Il nesso di causalità (“più probabile che non”) nella morte del lavoratore, provocata da tumore polmonare da esposizione prolungata all’amianto

Cass. sez. III, ord. 05/11/2024 n. 28.458, rel. Rubino:

<<Il ragionamento che fa la Corte d’Appello muove dall’accertamento delle circostanze di fatto indicate, tutte rilevanti, ma esclude, sulla base del parere dell’ultimo esperto consultato, che la patologia contratta dalla vittima fosse qualificabile come mesotelioma pleurico, e sulla base di ciò nega che sia stata fornita la prova, seppur sulla base di un ragionamento probabilistico, del nesso di causalità, concludendo nel senso che l’evento lesivo sia dovuto a causa incerta.

L’equazione che risolve la Corte d’Appello è errata, in quanto l’accertamento della non riconducibilità della patologia per cui è morto il Vi.St. alla tipologia del mesotelioma pleurico, la più frequente e caratteristica patologia derivante dall’esposizione all’amianto, qualificata pertanto come malattia professionale, non esclude che la morte per tumore ai polmoni del Vi.St. sia stata causata da una malattia contratta in ambito lavorativo, e non la esimeva dal dover verificare se, in presenza di quelle circostanze di fatto attestanti l’esposizione al rischio in ambito lavorativo, ed in assenza di altri fattori esterni di esposizione accentuata al rischio di patologia tumorale polmonare, si dovesse ritenere più probabile che non che la morte del Vi.St. fosse da porre in rapporto causale con l’attività lavorativa svolta e con l’esposizione al contatto e all’ingerimento della polvere di amianto.

Alle medesime conclusioni è già giunta, peraltro, la Sezione Lavoro della Corte, che ha esaminato il ricorso degli eredi del Vi.St. avente ad oggetto le domande proposte iure hereditatis dagli attuali ricorrenti in relazione alla morte del padre: la Sezione lavoro della Corte, con ordinanza n. 18050/2024 (in R.G. 18847/2022), pubblicata il 1.7.2024, in accoglimento del ricorso di Gh.Pa. e Stefano Vi.St., ha cassato la sentenza n. 684/2021 della Corte d’Appello di Venezia, Sezione lavoro, rinviando alla medesima corte in diversa composizione “per l’accertamento del nesso causale in relazione al motivo accolto”, oltre che per le spese del giudizio.

La Corte d’Appello, infatti, ha erroneamente seguito il ragionamento dell’ausiliario nominato dal Tribunale, secondo cui l’unica diagnosi puntuale sarebbe stata quella fondata sull’esame istologico, nel caso concreto non eseguito. Orbene tale criterio valutativo è errato, perché incentrato sulla certezza causale, laddove il criterio da utilizzare è quello del “più probabile che non”, sicché il fattore causale è rilevante anche in termini di concausalità, in forza del principio di equivalenza delle cause posto dall’art. 41 c.p.

In particolare, questa Corte ha già affermato che, ai sensi dell’art. 41 c.p., il rapporto causale tra l’evento e il danno è governato dal principio di equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, potendo escludersi l’esistenza nel nesso eziologico richiesto dalla legge solo se possa essere ravvisato con certezza l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, di per sé sufficiente a produrre l’infermità e tale da far degradare altre evenienze a semplici occasioni (Cass. n. 27952/2018; Cass. n. 6105/2015). In applicazione di questo principio questa Corte ha coerentemente affermato che in tema di risarcimento del danno, il nesso causale tra l’esposizione ad amianto e il decesso intervenuto per tumore polmonare può ritenersi provato quando, sulla scorta delle risultanze scientifiche e delle evidenze già note al momento dei fatti e secondo il criterio del “più probabile che non”, possa desumersi che la non occasionale esposizione all’agente patogeno – in relazione alle modalità di esecuzione delle incombenze lavorative, alle mansioni svolte e all’assenza di strumenti di protezione individuale – abbia prodotto un effetto patogenico sull’insorgenza o sulla latenza della malattia (Cass. ord. n. 13512/2022). Quindi per affermare il nesso causale non occorre necessariamente identificare la patologia tumorale in termini di “mesotelioma”, come invece ha ritenuto la Corte d’Appello. Il nesso causale può sussistere anche rispetto ad un tumore polmonare di tipo diverso, purché ricorrano tutti gli altri elementi di valutazione causale sopra detti, in primo luogo la non occasionale esposizione all’agente patogeno, poi le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, l’assenza di strumenti di protezione individuale, l’assenza di fattori estranei all’attività lavorativa, di per sé sufficienti a produrre l’infermità e tale da far degradare gli altri fattori a semplici occasioni. Questi accertamenti e le correlate valutazioni sono stati completamente omessi dalla Corte territoriale, la cui decisione, dunque, si traduce in violazione dell’art. 41 c.p. e pertanto va cassata con rinvio per un nuovo apprezzamento dell’esposizione a polveri di amianto e della sua rilevanza causale o concausale nell’eziologia della patologia del de cuius e poi del suo decesso>>.

Il principio di diritto: “Accertata la presenza di uno di fattori di rischio (nel caso di specie l’esposizione all’amianto), che scientificamente si pongono come idonei antecedenti causali della malattia, prima, e del decesso, poi, va affermata la sussistenza del nesso di causalità tra quel fattore di rischio e la malattia e quindi il decesso, anche eventualmente in termini di concausalità, in presenza di non occasionale esposizione all’agente patogeno, determinate modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, assenza di strumenti di protezione individuale, salvo che sussista altro fattore, estraneo all’attività lavorativa e/o all’ambiente lavorativo, da solo idoneo a determinare la malattia e/o, poi, il decesso” .

