Riprodurre un video altrui tramite embedding costituisce comunicazione al pubblico

La South. Dist. Court di NY 30.07.21, Case 1:20-cv-10300-JSR, Nicklen c. SINCLAIR BROADCAST GROUP Inc., afferma che la riproduzione tramite il c.d. embedding di un video altrui costuisce comunicazione al pubblico : o meglio, public display secondo il 17 US code § 106 (secondo le definitions del § 101 <<To “display” a work means to show a copy of it, either directly or by means of a film, slide, television image, or any other device or process or, in the case of a motion picture or other audiovis­ual work, to show individual images nonsequentially>>).

Si trattava del notissimo video riproducente un orso polare tristemente magro ed emaciato che disperatamente e stancamente si trascina per i ghiacci artici in cerca di cibo.

<Embedding> è la tecnica dell’incorporamento nel proprio sito di un file che però fisicamente rimane nel server originario (l’utente non se ne rende conto)

Ebben per la Corte:  <<The Copyright Act’s text and history establish that embedding a video on a website “displays” that video, because to embed a video is to show the video or individual images of the video  nonsequentially by means of a device or process. Nicklen alleges that the Sinclair Defendants included in their web pages an HTML code that caused the Video to “appear[]” within the web page “no differently than other content within the Post,” al though “the actual Video . . was stored on Instagram’s server.” …. The embed code on the Sinclair Defendants’ webpages is simply an information “retrieval system” that permits the Video or an individual image of the Video to be seen. The Sinclair Defendants’ act of embedding therefore falls squarely within the display right>>,  p. 8-9.

La parte più interessante è il rigetto espresso  della c.d. <server rule>: <<Under that rule, a website publisher displays an image by “using a computer to fill a computer screen with a copy of the photographic image fixed in the computer’s memory.” Perfect 10, Inc. v. Amazon.com, Inc., 508 F.3d 1146, 1160 (9th Cir. 2007). In contrast, when a website publisher embeds an image, HTML code “gives the address of the image to the user’s browser” and the browser “interacts with the [third-party] computer that stores the infringing image.” Id. Because the image remains on a third-party’s server and is not fixed in the memory of the infringer’s computer, therefore, under the “server rule,” embedding is not display.>>, p. 9.

Infatti la <server rule is contrary to the text and legislative history of the Copyright Act>, ivi: e i giudici spiegano perchè.

Inoltre  i convenuti alleganti la server rule <<suggest that a contrary rule would impose far-reaching and ruinous liability, supposedly grinding the internet to a halt>>.

Obiezione respinta:  <<these speculations seem farfetched, but are, in any case, just speculations. Moreover, the alternative provided by the server rule is no more palatable. Under the server rule, a photographer who promotes his work on Instagram or a filmmaker who posts her short film on You Tube surrenders control over how, when, and by whom their work is subsequently shown reducing the display right, effectively, to the limited right of first publication that the Copyright Act of 1976 rejects. The Sinclair Defendants argue that an author wishing to maintain control over how a work is shown could abstain from sharing the work on social media, pointing out that if Nicklen removed his work from Instagram, the Video would disappear from the Sinclair Defendants’ websites as well. But it cannot be that the Copyright Act grants authors an exclusive right to display their work  publicly only if that public is not online>>, p. 10-11

Viene -allo stato- respinta pure l’eccezione di fair use: profilo interessante dato che Sinclair è un colosso della media industry e quindi ente for profit. Viene riconosciuto che il primo fattore (The Purpose and Character of the Use) gioca a favore del convenuto , mentre altri due sono a favore del fotografo Niclen (porzione dell’uso , avendolo riprodotto per intero, e lato economico-concorrenziale) (v. sub II Fair use).

(notizia della sentenza dal blog di Eric Goldman).

Riproduzione parodistica della statuetta degli Emmy Awards

La South. D. di NY 30 luglio 2021, Case 1:20-cv-07269-VEC-OTW , THE NATIONAL ACADEMY OF TELEVISION ARTS AND SCIENCES, INC. and ACADEMY
OF TELEVISION ARTS & SCIENCES contro MULTIMEDIA SYSTEM DESIGN, INC.-Goodman, decide una lite per illegale riproduizione in vudeo Youtube della Statuetta degli em,y awards.

