in una prestazione sanitaria a carico del Servizio sanitario nazionale non fosse stata invece resa ad altro titolo>>.

Coordinamento tra responsabilità per danno da emotrasfusione infetta e indennizzo ex L. 210/92: quando può operare la compensazione lucri cum damno

Cass. sez. III, ord. 14/12/2024 n. 32.550, rel. Vincenti:

<<L’orientamento ormai consolidato di questa Corte (tra le altre: Cass. n. 20909/2018; Cass. n. 8866/2021; Cass. n. 7345/2022; Cass. n. 16808/2023; Cass. n. 2840/2024) è nel senso che: a) l’eccezione di compensano lucri cum damno è un’eccezione in senso lato, configurandosi, quindi, come mera difesa in ordine all’esatta entità globale del pregiudizio effettivamente patito dal danneggiato e, come tale, è rilevabile d’ufficio e il giudice, per determinare l’esatta misura del danno risarcibile, può fare riferimento, per il principio dell’acquisizione della prova, a tutte le risultanze del giudizio; b) la compensano non può operare qualora manchi la prova – di cui è onerata la parte che la eccepisce – che la somma sia stata corrisposta e tantomeno sia determinata o determinabile, in base agli atti di causa, nel suo preciso ammontare; c) sono, dunque, soggette a compensazione non soltanto le somme già percepite al momento della pronuncia, ma anche le somme da percepire in futuro, in quanto riconosciute e, dunque, liquidate e determinabili; d) il giudice di merito può a tal fine anche avvalersi del potere officioso di sollecitazione presso gli uffici competenti e ciò, segnatamente, quando la percezione dell’indennizzo non sia negata.

Di tali principi, pur in parte richiamati a sostegno della decisione, non ha fatto buon governo la Corte territoriale, erroneamente negando la detraibilità dall’importo risarcitorio riconosciuto al Ch.Ad. (euro 151.725,00) delle somme a titolo di indennizzo che il medesimo ha avuto corrisposte dopo il 31 dicembre 2016 e che avrebbe percepito successivamente in misura sicuramente determinabile.

E ciò alla luce di quanto già emergeva dalle risultanze in atti (valorizzate dal primo giudice e di cui lo stesso giudice di appello ha fatto solo parziale uso), ossia la prova acquisita non solo del complessivo importo indennitario ex lege n. 210/1992 già percepito dallo stesso Ch.Ad. (e, dunque, riconosciuto ed erogato in base a parametri di fonte normativa comunque accertabili), ma anche, e decisivamente, dell’importo annuo – euro 9.167,40 – che gli era stato corrisposto al medesimo titolo nel 2016 (cfr. p. 4 della sentenza di primo grado n. 39/2017 del Tribunale di Lecce)>>.

Altro precedente (da me postato qui) è Cass. 4.415/23024, rel. Scoditti.

Il nesso di causalità (“più probabile che non”) nella morte del lavoratore, provocata da tumore polmonare da esposizione prolungata all’amianto

Cass. sez. III, ord. 05/11/2024 n. 28.458, rel. Rubino:

<<Il ragionamento che fa la Corte d’Appello muove dall’accertamento delle circostanze di fatto indicate, tutte rilevanti, ma esclude, sulla base del parere dell’ultimo esperto consultato, che la patologia contratta dalla vittima fosse qualificabile come mesotelioma pleurico, e sulla base di ciò nega che sia stata fornita la prova, seppur sulla base di un ragionamento probabilistico, del nesso di causalità, concludendo nel senso che l’evento lesivo sia dovuto a causa incerta.

L’equazione che risolve la Corte d’Appello è errata, in quanto l’accertamento della non riconducibilità della patologia per cui è morto il Vi.St. alla tipologia del mesotelioma pleurico, la più frequente e caratteristica patologia derivante dall’esposizione all’amianto, qualificata pertanto come malattia professionale, non esclude che la morte per tumore ai polmoni del Vi.St. sia stata causata da una malattia contratta in ambito lavorativo, e non la esimeva dal dover verificare se, in presenza di quelle circostanze di fatto attestanti l’esposizione al rischio in ambito lavorativo, ed in assenza di altri fattori esterni di esposizione accentuata al rischio di patologia tumorale polmonare, si dovesse ritenere più probabile che non che la morte del Vi.St. fosse da porre in rapporto causale con l’attività lavorativa svolta e con l’esposizione al contatto e all’ingerimento della polvere di amianto.

Alle medesime conclusioni è già giunta, peraltro, la Sezione Lavoro della Corte, che ha esaminato il ricorso degli eredi del Vi.St. avente ad oggetto le domande proposte iure hereditatis dagli attuali ricorrenti in relazione alla morte del padre: la Sezione lavoro della Corte, con ordinanza n. 18050/2024 (in R.G. 18847/2022), pubblicata il 1.7.2024, in accoglimento del ricorso di Gh.Pa. e Stefano Vi.St., ha cassato la sentenza n. 684/2021 della Corte d’Appello di Venezia, Sezione lavoro, rinviando alla medesima corte in diversa composizione “per l’accertamento del nesso causale in relazione al motivo accolto”, oltre che per le spese del giudizio.

La Corte d’Appello, infatti, ha erroneamente seguito il ragionamento dell’ausiliario nominato dal Tribunale, secondo cui l’unica diagnosi puntuale sarebbe stata quella fondata sull’esame istologico, nel caso concreto non eseguito. Orbene tale criterio valutativo è errato, perché incentrato sulla certezza causale, laddove il criterio da utilizzare è quello del “più probabile che non”, sicché il fattore causale è rilevante anche in termini di concausalità, in forza del principio di equivalenza delle cause posto dall’art. 41 c.p.