Non banali precisazioni su come condurre il giudizio controfattuale circa un intervento chirurgico troppo rischioso

Cass. Sez. III, Ord. 27/09/2024, n. 25.825, rel. Cricenti:

Sull’errore del secondo giudice:

<<In particolare, è fondato il terzo motivo, che denuncia un errore nel ragionamento controfattuale di accertamento del nesso di causalità, il quale errore è altresì dipeso dal difetto di valutazione denunciato negli altri due motivi.

In sostanza, la Corte di merito ha escluso la rilevanza causale della scelta di procedere all’intervento chirurgico e lo ha fatto con un ragionamento controfattuale del tutto errato, in quanto ha ritenuto che, ove fosse stato evitato l’intervento chirurgico, e ove si fosse optato per un intervento non invasivo o conservativo, quest’ultimo non avrebbe comunque sortito i suoi effetti così come era già accaduto in passato.

Intanto, questo ragionamento controfattuale è chiaramente viziato, come denunciato con il secondo motivo, da omesso esame di fatti rilevanti e decisivi, vale a dire della circostanza che, non solo e non tanto il CTU aveva ritenuto non necessario l’intervento chirurgico e preferibile un intervento di tipo conservativo, ma altresì della circostanza che un medico precedentemente intervenuto, ossia l’ortopedico D.D., aveva anch’egli sconsigliato l’intervento chirurgico e ritenuto invece più opportuno un intervento non invasivo.

Inoltre, il ragionamento effettuato dai giudici d’appello, secondo cui l’intervento chirurgico era maggiormente indicato in quanto quello conservativo non aveva prodotto in passato gli effetti sperati, è anch’esso viziato da omesso esame di un fatto rilevante, omissione da cui deriva contraddittorietà di giudizio, in quanto non si è tenuto conto del fatto che anche l’intervento chirurgico, che pure in precedenza era stato effettuato, non aveva prodotto, al pari di quello conservativo, gli effetti sperati.

Ma soprattutto, l’errore di ragionamento controfattuale sta nel fatto che l’efficacia causale dell’antecedente, ossia la scelta del tipo di intervento da effettuare, se chirurgico o meno, non andava valutata rispetto all’evento guarigione, ma rispetto all’evento concretamente verificatosi di danno permanente subìto dal paziente>>.

Per poi precisare:

<< In altri termini, il giudizio controfattuale andava effettuato chiedendosi se l’intervento conservativo, in luogo di quello chirurgico, avrebbe evitato o meno i danni permanenti al paziente, piuttosto che chiedersi se l’intervento conservativo avrebbe sortito effetti benefici per l’interessato guarendolo dalla patologia.

Nell’accertamento del nesso causale, infatti, la condotta alternativa lecita va messa in relazione all’evento concretamente verificatosi, e di cui si duole il danneggiato, e non già rispetto ad un evento diverso: se il danno di cui ci si lamenta è costituito dalla paralisi permanente, l’indagine causale va effettuata ponendo in relazione questo danno con la condotta alternativa lecita, ossia chiedendosi se tale danno era evitabile sostituendo la condotta posta in essere con una condotta alternativa. Invece, i giudici di appello, come si è detto prima, hanno effettuato l’indagine controfattuale considerando quale evento non già il danno subìto, ma l’inefficacia terapeutica del trattamento, e dunque un evento diverso, di cui il ricorrente non si duole. Non v’è dubbio che non guarire dalla lombosciatalgia è evento diverso dal subire la paralisi: ed occorreva chiedersi se, evitare l’intervento, avrebbe evitato la paralisi. L’evento che, per il ricorrente, ha costituito danno è, per l’appunto, la paralisi, non la mancata guarigione dalla lombosciatalgia, e dunque la questione causale è conseguente: stabilire se la condotta alternativa lecita avrebbe evitato quell’evento, non altro (la mancata guarigione dalla lombosciatalgia).

In altri termini, il ragionamento controfattuale, come svolto dai giudici di appello, può esprimersi nel modo seguente: “il trattamento conservativo non era necessariamente da preferire in quanto già in passato si era dimostrato inefficace”, quando invece l’assunto del ricorrente era: “il trattamento conservativo era da preferire in quanto avrebbe evitato i danni permanenti, poco importando la sua efficacia curativa”.

Il giudizio controfattuale consiste nella verifica della fondatezza di questa seconda proposizione linguistica, non della prima.

Come è evidente, l’efficacia causale della condotta alternativa lecita, ossia del trattamento conservativo, che era richiesto di accertare, non era quella di comportare la guarigione ma quella ben diversa di evitare il danno permanente.

Detto in termini semplici: il consiglio dato dagli altri medici di non fare l’intervento chirurgico, bensì trattamenti meno invasivi, non necessariamente era giustificato dalla maggiore efficienza di questi ultimi, ma ben poteva essere giustificato dalla minore rischiosità di essi, che è cosa ben diversa anche sul piano della individuazione dell’evento rispetto a cui effettuare il giudizio controfattuale.

E dunque la corte di merito avrebbe dovuto valutare se la condotta alternativa lecita (trattamento meno invasivo) era da pretendersi a prescindere dalla sua efficacia sulla patologia in corso, ma per via del fatto che garantiva, a differenza di quella di fatto tenuta, di evitare il rischio: se cioè vi sia stata colpa nella scelta dell’intervento chirurgico alla luce di tale previsione.

Né può dirsi che si tratta di un giudizio di fatto, qui non censurabile, in quanto è in gioco il criterio con cui si accerta il fatto, ossia il criterio con cui si accerta se l’evento sia riconducibile ad un antecedente colposo>>.