Si v.la riproduzione di entrambe messe a confronto nella sentenza, p. 4

La domanda è accolta.

E’ rigettata ogni eccezione del convenuto:

  • l’eccezione de minimis contro il copyright,
  • l’eccezione di fair use verso il copyright ,
  • l’eccezione di fair use (parody) contro la dilution del marchio
  • infine, quanto al rischio di confusione da marchio,  <<considering the eight Polaroid factors together, the Court concludes that Plaintiffs have plausibly alleged a probability of confusion. Accordingly, Defendant’s motion to dismiss the trademark infringement claims is denied. >>

la Corte di Giustizia si conferma circa la messa a disposizioni del pubblico nella diffusione peer to peer. Esamina inoltre la compatibilità della richiesta di informazioni con il GDPR

Corte Giustizia 17.06.2021, C-597/19, Microm c. Telenet, conferma la propria giurisprudenza in tema di comunicazione al pubblico e in particolare in tema di di quella modalità (oggi la più -l’unica- utilizzata) che è la messa a disposizione per il download.

Conferma in particolare l’orientamento in tema di reti peer to peer con la tenica Bit Torrent (v. la sentenza Ziggo The pirate Bay del 14.06.2017, C-610/95).

A nulla rileva che il file sia spezzettato in pacchetti, §§ 43 ss.

E’ riaffermata la conseueta fattispcie costitutiva della violazione, §§ 46 – 47.

Interessante è l’applicazione al caso sub iudice: <<Nel caso di specie, risulta che ogni utente della rete tra pari (peer-to-peer) di cui trattasi che non abbia disattivato la funzione di caricamento del software di condivisione client-BitTorrent carica su tale rete i segmenti dei file multimediali che ha precedentemente scaricato sul suo computer. Purché risulti – circostanza questa che spetta al giudice del rinvio verificare – che gli utenti interessati di tale rete hanno acconsentito all’utilizzo di tale software dando il loro consenso all’applicazione di quest’ultimo dopo essere stati debitamente informati sulle sue caratteristiche, si deve ritenere che detti utenti agiscano con piena cognizione del loro comportamento e delle eventuali relative conseguenze. Una volta accertato, infatti, che essi hanno attivamente acconsentito all’utilizzo di un siffatto software, l’intenzionalità del loro comportamento non è in alcun modo inficiata dal fatto che il caricamento sia automaticamente generato da tale software.>>, § 49.

E poi : <<Per quanto riguarda le reti tra utenti (peer-to-peer), la Corte ha già dichiarato che la messa a disposizione e la gestione, su Internet, di una piattaforma di condivisione che, mediante l’indicizzazione di metadati relativi ad opere protette e la fornitura di un motore di ricerca, consente agli utenti di tale piattaforma di localizzare tali opere e di condividerle nell’ambito di una simile rete costituisce una comunicazione al pubblico, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 (sentenza del 14 giugno 2017, Stichting Brein, C‑610/15, EU:C:2017:456, punto 48).   53        Nel caso di specie, come in sostanza constatato dall’avvocato generale ai paragrafi 37 e 61 delle sue conclusioni, i computer dei suddetti utenti che condividono lo stesso file costituiscono la rete tra pari (peer-to-peer) vera e propria, denominata lo «swarm», nella quale essi svolgono lo stesso ruolo dei server nel funzionamento della Rete (World Wide Web)>>, §§ 52-53.

