Mediaset c. Vivendi: le sentenze milanesi di aprile 2021 (ma ora pace è fatta, parrebbe)

Accenno prima alla ponderosa sentenza Trib. Milano 3227/2021 del 19.04.2021, RG 47205 (e 47575) /2016, Mediaset e RTI c. Vivendi.

Dopo all”altra di pari data, di minori dimensioni, la  n. 3228/2021, RG 30071/2017.

In entrambi i casi,  relatore Daniela Marconi

PRIMA SENTENZA

Prendiamo la prima, di cui riporterò solo pochi passaggi.

Causa petendi azionata da M. è stato l’indempimento di V. al preliminare di permuta di partecipazioni.

Sulla causa: <<La causa, come elemento costitutivo del contratto inteso nella sua accezione più evoluta di funzione individuale della singola e specifica convenzione risultante dalla sintesi degli interessi che il negozio è concretamente diretto a realizzare a prescindere dal modello astratto del tipo di negozio impiegato dai contraenti ( c.d. causa concreta), va scrutinata in relazione all’assetto impresso dalle parti agli interessi coinvolti nel regolamento negoziale al momento della stipulazione dell’accordo.
La mancanza di causa è, quindi, vizio attinente alla fase genetica del contratto che deve emergere dal contenuto dell’accordo attraverso l’esame del regolamento degli interessi che vi è cristallizzato, insensibile alla sopravvenuta inattuazione del programma negoziale, che attiene invece alla fase successiva dell’esecuzione del contratto, così come all’erronea valutazione della convenienza economica dell’affare in relazione al difetto di qualità supposte dell’oggetto della prestazione che attiene, invece, alla possibile esistenza di vizi del consenso o di vizi redibitori>>

Nel caso specifico: <<Nonostante la notevole complessità del regolamento contrattuale, infatti, la causa emerge evidente dal contenuto del testo dell’accordo con cui le parti hanno adottato lo schema causale astratto tipico del contratto preliminare di permuta di azioni, introducendo nella struttura causale commutativa dello scambio l’alea dell’oscillazione del valore delle azioni tra la stipulazione dell’accordo preliminare e la conclusione del contratto definitivo, con lo scopo pratico di “costituire una partnership strategica nel settore dei contenuti audiovisivi, mirante a realizzare idonee sinergie industriali per sfruttare qualsiasi opportunità di sviluppo nello scenario industriale dei nuovi media internazionali..”.
Si trae, infatti, proprio dal testo delle premesse dell’accordo che “Come una delle fasi per la realizzazione della partnership strategica… le Parti si sono impegnate ad effettuare un’operazione globale mediante la quale Vivendi acquisirà il 100% del capitale di Target e il 3,5% del capitale di Mediaset in cambio di azioni di Vivendi rappresentanti il 3,5% del capitale di Vivendi, secondo termini e condizioni del presente Accordo.” (v. doc. 1 di parte attrice a pag. 4).>>, p. 31-32.

Sulla finzione di avveramento della condizione ex art. 1359 (V. avrebbe bloccato il procedimento per ottenere le autorizzazioni europee: fatto a p. 9).: <<Nella situazione descritta l’inapplicabilità del meccanismo della fictio iuris previsto dall’art. 1359 c.c. – secondo cui la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento – deriva: (i) dal carattere bilaterale della condizione, chiaramente apposta dai contraenti nell’interesse di entrambe le parti alla costituzione dell’alleanza strategica che costituisce la causa del contratto; (ii) dalla natura dell’evento dedotto in condizione, costituito dal rilascio di autorizzazioni amministrative, indispensabili a realizzare la finalità economica del contratto, che non possono essere sostituite dalla semplice finzione legale della loro effettiva emanazione.
Afferma, al riguardo, la giurisprudenza di legittimità che la previsione dell’art. 1359 c.c. “non è applicabile alla “condicio iuris” sospensiva non potendosi sostituire con una semplice finzione legale la effettiva emanazione dell’atto amministrativo di autorizzazione, richiesto dalla legge come requisito legale dell’efficacia del negozio e come tale, peraltro, eventualmente considerato dalle stesse parti private.” ( v. Cass. 22.3.2001 n. 4110 in motivazione; Cass. 2.6.1992 n. 6676; Cass. 5.2.1982 n. 675).
E’ evidente, infatti, che il mancato avveramento della condizione del rilascio dell’autorizzazione da parte dell’autorità preposta alla verifica della compatibilità della concentrazione con il mercato comune, prevista dall’art. 7 comma 1 del Regolamento 139/2004 CE, determina l’impossibilità dello scambio azionario che si risolva in concentrazione di dimensione comunitaria, e non può essere surrogata dalla finzione di avveramento.
In conclusione, alla stregua delle considerazioni appena svolte, deve essere accertata l’inefficacia dell’accordo dell’8 aprile 2016 soggetto a condizione sospensiva non avveratasi nel termine pattuito, con conseguente assorbimento di tutte le domande proposte in via subordinata dalla società convenuta>, p. 41.

Sul dolo omissivo dennciato da V.: <<In ogni caso, non può dirsi ricorrente, nella fattispecie descritta, neanche il dolo omissivo rilevante come vizio del consenso ai fini dell’applicazione del rimedio previsto dall’art. 1439 c.c. che, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità,
a) non è integrato dal mero silenzio o dalla reticenza anche su situazioni di interesse per l’altro contraente che non abbiano immutato la rappresentazione della realtà ma abbiano avuto il limitato effetto di non contrastare la percezione di essa alla quale dovesse essere pervenuto l’altro contraente, atteso che, per assumere rilevanza, il silenzio o la reticenza devono inserirsi in un comportamento complessivamente preordinato con astuzia a perpetrare l’inganno;
b) e deve, comunque, essere valutato in relazione alle particolari circostanze di fatto ed alle qualità e condizioni soggettive dell’altra parte, onde stabilire se il silenzio e la reticenza erano idonei a sorprendere una persona di normale diligenza, giacché l’affidamento non può ricevere tutela giuridica se fondato sulla negligenza (v. fra le molte Cass. 8.5.2018 n. 11009; Cass. 20.1.2017 n. 1585; Cass. 15.3.2005 n. 5549; Cass. 12.2.2003 n. 2104).>>, p. 35

Sul fatto che non era maturato il diritto di recedere dopo scoperta la situazione economcia di M.: <<In sintesi, quindi, l’aleatorietà del contratto e la tassatività delle ipotesi di risoluzione e recesso contemplate nell’accordo, in particolare con riferimento agli indicatori fondamenti di funzionamento delle imprese del comparto, inducono a ritenere che la rivelazione all’esito della due diligence dei dati taciuti da Mediaset nel corso delle trattative non possa rilevare quale ragione giustificatrice del rifiuto di dar corso all’operazione programmata, tanto più che nessuna garanzia era stata direttamente accordata a Vivendi sulla realizzabilità del business plan.
Le clausole liberamente accettate da Vivendi e interpretate nel loro complesso evidenziano essenzialmente l’intento comune delle parti di costituire l’alleanza strategica per l’espansione nello spazio europeo e internazionale anche a prescindere dall’effettivo valore di Mediaset Premium che sarebbe servita a Vivendi semplicemente quale “veicolo” per l’ingresso nel mercato italiano della televisione a pagamento.>>, p. 51