 

Sul danno da indisponibilità dell’immobile

Cass .  sez. III, ord. 17/04/2024 n.  10.477, rel. Gianniti:

<<In ogni caso, con recente arresto nomofilattico, le Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 33645/2022), sia pure occupandosi della diversa ipotesi del danno da occupazione illegittima di immobile, hanno reso chiarimenti direttamente rilevanti anche nel presente giudizio con riferimento alla morfologia ed alla risarcibilità del danno comunque derivante da un fatto che renda impossibile, a chi ne abbia diritto, il godimento dell’immobile e di trarne guadagno.

Con precipuo riferimento alla violazione del diritto di proprietà è stato in quella sede evidenziato che l’evento lesivo può attingere la cosa oggetto del diritto ovvero direttamente il contenuto del diritto stesso.

In entrambi i casi, ai fini dell’attivazione della tutela risarcitoria, è necessario si configuri una perdita o un mancato guadagno che rappresentino conseguenza immediata e diretta dell’illecito, alla stregua dell’art. 1223 c.c.

Nel secondo caso (evento lesivo incidente sul contenuto del diritto) può configurarsi un«danno risarcibile (…) rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione». È, questo, un danno emergente che si configura anche nell’ipotesi in cui si alleghi che detto godimento sarebbe stato concesso a terzi contro un corrispettivo corrispondente ai frutti civili. In questo caso, il criterio di liquidazione equitativa utilizzabile è omogeneo, attestandosi sul valore locativo di mercato, che rappresenta – per l’appunto – il controvalore convenzionalmente attribuito al godimento alla stregua della tipizzazione normativa del contratto di locazione.

Al lucro cessante afferiscono, invece, quelle perdite di occasioni di guadagno«da collegare non al contenuto del diritto previsto dall’art. 832 c.c., ma alla titolarità del diritto», espressioni«della possibilità di alienare quale caratteristica di tutti i diritti patrimoniali» (pag. 10). Si tratta, in concreto, del danno conseguente alla impossibilità di vendere l’immobile o locarlo a un canone superiore a quello di mercato, il quale necessita«di prova specifica, anche in via presuntiva» (pag. 11).

Dal punto di vista processuale, all’allegazione, da parte dell’attore, di una delle voci di danno suddette potrà contrapporsi la (specifica) contestazione del convenuto, la quale attiverà, in capo all’attore stesso, l’onere di provare il fatto costitutivo del risarcimento, se del caso mediante il ricorso alle presunzioni ovvero alle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. Oggetto di prova sarà, a seconda dei casi, la perdita della possibilità di godimento (diretto o indiretto), ovvero di alienazione o concessione in locazione del bene a canone maggiore di quello medio di mercato. Non potendo operare il meccanismo della non contestazione per i fatti ignoti al convenuto, la necessità di prova diretta da parte dell’attore – afferma la ricordata pronuncia delle Sezioni Unite – sarà statisticamente più frequente nell’ipotesi in cui il pregiudizio invocato assuma le forme del mancato guadagno (ove la prova potrà atteggiarsi sulla falsariga di quella del maggior danno, di cui all’art. 1591 c.c.); mentre, qualora a venire in questione sia il danno emergente, si assisterà,«a una maggiore frequenza dell’onere del convenuto di specifica contestazione della circostanza di pregiudizio allegata e ad una minore frequenza per l’attore dell’onere di provare la circostanza in discorso, data la tendenziale normalità del pregiudizio al godimento del proprietario a seguito dell’occupazione abusiva» (pag. 26).

Alla stregua di tali principi, ai quali il Collegio intende assicurare continuità, deve potersi puntualizzare che il danno diretto risarcibile da indisponibilità dell’immobile possa individuarsi nella soppressione o compressione della specifica facoltà di esercizio del diritto di goderne, che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione: sicché a tale concetto deve intanto riferirsi la soppressione o compressione della possibilità di estrinsecazione delle facoltà normalmente inerenti alla disponibilità della cosa, in relazione all’uso al quale sarebbe stata destinata anche direttamente ed immediatamente dal titolare del diritto ad essa e delle quali questo si è visto, pertanto, illegittimamente privato; con la conseguenza che il godimento diretto, la cui perdita sia suscettibile di risarcimento, va identificato nella facoltà del titolare di fruirne direttamente e di ritrarne le utilità congruenti alla destinazione del bene quali ricavabili dalla sua intrinseca struttura o da altri univoci e riconoscibili elementi.

Orbene, i suddetti principi appaiono applicabili al caso di specie, nel quale:

a) il ricorrente è per l’appunto la persona fisica proprietaria dell’immobile e, quindi lo stesso soggetto titolare del diritto al risarcimento del danno, rappresentando l’indisponibilità del bene un danno conseguenza del fatto impeditivo dell’indisponibilità dell’immobile per fatto altrui;

b) a tale riguardo, il ricorrente ha allegato: di aver contratto un mutuo per l’acquisto dell’immobile e di aver per esso chiesto l’applicazione delle agevolazioni fiscali previste per l’acquisto della prima causa; che l’immobile demolito era destinato a sua abitazione; di aver ottenuto il permesso a costruire e di averne chiesto la proroga; che anche quest’ultima era scaduta e che la nuova costruzione non è assentibile in base al nuovo PUC nelle more varato dal Comune di Poggiomarino; che, a causa dell’opposizione degli Annunziata, non riesce a ricostruire l’immobile per cui è causa ed è costretto a vivere con la sua famiglia in un immobile alla periferia di Poggiomarino, di vecchia costruzione.