V. la precisazione , che segue la sentenza Renckhoff del 2018, per il caso in cui l’opera fosse presente senza restrizioni in internet: << In ogni caso, anche qualora si dovesse accertare che un’opera è stata previamente pubblicata su un sito Internet, senza restrizioni che impediscano il suo scaricamento e con l’autorizzazione del titolare del diritto d’autore o dei diritti connessi, il fatto che, mediante una rete tra pari (peer-to-peer), utenti come quelli di cui trattasi nel procedimento principale abbiano scaricato segmenti del file contenente tale opera su un server privato e a ciò sia seguita una messa a disposizione mediante il caricamento di tali segmenti all’interno di questa medesima rete significa che tali utenti hanno svolto un ruolo decisivo nella messa a disposizione di detta opera a un pubblico che non era stato preso in considerazione dal titolare di diritti d’autore o di diritti connessi su quest’ultima quando ha autorizzato la comunicazione iniziale (v., per analogia, sentenza del 7 agosto 2018, Renckhoff, C‑161/17, EU:C:2018:634, punti 46 e 47).  58      Consentire una siffatta messa a disposizione mediante il caricamento di un’opera, senza che il titolare del diritto d’autore o dei diritti connessi su quest’ultima possa far valere i diritti previsti dall’articolo 3, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2001/29 non rispetterebbe il giusto equilibrio, di cui ai considerando 3 e 31 di tale direttiva, che deve essere mantenuto, nell’ambiente digitale, tra, da un lato, l’interesse dei titolari del diritto d’autore e dei diritti connessi alla protezione della loro proprietà intellettuale, garantita all’articolo 17, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali (in prosieguo: la «Carta»), e, dall’altro, la tutela degli interessi e dei diritti fondamentali degli utilizzatori dei materiali protetti, in particolare la tutela della loro libertà di espressione e d’informazione, garantita all’articolo 11 della Carta, nonché la tutela dell’interesse generale (v., in tal senso, sentenza del 9 marzo 2021, VG Bild-Kunst, C‑392/19, EU:C:2021:181, punto 54 e giurisprudenza ivi citata). Il mancato rispetto di tale equilibrio pregiudicherebbe, inoltre, l’obiettivo principale della direttiva 2001/29, che consiste, come risulta dai considerando 4, 9 e 10 della medesima, nella previsione di un elevato livello di protezione a favore dei titolari di diritti che consenta a questi ultimi di ottenere un adeguato compenso per l’utilizzo delle loro opere o di altri materiali protetti, in particolare in occasione di una messa a disposizione del pubblico>>.

Curiosa infine è la seconda questione pregiudiziale: << 60  Il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 2004/48 debba essere interpretata nel senso che un soggetto contrattualmente titolare di taluni diritti di proprietà intellettuale, che tuttavia non li sfrutta esso stesso, ma si limita a chiedere il risarcimento del danno ai presunti autori di violazioni, possa beneficiare delle misure, delle procedure e dei mezzi di ricorso di cui al capo II di tale direttiva.     61      Tale questione deve essere intesa come comprensiva di tre parti, vale a dire, in primo luogo, quella relativa alla legittimazione ad agire di un soggetto come la Mircom per chiedere l’applicazione delle misure, delle procedure e dei mezzi di ricorso di cui al capo II della direttiva 2004/48; in secondo luogo, quella inerente alla questione di stabilire se un soggetto del genere può aver subito un pregiudizio, ai sensi dell’articolo 13 di tale direttiva e, in terzo luogo, quella concernente la ricevibilità della sua richiesta di informazioni, ai sensi dell’articolo 8 della direttiva in parola, in combinato disposto con l’articolo 3, paragrafo 2, della medesima>>.

La risposta è positiva, § 96.

Segue poi la trattazione di due questioni relative al bilanciamento tra tutela della proprietà intellettuale e tutela della riservatezza: il titolare aveva infatti chiesto al gestore di ottenere dati personali (numeri IP, nome e indirizzo) dei presunti contraffattori. Precisamente le questioni terza e quarta sono così riformulate: <<il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 6, paragrafo 1, primo comma, lettera f), del regolamento 2016/679 debba essere interpretato nel senso che esso osta, da un lato, alla registrazione sistematica, da parte del titolare dei diritti di proprietà intellettuale, nonché da parte di un terzo per suo conto, di indirizzi IP di utenti di reti tra pari (peer-to-peer) le cui connessioni Internet sono state asseritamente utilizzate nelle attività di violazione e, dall’altro, alla comunicazione dei nomi e degli indirizzi postali di tali utenti a detto titolare oppure a un terzo al fine di consentirgli di proporre un ricorso per risarcimento dinanzi a un giudice civile per il danno asseritamente causato da tali utenti>>, § 101.

