Tra diffamazione, danno reputazionale e concorrenza sleale denigratoria

L’appello del 9° circuito No. 21-16466 del 2 giugno 2023, Enigma c. Malwarebytes decide una lite di vecchia data tra due aziende di sicurezza informatica , una delle quali aveva diffamato l’altra (designating its products as “malicious,” “threats,” and “potentially unwanted programs”)

Dal syllabo iniziale:

<<The district court primarily based the dismissal on its conclusion that Malwarebytes’s designations of Enigma’s products were “non-actionable statements of opinion.”

The panel disagreed with that assessment.

In the context of this case, the panel concluded that when a company in the computer security business describes a competitor’s software as “malicious” and a “threat” to a customer’s computer, that is more a statement of objective fact than a non-actionable opinion. It is potentially actionable under the Lanham Act provided Enigma plausibly alleges the other elements of a false advertising claim.
The district court held that the tort claims under New York law failed because Malwarebytes was not properly subject to personal jurisdiction in New York. That meant Enigma’s claim for relief under New York General Business Law (NYGBL) § 349 failed because that statute did not apply to the alleged misconduct. The panel disagreed and concluded that Malwarebytes is subject to personal jurisdiction in New York. As this action was initially filed in New York, the law of that state properly applies.
The common law claims for tortious interference with contractual relations and tortious interference with business relations were also dismissed by the district court. Those torts are recognized as actionable under California law, as they are under New York law, but the district court concluded that Enigma failed to allege essential elements for those claims under California law. The contractual relations claim failed because Enigma did not identify a specific contractual obligation with which Malwarebytes interfered. The business relations claim was dismissed because that claim required an allegation of independently wrongful conduct, and that requirement was not satisfied following the dismissal of the Lanham Act and NYGBL § 349 claims.

Because the panel held that the Lanham Act and NYGBL § 349 claims should not have been dismissed, the panel concluded that the tortious interference with business relations claim should similarly not have been dismissed. The panel agreed with the district court regarding dismissal of the claim for tortious interference with contractual relations, however, and affirmed the dismissal of that claim>>.

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Buona nota alla sentenza nella Harvard law review.

Concorrenza sleale da parte del terzo

Cass. sez. I del 8 maggio 2023 n. 12.092, rel. Iofrida sull’annosa tradizionale questione:

<<Lamenta la ricorrente la violazione e falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., oltre che vizi di omesso esame di fatto decisivo, in ordine sempre alla carenza in capo alla stessa della qualità di imprenditrice concorrente della cooperativa San Giovanni, eccepita sin dal primo grado, che, a suo avviso, avrebbe dovuto in ogni caso comportare necessariamente al rigetto delle domande svolte dalla controparte.
Ora si deve osservare, in linea di principio, che la concorrenza sleale costituisce fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, sicché non è ravvisabile ove manchi il presupposto soggettivo del cosiddetto “rapporto di concorrenzialità”; tuttavia, l’illecito non è escluso se l’atto lesivo sia stato posto in essere da un soggetto (il cd. terzo interposto), che agisca per conto di un concorrente del danneggiato poiché, in tal caso, il terzo responsabile risponde in solido con l’imprenditore che si sia giovato della sua condotta, e, se il terzo sia un dipendente dell’imprenditore che ne ha tratto vantaggio, quest’ultimo ne risponde ai sensi dell’art. 2049 c.c., ancorché l’atto non sia causalmente riconducibile all’esercizio delle mansioni affidate al dipendente, risultando sufficiente un nesso di “occasionalità necessaria” per aver questi agito nell’ambito dell’incarico affidatogli, sia pure eccedendo i limiti delle proprie attribuzioni o all’insaputa del datore di lavoro (Cass. 31203/2017; Cass. n. 18691/2015; in argomento pure: Cass. n. 9117/2012; Cass. n. 17459/2007; Cass. n. 13071/2003); quando invece l’atto di concorrenza sleale sta stato compiuto da chi non sia dipendente dell’imprenditore che ne beneficia, la responsabilità dell’impresa concorrente viene affermata sulla base della regola dell’art. 2598 c.c., che qualifica illecito concorrenziale anche l’avvalersi “indirettamente ” di mezzi non conformi ai principi della correttezza professionale, laddove, pur in assenza di una partecipazione anche solo ispirativa, l’atto corrisponda all’interesse dell’imprenditore (Cass. n. 3446/1978), sempre che il terzo si trovi con il primo in una relazione tale da qualificare il suo agire come diretto ad avvantaggiare l’imprenditore della concorrenza sleale (Cass. n. 742/1981; Cass. n. 4755/1986; Cass. n. 5375/2001; Cass. n. 6117/2006; Cass. 4739/2012). La giurisprudenza di merito ha affermato in più occasioni la responsabilità della società per gli atti compiuti dall’amministratore, stante il rapporto organico e la valenza funzionale dell’atto al perseguimento dell’interesse sociale.
Il terzo autore dell’illecito concorrenziale, che agisca in collegamento con il concorrente del danneggiato, risponde in solido con l’imprenditore avvantaggiato dall’atto, mentre, mancando del tutto un collegamento tra il terzo autore del comportamento lesivo del principio della correttezza professionale e l’imprenditore concorrente del danneggiato, il terzo stesso è chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 2043 c.c. (Cass. n. 17459/2007; Cass. n. 9117/2012; Cass. n. 18691/2015; Cass. 7476/2017). Da ultimo questa Corte (Cass. n. 18772/2019) ha ribadito che “Gli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c., presuppongono un rapporto di concorrenza tra imprenditori, sicché la legittimazione attiva e passiva all’azione richiede il possesso della qualità di imprenditore; ciò, tuttavia, non esclude la possibilità del compimento di un atto di concorrenza sleale da parte di chi si trovi in una relazione particolare con l’imprenditore, soggetto avvantaggiato, tale da far ritenere che l’attività posta in essere sia stata oggettivamente svolta nell’interesse di quest’ultimo, non essendo indispensabile la prova che tra i due sia intercorso un “pactum sceleris”, ed essendo invece sufficiente il dato oggettivo consistente nell’esistenza di una relazione di interessi tra l’autore dell’atto e l’imprenditore avvantaggiato, in carenza del quale l’attività del primo può eventualmente integrare un illecito ex art. 2043, c.c., ma non un atto di concorrenza sleale”. In motivazione, si è rammentato che, secondo i principi generali in materia di concorrenza sleale, nel caso di condotta posta in essere da un soggetto terzo diverso dagli imprenditori concorrenti, non è necessaria la dimostrazione della colpa nella commissione della condotta stessa e che, affinché la commissione del fatto lesivo della concorrenza da parte del terzo abbia rilievo ex artt. 2598 c.c. e segg., è necessario dimostrare l’esistenza di una relazione di interessi tra l’autore dell’atto e l’imprenditore avvantaggiato, mentre non trova applicazione l’inversione dell’onere della prova previsto dall’art. 2600 c.c..>>