In particolare, questa Corte ha già affermato che, ai sensi dell’art. 41 c.p., il rapporto causale tra l’evento e il danno è governato dal principio di equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, potendo escludersi l’esistenza nel nesso eziologico richiesto dalla legge solo se possa essere ravvisato con certezza l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, di per sé sufficiente a produrre l’infermità e tale da far degradare altre evenienze a semplici occasioni (Cass. n. 27952/2018; Cass. n. 6105/2015). In applicazione di questo principio questa Corte ha coerentemente affermato che in tema di risarcimento del danno, il nesso causale tra l’esposizione ad amianto e il decesso intervenuto per tumore polmonare può ritenersi provato quando, sulla scorta delle risultanze scientifiche e delle evidenze già note al momento dei fatti e secondo il criterio del “più probabile che non”, possa desumersi che la non occasionale esposizione all’agente patogeno – in relazione alle modalità di esecuzione delle incombenze lavorative, alle mansioni svolte e all’assenza di strumenti di protezione individuale – abbia prodotto un effetto patogenico sull’insorgenza o sulla latenza della malattia (Cass. ord. n. 13512/2022). Quindi per affermare il nesso causale non occorre necessariamente identificare la patologia tumorale in termini di “mesotelioma”, come invece ha ritenuto la Corte d’Appello. Il nesso causale può sussistere anche rispetto ad un tumore polmonare di tipo diverso, purché ricorrano tutti gli altri elementi di valutazione causale sopra detti, in primo luogo la non occasionale esposizione all’agente patogeno, poi le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, l’assenza di strumenti di protezione individuale, l’assenza di fattori estranei all’attività lavorativa, di per sé sufficienti a produrre l’infermità e tale da far degradare gli altri fattori a semplici occasioni. Questi accertamenti e le correlate valutazioni sono stati completamente omessi dalla Corte territoriale, la cui decisione, dunque, si traduce in violazione dell’art. 41 c.p. e pertanto va cassata con rinvio per un nuovo apprezzamento dell’esposizione a polveri di amianto e della sua rilevanza causale o concausale nell’eziologia della patologia del de cuius e poi del suo decesso>>.

Il principio di diritto: “Accertata la presenza di uno di fattori di rischio (nel caso di specie l’esposizione all’amianto), che scientificamente si pongono come idonei antecedenti causali della malattia, prima, e del decesso, poi, va affermata la sussistenza del nesso di causalità tra quel fattore di rischio e la malattia e quindi il decesso, anche eventualmente in termini di concausalità, in presenza di non occasionale esposizione all’agente patogeno, determinate modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, assenza di strumenti di protezione individuale, salvo che sussista altro fattore, estraneo all’attività lavorativa e/o all’ambiente lavorativo, da solo idoneo a determinare la malattia e/o, poi, il decesso” .

Non banali precisazioni su come condurre il giudizio controfattuale circa un intervento chirurgico troppo rischioso

Cass. Sez. III, Ord. 27/09/2024, n. 25.825, rel. Cricenti:

Sull’errore del secondo giudice:

<<In particolare, è fondato il terzo motivo, che denuncia un errore nel ragionamento controfattuale di accertamento del nesso di causalità, il quale errore è altresì dipeso dal difetto di valutazione denunciato negli altri due motivi.

In sostanza, la Corte di merito ha escluso la rilevanza causale della scelta di procedere all’intervento chirurgico e lo ha fatto con un ragionamento controfattuale del tutto errato, in quanto ha ritenuto che, ove fosse stato evitato l’intervento chirurgico, e ove si fosse optato per un intervento non invasivo o conservativo, quest’ultimo non avrebbe comunque sortito i suoi effetti così come era già accaduto in passato.

Intanto, questo ragionamento controfattuale è chiaramente viziato, come denunciato con il secondo motivo, da omesso esame di fatti rilevanti e decisivi, vale a dire della circostanza che, non solo e non tanto il CTU aveva ritenuto non necessario l’intervento chirurgico e preferibile un intervento di tipo conservativo, ma altresì della circostanza che un medico precedentemente intervenuto, ossia l’ortopedico D.D., aveva anch’egli sconsigliato l’intervento chirurgico e ritenuto invece più opportuno un intervento non invasivo.

Inoltre, il ragionamento effettuato dai giudici d’appello, secondo cui l’intervento chirurgico era maggiormente indicato in quanto quello conservativo non aveva prodotto in passato gli effetti sperati, è anch’esso viziato da omesso esame di un fatto rilevante, omissione da cui deriva contraddittorietà di giudizio, in quanto non si è tenuto conto del fatto che anche l’intervento chirurgico, che pure in precedenza era stato effettuato, non aveva prodotto, al pari di quello conservativo, gli effetti sperati.

Ma soprattutto, l’errore di ragionamento controfattuale sta nel fatto che l’efficacia causale dell’antecedente, ossia la scelta del tipo di intervento da effettuare, se chirurgico o meno, non andava valutata rispetto all’evento guarigione, ma rispetto all’evento concretamente verificatosi di danno permanente subìto dal paziente>>.