In definitiva, occorre ribadire che il concetto di danno evento si distingue da quello di danno conseguenza e che soltanto quest’ultimo può essere risarcito, a condizione che lo stesso venga provato anche presuntivamente da chi formuli la richiesta risarcitoria per indisponibilità del bene per fatto altrui. La tesi del c.d. danno in re ipsa non prescinde dal predetto accertamento, ma, in termini sostanzialmente descrittivi, si limita ad affidarlo alla prova logica presuntiva sulla base del fatto che l’allegazione da parte del danneggiato di determinate caratteristiche materiali e di specifiche qualità giuridiche del bene immobile consentano di pervenire alla prova (fondata su una ragionevole certezza, la cui rispondenza logica deve essere verificata alla stregua del criterio probabilistico dell’id quod plerumque accidit) che quel tipo di immobile sarebbe stato destinato ad un impiego fruttifero, oppure anche solo che da quello sarebbe stata ritratta immediatamente e direttamente dall’avente diritto un’utilità corrispondente alle sue caratteristiche (ove, beninteso, suscettibile di valutazione economica: ciò che, peraltro, di norma appunto avviene quando si ha la disponibilità di un immobile, che offre sicuramente l’occasione di trarne giovamento anche in via diretta e immediata per il soddisfacimento di propri bisogni), ma almeno specificamente indicata (sia pure anche qui normalmente riscontrabile in caso di destinazione dell’immobile, reso indisponibile, ad abitazione del titolare persona fisica, quella integrando un bisogno essenziale della persona).

Alla luce dei suddetti principi risulta l’error in iudicando in cui, sul punto, è incorsa la Corte di merito, nella parte in cui (p. 9), pur riconoscendo la esclusiva responsabilità della Bi.Re. Costruzioni nella causazione dei danni sofferti da Annunziata e Bi.Re., ha rigettato la domanda di quest’ultimo, non essendo stato dallo stesso provato il danno sofferto e non potendo lo stesso essere liquidato ai sensi dell’art. 1226 c.c. (non trattandosi di pregiudizio impossibile o estremamente difficoltoso nel suo preciso ammontare). L’allegata indisponibilità di una soluzione abitativa è, infatti, evidente: e, solo, la liquidazione del danno conseguente andrà parametrata, se del caso -appunto – equitativamente, alla comparazione del diverso assetto derivante dalla detta indisponibilità ed imposto al titolare con quello che sarebbe conseguito dalla disponibilità invece compressa>>.

Sul danno per protratta (cinque mesi) inutilizzabilità del numero telefonico in atvitià commerciale

Cass. sez. III, ord. 23/04/2024  n. 10.885, rel. Moscarini:

fatto:

<<La società Italia Trasporti Srl (di seguito Italia Trasporti) convenne in giudizio davanti al Giudice di Pace di S la società Wind Telecomunicazioni Spa (di seguito Wind) per ivi sentirla condannare al risarcimento dei danni subìti in conseguenza della mancata attivazione di un contratto telefonico e della conseguente interruzione della linea telefonica perdurata dal mese di settembre 2011 al febbraio 2012>>.

Diritto astratto e applicato al caso:

<<Come questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di somministrazione del servizio di telefonia, il danno da perdita della possibilità di acquisire nuova clientela conseguente al mancato o inesatto inserimento nell’elenco telefonico dei dati identificativi del fruitore si configura come perdita di chance, atteso che esso non consiste nella perdita di un vantaggio economico ma in quella della possibilità di conseguirlo (v. Cass., 20/11/2018, n. 29829).

Trattandosi di un genere di pregiudizio caratterizzato dall’incertezza, è sufficiente che lo stesso sia provato in termini di “possibilità” (la quale deve tuttavia rispondere ai parametri di apprezzabilità, serietà e consistenza) e ne è consentita la liquidazione in via equitativa” (Cass., 3, n. 14916 dell’8/6/2018; Cass. 04/08/2017, n. 19497; Cass. 03/08/2017, n. 19342), non essendo al riguardo necessario dimostrare l’avvenuta contrazione dei redditi del danneggiato, che può incidere sulla quantificazione del danno ma non escluderne la sussistenza (v. Cass., 29/9/2023, n. 27633).

Si è altresì precisato che tale diritto ha, in tutta evidenza, maggiore pregnanza allorquando l’utenza telefonica afferisca ad un’attività professionale o commerciale (Cass. 03/08/2017, n. 19342); né l’esistenza del danno può essere negata per il solo fatto – rilevato dalla Corte territoriale – che non siano stati depositati documenti fiscali a dimostrazione del decremento reddituale; tale omissione può certamente incidere sulla liquidazione del risarcimento, ma non consente di escludere che un danno vi sia comunque stato in ragione di ciò che, in mancanza della condotta d’inadempimento del gestore, l’utente in via di ragionevole probabilità avrebbe potuto invero conseguire; e che tale danno possa essere liquidato in via equitativa (Cass., 29/9/2023, n. 27633; Cass. n. 19497 del 2017).

Si è al riguardo sottolineato che la liquidazione equitativa dei danni è dall’art. 1226 c.c. rimessa al prudente criterio valutativo del giudice di merito non soltanto quando la determinazione del relativo ammontare sia impossibile ma anche quando la stessa, in relazione alle peculiarità del caso concreto, si presenti particolarmente difficoltosa (v. Cass., 4/4/2019, n. 9339; Cass., 9/5/2003, n. 7073; Cass., 17/5/2000, n. 6414. E già Cass., 4/7/1968, n. 2247), il giudice potendo fare ricorso al criterio della liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c. anche senza domanda di parte, trattandosi di criterio rimesso al suo prudente apprezzamento, e tale facoltà può essere esercitata d’ufficio pure dal giudice di appello (v. Cass., 5/5/2021, n. 2831; Cass., 24/1/2020, n. 1636. E già Cass., 17/11/1961, n. 2655).

Orbene, nell’impugnata sentenza il giudice dell’appello ha invero disatteso i suindicati principi.