La risposta, come spesso, è generica , in quanto per lo più  basata su clausole generali: la disposizione cit. del GDPR non osta alla comuncazione di tali informazioni al titolare a condizione <<che le iniziative e le richieste in tal senso da parte di detto titolare o di un terzo siano [1] giustificate, [2] proporzionate e [3] non abusive e [4] abbiano il loro fondamento giuridico in una misura legislativa nazionale, ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58 [dir. sulla privacy nelle comunicazioni elettroniche] , che limita la portata delle norme di cui agli articoli 5 e 6 di tale direttiva>>, § 132 (numeri tra parentesti quadra aggiunti).

Si noti il requisito sub 4, relativo alla necessità di esistenza di disposizione nazionale ad hoc.

Opera elaborata su commissione: a chi spettano i diritti? Su di un contratto malscritto

Un autore di remix concorda con l’autore dell’opera base un lavoro appunto di remix (musicale) dela prima.

Si accorge poi di una contraffazione e agisce in giudizio.

Gli viene però eccepita la carenza di legittimazione ad agire, dato che nel contratto stava scritto:  <<I acknowledge and agree that the services rendered (or to be rendered) by Remixer hereunder do not entitle Remixer or me to any ownership or financial interest in the underlying musical composition(s) embodied in the Remix Master(s), and I specifically agree that neither Remixer nor I will make any claims to the contrary.>>

Il dubbio interpretaivo naturalmente si appunta soprattutto sull’espressione <<in the underlying musical composition(s)>>: si riferisce all’opera base oppure all’elaborazione? A quest’ultima, dice il giudice, per cui l’elaboratore ha ab initio rinunciato ai diritti di copyright sulla propria creazione, frutto dell’attività elaborativa

Si tratta di UNITED STATES DISTRICT COURT CENTRAL DISTRICT OF CALIFORNIA 08.04.2021, caso CV 19-3934 PSG (JPRx), Artem Stoliarov v. Marshmello Creative, LLC, et al..

sul punto specifico così motoiva: <<Under the Remixer Declaration, the “Remix Master(s)” are recorded performances of theRemix Composition by Plaintiff. See Remixer Declaration (each Remix Master consists of thefeatured performance by Arty of the results and proceeds of his remixing services). Therefore,the Disclaimer Provision’s reference to “the underlying musical composition(s) embodied in theRemix Master(s)” can only refer to the Remix Composition.

Accordingly, even if the phrase“underlying musical composition” is ambiguous as used elsewhere in the contract, the Disclaimer Provision resolves that ambiguity in favor of Defendants’ interpretation—i.e.,“underlying musical composition” as used in the Remixer Declaration means the RemixComposition.Accordingly, from the terms of the contract it is clear that Plaintiff disclaimed “anyownership or financial interest” in the Remix Composition. See Remixer Declaration ¶ C. Thisnecessarily includes his ownership and financial interest in the Arty Elements, which were partof the Remix Composition. See Brem-Air Disposal v. Cohen, 156 F.3d 1002, 1004 (9th Cir.1998) (“‘[A]ny’ means ‘any.’”). As such, Defendants are entitled to summary judgment onPlaintiff’s infringement claims because Plaintiff disclaimed his ownership and financial interestsin the Arty Elements>>

Pare strano che professionisti della musica non precisino l’oggetto del contratto. Ma forse l’avevano stipulato senza l’assistenza di un legale.

Avvertimento per gli operatori: precisare bene, oltre che i soggetti, pure l’oggetto degli atti dispositivi.