Per poi precisare:

<< In altri termini, il giudizio controfattuale andava effettuato chiedendosi se l’intervento conservativo, in luogo di quello chirurgico, avrebbe evitato o meno i danni permanenti al paziente, piuttosto che chiedersi se l’intervento conservativo avrebbe sortito effetti benefici per l’interessato guarendolo dalla patologia.

Nell’accertamento del nesso causale, infatti, la condotta alternativa lecita va messa in relazione all’evento concretamente verificatosi, e di cui si duole il danneggiato, e non già rispetto ad un evento diverso: se il danno di cui ci si lamenta è costituito dalla paralisi permanente, l’indagine causale va effettuata ponendo in relazione questo danno con la condotta alternativa lecita, ossia chiedendosi se tale danno era evitabile sostituendo la condotta posta in essere con una condotta alternativa. Invece, i giudici di appello, come si è detto prima, hanno effettuato l’indagine controfattuale considerando quale evento non già il danno subìto, ma l’inefficacia terapeutica del trattamento, e dunque un evento diverso, di cui il ricorrente non si duole. Non v’è dubbio che non guarire dalla lombosciatalgia è evento diverso dal subire la paralisi: ed occorreva chiedersi se, evitare l’intervento, avrebbe evitato la paralisi. L’evento che, per il ricorrente, ha costituito danno è, per l’appunto, la paralisi, non la mancata guarigione dalla lombosciatalgia, e dunque la questione causale è conseguente: stabilire se la condotta alternativa lecita avrebbe evitato quell’evento, non altro (la mancata guarigione dalla lombosciatalgia).

In altri termini, il ragionamento controfattuale, come svolto dai giudici di appello, può esprimersi nel modo seguente: “il trattamento conservativo non era necessariamente da preferire in quanto già in passato si era dimostrato inefficace”, quando invece l’assunto del ricorrente era: “il trattamento conservativo era da preferire in quanto avrebbe evitato i danni permanenti, poco importando la sua efficacia curativa”.

Il giudizio controfattuale consiste nella verifica della fondatezza di questa seconda proposizione linguistica, non della prima.

Come è evidente, l’efficacia causale della condotta alternativa lecita, ossia del trattamento conservativo, che era richiesto di accertare, non era quella di comportare la guarigione ma quella ben diversa di evitare il danno permanente.

Detto in termini semplici: il consiglio dato dagli altri medici di non fare l’intervento chirurgico, bensì trattamenti meno invasivi, non necessariamente era giustificato dalla maggiore efficienza di questi ultimi, ma ben poteva essere giustificato dalla minore rischiosità di essi, che è cosa ben diversa anche sul piano della individuazione dell’evento rispetto a cui effettuare il giudizio controfattuale.

E dunque la corte di merito avrebbe dovuto valutare se la condotta alternativa lecita (trattamento meno invasivo) era da pretendersi a prescindere dalla sua efficacia sulla patologia in corso, ma per via del fatto che garantiva, a differenza di quella di fatto tenuta, di evitare il rischio: se cioè vi sia stata colpa nella scelta dell’intervento chirurgico alla luce di tale previsione.

Né può dirsi che si tratta di un giudizio di fatto, qui non censurabile, in quanto è in gioco il criterio con cui si accerta il fatto, ossia il criterio con cui si accerta se l’evento sia riconducibile ad un antecedente colposo>>.

 

Accettare di essere trasportato da un conducente ubriaco non è necessariamente concorso di colpa: opera infatto l’art. 13 della dir. UE 2009/103

Cass. Sez. III, Ord.  17/09/2024, n. 24.920, rel. Rossetti:

<<4. Vanno, in conclusione, affermati i seguenti princìpi di diritto nell’interesse della legge:

(a) “l’art. 1227, comma primo, c.c., interpretato in senso coerente con la Direttiva 2009/103, non consente di ritenere, in via generale ed astratta, che sia sempre e necessariamente in colpa la persona la quale, dopo aver accettato di essere trasportata a bordo d’un veicolo a motore condotto da persona in stato di ebbrezza, rimanga coinvolta in un sinistro stradale ascrivibile a responsabilità del conducente. Una simile interpretazione infatti contrasterebbe con l’art. 13, par. 3, della Direttiva 2009/103, nella parte in cui vieta agli Stati membri di considerare “senza effetto”, rispetto all’azione risarcitola spettante al trasportato, “qualsiasi disposizione di legge (…) che escluda un passeggero dalla copertura assicurativa in base alla circostanza che sapeva o avrebbe dovuto sapere che il conducente del veicolo era sotto gli effetti dell’alcol”. Spetterà dunque al giudice di merito valutare in concreto, secondo tutte le circostanze del caso, se ed in che misura la condotta della vittima possa dirsi concausa del sinistro, fermo restando il divieto di valutazioni che escludano interamente il diritto al risarcimento spettante al trasportato nei confronti dell’assicuratore del vettore”;

(b) “l’accertamento della esistenza e del grado della colpa della persona che, accettando di farsi trasportare da un conducente in stato di ebbrezza, patisca danno in conseguenza d’un sinistro stradale, è apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se rispettoso dei parametri dettati dal primo comma dell’art. 1227 c.c.” >>.

Danno da consenso non informato e danno da nascita indesiderata: distinzione tra le due violazioni

Cass. sez. III, ord. 19/06/2024  n. 16.967, rel. Spaziani:

<<8.1. Questa censura è fondata.