Sul danno all’immagine allegato da M.: <<Con riguardo al danno all’immagine della società e, in generale, degli enti la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che il pregiudizio non possa essere rinvenuto in re ipsa nella diffusione di notizie denigratorie non vere lesive del diritto all’immagine dell’ente ma richieda l’allegazione puntuale e la prova che abbia effettivamente pregiudicato la reputazione commerciale dell’impresa presso i consociati con cui interagisce nel settore di mercato ove opera, non potendo nel sistema della responsabilità civile ascriversi al risarcimento del danno una mera funzione punitiva della violazione dell’interesse tutelato.
Afferma, infatti, la suprema corte che “ In materia di responsabilità civile, anche nei confronti delle persone giuridiche ed in genere degli enti collettivi è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, da identificare con qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione – compatibile con l’assenza di fisicità del titolare – di diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all’immagine, il cui pregiudizio, non costituendo un mero danno-evento, e cioè “in re ipsa”, deve essere oggetto di allegazione e di prova, anche tramite presunzioni semplici” (Cass. 13.10.2016 n. 20643; Cass. 1.10.2013 n. 22396; Cass. 25.7.2013 n. 18082; Cass. 18.9.2009 n. 20120).
La società che lamenti un pregiudizio dalla lesione del suo diritto all’immagine per la diffusione di notizie denigratorie deve, pertanto, allegare e dimostrare elementi di fatto specifici che consentano di presumere il pregiudizio alla sua reputazione commerciale presso i fruitori dei suoi prodotti e servizi nel mercato in cui opera, fermo restando, come già rilevato, che l’illecito diffamatorio richiede, in ogni caso, la prova della diffusione di notizie non corrispondenti al vero.

Nel caso in esame, a prescindere dal fatto che, come già detto, non vi è prova della diffusione da parte di Vivendi di notizie non veritiere sulla vicenda, Mediaset non ha neanche dedotto di aver subito per effetto dell’offuscamento della sua immagine un pregiudizio alla sua reputazione presso i committenti di pubblicità o gli utenti dei servizi che offre nell’esercizio della sua attività di impresa nel settore della diffusione di contenuti su canali televisivi in chiaro. Si è limitata, infatti, genericamente a sostenere, tramite il suo consulente di parte, che la violazione del suo diritto all’immagine avrebbe compromesso la sua “capacità di realizzare a favorevoli condizioni le operazioni straordinarie finalizzate alla gestione strategica della complessa fase di ristrutturazione” senza neanche indicare quali specifiche operazioni straordinarie programmate in quel periodo le sarebbero state in concreto precluse dal discredito.
L’andamento al ribasso del prezzo di borsa del titolo per il c.d. effetto annuncio costituisce, poi, un riflesso sul mercato finanziario della notizia della rottura dell’accordo che non necessariamente sottintende la lesione della reputazione dell’impresa sul mercato economico in cui opera e che non crea di per sé danno al patrimonio della società quotata emittente, strutturalmente esposta alla fluttuazione del valore di borsa delle sue azioni, limitandosi a costituire indice del momentaneo volgere del rischio dell’investimento a sfavore della platea dei suoi azionisti.
L’ipotesi accademica del pregiudizio derivante dalla penalizzazione della capacità della società quotata di realizzare a condizioni favorevoli le operazioni straordinarie di ristrutturazione, per costituire danno risarcibile, avrebbe dovuto essere supportata dalla prova in giudizio della perdita effettiva, a seguito del ribasso del titolo, della possibilità di concludere specifiche operazioni già programmate alle condizioni attese.
Anche questa domanda risarcitoria è, pertanto, priva di fondamento.>> p. 72-73

Sul danno lamentato dalla controllatne di M. e cioè dall’intervenuta Fininvest: <<La questione si risolve, a questo punto, nel verificare l’esistenza di un diritto soggettivo o di un’aspettativa giuridicamente tutelata della socia controllante all’adempimento del contratto concluso dalla società controllata con un terzo che possano essere lesi dal comportamento inadempiente di quest’ultimo, dando luogo ad un danno ingiusto risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.
Per escludere l’esistenza di una qualsiasi posizione giuridica soggettiva del socio che tuteli il suo interesse economico all’adempimento dei contratti conclusi dalla società con i terzi nell’esercizio dell’attività di impresa è sufficiente evidenziare che, in forza del contratto sociale e del rapporto che ne deriva, il socio è tenuto a sopportare, nella misura corrispondente all’entità della partecipazione sociale di cui è titolare, il rischio dell’attività economica comune entro cui è ricompreso anche lo specifico rischio dell’inadempimento dei soggetti con cui la società partecipata ha stretto vincoli negoziali.
Il danno derivato dall’inadempimento del contratto fra la società ed un terzo, giuridicamente riferibile solo alla società lambisce il socio di riflesso, colpendolo nel suo interesse meramente economico al successo delle iniziative intraprese nell’esercizio dell’attività comune di impresa, la cui lesione non può configurare il danno ingiusto, elemento costitutivo dell’illecito aquiliano secondo la previsione dell’art. 2043 c.c.
Diversamente si finirebbe per affiancare ad ogni ipotesi di inadempimento dei contratti stipulati dalla società con i terzi,>>, p. 79

Sul danno da oscillazione borsistica: <<A prescindere dalle aspre critiche mosse alla prospettazione sotto il profilo tecnico dai consulenti della società convenuta (v. doc. 242 di parte convenuta), tutta la ricostruzione teorica sottesa alla prospettazione del danno fornita da Fininvest nel corso del giudizio poggia su un evidente equivoco di fondo: assume, cioè, per scontato il fatto che dall’andamento al ribasso del prezzo del titolo quotato in borsa derivi necessariamente ed immediatamente una corrispondente perdita di valore economico della partecipazione del socio della società emittente e, quindi, un danno risarcibile.
Che l’assioma sia fuorviante è evidente anche solo notando che nessuno considera perduto o pregiudicato l’investimento dell’azionista per il momentaneo ribasso del prezzo di borsa dei titoli sino a che rimangono nel suo portafoglio in attesa del momento di rialzo propizio per la vendita.
Nella stima del valore della partecipazione sociale in una società quotata si accentua, indubbiamente, la sua natura di investimento del socio, soggetto oltre che al comune rischio derivante dall’ esercizio dell’attività di impresa anche all’oscillazione del prezzo del titolo in borsa dovuto ai fattori più svariati, non necessariamente connessi alla situazione patrimoniale economico e finanziaria della società emittente, che lo espone ad un rischio di perdita dell’investimento inversamente proporzionale alla curva di ribasso del titolo.

L’oscillazione del valore di borsa del titolo è, però, una componente fisiologica del rischio gravante sul socio di una società quotata che, anche se dovuto ad un evento anomalo, non determina di per sé alcun danno effettivo all’azionista ma resta a livello di indicatore della misura del rischio che l’investimento sta correndo in un determinato momento, per tradursi in perdita economica effettiva solo quando la partecipazione dovesse essere dismessa a prezzo inferiore rispetto a quello a cui è stata acquistata.
L’andamento al ribasso del prezzo di borsa del titolo rappresenta, quindi, per l’azionista un pregiudizio meramente potenziale che può tradursi in una perdita economica effettiva e attuale solo con la dismissione della partecipazione.
L’esistenza di un danno risarcibile per l’azionista richiede, quindi, che l’illecito prospettato abbia determinato l’assestarsi durevole e senza prospettive di risalita della tendenza al ribasso del titolo che lo abbia costretto alla dismissione della partecipazione a prezzo deteriore.
La situazione non muta per il socio titolare di una partecipazione rilevante, cioè di consistenza quantitativa tale da consentigli di esercitare un’influenza dominante o il controllo sulla società emittente.
In questo caso alla variazione del rischio di perdita dell’investimento comune alla platea degli azionisti può aggiungersi, a seconda della quantità e composizione del flottante, l’aumento del rischio della perdita del controllo della società emittente, rendendo possibili a costo contenuto acquisizioni c.d. ostili, cioè non concordate, finalizzate alla sostituzione del governo dell’impresa.
Anche questo è un rischio tipico del socio titolare di una partecipazione rilevante in una società quotata, connesso alla struttura stessa della sua compagine sociale, indistintamente aperta a chiunque intenda investire nell’impresa comune, che non gli consente di nutrire alcuna aspettativa alla conservazione dell’assetto proprietario che gli assicura il governo dell’impresa, meno che mai in un mercato che attraverso la disciplina della trasparenza degli assetti proprietari e dell’OPA tende ad incentivare la “contendibilità” del governo delle società quotate per assicurare una gestione quanto più efficiente possibile dell’impresa comune, finanziata attingendo alle risorse di azionisti di minoranza tendenzialmente inerti.
In ogni caso, anche questo rischio specifico del socio titolare di una partecipazione rilevante rappresenta un pregiudizio solo a livello potenziale che non può dirsi venuto ad effettiva esistenza ove, nel periodo di ribasso del titolo, il pacchetto azionario di controllo o la partecipazione rilevante siano rimasti saldamente nelle mani del socio di maggioranza.>>, p. 81-82.