(in verde il passo più interessante a livello operativo)

Concorrenza sleale per violazione di norme pubblistiche (art. 2598 n.3 c.c.)

Cass. sez. I dell’8 maggio 2023 n. 12.049, rel. Ioffrida :

<<In effetti, con riguardo alla violazione dell’art. 2598 c.c., n. 3, la sola violazione di norme pubblicistiche non implica necessariamente, attesa la moltitudine di norme che incidono sullo svolgimento dell’attività imprenditoriale, il compimento di un atto di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598 c.c., n. 3, occorrendo distinguere tra norme che sono rivolte a porre dei limiti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, la cui violazione implica sempre un atto contrario ai principi di correttezza professionale e dunque di concorrenza sleale, e norme che impongono dei costi alle imprese operanti sul mercato (ad es. le disposizioni fiscali, le prescrizioni igienico-sanitarie ovvero anche le norme che subordinano l’esercizio di determinate attività imprenditoriali all’ottenimento di licenze o di autorizzazioni, implicanti comunque anche dei costi), la cui violazione può costituire l’antecedente di un atto di concorrenza, fonte di danno concorrenziale, ovvero servire per sostenere un ribasso dei prezzi o misure equivalenti, divenendo in tal caso la violazione della norma di diritto pubblico indirettamente la fonte di un illecito concorrenziale; deve essere data, in sostanza, dall’imprenditore che si duole della condotta del concorrente, dimostrazione non tanto della violazione di norme amministrative, quanto anche del compimento di atti di concorrenza potenzialmente lesivi dei propri diritti, mediante malizioso ed artificioso squilibrio delle condizioni di mercato (cfr. Cass. 8012/2004: in applicazione di tale principio la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso la sussistenza dell’illecito concorrenziale nel fatto di un gestore di una sala cinematografica che aveva solo ampliato la capienza del locale, portandolo da 308 a 1000 posti, senza alcuna autorizzazione amministrativa; cfr. anche, in motivazione, Cass. 9770/2018).

Ora, dalla sentenza impugnata emerge che l’illecito concorrenziale contestato ed accertato di Geoeco Italia consisteva nell’avere esercitato, dal 2002 al 2004, attività commerciali di ristorazione e market in aree nelle quali erano stati compiuti abusi edilizi (con mutazione della destinazione d’uso di alcuni ambienti) e che erano state peraltro trasferite al patrimonio comunale, oltre che in assenza di autorizzazione amministrativa, il tutto all’interno dello stesso complesso villaggio turistico ove la In. Tu.Ga. svolgeva regolarmente (essendo state respinte le domande riconvenzionali delle convenute Geoeco Italia e Gargano Progetti nei sui riguardi, sempre ex art. 2598 c.c.), sulla base di titoli abilitativi, per il periodo 2000/2005, attività ricettiva ed anche di somministrazione, alimenti e bevande. E rilevava il particolare settore e la tipologia di attività turistico – ricettiva svolta dalla concorrente danneggiata In. Tu.Ga., necessitante di un complesso di autorizzazioni amministrative per il legittimo esercizio.