Con essa viene dedotta la violazione del diritto dei genitori ad essere informati, non in funzione dell’esercizio del diritto di autodeterminarsi in ordine alla scelta abortiva spettante alla madre, ma in vista della predisposizione ad affrontare consapevolmente l’evento doloroso della nascita malformata.

Viene, dunque, posta in evidenza la rilevanza autonoma dell’informazione, non in quanto strumentale ad orientare la scelta abortiva, ma in quanto idonea ex se a consentire di evitare o mitigare la sofferenza conseguente al detto evento, ad es., mediante il tempestivo ricorso ad una terapia psicologica o la tempestiva organizzazione della vita in modo compatibile con le future esigenze del figlio o anche, semplicemente, attraverso la preventiva acquisizione della consapevolezza della prossima nascita di un figlio malformato, in modo da prepararsi tempestivamente ad essa.

Questa Corte ha già più volte affermato (v. Cass. 26/06/2019, n. 16892; Cass. 26/05/2020, n. 9706; Cass. 31/01/2023, n. 2798) – e al principio deve darsi continuità – che dalla lesione, sotto tale profilo, del diritto all’informazione, possono derivare alla gestante (e possono essere accertate anche presuntivamente) conseguenze dannose non patrimoniali risarcibili, se non sotto il profilo esteriore dinamico-relazionale, quanto meno sotto il profilo della sofferenza interiore, dovendo presumersi che la possibilità, conseguente alla corretta informazione, di predisporsi ad affrontare consapevolmente le conseguenze di un evento particolarmente gravoso sul piano psicologico oltre che materiale, consenta con ogni evidenza di evitare o, almeno, di limitare la sofferenza ad esso conseguente, la quale è tanto più intensa quanto più inattesa a causa dell’omessa informazione.

Deve allora reputarsi illegittima, sia perché contra ius sia perché illogicamente motivata, la statuizione con cui la Corte d’appello – sul presupposto che la sofferenza psichica dei genitori sarebbe stata la medesima a prescindere dal tempestivo adempimento dell’obbligo informativo – ha rigettato la domanda di risarcimento del danno morale della gestante conseguente al trauma determinato dall’apprendere delle malformazioni del figlio al momento della nascita, dopo che, durante il periodo della gestazione, essa era stata rassicurata circa il normale stato di salute del feto>>.

Ribadisce poi la disciplina consueta della responsabilità per il c.d. danno da nascita indesiderata:

<< In primo luogo, deve escludersi il dedotto vizio di ultrapetizione, dal momento che la prova di cui la Corte d’appello ha reputato la mancanza attenesse ad un fatto costitutivo della domanda.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, infatti, stabilito che “in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza -ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale; quest’onere può essere assolto tramite “praesumptio hominis”, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualsivoglia ragione personale” (Cass., Sez. Un., 22 dicembre 2015, n. 25767).

Oltre alla prova che, se fosse stata debitamente informata, la gestante avrebbe abortito, nell’ipotesi in cui – come nella fattispecie – l’aborto avrebbe dovuto essere praticato dopo i 90 giorni dall’inizio della gravidanza, la parte attrice deve anche fornire l’ulteriore dimostrazione della sussistenza di un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, requisito imposto dall’art. 6, lett. b), della l. n. 194 del 1978 (cfr., ad es., Cass. 15 gennaio 2021, n. 653 e, in precedenza, Cass. 11/04/2017, n. 9251, la quale ha anche affermato che la mancanza della mano sinistra del nascituro non è una malformazione idonea a determinare tale grave pericolo).

Dunque, nel porre la questione relativa alla prova di tali due circostanze, la Corte d’Appello non è andata ultra-petita ma ha indagato sulla sussistenza dei fatti costituitivi della domanda, ponendosi il problema del riparto dell’onere della prova e risolvendolo correttamente nel senso che esso gravasse sugli attori>>.

La responsabilità contrattuale nel danno da caduta sugli sci perchè la pista era ghiacciata

Interessanti ed approfonditi insegnamenti sulla responsabilità contrattuale in Cass. sez. III, ord.  09/05/2024 09/05/2024 n. 12.760, rel. Gorgoni (ometto per brevità quelli sulla responsabilità da cose in custodia ex art. 2051, di analogo livello):

<<La previsione dell’art. 1218 cod. civ., difatti, esonera il creditore dell’obbligazione asseritamente non adempiuta dall’onere di provare la colpa del debitore [NO: ancora con la vecchia teoria della necessità di colpa, bastando invece la negligenza!], ma non da quello di dimostrare il nesso di causa tra la condotta del debitore e l’inadempimento, fonte del danno di cui si chiede il risarcimento.