A questo punto è chiaro, conclude il Tribunale, <<che il danno lamentato da Fininvest per la perdita di valore della sua partecipazione in Mediaset a seguito del momentaneo crollo di borsa del titolo derivato dal fallimento dell’operazione di creazione dell’alleanza strategica non sussiste in mancanza dell’avvenuta dismissione della partecipazione sociale a condizioni deteriori o dell’effettiva perdita del controllo della società emittente in ragione del ribasso del titolo, mai prospettate dalla società attrice nel corso del giudizio e, notoriamente, mai avvenute.
Del resto la società attrice si è ben guardata dall’allegare di aver proceduto alla svalutazione in bilancio della sua partecipazione in Mediaset in misura corrispondente all’ingente perdita di valore lamentata nel presente giudizio.
Anche in questo caso il consulente di parte della società attrice ha fornito una configurazione accademica delle potenzialità di danno a cui il valore della partecipazione di Fininvest in Mediaset sarebbe stata esposta nel periodo successivo al naufragio dell’operazione programmata, in alcun modo utile alla prova dell’esistenza effettiva del pregiudizio economico lamentato>>.,p. 82-83

SECONDA SENTENZA

La seconda sentenza decide le domande relative alla scalata di Mediaset asseritamente contrastante sia coi patti preliminari sia col divieto ex art. 43 TUSMAR: <<Le tre società attrici Fininvest, Mediaset e RTI per sostenere l’illiceità della scalata ostile a Mediaset tentata da Vivendi nel mese di dicembre 2016 acquistandone le azioni quotate in borsa sino a detenere una partecipazione di “ blocco” pari al 28,8 % del capitale sociale, hanno lamentato, innanzitutto, la violazione da parte della società convenuta dell’accordo preliminare di scambio azionario dell’ 8 aprile 2016, stipulato con Mediaset e RTI, per la creazione di un’alleanza strategica nel settore dei media a livello internazionale e del patto parasociale accessorio che avrebbe dovuto sottoscrivere con Fininvest al momento del trasferimento reciproco delle azioni.
Con il tentativo di scalata Vivendi avrebbe violato, in particolare, la previsione implicita nel regolamento contrattuale e sottesa allo scopo della realizzazione di un’alleanza strategica paritetica, dell’obbligo di mantenere invariata “ la situazione di partenza” dell’azionariato di Mediaset implicante la preclusione a Vivendi dell’ingresso nella compagine sociale prima dell’esecuzione dello scambio azionario programmato, quando, con la sottoscrizione del patto parasociale sarebbero divenuti vincolanti i limiti quantitativi degli ulteriori acquisti di azioni Mediaset pattuiti per evitare l’OPA obbligatoria.
In particolare, nello scopo della complessa operazione negoziale mirante alla creazione tra i due gruppi imprenditoriali di un’alleanza paritetica e nel contenuto complessivo del regolamento contrattuale doveva ritenersi implicita, secondo l’interpretazione ed esecuzione di buona fede del contratto, la previsione di una vera e propria clausola di standstill che vietava a Vivendi di acquistare azioni Mediaset prima del closing.>>, p. 19.

La domanda è respinta: <<In sintesi il fatto storico che, secondo la prospettazione delle società attrici avrebbe configurato l’inadempimento ad un’obbligazione di standstill implicita nel regolamento del contratto sospensivamente condizionato e nel dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione, si è verificato quando il mancato avveramento della condizione era divenuto definitivo a seguito della scadenza del termine pattuito ed ogni effetto del vincolo negoziale condizionato era cessato per espressa previsione contrattuale, e, dunque, quando non era più neanche ipotizzabile la persistenza di un simile impegno.>>, p. 24.

Circa la violazione dell’art. 43 TUSMAR, dopo la nota sentenza della Corte di Giustizia 03.09.2020, C-719/18, la soluzione giudiziale era scontata, dovendosi disapplicare la norma invocata da Mediaset, p. 27/8.

Interessanti, per concludere, sono le considerazioni sulla concorrenza sleale ex art. n. 3 dell’art. 2598 cc.

Per il giucice non c’è rapporto di concorrenza (alla luce di una valorizzazione dell’inziaitiva economica privata ex 41 Cost.).

Precisamente: <<Così delineati i contorni essenziali dell’illecito civile di concorrenza sleale è escluso che la norma possa essere invocata con riferimento a relazioni di concorrenza, in senso lato, riferite alla competizione fra gruppi imprenditoriali per la realizzazione di un medesimo progetto industriale o alla gara per l’acquisizione sul mercato di uno stesso bene, avulse dalla contesa della clientela che ne costituisce l’essenza.
Né la norma, chiaramente riferita al mercato dei prodotti, può essere traslata ad operare sul mercato dei capitali, riconducibile al mercato dei fattori produttivi, o la slealtà derivante dalla clausola generale della violazione dei “ principi di correttezza professionale” invocata per tacciare di illiceità una qualsiasi competizione fra imprenditori che, in mancanza di specifiche violazioni di norme a tutela del dinamismo del mercato, corrisponde all’esercizio di una libertà costituzionalmente garantita>>, p. 31.

<<A prescindere dall’estrema genericità nella delimitazione del perimetro anche geografico del mercato comune individuato da Fininvest nella formulazione del suo addebito verso Vivendi, prioritaria e dirimente è la questione della configurabilità del mercato del controllo societario come possibile scenario della concorrenza sleale delineata dall’art. 2598 comma 1 n. 3 c.c.>, p. 32.

