Il secondary meaning si applica ai marchi ma non alll’imitazione servile

App. Milano 31.10.2023, RG 1609/2022, rel. Cortelloni:

<<Sotto altro profilo, la Corte ritiene che non sia meritevole di condivisione l’ulteriore prospettazione, articolata dalla Società appellante, in base alla quale i prodotti Vimar Spa, sebbene in origine privi di capacità individualizzante, l’abbiano acquisita nel tempo, stante la loro ampia e prolungata presenza sul mercato.
L’appellante prospetta l’acquisto di un “secondary meaning” da parte dei propri prodotti e che ciò consentirebbe di ottenere la protezione di cui all’art. 2598 c.c.
La Corte ritiene che la doglianza in esame non sia fondata, per le ragioni che seguono.
Il richiamo al c.d. secondary meaning è evocativo (sebbene l’appellante non vi faccia espresso riferimento) alla disciplina in tema di “marchi” e, segnatamente, all’art. 13, comma 3°, c.p.i.

Invero, tale norma, dopo avere previsto, al primo comma, che non possono costituire oggetto di registrazione – come marchio di impresa – i segni privi di carattere distintivo, al comma 3°, prevede che: “il marchio non può essere dichiarato o considerato nullo, se prima della proposizione della domanda o dell’eccezione di nullità, il segna che ne forma oggetto, a seguito dell’uso che ne è stato fatto, ha acquistato carattere distintivo”.
Secondo la corrente interpretazione, il secondary meaning indica l’acquisizione, da parte del segno sprovvisto in origine di capacità distintiva, in quanto generico o meramente descrittivo, di una tale capacità: “per effetto del consolidarsi del suo uso sul mercato, così l’ordinamento si trova a recepire “il fatto” della acquisizione successiva di una “distintività” attraverso un meccanismo di “convalidazione” del segno”.
Trattasi, pertanto, di un ambito di applicazione diverso da quello oggetto della presente controversia ed avente presupposti differenti.
Tale disciplina (art. 13 cpi) ha ad oggetto il “marchio”, quale segno distintivo di una determinata realtà imprenditoriale e che viene tutelato in quanto tale (cfr. artt. 20 e ss. c.p.i.); al contrario, quella codicistica, in tema di concorrenza sleale per imitazione servile, tutela un “prodotto” nella (sola) misura in cui l’imitazione della sua forma individualizzante risulti idonea a creare confusione nel pubblico di riferimento.
Quindi, mentre l’azione di contraffazione ha natura reale ed è volta a tutelare il diritto all’uso e allo sfruttamento esclusivo del marchio, in sé considerato e nel rispetto delle condizioni e dei limiti temporali previsti dalla tutela brevettuale; l’azione ex art. 2598 n. 1) c.c., invece, tutela il prodotto se ed in quanto l’imitazione possa indurre in inganno circa la sua provenienza>>

Questione interessante ma risposta giudiziale non perspicua ed anzi frettolosa. La applicabilità del S. M. non mi pare esclusa in partenza ma semmai solo dopo approfondito raginamento, valendo la ratio nel marchio forse anche nella condondibilità dell’aspetto.

Sul rapporto tra domanda di violazione brevettuale e domanda di concorrenza sleale: rigettatala prima, va necessariamente rigetta pure la seconda?

la risposta è negativa , secondo  App. Milano n 132/2023, del 18.01.2023, RG 2231/2020, rel Giani, Piaggio c. Peugeot.

La corte rigetta l’appello di Piaggio contro la sentenza di prim ogrado cjhe aveva già repointo la sua domanda di contraffazione contro Peugeot, relativao allo scooter Metropolis rispetto al proprio MP3

Sul punto in oggetto, così ossservba , basandosi sul parametro soggettivo di rifeirmento:

<<29. La tutela accordata per la violazione della privativa può concorrere con quella
prevista per la concorrenza per imitazione servile, sul presupposto che il prodotto
rechi una forma individualizzante, tale da essere percepibile, oltre che
dall’utilizzatore informato, anche dal consumatore medio (Cass. n. 8944/2020;
Cass. n. 19174/2015).
Piaggio ha invocato la tutela per concorrenza sleale senza indicare fatti diversi
rispetto a quelli allegati per la tutela della privativa, precisando (con la memoria di cui all’art. 183, sesto comma, n. 1, c.p.c.) che la fattispecie di concorrenza sleale
sia quella per imitazione servile. Ne consegue che la sussistenza della concorrenza vada valutata esclusivamente con riguardo a tale fattispecie, in quanto ciascuna delle ipotesi previste dall’art. 2598 c.c. individua un’autonoma causa petendi che deve essere espressamente allegata nella domanda affinché sia delimitato il thema decidendum (Cass n. 2124/2014; Cass. n. 25652/2014).
Sul piano teorico, la medesima condotta di riproduzione delle forme del prodotto
non impedisce il concorso dei due illeciti, giacché “la configurazione dell’uno o
dell’altro di essi dipende solo dal diverso parametro di cui ci si avvale per la
valutazione del carattere (rispettivamente individuale o distintivo) delle dette
forme e della loro violazione, che è nel primo caso l’utilizzatore informato e nel
secondo il consumatore medio” (Cass. n. 8944/2020; Cass. n. 19174/2015).
Nel caso di specie, Piaggio non ha specificamente allegato quali siano le forme
distintive e quali quelle imitate, limitandosi, nell’atto di citazione, ad allegare la
sola perpetrazione degli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c.
Quand’anche si supplisse a tali lacune assertive, ritenendo che le forme distintive
implicitamente corrispondessero con quelle oggetto della privativa e andassero
ricavate dalle raffigurazioni contenute nel modello registrato, non essendo mai
state allegate ai fini della concorrenza sleale se non con un generico riferimento ai fatti integranti la contraffazione, in ogni caso l’imitazione servile del modello
Piaggio non sarebbe ravvisabile, nel caso di specie, perché le differenze sopra
emerse tra i due modelli, ai fini del giudizio di contraffazione, sono di tale
evidenza da essere percepibili non solo dall’utilizzatore informato, ma anche dal
consumatore medio, “normalmente informato e ragionevolmente attento”  >>.

Tema poco esplorato dalla dottrina ma interessante sotto il profilo teorico