Non deve trarre in inganno la giurisprudenza di questa Corte che, operando una distinzione tra (inadempimento di) prestazioni professionali e (inadempimento di) di altre obbligazioni, ritiene quanto a queste ultime assorbito il nesso di derivazione causale nell’inadempimento. Questa Corte ha precisato che, sebbene nesso di causa ed imputazione della responsabilità non siano teoricamente coincidenti, perché un conto è collegare la condotta all’evento di danno (causalità materiale) e l’evento di danno alle conseguenze pregiudizievoli (causalità giuridica), altro conto è il criterio di valore che collega un effetto giuridico ad una determinata condotta, rappresentato, nel campo della responsabilità contrattuale, dall’inadempimento, nel caso di responsabilità di cui all’art. 1218 cod. civ. l’inadempimento si sostanzia nel mancato soddisfacimento dell’interesse dedotto in obbligazione, sicché il giudizio di causalità materiale non è di norma distinguibile praticamente da quello relativo all’inadempimento. Il che comporta che a carico del creditore della prestazione gravi soltanto l’onere di provare la causalità giuridica, mentre l’inadempimento che “assorbe” (ma non elide, sul piano concettuale, poiché – diversamente opinando – non avrebbe alcun senso la norma di cui all’art. 1227, 1° e 2° comma cod. civ.) la causalità materiale deve essere solo allegato. Nel caso di prestazioni professionali, invece, ove l’interesse dedotto in obbligazione assume carattere strumentale rispetto all’interesse del creditore, causalità ed imputazione tornano a distinguersi. L’inadempimento è rappresentato dalla violazione delle leges artis, ma questo non significa automaticamente lesione dell’interesse presupposto, il quale potrebbe restare insoddisfatto per cause autonome rispetto all’inadempimento della prestazione professionale. Pertanto, al creditore della prestazione non basterà affatto allegare l’inadempimento della prestazione professionale, ma occorrerà anche che egli provi che l’inadempimento abbia provocato la lesione l’interesse presupposto. Ecco allora che la causalità materiale non è soltanto causa di esonero da responsabilità del debitore, ma anche elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità. Al creditore non basterà allegare l’inadempimento della prestazione professionale, ma egli sarà tenuto a dimostrare il nesso di causalità materiale (oltre al nesso di causalità giuridica tra l’evento e il danno). Soltanto a questo punto sorgono gli oneri probatori a carico del debitore, chiamato a provare di avere adempiuto, ovvero che l’inadempimento è riconducibile ad una causa a lui non imputabile, ex art. 1218 cod. civ. (Cass. 11/11/2019, n. 28991 e successiva giurisprudenza conforme).

Ora, “l’assorbimento” di cui parla questa Corte e da cui il ragionamento fin qui condotto ha preso le mosse non significa che si possa predicare l’irrilevanza del nesso di causa nemmeno in punto di ricadute di carattere processuale – distribuzione dell’onere della prova -. L’assorbimento deve intendersi (non diversamente da quanto accade in altri ordinamenti a noi vicini, come quello tedesco, in seno al quale la giurisprudenza discorre di Anscheinsbeweis ossia di prova auto-evidente) come prova evidenziale dell’esistenza del nesso di causa, giustificata dal fatto che quel nesso, di norma, non è funzionalmente scindibile dall’inadempimento, in quanto quest’ultimo si sostanzia nella lesione dell’interesse del creditore che a sua volta identifica l’evento di danno.

Se così è, e quindi se di norma la causalità materiale è immanente all’inadempimento del contratto, sì da ritenere che, allegando l’inadempimento, il creditore soddisfa gli oneri probatori posti a suo carico, ciò non significa né che il nesso di causa si dissolva in una impredicabile dimensione di inesistenza, prima ancora che di irrilevanza (come non condivisibilmente sostenuto da quella parte di dottrina che, palesemente dimentica dell’esistenza, prima ancora che del significato, dell’art. 1227 cod.civ., ne liquida la portata precettiva con qualche arguto illusionismo semantico), né che il creditore sia esonerato dall’onere di provarlo, ma solo che il fatto (socialmente tipico) di un evento dannoso verificatosi vale a giustificare l’assunzione in chiave presuntiva di tale nesso, con la conseguenza che grava sulla parte che si assume inadempiente (o non esattamente adempiente) l’onere di fornire la prova positiva dell’avvenuto adempimento (o della relativa impossibilità per causa alla stessa non imputabile), rimanendo in ogni caso fermo il principio generale codificato dall’art. 2697 cod. civ. (Cass. 19/02/2024, n. 2114; Cass. 31/03/2021, n. 8849). Questi principi, proprio di recente, sono stati applicati con riferimento alle prestazioni di facere degli insegnanti in relazione alla sorveglianza degli alunni affidati alle loro cure; questa Corte ha statuito che “la descrizione di misure di vigilanza o di controllo dei comportamenti dei minori che appaiono di per sé tali – di regola e ove normalmente osservate – a garantire la minimizzazione dei rischi connessi alla verificazione di conseguenze dannose o, quantomeno, delle conseguenze dannose maggiormente o più agevolmente prevedibili” costruiscono regole e “modelli di adempimento contrattuale (o, più in generale, di adempimento delle obbligazioni caratterizzate dalla descritta tipicità sociale) la cui prefigurazione vale a riflettersi, sul piano processuale, da un lato, nella corrispondente tipicità sociale dei modelli di diligenza imposti dall’art. 1176, co. 1, c.c. …e, dall’altro, nella più agevole individuabilità, da parte del giudice (in caso di contrasto tra le parti) di elementi rappresentativi di carattere presuntivo suscettibili di corroborare, sul piano critico, la ricostruzione dei fatti di causa” (Cass. 19/01/2024, n. 2114).