E la risposta è negativa: <<L’avvicendamento nella posizione di controllo è, infatti, lecito a prescindere dal consenso del soggetto che la detiene e dalla strategia impiegata per l’acquisizione, purché l’operazione sia compiuta nell’osservanza del complesso apparato di norme che, nel preminente interesse generale degli azionisti investitori, regola l’acquisizione di partecipazioni rilevanti in modo tale da assicurarne la trasparenza, funzionale a consentire loro di operare consapevolmente le proprie scelte, eventualmente anche di disinvestimento, in occasione del mutamento del governo dell’impresa.
Non solo la scalata ostile non è illecita nell’ambito della disciplina speciale sottesa al richiamo da parte della società attrice al “ mercato del controllo societario” ma la tutela giuridica dell’interesse a conservare il controllo dell’emittente da parte del socio di maggioranza non è affatto assicurata, e sarebbe, peraltro, in contrasto con la struttura stessa della società quotata che è, per definizione, aperta all’ingresso indiscriminato nella sua compagine sociale di chiunque acquisti le azioni sul mercato dei capitali e all’avvicendarsi nel suo governo di chiunque abbia la forza economica di conquistare la posizione di controllo nell’osservanza delle norme che regolano il mercato.
Nel contesto dei principi ispiratori della disciplina speciale del trasferimento del controllo societario, in estrema sintesi richiamati, appare chiaro che nessuno spazio applicativo potrebbe trovare l’art. 2598 c.c. essendo la “contesa” del pacchetto di controllo di una società quotata sul mercato dei capitali completamente estranea alla fattispecie della concorrenza sleale fondata sulla contesa della clientela nel mercato dei beni e servizi.
Nè la norma che tutela l’interesse privato dell’imprenditore alla correttezza della contesa della clientela all’interno del mercato economico di beni e servizi, può essere invocata a disciplinare la competizione tra due imprenditori che si contendono la partecipazione di controllo della stessa società quotata sul mercato dei capitali, soggetto alla disciplina pubblicistica specifica che lo regola.>>, p. 34.

<<Nel presente giudizio risulta, invece, acquisito un elemento che stride irrimediabilmente con la ricostruzione della vicenda offerta dalla società attrice a supporto della tesi dell’illecito civile da concorrenza sleale: il fatto che le azioni Mediaset sono state acquistate da Vivendi sul mercato, nel mese di dicembre 2016, ad un prezzo medio superiore alla quotazione del giorno antecedente l’accordo dell’8 aprile 2016, come risulta dalla documentazione non contestata prodotta dalla società convenuta (doc. da 155 a 162 di parte convenuta) e dalla nota tecnica della Consob del 20 dicembre 2016 anteriore all’ultima trance di acquisti, ove si legge “ la maggior parte ( il 17% circa del capitale sociale dell’emittente) delle azioni costituenti la partecipazione acquisita da Vivendi è stata acquistata a valori prossimi ai prezzi massimi di periodo; pertanto appare scarsamente verosimile un’ipotesi di manipolazione da parte di Vivendi con l’obiettivo di determinare un ribasso del prezzo del titolo strumentale ad acquisire una partecipazione rilevante in Mediaset a condizioni favorevoli.” (v. doc. All. G.5 di parte convenuta allegato alla nota depositata il 9.2.2021)>>, p. 35

Nemmeno esiste un mercato europeo delle pay tv, a causa delle barriere linguistiche: <<Al di là della confusione generata, anche sotto questo profilo, dalla stratificazione delle difese di Mediaset è palese l’insussistenza dell’elemento costitutivo dell’illecito di concorrenza sleale attesa la mancata delineazione del mercato merceologico e geografico ove le due società sarebbero in condizioni di contendersi la clientela e l’estraneità alla fattispecie invocata della competizione fra imprenditori avente ad oggetto la realizzazione di uno stesso progetto industriale.
Sotto il primo aspetto l’esistenza del mercato europeo della pay tv ove, secondo Mediaset, si sarebbe consumato l’illecito di concorrenza sleale addebitato a Vivendi presuppone la configurabilità di un’utenza europea del servizio televisivo che le barriere, soprattutto linguistiche, impediscono ancora di concepire così che deve escludersi sotto questo profilo la possibilità che si attui fra imprenditori del settore la contesa della clientela che esprima una vera e propria “nazionalità” europea.
Ed è appena il caso di rilevare che non opera su un mercato di dimensioni europee nel senso descritto, l’imprenditore del settore che sia semplicemente attivo, con le sue emittenti, all’interno di una pluralità di singole nazioni degli Stati membri dell’UE, potendo, in tal caso, la contesa dell’utenza essere concepita solo all’interno del mercato di ogni singola nazione.
Tanto è vero che la difesa di Mediaset, nella prospettazione originaria, aveva accennato all’esistenza di un rapporto di concorrenza con Vivendi, a livello quantomeno potenziale, all’interno del mercato italiano della pay tv, in ragione dell’intento preannunciato dalla società convenuta di realizzare, tramite la società controllata Telecom, un progetto di ingresso nel settore anche mediante la partecipazione alle aste per l’acquisto del diritto di trasmissione di contenuti sportivi.>>, p. 37.

<<In particolare, l’ostacolo alla realizzazione del progetto industriale di costituzione di “ un gruppo pan-europeo nel settore dei media” perseguito da Mediaset che Vivendi avrebbe frapposto attraverso l’occupazione “ abusiva” nella compagine sociale di Mediaset della “ casella” del partner strategico non è materia riconducibile all’illecito di concorrenza sleale per due ordini di ragioni:
– la competizione fra imprenditori in relazione alla realizzazione dei rispettivi progetti industriali non implica necessariamente la contesa della clientela sul mercato dei beni e servizi, tanto più se il progetto prevede la “creazione” di un nuovo mercato di sbocco dell’offerta dei propri servizi;
– l’occupazione “ abusiva” della “ casella” del partner nella compagine sociale di una società quotata in borsa, strutturalmente aperta all’ingresso nell’azionariato di chiunque acquisti il titolo sul mercato dei capitali a cui si rivolge per il finanziamento dell’attività di impresa e, dunque, naturalmente esposta all’eventualità della presenza di soci “sgraditi” finanche “ ostili” o addirittura concorrenti, è un’immagine difficilmente traducibile in termini giuridici di illiceità.
Tanto più se si considera che il divieto di concorrenza legalmente stabilito dall’art. 2390 c.c. riguarda gli amministratori e non i soci a cui neanche è precluso, in linea di principio, perseguire politiche economico- commerciali in contrasto o divergenti rispetto a quelle della società partecipata, salvo i limiti, in concreto, derivanti dal conflitto di interessi, come operante ai sensi dell’art. 2373 c.c., o dall’abuso o eccesso di potere nell’esercizio del diritto di voto (v. sulla questione l’ampia ed esaustiva motivazione di Tribunale di Milano 28 novembre 2014 in RG 35766/2014).
L’art. 2598 comma 1 n. 3 c.c. non si presta, in altri termini, a sanzionare con l’eliminazione dalla compagine sociale l’imprenditore concorrente che semplicemente vi abbia fatto ingresso né a reprimere la condotta del socio concorrente che persegua la realizzazione di un proprio progetto industriale in contrasto con l’interesse della società, trattandosi di situazione che trova rimedio, ove ne ricorrano in concreto i presupposti, nella disciplina del conflitto di interessi tra la società ed il socio nell’esercizio delle sue prerogative assembleari.>>, p. 38-39.

Però il 3 maggio 2021 è uscito un comunicato congiunto Fininvest, Mediaset e Vivendi di transazione delle liti.

Sintesi della transazione e degli scenari economici in Preta, lavoce.info.

Protezione di un progetto di architettura d’interni con il diritto di autore: la vertenza Kiko c. Wjcon in Cassazione

Dopo la sentenza di appello (v. mio post 30.01.2019) , la lite è stata decisa in sede di legittimità nella scorsa primavera da Cass. n. 8433 del 30.04.2020, rel. Iofrida.

Si tratta della tutela chiesta da Kiko (k.) contro Wycon (w.) sull’originale soluzione di arredo dei propri negozi  che sarebbe stata copiata da w..

La sentenza rigetta i motivi di da 1 a 6 di Wycon (soccombente in primo e secondo grado) ma accoglie quelli 8-10 sulla concorrenza parassitaria e l’11° sulla liquidazione del lucro cessante. Rinvia poi ad altra sezione (composizione) di corte di appello milanese anche per le liquidazione delle spese di legittimità.

Non ci sono spunti particolarmente interessanti.