Peraltro la vicenda dell’esecuzione ed ottemperanza del giudicato amministrativo traslativo della proprietà delle aree non è conferente rispetto al presente contenzioso che attiene all’illecito concorrenziale posto in essere dalla Geoeco Italia in danno alla In. Tu.Ga. in relazione all’esercizio di attività commerciale di vendita di prodotti alimentari e ristorazione, in assenza delle necessarie autorizzazione della pubblica amministrazione>>

Discorso un pò (come spesso) fumoso dato che il giudice deve dire se e in che modo la violazione abbia procurato vantaggi concorrenzialmente illeciti.

Sul rapporto tra domanda di violazione brevettuale e domanda di concorrenza sleale: rigettatala prima, va necessariamente rigetta pure la seconda?

la risposta è negativa , secondo  App. Milano n 132/2023, del 18.01.2023, RG 2231/2020, rel Giani, Piaggio c. Peugeot.

La corte rigetta l’appello di Piaggio contro la sentenza di prim ogrado cjhe aveva già repointo la sua domanda di contraffazione contro Peugeot, relativao allo scooter Metropolis rispetto al proprio MP3

Sul punto in oggetto, così ossservba , basandosi sul parametro soggettivo di rifeirmento:

<<29. La tutela accordata per la violazione della privativa può concorrere con quella
prevista per la concorrenza per imitazione servile, sul presupposto che il prodotto
rechi una forma individualizzante, tale da essere percepibile, oltre che
dall’utilizzatore informato, anche dal consumatore medio (Cass. n. 8944/2020;
Cass. n. 19174/2015).
Piaggio ha invocato la tutela per concorrenza sleale senza indicare fatti diversi
rispetto a quelli allegati per la tutela della privativa, precisando (con la memoria di cui all’art. 183, sesto comma, n. 1, c.p.c.) che la fattispecie di concorrenza sleale
sia quella per imitazione servile. Ne consegue che la sussistenza della concorrenza vada valutata esclusivamente con riguardo a tale fattispecie, in quanto ciascuna delle ipotesi previste dall’art. 2598 c.c. individua un’autonoma causa petendi che deve essere espressamente allegata nella domanda affinché sia delimitato il thema decidendum (Cass n. 2124/2014; Cass. n. 25652/2014).
Sul piano teorico, la medesima condotta di riproduzione delle forme del prodotto
non impedisce il concorso dei due illeciti, giacché “la configurazione dell’uno o
dell’altro di essi dipende solo dal diverso parametro di cui ci si avvale per la
valutazione del carattere (rispettivamente individuale o distintivo) delle dette
forme e della loro violazione, che è nel primo caso l’utilizzatore informato e nel
secondo il consumatore medio” (Cass. n. 8944/2020; Cass. n. 19174/2015).
Nel caso di specie, Piaggio non ha specificamente allegato quali siano le forme
distintive e quali quelle imitate, limitandosi, nell’atto di citazione, ad allegare la
sola perpetrazione degli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c.
Quand’anche si supplisse a tali lacune assertive, ritenendo che le forme distintive
implicitamente corrispondessero con quelle oggetto della privativa e andassero
ricavate dalle raffigurazioni contenute nel modello registrato, non essendo mai
state allegate ai fini della concorrenza sleale se non con un generico riferimento ai fatti integranti la contraffazione, in ogni caso l’imitazione servile del modello
Piaggio non sarebbe ravvisabile, nel caso di specie, perché le differenze sopra
emerse tra i due modelli, ai fini del giudizio di contraffazione, sono di tale
evidenza da essere percepibili non solo dall’utilizzatore informato, ma anche dal
consumatore medio, “normalmente informato e ragionevolmente attento”  >>.

Tema poco esplorato dalla dottrina ma interessante sotto il profilo teorico

Rigettato il ricorso Armani c. Basicnet per il marchio figurativo (coloristico) K-Way

Cass. 18.02.2022 n. 5491, sez. 1, rel. Scotti, rigetta il ricorso di Armani che aveva creato modelli con striscia colorata troppo simile a quella notissima di K-Way

Non ci sono spunti particolarmente interssanti, essendo la sentenza quasi tutta dedicata a rigettare censure dettagliate della motivaizne , miranti ad un riesame dei fatti, obiettivo stoppato dalla SC .

Vediamo alcuni passi

  1.   <<Nessuna norma impone di valutare la capacità distintiva e le percezioni del pubblico alla stregua di indagini demoscopiche, che costituiscono solo un possibile strumento di indagine, neppur previsto espressamente dalla legge e da ricondursi semmai nell’ambito di una consulenza tecnica d’ufficio, sì che il giudice è libero di formarsi il proprio convincimento sulla base di ogni possibile mezzo di prova.