Pur riconoscendo la sussistenza dell’inadempimento dell’odierna controricorrente, anziché far luogo alla valutazione equitativa del danno, cui il giudice può addivenire anche d’ufficio (v. Cass., …), esso ha negato il risarcimento del danno per “evidente difetto di allegazione da parte dell’attrice in primo grado, che non ha dedotto quali siano stati in concreto i danni asseritamente patiti per effetto della temporanea mancata fruizione della linea telefonica”, “non ha né specificato né provato i danni da essa sofferti a causa del dedotto inadempimento contrattuale della Wind”, ritenendo al riguardo inidoneo “il c.d. estratto conto clienti” a “provare gli asseriti danni sub specie perdite di commesse da parte dei clienti”, e “del tutto erronea” la “liquidazione equitativa del danno effettuata dal Giudice di prime cure … poiché effettuata in assenza dei presupposti di legge”,”non avendo parte attrice in primo grado … offerto alcun elemento obiettivo a cui ancorare una tale liquidazione equitativa del danno da parte del Giudice”.

Dell’impugnata sentenza s’impone pertanto la cassazione in relazione, con rinvio al Tribunale di Nola, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo dei suindicati disattesi principi applicazione>>.

Il danno per essere caduto nella trappola del phishing è a carico della banca

Un caso classico di phishing esaminato da Cass. sez. III sent. 12/02/2024 n. 3.780, rel. Moscarini:

fatto:

<Di.An., in qualità di procuratrice di Po.Ma., convenne in giudizio, davanti al Giudice di Pace di Paola, Poste Italiane Spa chiedendo accertarsi la responsabilità contrattuale o extracontrattuale della società convenuta per la perdita patrimoniale subita dal Polizza ammontante ad Euro 2900 a seguito di un’operazione posta in essere da ignoti sulla propria carta Postepay Evolution.

A sostegno della domanda rappresentò che il Polizza aveva ricevuto una mail in apparenza proveniente da Poste Italiane Spa, con la quale era stato invitato ad accedere al proprio conto mediante un link contenuto nella mail inserendo le proprie credenziali per effettuare il cambio della password; che l’utente aveva effettuato la richiesta operazione ed aveva successivamente riscontrato un addebito di Euro 2.900 per un’operazione a favore di Anytime Paris Fra, da lui mai compiuta.>>

Ecco l’insegnamento in diritto:

<<La giurisprudenza di questa Corte, qualificata in termini contrattuali la responsabilità della banca, ha affermato che la diligenza posta a carico del professionista, per quanto concerne i servizi posti in essere in favore del cliente, ha natura tecnica e deve valutarsi tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento assumendo come parametro quello dell’accorto banchiere (Cass. n. 806 del 2016); dunque la diligenza della banca va a coprire operazioni che devono essere ricondotte nella sua sfera di controllo tecnico, sulla base anche di una valutazione di prevedibilità ed evitabilità tale che la condotta, per esonerare il debitore, la cui responsabilità contrattuale è presunta, deve porsi al di là delle possibilità esigibili della sua sfera di controllo.

La giurisprudenza di questa Corte è infatti consolidata nel senso di ritenere che la responsabilità della banca per operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, con particolare verifica della loro riconducibilità alla volontà del cliente mediante il controllo dell’utilizzazione illecita dei relativi codici da parte di terzi, va esclusa se ricorre una situazione di colpa grave dell’utente configurabile, ad esempio, nel caso di protratta attesa prima di comunicare l’uso non autorizzato dello strumento di pagamento ma il riparto degli oneri probatori posto a carico delle parti segue il regime della responsabilità contrattuale. Mentre, pertanto, il cliente è tenuto soltanto a provare la fonte del proprio diritto ed il termine di scadenza, il debitore, cioè la banca, deve provare il fatto estintivo dell’altrui pretesa, sicché non può omettere la verifica dell’adozione delle misure atte a garantire la sicurezza del servizio. Ne consegue che, essendo la possibilità della sottrazione dei codici al correntista attraverso tecniche fraudolente una eventualità rientrante nel rischio d’impresa, la banca per liberarsi dalla propria responsabilità, deve dimostrare la sopravvenienza di eventi che si collochino al di là dello sforzo diligente richiesto al debitore (Cass., 1, n. 2950 del 3/2/2017; Cass., 3, n. 18045 del 5/7/2019; Cass., 6-3, n. 26916 del 26/11/2020).

Era pertanto onere di Poste Italiane, come correttamente ritenuto dalla impugnata sentenza, a dover provare di aver adottato soluzioni idonee a prevenire o ridurre l’uso fraudolento dei sistemi elettronici di pagamento, quali ad esempio l’invio al titolare della carta di appositi sms alert di conferma di ogni singola operazione, sulla base di un principio di buona fede nell’esecuzione del contratto. In assenza di tale prova è corretta la decisione di imputare alla banca il rischio professionale della possibilità che terzi accedano ai profili dei clienti con condotte fraudolente>>.

Invio di sms alert che, a questo punto, diverrà un onere imprescindibile per la banca.

Illegittima segnalazione alla centrale rischi e danno all’immagine e alla reputazione

Cass. sez. 1 del 6 marzo 2023 n. 6589, rel. Falabella, sull’oggetto:

<<Rammentato che pure in tema di illegittima segnalazione alla
Centrale rischi il danno all’immagine ed alla reputazione, in quanto
costituente «danno conseguenza», non può ritenersi sussistente in re
ípsa, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il
risarcimento (Cass. 28 marzo 2018, n. 7594), non si ravvede,
nell’esposizione del mezzo di censura, alcuna rappresentazione delle
ragioni per cui le norme di cui agli artt. 2059 e 2697 c.c. sarebbero
state violate o falsamente applicate. Sul punto non possono non valere,
dunque, le considerazioni svolte nel trattare il precedente motivo.>>

(notizia e link da   ilcaso.it)

Onere della prova nella lite sulla responsabilità medica

Cass. sez. III, 29/03/2022 dep. 29/03/2022, n.10.050, rel. Spaziani, sull’oggetto.