La SC ricorda che l’art. 110 l. aut. <<Questa Corte ha, di recente, affermato il principio secondo cui l’art. 110, non è applicabile quando il committente abbia acquistato i diritti di utilizzazione economica dell’opera per effetto ed in esecuzione di un contratto di prestazione d’opera intellettuale concluso con l’autore (Cass. 24 giugno 2016, n. 13171; conf. in materia di appalto relativo ad un format, Cass. 18633/2017): e ciò perchè, in tal caso, non ha luogo un trasferimento per manifestazione di volontà delle parti contraenti, dal momento che tali diritti sorgono direttamente in capo al committente, quale effetto naturale del rapporto di lavoro autonomo o del contratto di opera professionale, salvo patto contrario.

Peraltro, l’art. 110 L.A., in ordine alla necessità di prova scritta della trasmissione dei diritti di utilizzazione, non opera nelle azioni promosse dal titolare del diritto autorale contro i terzi che abbiano utilizzato illecitamente l’opera (cfr. Cass. 3390/2003: “la norma dell’art. 110 della Legge sul diritto d’Autore (L. 22 aprile 1941, n. 633), nel prevedere che la trasmissione dei diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno deve essere provata per iscritto, si riferisce all’ipotesi in cui il trasferimento viene invocato dal cessionario nei confronti di chi si vanti titolare del medesimo diritto a lui ceduto; essa pertanto non opera al di fuori del conflitto tra titoli, ovvero tra pretesi titolari del medesimo diritto di sfruttamento, allorchè il trasferimento sia invocato dal cessionario del diritto di utilizzazione nei confronti del terzo che, senza vantare una posizione titolata, abbia violato tale diritto, compiendo atti di sfruttamento del medesimo bene, in tal caso l’acquisto potendo, quale semplice fatto storico, essere provato anche mediante mezzi diversi dal documento”)>>, § 3.

W. aevava poi censurato la mancanza di forma espressiva nel progetto di arredo, § 5.

Il motivoi  perla SC è inammibbile, perchè presuppone la censura sull’apporto creativo. Ma questo è oggetto di valutazione <<destinata a risolversi in un giudizio di fatto, come tale sindacabile in sede di legittimità soltanto per eventuali vizi di motivazione >>, § 5.

Soluzione errata: il giudizio sulla creatività è di diritto, consistendo in una (o essendo da equiparare a quello su) clausola generale.

Poi che l’arredo di  interni sia al più tutelabile come design ex arrt .2 n. 10 l. aut. , ma mai come opera dell’architettura, è derrato, dice la SC: ricorrendone i presupposti, infatti, anche quest’ultima tutela  è a disposizione, § 6 (oltre che quella da marchio di forma o diritto connesso ex art. 99 l.aut.)

La SC ha del resto ricordato che per orientamento costante ormai è ammesso il cumulo di tutela tra disegno e modello da un parte e diritto di autore dall’altra, citando giurisorudenz europea.

Lascia il principio di diritto seguente circa la creatività (confermando che si tratta di valutazione in diritto e contraddicendosi con quanto osservato poco prima):  “in tema di diritto d’autore, un progetto o un’opera di arredamento di interni, nel quale ricorra una progettazione unitaria, con l’adozione di uno schema in sè definito e visivamente apprezzabile, che riveli una chiara “chiave stilistica”, di componenti organizzate e coordinate per rendere l’ambiente funzionale ed armonico, ovvero l’impronta personale dell’autore, è proteggibile quale opera dell’architettura, ai sensi dell’art. 5, n. 2 L.A. (“i disegni e le opere dell’architettura”), non rilevando il requisito dell’inscindibile incorporazione degli elementi di arredo con l’immobile o il fatto che gli elementi singoli di arredo che lo costituiscano siano o meno semplici ovvero comuni e già utilizzati nel settore dell’arredamento di interni, purchè si tratti di un risultato di combinazione originale, non imposto dalla volontà di dare soluzione ad un problema tecnico-funzionale da parte dell’autore“.

Il motivo sette (§ 9) riguarda la parzialità della riproduzione. La SC , ricordati i concetti (dottrinali, non legislativi) di contraffazione, plagio e plagio-contraffazione , così osserva: <<per la sussistenza del plagio, che si riferisce alla sola violazione del diritto morale di paternità (allorchè quindi taluno spaccia per propria un’opera altrui), o della contraffazione, che rappresenta una lesione del diritto di proprietà e comprende tutte le forme di utilizzazione economica dell’opera dell’ingegno effettuate senza autorizzazione dell’autore allo scopo di trarne benefici economici, ovvero ancora del plagio-contraffazione, figura questa che implica la lesione contemporanea del diritto patrimoniale e del diritto morale, occorre la coincidenza degli elementi essenziali costituenti la rappresentazione intellettuale dell’opera imitata con quelli dell’opera in cui sarebbe avvenuta la trasposizione e devono essere presi in considerazione non l’idea ispiratrice o i singoli elementi dell’opera ma l’originale composizione ed organizzazione di tutti gli elementi che contribuiscono alla creazione dell’opera stessa e che costituiscono la forma individuale di rappresentazione del suo autore. Va quindi esclusa la sussistenza del plagio o della contraffazione o del plagio-contraffazione, ove l’idea altrui sia utilizzata in una diversa rappresentazione o vengano organizzati in modo nuovo elementi già appartenenti al patrimonio culturale comune e susciti in chi la osserva diverse sensazioni, essendo necessario quindi verificare se siano state introdotte delle mere varianti secondarie inidonee a dare vita ad una nuova opera percepibile come risultato di scelte espressive individuali distinte dalla prima opera ovvero se, per effetto anche di un’elaborazione tecnica, pur all’interno di un percorso ideale già da altri tracciato, valutato l’insieme degli elementi che caratterizzano l’oggetto, muti la capacità espressiva dell’opera ovvero la capacità di suscitare emotività nel pubblico, attraverso le caratteristiche estetiche dell’opera, e si raggiunga una creatività nuova meritevole di autonoma tutela. Il plagio può aversi in caso di riproduzione totale dell’opera ovvero di elaborazione “non creativa”, cioè con utilizzazione di elementi originali di un’altra opera, o “creativa”, ma senza superamento dell’individualità di rappresentazione dell’opera precedente ispiratrice, con conseguente sostanziale identità di rappresentazione, ma abusiva, ovvero ancora di trasformazione da una in altra forma, letteraria o artistica; particolarmente difficile diventa l’accertamento del plagio, nelle forme di elaborazione, laddove si sia in presenza di opere dell’ingegno fortemente stereotipate, nelle quali è complesso distinguere le parti originali da quelle derivanti da consuetudine legata al genere, essendovi possibilità di frequenti coincidenze creative, ed occorrendo allora valutare se non si tratti di veri e propri elementi volgarizzati e non individualizzanti, non meritevoli di tutela sotto il profilo della Legge d’Autore (Cass. n. Euro 7077/1990).>>

Si badi che, in presenza di un livello non particolarmente elevato di creatività presente nell’opera tutelata, <<varianti pur minime possono essere sufficienti ad escludere la contraffazione>>.

Da ultimo, la SC censurala sentenza per la superficialità nel giudizio essitenza di di concorrenza parassitaria (§ 11 e segg.)

Anche qui c’è un errore sul giudizio di fatto: << la valutazione complessiva delle singole condotte del concorrente e della loro idoneità, sulla base di una considerazione cumulativa, al fine di evidenziare la sussistenza o meno di un disegno unitario volto a sfruttare sistematicamente l’altrui lavoro, implica un tipico apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità>> § 11.3.  Il fatto è solo il fatto storico; il suo inquadramento nei concetti giuridici (dottrinali o legislativi) è giudizio di diritto.