10.5. Nelle pagine da 13 a 20 della sentenza impugnata, scrutinando il secondo motivo di appello di A., la Corte subalpina ha pienamente accolto il principio della necessità della riconoscibilità della striscia colorata per la tutela come marchio di fatto; ha posto in evidenza la rilevanza probatoria in tal senso della documentazione prodotta da parte delle attrici in primo grado riguardante la prova della percezione da parte del pubblico dei consumatori, tra l’altro contestata solo in misura molto parziale e non specifica (pag. 16, capoverso); ha invocato a sostegno il precedente di Corte di Giustizia UE 24.6.2004 circa la possibilità di tutela di combinazioni cromatiche, purché rappresentate graficamente in modo preciso secondo codici di identificazione internazionalmente riconosciuti e secondo una disposizione sistematica che associ i colori in modo predeterminato e costante e cioè in modo tale “da consentire al consumatore di percepire e memorizzare una combinazione particolare che egli potrebbe utilizzare per reiterare, con certezza, una esperienza di acquisto” (pag. 16, secondo capoverso); ha accertato nel caso concreto la ricorrenza di tali caratteri; ha quindi affrontato, ancor più specificamente, il cuore della censura di A. e cioè l’assunto che i consumatori non percepissero la striscia colorata come indicatore di provenienza, ma solo come elemento ornamentale; ha conferito rilievo scriminante per selezionare l’uso ornamentale dall’uso distintivo alla costanza e alla stabilità (accertate e verificate in concreto) il cui scopo è “quello di determinare nei consumatori la percezione di un rapporto fra prodotti e produttore, il che può avvenire solo se i primi siano caratterizzati sempre da un determinato segno, cui, conseguentemente, i consumatori ricollegano la loro origine”; ha accertato che il segno “striscia colorata” era stato apposto per molti anni senza alcuna variazione su prodotti di tipo diverso e ne ha tratto argomento per coglierne la funzione di indicatore di provenienza, caratterizzata dalla sua indifferenza ai prodotti contraddistinti; ha escluso che una covalenza decorativa possa inficiare la accertata e prevalente funzione distintiva.>> [qui si coglie il fatto che hga sostenuto la CdA nel ravvisare distinvitità]

2)      l’onere della prova consueto vale anche pe la prova negativa:

<<Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’onere probatorio gravante, a norma dell’art. 2697 c.c., su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l’estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto “fatti negativi”, in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude né inverte il relativo onere, tanto più se l’applicazione di tale regola dia luogo ad un risultato coerente con quello derivante dal principio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova, riconducibile all’art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio. Tuttavia, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può essere data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo (da ultimo, Sez. 6 – 3, n. 8018 del 22.3.2021, Rv. 660986 – 01; Sez. L, n. 23789 del 24.9.2019, Rv. 655064 – 01; Sez. 5, n. 19171 del 17.7.2019, Rv. 654751 – 01).>>

3)    giudizio di confondibilità:

<< 16.3. Ancora molto recentemente questa Corte (Sez. 1, n. 39764 del 13.12.2021; Sez. 6.1, n. 12566 del 12.5.2021) ha ricapitolato i principi che debbono governare il giudizio di confondibilità e ha riaffermato che l’apprezzamento del giudice del merito sulla confondibilità fra segni distintivi similari deve essere compiuto non già in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata considerazione di ogni singolo elemento, ma in via globale e sintetica (Sez. 1, n. 8577 del 6.4.2018, Rv. 647769 – 01; Sez. 1, n. 1906 del 28.1.2010, Rv. 611399 – 01; Sez. 1, n. 6193 del 7.3.2008, Rv. 602620 – 01; Sez. 1, n. 4405 del 28.2.2006, Rv. 589976 – 01).

Tale accertamento va condotto, cioè, con riguardo all’insieme degli elementi salienti grafici e visivi, mediante una valutazione di impressione, che prescinde dalla possibilità di un attento esame comparativo, avuto riguardo alla normale diligenza e avvedutezza del pubblico dei consumatori di quel genere di prodotti, dovendo il raffronto essere eseguito tra il marchio che il consumatore guarda ed il mero ricordo dell’altro (cfr. quanto evidenziato in motivazione da Sez. 1, 17.10.2018, n. 26001, attraverso il richiamo alla citata Sez. 1, n. 4405 del 28.2.2006).

Il principio inoltre è conforme all’insegnamento della giurisprudenza della Corte di giustizia, secondo cui il rischio di confusione tra marchi deve essere oggetto di valutazione globale, in considerazione di tutti i fattori pertinenti del caso di specie: valutazione che deve fondarsi, per quanto attiene alla somiglianza visuale, auditiva o concettuale dei marchi di cui trattasi, sull’impressione complessiva prodotta dai marchi, in considerazione, in particolare, degli elementi distintivi e dominanti dei marchi medesimi (Corte Giust. CE 11.11.1997, C-251.95, Sabel, 22 e 23; Corte Giust. CE 22.6 1999, C-342.97, Lloyd, 25).

Se è vero poi che il giudizio deve essere sintetico e basato sull’impressione complessiva agli occhi del pubblico di riferimento e non analitico, condotto mediante un minuzioso e dettagliato raffronto degli elementi di somiglianza e dissomiglianza dei due segni, non è men vero che l’obbligo di motivazione che incombe sul giudice gli impone, per scongiurare l’arbitrio, di dar conto delle ragioni che hanno orientato il suo giudizio e mettere in luce gli elementi che attirano primariamente l’attenzione del fruitore>>.