Per completezza di indagine, sia pur nei limiti di una motivazione che non consente ulteriori digressioni (pur necessarie), va chiarito che tale conclusione non è affatto in contrasto (come pure, del tutto erroneamente, ipotizzato in dottrina) con i principi di cui a Cass. Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533, come è provato dal fatto che le stesse Sezioni Unite, con la decisione n. 577 dell’11/01/2008, hanno affermato un principio ulteriore che non riguarda la distribuzione tra le parti del contratto dell’onere della prova dell’inadempimento o dell’inesatto adempimento (sent. n. 13533/2001), ma quello della prova del nesso di causalità tra l’azione e l’omissione imputabile e l’evento di danno: l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello, “qualificato”, che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno. Allegare un inadempimento efficiente, vale a dire astrattamente idoneo a produrre il danno, implica la prova, sia pur soltanto presuntiva, del nesso di causalità materiale. Detto principio – si ribadisce – non solo non contrasta con quello enunciato nel 2001, perché il principio della maggiore vicinanza della prova che lo aveva ispirato non appare predicabile con riguardo al nesso causale fra la condotta dell’obbligato e l’evento di danno, rispetto al quale non può che valere il principio che onera l’attore della prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, trattandosi di elementi egualmente “distanti” da entrambe le parti, ma ne costituisce lo sviluppo con riguardo ad un profilo, quello della prova del nesso causale, di cui la pronuncia del 2001 non si era interessata.

Tornando alla vicenda per cui è causa, deve rilevarsi che due giudici di merito hanno ritenuto non soddisfatto, da parte del ricorrente, l’onere probatorio relativo al nesso causale tra la condotta del gestore della pista e l’evento di danno, perciò nessuna censura può essere mossa alla sentenza impugnata che ha correttamente applicato, dopo aver altrettanto correttamente qualificato la fattispecie in esame, la distribuzione dell’onere della prova derivante dall’applicazione dell’art. 1218 cod. civ. in combinato disposto con l’art. 2697 cod. civ.

Il nesso di causa ben avrebbe potuto essere dimostrato come poc’anzi osservato, attraverso il ricorso alle presunzioni, ma il ricorrente, che pure censura la sentenza impugnata per non aver tratto dai fatti di causa gli elementi per ritenere provato il fatto ignoto, non confuta efficacemente sul punto la decisione della Corte territoriale. Le sue critiche sono del tutto generiche ed assertive e si appuntano sostanzialmente sull’esito della valutazione delle prove raccolte. Chi ricorre in cassazione dolendosi del mancato ricorso da parte del giudice del ragionamento presuntivo non può limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva non conduca necessariamente all’esito interpretativo raggiunto nei gradi inferiori; pertanto, chi censura un ragionamento presuntivo o il mancato utilizzo di esso non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice del merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento (ex plurimis cfr. Cass. 02/11/2021, n. 31071) e tanto è mancato nel caso di specie.

Responsabilità contrattuale della Scuola per il danno cagionato dall’alunno a sè stesso

Cass. sez. III, ord. 27/05/2024  n. 14.720, rel. Cricenti:

<<E’ noto che la responsabilità per i danni causati dall’alunno a se stesso è di tipo contrattuale (da ultimo Cass. 2114/ 2024), con la conseguenza che spetta al convenuto, e dunque al Ministero, la prova della non imputabilità del danno, prova che può essere fornita ovviamente anche per presunzioni.

Il Ministero ha dimostrato di avere allegato elementi presuntivi da cui desumere l’imprevedibilità ed inevitabilità del danno, che la decisione impugnata non ha tenuto in alcuna considerazione e che invece erano significativi, non da ultima la circostanza che l’alunno era inciampato di suo in una sedia, della impossibilità di prevedere ed evitare che costui si facesse male>>.

Di dubbia esattezza la prima parte del passo riportato.

Se è cotnrattujale , spetta al danneggiato  allegare (se non anche provare) un inadempimento: solo in rtale caso il convenuto devitore dovrà difendersi. Non è chiarito se ciò sia vvenuto nel caso sub iudice

Sul danno da indisponibilità dell’immobile

Cass .  sez. III, ord. 17/04/2024 n.  10.477, rel. Gianniti:

<<In ogni caso, con recente arresto nomofilattico, le Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 33645/2022), sia pure occupandosi della diversa ipotesi del danno da occupazione illegittima di immobile, hanno reso chiarimenti direttamente rilevanti anche nel presente giudizio con riferimento alla morfologia ed alla risarcibilità del danno comunque derivante da un fatto che renda impossibile, a chi ne abbia diritto, il godimento dell’immobile e di trarne guadagno.

Con precipuo riferimento alla violazione del diritto di proprietà è stato in quella sede evidenziato che l’evento lesivo può attingere la cosa oggetto del diritto ovvero direttamente il contenuto del diritto stesso.

In entrambi i casi, ai fini dell’attivazione della tutela risarcitoria, è necessario si configuri una perdita o un mancato guadagno che rappresentino conseguenza immediata e diretta dell’illecito, alla stregua dell’art. 1223 c.c.

Nel secondo caso (evento lesivo incidente sul contenuto del diritto) può configurarsi un«danno risarcibile (…) rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione». È, questo, un danno emergente che si configura anche nell’ipotesi in cui si alleghi che detto godimento sarebbe stato concesso a terzi contro un corrispettivo corrispondente ai frutti civili. In questo caso, il criterio di liquidazione equitativa utilizzabile è omogeneo, attestandosi sul valore locativo di mercato, che rappresenta – per l’appunto – il controvalore convenzionalmente attribuito al godimento alla stregua della tipizzazione normativa del contratto di locazione.

Al lucro cessante afferiscono, invece, quelle perdite di occasioni di guadagno«da collegare non al contenuto del diritto previsto dall’art. 832 c.c., ma alla titolarità del diritto», espressioni«della possibilità di alienare quale caratteristica di tutti i diritti patrimoniali» (pag. 10). Si tratta, in concreto, del danno conseguente alla impossibilità di vendere l’immobile o locarlo a un canone superiore a quello di mercato, il quale necessita«di prova specifica, anche in via presuntiva» (pag. 11).