Quanto alle spese, ricorre l’ultima censura. La liqudazione, anche se equitativa, non può essere irrazionale: come invece nel caso de quo in cui il lucro cessante è stato dalla C. di A. stimato pari al decuplo della parcella dello studio d’architettura che aveva elaborato il progetto di arredo.

La Cassazione sullo storno di dipendenti (art. 2598 n. 3 c.c.)

Con sentenza di un anno fa circa , la SC si è pronunciata sul tema dello storno di dipendenti.

Si tratta di Cass. 17.02.2020 n. 3865, rel. Scotti, Asahi Kasei Fibers Italia s.r.I. contro F.D.G. s.p.a. in liquidazione e amministrazione straordinaria

Questa la ricostruione dei fatti in sentenza: <<L’attrice ha sostenuto di aver prodotto da decenni il filo di cupro Bemberg con il marchio Bemberg Cupro; che la multinazionale giapponese Asai Kasei Corporation negli anni ’30 aveva acquistato il brevetto per produrre la fibra artificiale in Giappone e aveva assunto la qualità di socio occulto o azionista fiduciante di F.D.G.; che l’Asai Kasei Corporation aveva quindi messo in atto, tramite la società convenuta, da essa controllata, una tattica diretta a distruggere la società attrice; che in questo contesto erano stati stornati i signori Fabris, Rovetta, Coda Zabetta e Piotti, dipendenti preposti all’area commerciale ed era stata realizzata una campagna di sviamento di clientela mediante attività pubblicitarie e snnembramento dell’organizzazione aziendale; che la convenuta aveva utilizzato la scritta Bemberg sul suo sito; che si era determinato un calo del fatturato contestuale all’aumento del fatturato della società giapponese.>>.

Tema che rimane delicato poichè, nonostante molte pronunce nel corso degli anni (anzi, dei decenni),  in un regime di economia di mercato il diritto ad una condotta leale da parte dei concorrenti si scontra sia con il loro diritto di organizzare liberamente l’azienda (in primis scegliendosi i lavoratori) sia col diritto di questi ultimi di scegliersi liberamente il datore di lavoro.

Ebbene, dapprima la SC offre una summa delle regole tralaticie osservate (o solo declamate,  è da vedere …) dai giudici: <<E’ ben nota la particolare delicatezza del tema della concorrenza sleale per storno di dipendenti perchè in questo caso i profili della correttezza del rapporto di concorrenza commerciale tra imprenditori vengono a interferire pesantemente con diritti costituzionalmente tutelati, e non solo con il diritto alla libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.) ma anche e soprattutto con il diritto al lavoro e alla sua adeguata remunerazione in capo ai collaboratori dell’imprenditore (artt. 4 e 36 Cost.).

La mera assunzione di personale proveniente da un’impresa concorrente non può infatti essere considerata di per sè illecita, essendo espressione del principio di libera circolazione del lavoro e della libertà d’iniziativa economica.

In sintesi, secondo la giurisprudenza, non può essere negato il diritto di ogni imprenditore di sottrarre dipendenti al concorrente, purchè ciò avvenga con mezzi leciti, quale ad esempio la promessa di un trattamento retributivo migliore o di una sistemazione professionale più soddisfacente; è indiscutibile il diritto di ogni lavoratore di cambiare il proprio datore di lavoro, senza che il bagaglio di conoscenze ed esperienze maturato nell’ambito della precedente esperienza lavorativa, lungi dal permettergli il reperimento di migliori e più remunerative possibilità di lavoro, si trasformi in un vincolo oppressivo e preclusivo della libera ricerca sul mercato di nuovi sbocchi professionali.

Per la configurazione della fattispecie residuale di illecito per “violazione del criterio della correttezza professionale” (ex art. 2598 c.c., n. 3), non è sufficiente, quanto all’elemento soggettivo, la mera consapevolezza in capo all’impresa concorrente dell’idoneità dell’atto a danneggiare l’altra impresa, ma è necessaria l’intenzione di conseguire tale risultato (animus nocendi); inoltre la condotta deve risultare inequivocabilmente idonea a cagionare danno all’azienda nei confronti della quale l’atto di concorrenza asseritamente sleale viene rivolto.

La concorrenza illecita per mancanza di conformità ai principi della correttezza non può mai derivare dalla mera constatazione di un passaggio di collaboratori da un’impresa a un’altra concorrente, nè dalla contrattazione che un imprenditore intrattenga con il collaboratore del concorrente (attività in quanto tali legittime); è necessario invece che l’imprenditore concorrente si proponga, attraverso l’acquisizione di risorse del competitore, di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista, creando effetti distorsivi nel mercato; in siffatta prospettiva, assumono rilievo la quantità e la qualità del personale stornato, la sua posizione all’interno dell’impresa concorrente, la difficoltà ricollegabile alla sua sostituzione e i metodi eventualmente adottati per convincere i dipendenti a passare a un’impresa concorrente>>, § 5.5.

Poi segue la loro applicazione al caso di specie, in particolare alla sentenza di appello, energicamente cassata (profilo interessante per capire i presunti errori):  <<La sentenza impugnata ha ravvisato l’attività di storno di dipendenti (in realtà, in due casi su quattro, di collaboratori autonomi) di F.D.G., omettendo completamente di valutare il profilo – in linea oggettiva – del danno competitivo e dello choc disgregativo che esprime in questa figura sintomatica la necessaria idoneità a danneggiare l’impresa concorrente richiesta dall’art. 2598 c.c., n. 3.

Tantomeno è stata accertata la sussistenza dell’animus nocendi, necessariamente nella sua concretizzazione oggettiva, dimostrando che lo storno era stato posto in essere con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente.

La Corte territoriale ha omesso completamente di considerare il fatto, risultante anche dalla sentenza di primo grado, che non si era verificato un passaggio diretto dei quattro dipendenti/collaboratori da una società all’altra; che almeno tre dei quattro ex dipendenti/collaboratori di F.D.G. avevano iniziato a collaborare con Asahi quando il loro rapporto con F.D.G. era da tempo interrotto; che due di loro erano stati collocati in pensione; che per due di loro (e in particolare quello con il ruolo di maggior rilievo, ossia il dirigente R.) non solo non vi era stato passaggio diretto, ma era trascorso un rilevante intervallo di tempo di attività lavorativa prestata alle dipendenze di altre imprese (20 e 14 mesi); tantomeno erano state considerate le modalità di interruzione del rapporto dei collaboratori, verificando se l’interruzione era stata determinata dal recesso della stessa F.D.G. – Bemberg.

E’ del tutto evidente che lo storno di collaboratori non è neppur concepibile allorchè l’impresa concorrente approfitti – a maggior ragione a distanza di tempo – della disponibilità sul mercato del lavoro di risorse di personale, precedentemente dismesse dall’azienda concorrente, in difetto tanto del danno quanto dell’intenzione e della possibilità di arrecarlo.

Anche ammessa la posizione “apicale” (per vero del tutto apoditticamente attribuita anche a soggetti indicati come meri addetti alle vendite e procacciatori d’affari), o anche solo strategica, dei quattro collaboratori nell’organigramma aziendale di F.D.G. per il fatto di operare nella sua area commerciale marketing, nel sussumere la fattispecie nella figura dello storno concorrenziale illecito la Corte territoriale non avrebbe potuto prescindere nè dall’ostacolo dell’assunzione dei collaboratori stornati dopo un cospicuo intervallo di tempo dall’interruzione dei rapporti con F.D.G. e dopo rilevanti periodi di collaborazione con altre imprese, anche all’estero, nè dalla valutazione delle modalità e delle cause dell’interruzione dei rapporti predetti con l’azienda che si assume danneggiata.