Protezione del personaggio di fantasia col diritto d’autore

Trib. Roma 16.04.2021 n. 6504/2021, RG 27160/2017, UNIDIS JOLLY FILM SRL c. PARAMOUNT PICTURES CORPORATION ed altri, decide (con motivazione poco lineare) la questione della riproducibilità (meglio: evocabilità) di un personaggio cinematografico da parte di successivo film (“Rango”, diretto soprattutto a bambini, parrebbe).

Il personaggio è il cow boy cinico e astuto rappresentato da Clint Eastwood (CE) nel film di Sergio Leone <Per un pugno di dollari> del 1964, che in Rango  viene evocato per poco più di un minuto.

La tutelabilità del personaggio di fantasia, come autonoma opera dell’ingegno, è questione annosa e risolta per lo più positivamente.

La difesa dei convenuti eccepisce:

<<Paramount co la cui difesa appare riproposta anche dalle altre società eccepiva in ordine logico:
a) l’inesistenza di caratteristiche autoriali in capo al personaggio “l’uomo senza nome”,
b) La non titolarità in capo alla società attrice del diritto d’autore sul personaggio,
c) La diversità fra “l’uomo senza nome” e “Lo spirito del West” visibile nel film Rango,
d) il legittimo esercizio del diritto di parodia>>.

Il Tribunale (T.) ritiene che l’evocazione, pur indiscussa, sia all’attore Eastwood e non al personaggio del film di Leone, p. 11-13: <<Questo collegio ritiene che la citazione contenuta nei minuti dal 1.21:08 al minuto 1.22.45 sia chiaramente indirizzata all’attore, alla luce non solo della evidente sembianza fisica, vocale e di atteggiamento fra lo Spirito Del West e l’attore Clint Eastwood, ma anche del fatto che l’attore viene raffigurato anziano e con i capelli bianchi, ovverosia come appare oggi al pubblico e non come appariva all’epoca della realizzazione del film “per un pugno di dollari”.
Anche il contesto cinematografico appare suggerire un immediato riferimento all’attore: l’abbigliamento western è quello che ha utilizzato Clint Eastwood non solo nel film prodotto e realizzato dall’attrice, ma nell’intera trilogia diretta da Sergio Leone e tutti i dettagli dal sigaro, all’inquadratura in primo piano contribuiscono ad una precisa ed immediata identificazione e riconoscimento non tanto del personaggio “uomo senza nome” del quale, come si dirà, si dubita dell’esistenza, ma dello stesso attore Eastwood del quale, non a caso, vengono emblematicamente mostrati tutti gli Oscar conseguiti nella lunga e brillante carriera artistica.>>.

L”affermazione è discutibile, dato che l’attore è così evocato nella modalità scenica ideata da Leone (ad ogni modo: accertamento in fatto, a fini ad es. di eventuale ricorso in Cassazione).

Poi: <<Difettano quindi ab origine i presupposti del plagio allegato da parte attrice, anche alla luce del fatto che “lo Spirito del West” è personaggio relegato nella realizzazione dell’opera di VERBINSKY ad un ruolo temporalmente limitato alla durata di neanche due minuti; il regista ritaglia quindi per Clint Eastwood (CE) un breve “cameo” all’interno della trama del film, evidentemente al solo fine di soddisfare la smania di “citazionismo” evidente nell’opera cinematografica in questione (ed evidenziata da tutti i consulenti le cui analisi sono state prodotte in atti), per rendere un chiaro omaggio all’attore protagonista della saga degli spaghetti western ed al suo regista Sergio Leone, consona con lo scenario dell’opera “Rango”.>>, p. 13.

Mortivazione ultronea e confondente, se il richiamo non è all’opera dell’ingegno leoniana.

Soprattutto confondente ,laddove evoca il fair use statunitense (p. 14 e p. 19), senza minimamente curarsi do collocarlo nelle categorie giuridico-dogmatiche nazionali (e/o europee, vista l’armonizazione in materia). Operazione di trapianto giuridico da respingere, dunque. La rigidità delle eccezioni al diritto di autore, pur criticabile de jure condendo, va però superata dopo apposito esame delle eccezioni vigenti e della possibilità di una loro estensione tramite analogia (legis o iuris), tenendo conto della disciplina eurounitaria.