4) il giudizio sulla confonibilità è di fatto, § 16.5: non è così, è di diritto. “Di fatto” è solo quello sui fatti storici.

Concorrenza sleale di Fastweb verso Vodafone per illecita retention di clienti che avevano chiesto la migrazione

Chi  si interessa del mondo dei gestori telefonici troverà utile studiare Appello Milano n. 3048/2020 del 24.11.2020, RG 4005/2015, rel. Fontanella, vodafone Omnitel c. Fastweb.

Vodafone aveva fatto illecita attività c.d. di retention (=trattenimento) verso suoi clienti che avevano iniziato la migrazione verso Vodafone (F., cioè , avvertitane, li contattava per cercare di trattenerli).

La sentenza è centrata sul dato tecnico per accertare l’illecito e poi su quello contabile per accertare il danno .

La domanda è di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 3 cc

E’ accertato l’illecito, spot.  in base a decisione amministrativa AGCom e a perizia di causa.

Quanto alla quantificazione, è interssante l’iter logico del ctu e della Corte: bisogna stimare quanti clienti Vodafone ha perso (o meglio: non acquisito) stante la retention di F.  Poi bisogna stimare la redditività di ciascuno.

Essendo per lo più privati e micromprese,  la AMPU (Average Margin Per User: guadagno medio unitario) è stata stimata in euro 33,47 per Vodafon e € 8,42 per Fastweb

E’ poi interessante la stima del danno da pubblicità correttiva realizzata da Vodafone: non può essere correlata solo all’illecito di retention,  per cui in via quirtativa ha stimato euro 149,000. Precisamente: <Con riguardo, invece, alla quantificazione dei costi delle spese pubblicitarie inutilmente sopportate da Vodafone e riferibili ai clienti perduti per via delle condotte di retention poste in essere da Fastweb, il CTU ha valutato non corretto il prospetto di Vodafone per i seguenti motivi:
– Vodafone non ha differenziato, nel suddetto calcolo, i diversi segmenti di clientela. Secondo il CTU, “la presunzione che ogni segmento di clientela sia destinatario di un’identica quota di spese pubblicitarie e promozionali è certamente una possibilità concreta, ma totalmente priva di gravità, precisione e concordanza” (cfr. p. 16 CTU);
– Vodafone, come ogni altro operatore telefonico, dedica importanti risorse alla pubblicità istituzionale relativa al “brand” in sé, senza alcuna specifica connessione con particolari segmenti di clientela. Non sarebbe, dunque, possibile sostenere, con riguardo a tale quota delle spese pubblicitarie, una diminuita utilità delle stesse per via dell’attività di retention.
Tuttavia, ha rilevato ancora il CTU, non potrebbe negarsi che l’attività in questione abbia vanificato quantomeno una parte dei costi pubblicitari e promozionali sostenuti da Vodafone; per tale motivo, con criterio del tutto equitativo, l’Ing. Vestita ha stimato che le spese suddette, sostenute con riferimento ai clienti oggetto di retention, debbano  ragionevolmente essere comprese tra un massimo di Euro 374.138 e un minimo di Euro 261.298, con un valore intermedio di Euro 315.614.
La Corte ritiene di addivenire alla quantificazione in via equitativa di tale voce di danno considerando che Vodafone avrebbe dovuto comunque sostenere costi pubblicitari sia per mantenere la clientela già acquisita, sia per attrarne nuova, sia per sostenere il brand. Si tratta, quindi, di costi fissi rispetto ai quali appare verosimile ritenere che la perdita di un numero di clienti non superiore a 8.000 circa (come calcolati dal CTU Sanchini nella misura massima) possa avere inciso in misura modesta rispetto al totale della clientela alla quale la pubblicità è diretta.
Pertanto, si reputa equo riconoscere a tale titolo l’importo di Euro 149.655,00 (pari al 20% della spesa complessiva di Euro 748.276).>>

Infine è degno di nota il rigetto della domanda di danno all’immagine:

<<Infine, Vodafone assume di avere subito “un danno all’ immagine e alla reputazione commerciabile esprimibile in termini di perdita di chance”.
Precisa Vodafone che “[a] causa delle condotte di Fastweb, infatti, Vodafone agli occhi del mercato è risultata, suo malgrado, incapace di proporre offerte commerciali competitive rispetto a quelle del suo competitor” (cfr. pag. 42 atto d’ appello).
Rileva la Corte in proposito, come peraltro evidenziato dallo stesso CTU, che la chance di un’impresa si concretizza quando essa, per il solo fatto di operare in un certo mercato, ha l’opportunità di accedere a nuovi diversi segmenti di attività (nuove categorie di prodotti, nuovi segmenti di clientela, nuove aree geografiche, etc.) sino a quel momento non sfruttati.
Il danno all’immagine o alla reputazione commerciale, invece, ha riguardo alla perdita della fiducia e dell’apprezzamento da parte dei clienti e costituisce una fattispecie dannosa del tutto differente dalla perdita di chance, non impedendo al gestore di accedere a nuovi segmenti del mercato non precedentemente sfruttati.
Chiariti la diversa natura e il diverso ambito di incidenza dei due pregiudizi, e prescindendosi dall’incongruenza della prospettazione dell’appellante, ritiene la Corte che tale ulteriore voce di danno vada nella specie esclusa, stante il difetto di prove dirette o indizi gravi, precisi e concordanti (cfr. Corte di Cassazione civile sez. III, 19/07/2018, n. 19137) e considerato che il circoscritto ambito temporale e quantitativo del fenomeno di retention, come accertato, non appare idoneo a diffondere una generalizzata fama negativa circa le capacità tecniche e commerciali di Vodafone.>>