Permesso che la nuova disciplina ex legge 24/2017 si applica solo ai fatti ad essa successivi, la Sc così opina.

<<In particolare, con precipuo riferimento alle fattispecie di inadempimento delle obbligazioni professionali – tra le quali si collocano quelle di responsabilità medica – questa Corte ha da tempo chiarito che è onere del creditore-attore dimostrare, oltre alla fonte del suo credito (contratto o contatto sociale), l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del professionista è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno lamentato (Cass. 7 dicembre 2017, 29315; Cass. 15 febbraio 2018, n. 3704; Cass. 20 agosto 2018, n. 20812), mentre è onere del debitore dimostrare, in alternativa all’esatto adempimento, l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inadempimento (o l’inesatto adempimento) è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza (Cass. 26 luglio 2017, n. 18392; Cass. 23 ottobre 2018, n. 26700; Cass. 24 maggio 2019, n. 14335; Cass. 29 ottobre 2019, n. 27606).

Il concetto di “imprevedibilità”, pur lessicalmente esplicativo di una soggettività comportamentale che rientra nell’area della colpa, riferito alla causa impeditiva dell’esatto adempimento, va inteso, precisamente, nel senso oggettivo della “non imputabilità” (art. 1218 c.c.), atteso che la non prevedibilità dell’evento (che si traduce nell’assenza di negligenza, imprudenza e imperizia nella condotta dell’agente) è giudizio che attiene alla sfera dell’elemento soggettivo dell’illecito, in funzione della sua esclusione, e che prescinde dalla configurabilità, sul piano oggettivo, di una relazione causale tra condotta ed evento dannoso. [giusto: la causalità attiene alal condotta, commissiva o omissiva, non a detto evento imprevedibile]

Nelle fattispecie di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni professionali – si è ulteriormente precisato – è configurabile un evento di danno, consistente nella lesione dell’interesse finale perseguito dal creditore (la vittoria della causa nel contratto concluso con l’avvocato; la guarigione dalla malattia nel contratto concluso con il medico), distinto dalla lesione dell’interesse strumentale di cui all’art. 1174 c.c. (interesse all’esecuzione della prestazione professionale secondo le leges artis) e viene dunque in chiara evidenza il nesso di causalità materiale che rientra nel tema di prova di spettanza del creditore, mentre il debitore, ove il primo abbia assolto il proprio onere, resta gravato da quello “di dimostrare la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione” (Cass. 11 novembre 2019, n. 28991; Cass. 31 agosto 2020, n. 18102).

Il nesso di causalità materiale si atteggia invece diversamente nelle altre obbligazioni contrattuali, ove l’evento lesivo coincide astrattamente con la lesione dell’interesse creditorio. Questa coincidenza non ne esclude, tuttavia, la rilevanza quale elemento costitutivo proprio di tutte le fattispecie di responsabilità contrattuale, la quale, al contrario, trova una esplicita conferma positiva nella portata generale della disposizione (art. 1227 c.c., comma 1) che stabilisce una riduzione del risarcimento nell’ipotesi in cui il fatto colposo del creditore abbia concorso a “cagionare” il danno, ritenendosi tradizionalmente (v. già Cass. 9 gennaio 2001, n. 240) che tale disposizione, a differenza di quella contenuta nel comma 2 del medesimo articolo, si riferisca al “danno-evento” e non al “danno-conseguenza”. [si noti il noto tema del se ricorra l’elemento della causalità materiale nella fattispecie di responsabilità contrattuale e la duplicemente articolata risposta della 3° sezione SC, distinguente tra facere professionale e non]

Non sembra esatto, pertanto, al di fuori delle obbligazioni professionali, parlare di “assorbimento” del danno-evento nella lesione dell’interesse creditorio, secondo un lessico sovente adottato in dottrina, mentre concettualmente più corretta appare la diversa ricostruzione, pur suggerita in dottrina, in termini di prova prima facie.

Avuto riguardo agli illustrati principi, nell’ipotesi – come quella in esame – in cui il paziente faccia valere la responsabilità del medico e della struttura sanitaria per i danni derivatigli da un intervento che si assume svolto in spregio alle leges artis, l’attore è tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, il nesso di causalità materiale intercorrente tra la condotta del medico e l’evento dannoso, consistente nella lesione della salute e nelle altre lesioni ad essa connesse (nella specie, la perdita del concepito); e’, invece, onere dei convenuti, ove il predetto nesso di causalità materiale sia stato dimostrato, provare o di avere eseguito la prestazione con la diligenza, la prudenza e la perizia richieste nel caso concreto, o che l’inadempimento (ovvero l’adempimento inesatto) è dipeso dall’impossibilità di eseguirla esattamente per causa ad essi non imputabile (Cass. 26 novembre 2020, n. 26907)>>.

La Banca negligentemente ritarda l’esecuzione dell’ordine di vendita dato del cliente di vendita di azioni della Banca stessa

Trib. Bari con sentenz 15.11.20022, sent. nb° 4372/2022 – RG 11937/2018, decide la lite in oggetto, iniziata da clienti a cui era stata postposta l’esecuzione della vendita, per non riuscire più ad eseguirla ad alcun prezzo.

La negligenza è spiegata dal Triobnale ed è ovvia (per non dire del conflitto di interessi, per cui si sarà probabilmente trattato di dolo, non di colpa): l’ordine va eseguito il prima possibile.   IL Trib cita l’art. 21.1d) TUF , l’art. 1176.2 cc e la comuncaizone Consob DI/30396 del 2000.