5.7. La sentenza impugnata non accerta – o anche solo non prospetta – la sussistenza di manovre elusive poste in essere da Asahi con la complicità dei collaboratori per mascherare il passaggio diretto attraverso uno schermo artefatto, per mezzo di triangolazioni o simulazioni di rapporti contrattuali con terzi.

In effetti, al contrario, la sentenza impugnata ha escluso la prova della sussistenza di rapporti occulti o di natura concorrenziale fra Asahi Italia e i quattro collaboratori, assumendo esplicitamente (pag. 13) che dal complesso delle testimonianze assunte non emergeva la prova di contatti risalenti al 2002 (ossia all’epoca della cessazione del rapporto di lavoro e collaborazione) tra i dipendenti e collaboratori e la Asahi Italia; la Corte subalpina, anzi, pur dandone atto, ha giustamente affermato di dover prescindere dalle mere supposizioni, basate solo su convincimenti personali, privi di ancoraggio a fatti precisi, del teste B., ex Presidente e amministratore delegato e direttore generale di F.D.G..

5.8. La Corte di appello ha poi ignorato, nel valutare la configurabilità dello storno illecito, il grave stato di dissesto in cui si era venuta a trovare F.D.G., dipeso da una inadeguata gestione della precedente compagine societaria, in via del tutto indipendente dalla trasmigrazione di collaboratori contestata, accertato dal Tribunale di Novara e pur da essa stessa riconosciuto a pagina 18 della sentenza impugnata, allorchè ha riconosciuto che l’azienda dell’attrice “navigava già in cattive acque” e ha poi negato, rigettando la domanda risarcitoria, che il passivo accertato in sede di procedura di amministrazione straordinaria fosse riconducibile causalmente ai fatti di causa, sia pur con l’ipotetica riserva “tuttalpiù solo in parte” posta ad obiettivo del ricorso incidentale di F.D.G..>>, §§ 5.6 – 5.8.

Resta sempre aperta la questione dell’elemento soggettivo (animus nocendi), non richiesto dalla legge, che pare costituire solo un escamotage per superare la difficoltà, sopra accennata, del dover  conciliare interessi confliggenti.

Si tratta in effetti del profilo più problematico della fattispecie.

V. nota (parzialmente critica dell’orientamento seguito) di M. Lascialfari in Corr. giur., 2021/2, 209 ss.

Concorrenza sleale tra gestori ferroviari tramite contatto dei passeggeri in stazione

Trenitalia chiede l’accertamento della slealtà di Italo nella condotta che segue (come da allegazione Trenitalia): “gli addetti NTV (a) intercettano gli utenti, nella maggior parte dei casi di nazionalità straniera, mentre sono in procinto di acquistare il biglietto al DAB [Distributore Automatico  di  Biglietti]Trenitalia;  (b)  individuano  anzitutto  la  tratta  che  i  medesimi viaggiatori hanno selezionato; e poi (c) sottopongono ai viaggiatori l’offerta di NTV per il medesimo  servizio,  invitandoli  poi  a  recarsi  presso  il  DAB  Italo -fisicamente  adiacente  a uello di Trenitalia –e prestando altresì la propriaassistenza per coadiuvare i viaggiatori così adescati a completare il procedimento di acquisto del biglietto Italo”, § 2.

Rigetta però la domanda Trib. Roma 27.02.2019 a scioglimento di riserva assunta in ud. 27.02.2019, Trenitalia c. Italo, GU Carlomagno, RG 3140/19.

Infatti:

    • non c’è confusione, § 9
    • la proposta di acquisto è lecita, con mercato rilevante identificato nei <<viaggiatori già presenti in stazione>>, § 12.
    •  Le condizioni date del mercato di riferimento, in assenza di vincoli normativi, non possono per sé stesse costituire un vincolo all’attività concorrenziale degli operatori; nulla vieta in astratto che la condotta innovativa di uno di essi alteri il quadro in cui si svolge la competizione, ad esempio, introducendo nuove forme di comunicazione o tecniche innovative dimarketing; il fatto che i concorrenti non siano in grado o non abbiano interesse a reagire, ponendo in essere condotte analoghe, per sé stesso è irrilevante al fine di valutare la liceità della condotta dell’innovatore, § 17.
    • Trenitalia non ha indicato alcuna norma da cui si possa desumere un divieto di svolgere attività promozionale in stazione mediante l’approccio diretto del potenziale cliente, ritenendo, secondo quanto si desume dalla sua esposizione, che tale attività sia illecita perché rivolta nei confronti della sua clientela e perché diretta ad incidere su un processo di acquisto già avviato, § 18.
    • in concreto l’attività promozionale di Italo non è indirizzata in modo casuale ed indifferenziato nei confronti di tutti i viaggiatori presenti in stazione ma è rivolta in modo specifico ai viaggiatori in fila alle biglietterie automatiche o comunque presenti nelle aree in cui queste sono collocate. Si pone dunque la questione di quale rilevanza possa assumere, ai fini della sua valutazione, il fatto che essa si rivolga anche a viaggiatori in fila alle biglietterie di Trenitalia o che già stiano operando al terminale, § 20
    • A questo riguardo occorre considerare che l’acquisto self service per definizione si realizza, senza alcun intervento umano dal lato del venditore, con un’attività riferibile esclusivamente all’acquirente, il quale rimane libero di ritirarsi in qualunque momento sino al pagamento. Da ciò consegue che l’approccio diretto e personale ai viaggiatori presenti presso le biglietterie di Trenitalia, siano essi in attesa o stiano già operando al terminale, non si può considerare interferente con alcuna attività commerciale del concorrente, § 21
    • Nel contesto in esame la proposta di una alternativa al viaggiatore, con l’indicazione del prezzo, non fa che offrirgli la disponibilità di una informazione ulteriore, che questi è in grado di valutare secondo ilproprio personale metro di giudizio, ù 23.
    • Si intende che l’approccio diretto al cliente trova un limite nel rispetto dell’autodeterminazione di questo e nel divieto di effettuare turbative nei confronti di attività già avviate dal concorrente, siano anche esse promozionali o di assistenza alla clientela. Ma dalla relazione investigativa risulta la assoluta correttezza della condotta della resistente sotto entrambi i profili, § 24.

Raccogliere dati da Facebook senza suo consenso: è illecito?

Capita talora che Facebook (poi: F.) , invece che essere convenuta, sia attore: e cioè che, oltre a raccogliere dati dagli utenti, a sua volta subisca raccolte di dati dei sui utenti da un concorrente (c.d. data scraping e cioè raccolte massive ed automatizzate di dati).

La corte del Northern District della Californa ha deciso in via cautelare (temporary restraining order : “TRO”) la lite tra F. e Brandtotal ltd (poi: Br.) (US Nort. D. of California, 9 novembre 2020, Facebook v. Brandtotal, Case No.20-cv-07182-JCS).

Br. induceva i clienti ad installare due proprie estensioni scaricate da Google Store (UpVoice + AdsFeed) , con le quali raccoglieva molti loro dati su F. e su Instragram, nonostante misure adottate da F. per contrastare il fenomeno, p. 2..

Accortasene, F. disattivava sulla propria piattaforma gli account di Br.