Interesse ad agire in una azione di accerttamento negativo di concorrenza sleale

Cass. 10.10.2022 n. 29.479, rel. Lamorgese, sull’oggetto:

<<Nella giurisprudenza di legittimità è principio consolidato quello per cui sussiste l’interesse ad agire nella proposizione di un’azione di mero accertamento negativo della propria condotta di contraffazione di un brevetto (o anche di un marchio) altrui, posto che tale azione mira a conseguire, mediante la rimozione di uno stato di incertezza oggettiva, un risultato utile giuridicamente rilevante e non conseguibile se non con l’intervento del giudice (cfr. Cass. n. 3885 del 2014); analogo principio vale per l’azione di accertamento negativo dell’illiceità (ovvero di accertamento positivo della liceità) della condotta di concorrenza sleale. L’interesse ad agire nell’azione di mero accertamento sussiste anche in assenza di un’espressa iniziativa assunta dal titolare del diritto di privativa tramite l’invio (o la ricezione) di una diffida o di un suo coinvolgimento in giudizi o procedimenti, non implicando necessariamente l’attualità della lesione di un diritto, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva, anche non preesistente al processo (cfr. Cass. n. 16262 del 2015)>>.

Applicato al caso sub iudice::

<Nella specie, come correttamente rilevato in diritto nella sentenza impugnata, certamente sussisteva l’interesse di Publinord ad agire per l’accertamento negativo dell’attività contraffattiva e di concorrenza sleale posta in essere con la registrazione e l’utilizzo del nome a dominio (Omissis), al fine di rimuovere lo stato di incertezza giuridica circa la liceità della propria condotta. Ed infatti, la Publinord, che nel giugno 2004 aveva ottenuto la registrazione del dominio (Omissis), si era vista recapitare da Menage una missiva in data 24 settembre 2010 che le intimava “l’immediata cancellazione del sito… entro cinque giorni” con l’avviso che, in mancanza, avrebbe adito l’autorità giudiziaria, non assumendo rilievo il fatto che la Menage non avesse percorso la via giurisdizionale. Successivamente, non avendo le parti raggiunto l’accordo sulla cessione del dominio, la Menage aveva introdotto la procedura di riassegnazione del dominio, a dimostrazione della volontà di non rinunciare alle proprie pretese, confermandosi la permanenza dello stato di incertezza circa il legittimo uso del dominio da parte di Publinord che il Tribunale ha eliminato accertando la legittimità della condotta della stessa Publinord con statuizione non impugnata in appello e, quindi, divenuta definitiva.

Infondata è la doglianza di esercizio abusivo dell’azione giurisdizionale da parte dell’originaria attrice, per essere, in tesi, meramente strumentale all’estinzione della procedura di riassegnazione del dominio, trattandosi di un esito previsto dal regolamento per la “Risoluzione delle dispute” (art. 3.3) nel caso di proposizione del giudizio ordinario di accertamento negativo che, nella specie, è stato (fondatamente) introdotto da Publinord in pendenza della suddetta procedura proposta dalla stessa Menage.

La tesi della ricorrente circa la fondatezza della propria istanza di riassegnazione del dominio in considerazione della malafede della condotta di Publinord, da un lato, introduce una questione nuova perché estranea (o solo indirettamente connessa) all’oggetto della controversia svoltasi nel giudizio di merito (che non è l’accertamento del diritto di Menage alla riassegnazione del dominio in via amministrativa, ma l’accertamento negativo delle violazioni imputate a Publinord), come dimostrato anche dall’affermazione della Corte territoriale secondo cui “Manage avrebbe potuto comunque riattivare (la procedura di riassegnazione)”; dall’altro, la tesi confligge con l’ulteriore affermazione della Corte (non censurata specificamente) che, come già il Tribunale, ha escluso rischi di confusione e di sviamento di clientela imputabili a Publinord a norma del medesimo regolamento per la “Risoluzione delle dispute” (art. 3.6)>.

Decisione semplice.

Istruttiva sentenza bolognese sulla disciplina brevettuale , rimedi compresi

Trib. Bologna n. 258/2021, RG 20004/2013, del 03 febbraio 2021, rel. Rimondini, offre un’utile panoramica delle questioni da trattare nei giudizi brevettuali.