In aggiunta per il Trib. il personaggio rapresentato da CE non è sufficientemente originale: <<Ciò che però appare difettare a “l’uomo senza nome” nella ricostruzione fornita da parte attrice, è proprio il possesso di caratteristiche creative che lo possano identificare quale “personaggio” autoriale in senso stretto e quindi quale potenziale predicato di diritti autoriali.
Un personaggio potenzialmente oggetto di diritti autoriali è difatti un soggetto frutto di un’autonoma e personale creazione artistica da parte del suo ideatore il quale racchiuda delle caratteristiche tali da renderlo immediatamente riconoscibile in quanto tale, quale estrinsecazione della personalità artistica del creatore, anche al di fuori del contesto in cui originariamente è stato collocato ed inventato. (…) Ciò che però appare difettare a “l’uomo senza nome” nella ricostruzione fornita da parte attrice, è proprio il possesso di caratteristiche creative che lo possano identificare quale “personaggio” autoriale in senso stretto e quindi quale potenziale predicato di diritti autoriali.
Un personaggio potenzialmente oggetto di diritti autoriali è difatti un soggetto frutto di un’autonoma e personale creazione artistica da parte del suo ideatore il quale racchiuda delle caratteristiche tali da renderlo immediatamente riconoscibile in quanto tale, quale estrinsecazione della personalità artistica del creatore, anche al di fuori del contesto in cui originariamente è stato collocato ed inventato. Nel caso di specie “l’uomo senza nome”, che ha costituito sicuramente il protagonista della trilogia di Sergio Leone, non è successivamente più comparso in alcuna altra opera cinematografica al di fuori della nota trilogia (in cui naturalmente è riapparso come tale in quanto le due successive opere rappresentano la prosecuzione di un percorso narrativo iniziato con la prima), non appare frutto di un’idea creativa ed originaria, quanto la rielaborazione personale e non evolutiva (bensì contestualizzata nel mondo western) da parte di Sergio Leone di prototipi noti alla narrazione letteraria e cinematografica (quali quelli ben evidenziati dalle convenute) e non ha acquisito ad avviso del collegio una penetrazione ovvero una permanenza nel pubblico, nella critica cinematografica o nelle successive opere tale da renderlo qualificabile come opera creativa ed identificabile come tale>>, p. 14-15

Sulla distinzione necessaria tra personaggio e attore: <<Un personaggio autoriale, quando addiviene ad una caratterizzazione tale da farlo diventare immediatamente percepibile come tale dal pubblico o dalla critica, e quindi potenzialmente latore di diritti autoriali, deve necessariamente diversificarsi dall’attore che lo impersona; si pensi per esempio al personaggio di “James Bond” o al personaggio narrativo di Sherlock Holmes, i quali, caratterizzati da una nota ed inequivocabile iconografia, senz’altro sono soggetti a titolarità autoriale in quanto assolutamente determinati nel contesto narrativo e potenzialmente interpretabili da una pluralità di attori ed in contesti storici e geografici totalmente differenti>>, p. 16.

Il collegio non ritiene pertanto <<di percepire nel “l’uomo senza nome” quello scarto semantico rispetto ai precedenti archetipi necessario a configurarlo quale momento creativo del regista Sergio Leone. Se si sottopone invero ad un attento vaglio autoriale rispetto alla letteratura ed iconografia precedente “l’uomo senza nome”, emergono molteplici e ricorrenti caratteristiche già note nella letteratura (lo stereotipo dell’eroe negativo, ambiguo, doppiogiochista, straniero, fuorilegge risale ai primordi della letteratura occidentale con l’Odissea) e nello specifico settore cinematografico.>>, p. 17.

Anche qui, osservazioni estranee alla ratio decidendi, se è vero che poco sopra aveva accertato che il film censurato non si riferiva al personaggio ma all’attore.