Precisamente, secondo F., Br. faceva questo:

<< Once installed by the users . . . [BrandTotal] used the users’ browsers as a proxy to access Facebook computers, without Facebook’s authorization, meanwhile pretending to be a legitimate Facebook or Instagram user. The malicious extensions contained JavaScript files designed to web scrape the user’s profile information, user advertisement interest information, and advertisements and advertising metrics from ads appearing on a user’s account, while the user visited the Facebook or Instagram websites. The data scraped by [BrandTotal] included both public and non-publicly viewable data about the users.  [BrandTotal’s] malicious extensions were designed to web scrape Facebook and Instagram user profile information, regardless of the account’s privacy settings. The malicious extensions were programmed to send unauthorized, automated commands to Facebook and Instagram servers purporting to originate from the user (instead of [BrandTotal]), web scrape the information, and send the scraped data to the user’s computer, and then to servers that [BrandTotal] controlled >>, p. 3

Per precisazioni sulla parte in fatto, v.  Introduction, p. 1 ss e Background.  II, p. 2 ss.

I claims di F. sono: <<(1) breach of contract, based on the Facebook Network and Instagram terms of service, id. ¶¶ 67–73; (2) unjust enrichment, id. ¶¶ 74–80;
(3) unauthorized access in violation of the CFAA,
id. ¶¶ 81–86; (4) unauthorized access in violation of California Penal Code § 502, id. ¶¶ 87–95; (5) interference with contractual relations by inducing Facebook’s users to share their login credentials with BrandTotal, in violation of Facebook’s terms of service, id. ¶¶ 96–102; and (6) unlawful, unfair, or fraudulent business practices in violation of California’s Unfair Competition Law, Cal. Bus. & Prof. Code § 17200 (the “UCL”), Compl. ¶¶ 103–10. Facebook seeks both injunctive and compensatory relief. See id.
at 21–22, ¶¶ (a)–(h) (Prayer for Relief)>>, p. 5

Quelli di Br. sono:  <<(1) intentional interference with contract, based on contracts with its corporate customers, id. ¶¶ 32–41; (2) intentional interference with prospective economic advantage, id. ¶¶ 42–48; (3) unlawful, unfair, and fraudulent conduct in violation of the UCL, id. ¶¶ 49–63; and (4) declaratory judgment that BrandTotal has not breached any contract with Facebook because its access “has never been unlawful, misleading, or fraudulent,” because its products “have never impaired the proper working appearance or the intended operation of any Facebook product” or “accessed any Facebook product using automated means,” and because the individual users own the information at issue and have the right to decide whether to share it with BrandTotal, id. ¶¶ 64–73. BrandTotal seeks both injunctive and compensatory relief>>, p. 6/7.

La parte interessante è sub III, Analysis.

Qui , sub B a p. 12 ss , si espone che Br. ha invocato un precedente del 2019 hiQ Labs v. Linkedin in cui hiQLabs ottenne una riammissione ai servizi di Linkedin, pur avendo raccolto senza autorizzazione i dati dei suoi utenti. Solo che , fa notare il giudice, ci sono differenze sostanziali : i) mentre i dati di L. sono pubblici, quelli raccolti tramite F. sono invece largamente non pubblici (p. 22); ii) per questo l’interesse di F. al controllo dei dati è assai maggiore di quello di L., dato che molti sono ad accesso ristretto, p. 23.

Inoltre Br. non ha provato l’ irreparable harm per ottenere l’inibitoria della rimozione /disattivazione, p. 15 ss e 19-20.

Poi il giudice passa ad esaminare il likelihood of success (fumus boni iuris), p. 20 ss. Da un lato Br. non ha provato l’elemento soggettivo e cioè la consapevoelzza di F. che così facendo andava ad alterare il rapporto contratttuale tra Br e i suoi clienti, p. 21. Dall’altro c’è un serio interesse commerciale di F nell’ impedire l’accesso ai dati da parte di Br., p. 24 righe 18-22 e p. 26 righe 8-12.

Si aggiunge però che F. potrebbe aver agito così anche per impedire la sopravvivenza di (o comunque per danneggiare) un concorrente potenzialmente fastidioso nel mercato dell’advertising analytics: ciò dunque potrebbe far pendere la bilancia verso Br. per ragioni proconcorrenziali, p. 26.

Le ragioni proconcorrenziali sollevate da Br., però, sono serie ma non sufficienti: <The Court concludes that BrandTotal has raised serious questions as to the merits of this claim, but on the current record, it has not established a likelihood of success>, P. 26.

Complessivamente dunque , il bilanciamento equitativo delle pretese opposte (balancing of equities)  in relazione al danno per le parti porterebbe a far prevalere Br, p. 30-31,

Tenendo però conto di ragioni di public interest, la pretesa di inibitoria di Br verso F. va respinta, p. 31-34:  < BrandTotal has shown a risk of irreparable harm in the absence of relief, serious issues going to the merits of its claims, and a balance of hardships that tips in its favor, perhaps sharply so. The public interest, however, weighs against granting the relief that BrandTotal seeks >, p. 34

Novità legislative in tema di segni distintivi e sfruttamento della notorietà altrui

Il decreto-legge 11 marzo 2020 n 16, convertito con modifiche dalla legge 8 maggio 2020 numero 31, disciplina l’uso di segni distintivi  in relazione ai giochi olimpici e paralimpici invernali Milano Cortina 2026 e la realizzazione di altre attività parassitarie.

All’articolo 5-bis (<<Titolarità e tutela delle proprietà olimpiche>>)  si dice quali sono le <proprietà olimpiche> (simbolo Olimpico, bandiera, mott, …) e si stabilisce che l’uso delle stesse è riservato solo al Comitato Olimpico internazionale, a quello nazionale italiano ed altri enti specificamente indicati. Al comma 3 si vieta la registrazione come marchio del simbolo olimpico.

C’è un limite temporale: i divieti cessano di avere efficacia il 31 dicembre 2026 (cioè a giochi invernali conclusi, si può immaginare).

Il capo III regola invece le attività parassitarie : va segnalato che che la disciplina prescinde dei giochi olimpici , concernendo qualunque attività organizzativa di eventi. Si tratta del divieto del  c.d ambush marketing.

Secondo l’articolo 10 comma 1 <Sono  vietate   le   attivita’   di   pubblicizzazione   e commercializzazione   parassitarie,   fraudolente,   ingannevoli    o fuorvianti poste in essere in relazione  all’organizzazione di  eventi  sportivi  o   fieristici   di   rilevanza   nazionale   o internazionale non autorizzate dai soggetti organizzatori e aventi la finalita’ di ricavare un vantaggio economico o concorrenziale>.

Il comma seguente precisa quali sono queste attività di pubblicizzazione e commercializzazione parassitarie vietate.

Anche qui  c’è un ambito di applicazione temporale: a differenza da quello per le Olimpiadi , è un tempo mobile e cioè non legato ad una data fissa. Si dice infatti:  <I divieti di cui all’articolo 10 operano a partire dalla data di registrazione dei loghi, brand o marchi ufficiali degli eventi di cui al comma 1 del  medesimo  art.  10  fino  al  centottantesimo  giorno successivo alla data ufficiale del termine degli stessi> (articolo 11).

L’articolo 12 poi dispone sanzioni anche di una certa gravità per la violazione dell’articolo 10: il relativo accertamento compete ad AGCM con i poteri propri degli accertamenti fiscali.

Da ultimo , l’articolo 13 fa salva la tutela diretta in capo ai danneggiati in base ad altre disposizioni , menrte l’articolo 14 aapporta una modesta modifica all’articolo 8 comma 3 del codice di proprietà industriale

La normativa andrà studiata con attenzione. A prima vista però non introduce particolari novità: probabilmente tutto o quasi era già desumibile dalla normativa anteriore.

Forse le novità principali sono da un lato i citati limiti temporali della tutela e dall’altro le sanzioni amministrative