– p. 17-19:  ripasso dei requisiti di brevettabilità

– modalità del rinvio alle ctu: < Il Tribunale non ha pertanto
motivi per discostarsi dalle considerazioni del consulente, in quanto frutto di un
iter logico ineccepibile e condotto in modo accurato, in aderenza ai documenti,
agli atti e allo stato di fatto analizzato
>, p. 23

– limitazione delle rivendicaizoni ex 76/3 cpi: senpre ammessa,   <purchè la stessa non sia posta in modo
abusivo e reiterato e rimanga entro i limiti del contenuto della domanda di
brevetto originaria (cfr. Tribunale Bologna, Sezione Specializzata in materia di
Impresa, 21.3.2018, n. 1223, in
www.giuraemilia. >, p. 26

– la descrizione può essere anche più più ampia della rivendicaizone dipendente: p. 27

– esclusa l’assegnazione in proprietà perchè inibitoria e ritiro dal commercio, disposte, son sufficienti per adeguata tutela, p. 32: questione interessante (in effetti la legge dà discrezionalità al giudice)

– concorrenza sleale ex 2598 n. 3 cc: esclusa per genericità della domanda: < Al riguardo va osservato che l’azione di contraffazione e quella di
concorrenza sleale sono certamente cumulabili, ma nel caso in esame l’azione ex
art. 2598 c.c. deve ritenersi infondata. Parte attrice, infatti, si è limitata a dedurre
tempestivamente solo che la realizzazione e commercializzazione di macchinari in
contraffazione con i diritti di privativa di Projecta integrava l’illecito
concorrenziale. Tale indicazione deve ritenersi troppo generica, non individuando
i fatti costitutivi alla base della domanda di concorrenza sleale
>. Affermazione assai perplessa, dato che la slealtà è in re ipsa dopo accertata la contraffazione. Semmai il problema è che il comando da c.p.i. copre quello emanabile da conc. sleale ex c.c., senza dare nulla in più : ma andava detto e motivato.

– negato il risarcimento del danno patrimoniale ex 125 c.1 cpi: < Nel caso in esame Projecta non ha tempestivamente compiuto alcuna
allegazione, neppure a livello generico, riguardo alla suscettibilità della
contraffazione a determinarle un danno, essendosi limitata – in tutti i tre i giudizio
– a dedurre che la contraffazione aveva per ciò solo procurato un danno, da
ragguagliare al valore complessivo del prodotto in contraffazione. La genericità di
tale allegazione non consente di apprezzare se vi sia stato, anche solo
potenzialmente, un danno, tenuto conto che – come eccepito da parte convenuta
fin dalla comparsa di risposta – Projecta non ha neppure allegato di sfruttare
commercialmente i propri titoli di privativa.
>>

– negato anche il danno non patriminiale sempre ex 125 c. 1 cpi: < L’attrice ha inoltre invocato l’art. 125, I comma, c.p.i. per il risarcimento
del danno non patrimoniale, che la norma in esame riconosce solo “nei casi
appropriati”. Il danno non patrimoniale, dunque, non sussiste in ogni ipotesi di
violazione di diritti di proprietà industriale, ma solo se la reputazione aziendale sia
stata pregiudicata dalla circolazione di prodotti contraffatti. Tale circostanza –
neppure dedotta specificamente dall’attrice – non pare ricorrere nell’ipotesi in
esame e, conseguentemente, la relativa richiesta va respinta.
>. Da segnalare: il d. non patrimoniale coincide con la lesione della reputazione.

– negato il danno, è negata anche la pubblicità alla sentenza: < Projecta ha domandato la pubblicazione della presente sentenza. L’art. 126
c.p.i. consente all’autorità giudiziaria di ordinare che la sentenza di accertamento
della violazione dei diritti di proprietà industriale di pubblicare la sentenza a spese
del soccombente. La pubblicazione della sentenza ha funzione di risarcimento in
forma specifica del danno (cfr. Cass., sez. I, 14.10.2009, n. 21835) e,
conseguentemente, l’infondatezza della domanda risarcitoria non consente di fare
applicazione dell’art. 126 c.p.i
>

Diffamazione e concorrenza sleale da parte dell’ex dipendente

Un ex dipendente pubblica commenti offensivi sull’ex datore di lavoro (anzi, in parte anche quando ancora era al suo servizio)  su piattaforme come ad es. Glassdoor.com, Reddit.com, and Teamblind.com. 

Le sue lamentele era centered on the accusation that LoanStreet and/or Lampl cheated Troia out of $ 100,000 in stock options.

Fece di tutto poi per amplificare la diffusione dei post.

v. qui quelli presenti in sentenza

Il datore lo  cita per diffamazione e concorrenza sleale.

Il caso è deciso dal Distretto sud di New York 17 agosto 2022, Case 1:21-cv-06166-NRB , Loanstrett c. Qyatt Troja.

Qui segnalo l’incomprensibile affermazione del giudice per cui ricorre lo use in commerce del nome commerciale del datore, pur  considerato che l’aveva inserito nel keyword advertising (v. sub C, p. 26 ss).

L’ex dipendente infatti non aveva iniziato alcuna attività commerciale, tanto meno concorrenziale.