Dal punto di vista processuale, all’allegazione, da parte dell’attore, di una delle voci di danno suddette potrà contrapporsi la (specifica) contestazione del convenuto, la quale attiverà, in capo all’attore stesso, l’onere di provare il fatto costitutivo del risarcimento, se del caso mediante il ricorso alle presunzioni ovvero alle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. Oggetto di prova sarà, a seconda dei casi, la perdita della possibilità di godimento (diretto o indiretto), ovvero di alienazione o concessione in locazione del bene a canone maggiore di quello medio di mercato. Non potendo operare il meccanismo della non contestazione per i fatti ignoti al convenuto, la necessità di prova diretta da parte dell’attore – afferma la ricordata pronuncia delle Sezioni Unite – sarà statisticamente più frequente nell’ipotesi in cui il pregiudizio invocato assuma le forme del mancato guadagno (ove la prova potrà atteggiarsi sulla falsariga di quella del maggior danno, di cui all’art. 1591 c.c.); mentre, qualora a venire in questione sia il danno emergente, si assisterà,«a una maggiore frequenza dell’onere del convenuto di specifica contestazione della circostanza di pregiudizio allegata e ad una minore frequenza per l’attore dell’onere di provare la circostanza in discorso, data la tendenziale normalità del pregiudizio al godimento del proprietario a seguito dell’occupazione abusiva» (pag. 26).

Alla stregua di tali principi, ai quali il Collegio intende assicurare continuità, deve potersi puntualizzare che il danno diretto risarcibile da indisponibilità dell’immobile possa individuarsi nella soppressione o compressione della specifica facoltà di esercizio del diritto di goderne, che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione: sicché a tale concetto deve intanto riferirsi la soppressione o compressione della possibilità di estrinsecazione delle facoltà normalmente inerenti alla disponibilità della cosa, in relazione all’uso al quale sarebbe stata destinata anche direttamente ed immediatamente dal titolare del diritto ad essa e delle quali questo si è visto, pertanto, illegittimamente privato; con la conseguenza che il godimento diretto, la cui perdita sia suscettibile di risarcimento, va identificato nella facoltà del titolare di fruirne direttamente e di ritrarne le utilità congruenti alla destinazione del bene quali ricavabili dalla sua intrinseca struttura o da altri univoci e riconoscibili elementi.

Orbene, i suddetti principi appaiono applicabili al caso di specie, nel quale:

a) il ricorrente è per l’appunto la persona fisica proprietaria dell’immobile e, quindi lo stesso soggetto titolare del diritto al risarcimento del danno, rappresentando l’indisponibilità del bene un danno conseguenza del fatto impeditivo dell’indisponibilità dell’immobile per fatto altrui;

b) a tale riguardo, il ricorrente ha allegato: di aver contratto un mutuo per l’acquisto dell’immobile e di aver per esso chiesto l’applicazione delle agevolazioni fiscali previste per l’acquisto della prima causa; che l’immobile demolito era destinato a sua abitazione; di aver ottenuto il permesso a costruire e di averne chiesto la proroga; che anche quest’ultima era scaduta e che la nuova costruzione non è assentibile in base al nuovo PUC nelle more varato dal Comune di Poggiomarino; che, a causa dell’opposizione degli Annunziata, non riesce a ricostruire l’immobile per cui è causa ed è costretto a vivere con la sua famiglia in un immobile alla periferia di Poggiomarino, di vecchia costruzione.

In definitiva, occorre ribadire che il concetto di danno evento si distingue da quello di danno conseguenza e che soltanto quest’ultimo può essere risarcito, a condizione che lo stesso venga provato anche presuntivamente da chi formuli la richiesta risarcitoria per indisponibilità del bene per fatto altrui. La tesi del c.d. danno in re ipsa non prescinde dal predetto accertamento, ma, in termini sostanzialmente descrittivi, si limita ad affidarlo alla prova logica presuntiva sulla base del fatto che l’allegazione da parte del danneggiato di determinate caratteristiche materiali e di specifiche qualità giuridiche del bene immobile consentano di pervenire alla prova (fondata su una ragionevole certezza, la cui rispondenza logica deve essere verificata alla stregua del criterio probabilistico dell’id quod plerumque accidit) che quel tipo di immobile sarebbe stato destinato ad un impiego fruttifero, oppure anche solo che da quello sarebbe stata ritratta immediatamente e direttamente dall’avente diritto un’utilità corrispondente alle sue caratteristiche (ove, beninteso, suscettibile di valutazione economica: ciò che, peraltro, di norma appunto avviene quando si ha la disponibilità di un immobile, che offre sicuramente l’occasione di trarne giovamento anche in via diretta e immediata per il soddisfacimento di propri bisogni), ma almeno specificamente indicata (sia pure anche qui normalmente riscontrabile in caso di destinazione dell’immobile, reso indisponibile, ad abitazione del titolare persona fisica, quella integrando un bisogno essenziale della persona).