Ex art. 23/6 TUF , l’onere di provare la propria diligenza spetta alla banca.

Interessante è la determinazione del danno, non semplicissima.

<Infatti, se è acclarato che l’ordine di vendita di Sportelli abbia subìto uno scavalco, dalla
documentazione in atti non è possibile sapere quanti altri risparmiatori abbiano subìto il medesimo
trattamento, considerato anche il lungo lasso temporale che è intercorso tra l’ordine dell’attore
(08.10.2015 – 05.11.2015) e il consistente ordine del quale il consulente ha verificato l’esecuzione
(18.03.2016).
Va peraltro ribadito che l’onere di provare la corretta esecuzione degli ordini secondo la priorità
cronologica acquisita era della Banca, ai sensi dell’art. 23 TUF.
Alla luce di quanto sopra evidenziato, si può concludere che vi è una elevata probabilità che una
negoziazione vi sarebbe stata, ma non è probabile che, se tutti gli ordini fossero stati eseguiti, tutte le
azioni di Sportelli sarebbero state vendute, considerata la mole di ordini pervenuti alla banca e la
concreta possibilità che altri ordini siano rimasti ineseguiti.
Perciò, ipotizzando che le azioni avrebbero potuto essere negoziate al prezzo unitario di almeno €.
7,50, per un valore complessivo di €. 87.502,50 (come calcolato dal C.T.U.), il danno potrà essere
calcolato in una misura pari al 50% di tale importo, dovendosi assumere che tale percentuale, con
riguardo al particolare periodo ed al numero di richieste, misuri il grado di probabilità (la chance) per
l’attore di cedere le azioni.
Da tale somma, pari ad €. 43.751,25, non possono essere detratti i dividendi riscossi dal risparmiatore,
come richiesto dalla convenuta. Tale danno, infatti, non è un danno da perdita economica per
l’esecuzione di operazioni inadeguate e in mancanza dell’informativa richiesta dalla legge, ma è un
danno da perdita di un risultato utile, di un guadagno, che, con ogni probabilità, se la Banca fosse stata
adempiente, il cliente avrebbe conseguito.>

Una perdita di chance, pare (così dire lo stesso Trib.)

Chiusura immotivata dell’account ma nessuna responsabilità in capo a Facebook

Secondo il diritto californiano la chiusura immotivata dell’account, con distruzione di tutto il materiale ivi caricato, non viola alcun diritto contrattuale dell’utente di Facebook: così la corte del distretto nord della California, 20.04.2022, King v. Facebook, Case 3:21-cv-04573-EMC .

Negata la violazione del contratto (breach of contract) e respinsta l’istanza di rimessione in pristino (specific perfornance), restano in piedi le istanze connesse alla violazione della buona fede  per carenza di motivazione e/o di indicazione di quali sarebbero state le condizioni generali (Terms of service) violate.

Anche queste , però , sono rigettate perchè, come che sia, non è dalla violazione della b.f. che discende il danno della perdita dei materiali.

INoltre Facebook non poteva sapere il danno che avrebbe potuto generare in capo al’utente:

<< Here, Ms. King has failed to show that either the subjective or objective test has been satisfied. Ms. King did not actually communicate to Facebook that she was using her account as a photo repository and that she did not otherwise retain her photos elsewhere as one normally would. Nor is there any indication that Facebook actually knew that Ms. King was using her account as a photo repository. Finally, Ms. King’s suggestion that Facebook should have known
that she was using her account as a photo repository – because it “was more convenient and permanent and did not involve storing photo albums and preserving physical photographs,” SAC ¶
24 – strains credulity. Arguably, Facebook should have known that Ms. King would post photos on her account. However, nothing suggests Facebook should have known that she would not
maintain her photos elsewhere (whether as hard copies or digital copies saved onto a hard drive, on a phone, flash drive, or in the cloud), especially given that the photos were of great personal value to her (so much so that she planned on compiling them into a memoir of her life).
See SAC ¶ 24. Certainly, there is no suggestion that Facebook markets itself as a photo repository. And the fact that Facebook has a “memorialization” feature for people who have died can hardly be considered the same thing as a photo storage.
Accordingly, Ms. King’s special damages are not recoverable as a matter of law. The Court also notes that, even if the damages were theoretically recoverable, Ms. King would run into another obstacle – namely, the limitation of liability provision in the TOS. That provision states as follows:

We work hard to provide the best Products we can and to specify
clear guidelines for everyone who uses them. Our Products,
however, are provided “as is,” and we make no guarantees that they
always will be safe, secure, or error-free, or that they will function
without disruptions, delays, or imperfections. To the extent
permitted by law, we also DISCLAIM ALL WARRANTIES, WHETHER EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING THE IMPLIED WARRANTIES OF MERCHANTABILITY, FITNESS FOR A PARTICULAR PURPOSE, TITLE, AND NONINFRINGEMENT. We do not control or direct what people and others do or say, and we are not responsible for their actions or conduct (whether online or offline) or any content they share
(including offensive, inappropriate, obscene, unlawful, and other
objectionable content). [¶] We cannot predict when issues might
arise with our Products. Accordingly, our liability shall be limited to
the fullest extent permitted by applicable law, and
under no
circumstance will we be liable to you for any
lost profits,
revenues, information, or data, or
consequential, special, indirect,
exemplary, punitive, or incidental damages arising out of or
related to these Terms or the Facebook Products, even if we
have been advised of the possibility of such damages
. Our
aggregate liability arising out of or relating to these Terms or the
Facebook Products will not exceed the greater of $100 or the
amount you have paid us in the past twelve months.