(segnalazione e link dal blog del prof. Eric Goldman)

Precisazioni sui marchi: convalidazine, distintività e rapporto tra disciplina ad hoc e concorrenza sleale

Uili precisaizoni da Trib. Bologna n. 1782/2021, Rg 12664/2017, Montedil srl c. Mon.Edil srl, rel. Romagnoli, su questioni frequenti in tema di marchi:

1) << L’istituto della convalidazione può valere, però, solo per il marchio successivo registrato (cfr. Cass. civ.
Sez. I, n. 26498 del 2013) o al massimo per la denominazione sociale e il nome a dominio (che sono
comunque segni distintivi in qualche modo “registrati”) quindi non per il marchio di fatto, quale è quello
(o meglio, quelli) della convenuta (MONT.EDIL IMPRESA EDILE, MONTEDIL COSTRUZIONI
EDILI e MONTEDIL SRL con la raffigurazione dell’escavatore, cfr. docc. 2, 2 ter, 2 bis, 3, 4, 5 e 14);
d’altronde, l’eventuale tolleranza dell’uso della ditta o dominazione sociale MONT.EDIL, non significa
tolleranza nell’uso dello stesso segno come marchio (cfr. Cass .civ. Sez. I, 20.4.2017 n. 9966): dunque in
nessun modo potrebbe esservi convalidazione del marchio
>>, p. 5;

Del resto il tenore della disposizione (art. 28 cpi) è inequivoco.

2) << Va altresì disattesa ogni prospettazione di nullità dei marchi attorei per assenza di capacità distintiva ai
sensi dell’art. 13 CPI: il termine “edil” è senz’altro evocativo del servizio edile, ma è un tutt’uno non
distinguibile nel marchio MONTEDIL che con l’anteposizione del termine “mont” conferisce al segno
nella sua unitarietà una capacità distintiva avulsa dalla natura del servizio prestato; per altro verso, la
circostanza che il termine “montedil” sia utilizzato da diverse imprese nella propria denominazione
sociale non fa di esso un segno divenuto di uso comune nel commercio ai sensi della lett. a art. 13 cit.,
che invece fa riferimento alla parola del linguaggio comune che si pretenda di utilizzare come marchio
>> e poi, superrata la questione della validità di quello aizonaot, affronta quella della legittimità di quello conveuto: << Se ciò è vero, appare chiaro che anche a considerare la natura “debole” del marchio “montedil”
l’introduzione di un punto fra “mont” ed “edil” non è variazione sufficiente ad escludere la confondibilità
fra i servizi richiamati dal segno; d’altronde, pur riconoscendosi che il marchio MONT.EDIL è stato
utilizzato assieme ad altri elementi (terminologici o figurativi) reputa il collegio che tali elementi
aggiuntivi non riescano a controbilanciare la somiglianza (quasi identità) fonetica e morofologicolessicale.
Va dunque riconosciuto che l’uso del segno “montedil” comunque scritto (con l’inserimento del punto
fra “mont” ed “edil” ovvero con l’aggiunta di ulteriori termini come “impresa edile” o “costruzioni edili”
o di elementi figurativi come l’escavatore stilizzato) da parte della convenuta è in violazione dei marchi
registrati attorei ex art. 20/1° co. lett. b) CPI, e conseguentemente ne va disposta l’inibitoria da ogni
utilizzo, anche quale denominazione sociale e nome a dominio.
Quanto specificamente al nome a dominio
www.montedilparma.com il collegio apprezza che l’aggiunta
del termine “parma” neppure valga a differenziare adeguatamente il segno rispetto ai marchi dell’attrice,
perché l’indicazione territoriale associata alla denominazione sociale semmai induce il mercato a ritenere
che il segno sia riconducibile ad unità territoriale dell’impresa piuttosto che a diversa impresa avente la
stessa denominazione, sicchè non consiste in idoneo elemento qualificante a designare la convenuta e ad
escludere il rischio associativo fra imprese
>>, p. 6

3) << Va disattesa la domanda concernente la concorrenza sleale confusoria (art. 2598 n. 1 c.c.) sulla quale
domanda il collegio osserva quanto segue.
Sebbene siano astrattamente compatibili e cumulabili la tutela dei segni distintivi prevista dal codice
della proprietà industriale e quella prevista dal codice civile in tema di concorrenza sleale (in tal senso è
chiaramente l’
incipit dell’art. 2598 c.c.), va condiviso il principio per cui la medesima condotta può integrare sia la contraffazione della privativa industriale sia la concorrenza sleale per l’uso confusorio di
segni distintivi solo se la condotta contraffattoria integri anche una delle fattispecie rilevanti ai sensi
dell’art. 2598 c.c., cioè a dire che va esclusa la concorrenza sleale se il titolare della privativa industriale
si sia limitato a dedurre la sua contraffazione (cfr. Cass. sez. I, 02/12/2016, n. 24658 in materia di
brevetto), se – in altre parole ancora – le due condotte consistano nel medesimo addebito integrante la
violazione del segno (o del brevetto).
In buona sostanza, dall’illecito contraffattorio non discende automaticamente la concorrenza sleale, che – dunque – deve constare di un
quid pluris rispetto alla pura violazione del segno o del brevetto, cioè di una modalità ulteriore afferente il fatto illecito >> p. 6/7