Alla luce dei suddetti principi risulta l’error in iudicando in cui, sul punto, è incorsa la Corte di merito, nella parte in cui (p. 9), pur riconoscendo la esclusiva responsabilità della Bi.Re. Costruzioni nella causazione dei danni sofferti da Annunziata e Bi.Re., ha rigettato la domanda di quest’ultimo, non essendo stato dallo stesso provato il danno sofferto e non potendo lo stesso essere liquidato ai sensi dell’art. 1226 c.c. (non trattandosi di pregiudizio impossibile o estremamente difficoltoso nel suo preciso ammontare). L’allegata indisponibilità di una soluzione abitativa è, infatti, evidente: e, solo, la liquidazione del danno conseguente andrà parametrata, se del caso -appunto – equitativamente, alla comparazione del diverso assetto derivante dalla detta indisponibilità ed imposto al titolare con quello che sarebbe conseguito dalla disponibilità invece compressa>>.

Sul danno per protratta (cinque mesi) inutilizzabilità del numero telefonico in atvitià commerciale

Cass. sez. III, ord. 23/04/2024  n. 10.885, rel. Moscarini:

fatto:

<<La società Italia Trasporti Srl (di seguito Italia Trasporti) convenne in giudizio davanti al Giudice di Pace di S la società Wind Telecomunicazioni Spa (di seguito Wind) per ivi sentirla condannare al risarcimento dei danni subìti in conseguenza della mancata attivazione di un contratto telefonico e della conseguente interruzione della linea telefonica perdurata dal mese di settembre 2011 al febbraio 2012>>.

Diritto astratto e applicato al caso:

<<Come questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di somministrazione del servizio di telefonia, il danno da perdita della possibilità di acquisire nuova clientela conseguente al mancato o inesatto inserimento nell’elenco telefonico dei dati identificativi del fruitore si configura come perdita di chance, atteso che esso non consiste nella perdita di un vantaggio economico ma in quella della possibilità di conseguirlo (v. Cass., 20/11/2018, n. 29829).

Trattandosi di un genere di pregiudizio caratterizzato dall’incertezza, è sufficiente che lo stesso sia provato in termini di “possibilità” (la quale deve tuttavia rispondere ai parametri di apprezzabilità, serietà e consistenza) e ne è consentita la liquidazione in via equitativa” (Cass., 3, n. 14916 dell’8/6/2018; Cass. 04/08/2017, n. 19497; Cass. 03/08/2017, n. 19342), non essendo al riguardo necessario dimostrare l’avvenuta contrazione dei redditi del danneggiato, che può incidere sulla quantificazione del danno ma non escluderne la sussistenza (v. Cass., 29/9/2023, n. 27633).

Si è altresì precisato che tale diritto ha, in tutta evidenza, maggiore pregnanza allorquando l’utenza telefonica afferisca ad un’attività professionale o commerciale (Cass. 03/08/2017, n. 19342); né l’esistenza del danno può essere negata per il solo fatto – rilevato dalla Corte territoriale – che non siano stati depositati documenti fiscali a dimostrazione del decremento reddituale; tale omissione può certamente incidere sulla liquidazione del risarcimento, ma non consente di escludere che un danno vi sia comunque stato in ragione di ciò che, in mancanza della condotta d’inadempimento del gestore, l’utente in via di ragionevole probabilità avrebbe potuto invero conseguire; e che tale danno possa essere liquidato in via equitativa (Cass., 29/9/2023, n. 27633; Cass. n. 19497 del 2017).

Si è al riguardo sottolineato che la liquidazione equitativa dei danni è dall’art. 1226 c.c. rimessa al prudente criterio valutativo del giudice di merito non soltanto quando la determinazione del relativo ammontare sia impossibile ma anche quando la stessa, in relazione alle peculiarità del caso concreto, si presenti particolarmente difficoltosa (v. Cass., 4/4/2019, n. 9339; Cass., 9/5/2003, n. 7073; Cass., 17/5/2000, n. 6414. E già Cass., 4/7/1968, n. 2247), il giudice potendo fare ricorso al criterio della liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c. anche senza domanda di parte, trattandosi di criterio rimesso al suo prudente apprezzamento, e tale facoltà può essere esercitata d’ufficio pure dal giudice di appello (v. Cass., 5/5/2021, n. 2831; Cass., 24/1/2020, n. 1636. E già Cass., 17/11/1961, n. 2655).

Orbene, nell’impugnata sentenza il giudice dell’appello ha invero disatteso i suindicati principi.

Pur riconoscendo la sussistenza dell’inadempimento dell’odierna controricorrente, anziché far luogo alla valutazione equitativa del danno, cui il giudice può addivenire anche d’ufficio (v. Cass., …), esso ha negato il risarcimento del danno per “evidente difetto di allegazione da parte dell’attrice in primo grado, che non ha dedotto quali siano stati in concreto i danni asseritamente patiti per effetto della temporanea mancata fruizione della linea telefonica”, “non ha né specificato né provato i danni da essa sofferti a causa del dedotto inadempimento contrattuale della Wind”, ritenendo al riguardo inidoneo “il c.d. estratto conto clienti” a “provare gli asseriti danni sub specie perdite di commesse da parte dei clienti”, e “del tutto erronea” la “liquidazione equitativa del danno effettuata dal Giudice di prime cure … poiché effettuata in assenza dei presupposti di legge”,”non avendo parte attrice in primo grado … offerto alcun elemento obiettivo a cui ancorare una tale liquidazione equitativa del danno da parte del Giudice”.

Dell’impugnata sentenza s’impone pertanto la cassazione in relazione, con rinvio al Tribunale di Nola, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo dei suindicati disattesi principi applicazione>>.