TOS ¶ 3 (emphasis added). The limitation of liability provision expressly bars Ms. King’s claim for special damages, and Ms. King has not challenged the validity of that provision. See, e.g., Food Safety Net Servs. v. Eco Safe Sys. USA, Inc., 209 Cal. App. 4th 1118, 1126 (2012) (“With respect to claims for breach of contract, limitation of liability clauses are enforceable unless they are unconscionable . . . .”)>>.

Decisione criticabile, almeno se fosse così stata decisa secondo il nostro diritto:

1° un dovere di buona fede impone almeno di dare un preavviso;

2° la b.f. fa parte dei doveri contrattuali;

3° la chiusura immotivata è illegittima;

4° la mancanza di preavviso è illegittimo;

4° i dannni conseguenti ad essa sono illegittimi.

5° la comunicazione preventiva del motivo avrebbe  permesso all’utente di cautelarsi facendo copia dei file. Ovvio che la comunicazione successiva, a distruzione avvenuta, non possa essere causa dei relativi danni.

6° FB sa benissimo che files ospita e quindi quale danno può generare: i suoi filtri automatizzati   non hanno alcuna difficoltà in tale senso . Basti pensare al newsfeed e alla pubblicitòà tarata sull’utente che costantemente lo assilla (microtargeting): è il cuore del business di FB sapere il più possibile tramite i materiali caricati , gli amici presenti, i link inseriti  etc..

La limitazione di responsabilità , in caso di consumatore, come pare nel caso, sarebbe nulla ex art. 33.2.b) cod. cons.

(notizia della sentenza dal blog di Eric Goldman ove anche link alla precedente decisione 12.12.2021 nel medesimo caso).

Omissione e nesso di causalità: probabilità statistica vs. probabilità logica

Cass- 07.03.2022 n. 7355 , rel. Pellecchia, avanza questo insegnamento sul nesso causale in caso di fattispecie omissiva:

<<Sul piano funzionale, la verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si sostanzia nell’accertamento della probabilità, positiva o negativa, del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale che pone al posto dell’omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio si conforma ad uno standard di certezza probabilistica che, in materia civile (come in quella penale), non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza del factum probandum nell’ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili e alternativi) disponibili nel caso concreto, sulla base della combinazione logica degli elementi fattuali disponibili in seno al processo (cd. probabilità logica o baconiana: Cass. s.u. 576 e 577/2008; Cass. n. 23197/2018).

Il primo criterio funzionale (che può essere correttamente definito come quello della prevalenza relativa) implica che, rispetto ad ogni enunciato, venga considerata l’eventualità che esso possa essere vero o falso, e che l’ipotesi positiva venga scelta come alternativa razionale quando è logicamente più probabile di altre ipotesi, in particolare di quella/e contraria/e, senza che la relativa valutazione risulti in alcun modo legata ad una concezione meramente statistico/quantitativa della probabilità, per essere viceversa scartata quando le prove disponibili le attribuiscono un grado di conferma “debole” (tale, cioè, da farla ritenere scarsamente credibile rispetto alle altre).

In altri termini, il giudice deve scegliere l’ipotesi fattuale ritenendo “vero” l’enunciato che ha ricevuto il grado di maggior conferma relativa, sulla base della valutazione dapprima atomistica (in applicazione del metodo analitico), poi combinata (in attuazione della metodica olistica) degli elementi di prova disponibili e attendibili rispetto ad ogni altro enunciato, senza che rilevi il numero degli elementi di conferma dell’ipotesi prescelta, attesa l’impredicabilità di una aritmetica del valori probatori.

Il secondo criterio (più probabile che non) comporta che il giudice, in assenza di altri fatti positivi, scelga l’ipotesi fattuale che riceve un grado di conferma maggiormente probabile rispetto all’ipotesi negativa: in altri termini, il giudice deve scegliere l’ipotesi fattuale che abbia ricevuto una conferma probatoria positiva, ritenendo “vero” l’enunciato che ha ricevuto un grado di maggior conferma relativa dell’esistenza del nesso, sulla base delle prove disponibili, rispetto all’ipotesi negativa che tale nesso non sussista.

In entrambi i casi, il termine “probabilità” non viene riferito, per quanto si è andati sinora esponendo, al concetto di frequenza statistica, bensì al grado di conferma logica che la relazione tra facta probata ha ricevuto in seno al processo; la probabilità logica consente, pertanto, di accertare ragionevoli verità relative sulla base degli indizi allegati: permanendo l’incertezza, ed in assenza di una conferma positiva dell’esistenza del fatto da provare, il giudice dovrà necessariamente far ricorso alla disciplina legale dell’onere probatorio, rigettando la domanda (Cass. 18392/2017).>>

La distinzione tra probabilitòà statistica o quantitativa, da un parte, e probabilità  logica, dall’altra, è fatta propria da un trend assai seguito, ad es. pure da Cass. 14.03.2022 n. 8114, sempre 3° sez., ove membro del collegio -ma non relatore- è il relatore di quella qui ricordata. Probabilmente si appoggiano già all’autorità di Cass. sez. unite n. 584 del 11.01.2008, al § 19.10.

La nettezza della distinzione non convince, poichè i due criteri sono in realtà due aspetti (due fasi logiche) dell’unico criterio da seguire. La (necessaria) frequenza statistica, estrapolata dai casi passati, va poi esaminata alla luce delle circostanze concrete emerse in processo, per vedere se possa realmente applicarsi o se invece diventi non pertinente e quindi se vada sostituita da regola stastistica diversa (se reperita).

Nel caso de quo si trattava di responsabilità contrattuale per violazione di obbligazione ex lege: si trattava infatti di rapporto pubblicistico di soggezione del  lavoratore (marinaio) ai controlli da parte dei medici della pubblica sanità.