Sulla parodia (anche qui in modo ultroneo, alla luce dell’accoglimento della prima difesa ed anzi ancor prima della citata non evocazione del personaggio ma solo di CE): il Trib. la nega nel secondo film , dicendo <<nel caso di specie non ritiene questo collegio che quanto visibile nel film “Rango” appartenga alla sfera interpretativa della parodia, in quanto tutti i contenuti riferibili alle opere cinematografiche menzionate nel film Rango, pur essendo immediatamente riconoscibili, non assumono una funzione dissacratoria o comunque rielaborativa con finalità difformi da quelli dell’opera originale>>, p. 18-19.

Purtuttavia , a parere del Tribunale, il fair use permetterebbe un diffuso “citazionismo” e cioè la plurima evocaozione di opere anteriori e/o dei loro personaggi: <<purtuttavia anche in questo caso, che come si è detto precedentemente è inquadrabile nell’alveo del cosiddetto “citazionismo”, questo collegio deve osservare come lo stesso, analogamente al diritto di parodia e con i medesimi criteri di immediata percepibilità ed innocuità, appaia lecito e non foriero di responsabilità per violazione del diritto d’autore nel momento in cui la citazione avviene in forma manifesta e limitata a dei singoli spezzoni che non assumono significato nell’economia dell’opera artistico letteraria secondo la precedentemente menzionata dottrina del “fair use”.
In sostanza anche un chiaro richiamo ad un’opera precedente, lungi dal costituire violazione del diritto d’autore, è ammissibile nel momento in cui evoca sobriamente l’opera antecedente come breve omaggio, tributo all’attore o al regista, in quanto è lo stesso autore/regista che “confessa” la propria estraneità all’opera autoriale precedente e la incorpora come tale nella propria al solo fine di denunciare i propri riferimenti narrativi o bibliografici.>>, p. 19

Riproduzione elaborata della fotografia di Prince da parte di Andy Wharol: contraffazione e/o fair use (transformative o derivative use)?

La nota riproduzione del ritratto di Prince da parte di Wharol (poi: W.) è oggetto di lite giudiziaria negli Stati Uniti.

Il lavoro di W. si basò su iniziale scatto della nota fotografa Lynn Goldsmith (G.), “specializzata in celebrità”. La quale l’aveva licenziata a Vanity Fair “for an use as artist reference” (cioè affinchè un artista possa “create a work of art based on [the] image reference”p .7/8).

Solo che detto artista fu … Wharol , il quale poi non si limitò al lavoro per Vanity Fair, ma produsse pure le famose Prince Series, consistenti in altri 15 lavori su tela e carta, p. 9.

La corte di appello del secondo circuito con sentenza 26 marzo 2021, Docket No. 19-2420-cv, A. Wharol Foundation c. Goldsmith,  riforma la sentenza di primo grado 01.07.2019 (p. 12), che aveva concesso senza esitazioni il fair use, e decide in senso opposto. (si vedano la fotografia iniziale e la prima riproduzione di W. per Vanity Fair nella sentenza).

Nessuno dei quattro fattori menzioanti dalla morma sul fair use (17 U.S. Code § 107), infatti, avvantaggia la Fondazione W.: al contrario, tutti avvantaggiano la fotografa G.a.

Particolarmente dettgliato è l’esame del primo fattore, a sua volta articolato nell’alternativa transformative/derivative work (il secondo non è prodotto da fair use, al pari delle nostre opere derivate) , p.16 ss, e nel requisito del commercial use, p. 33 ss.

Sul primo punto ricordo solo che per la corte l’uso trasformativo c’è , se è tale per  fruitori e cioè se viene così precepito, non se è tale per l’artista (o nelle sue intenzioni), p. 26/7: il che parrebbe per vero un’ovvietà.

In breve ,<<the Prince Series retains the essential elements of its source material, and Warhol’s modifications serve chiefly to magnify some elements of that material and minimize others. While the cumulative effect of those alterations may change the Goldsmith Photograph in ways that give a different impression of its subject, the Goldsmith Photograph remains the recognizable foundation upon which the Prince Series is built>>, p. 31.

Seguono poi gli altri punti:

B. The Nature of the Copyrighted Work, p. 35 ss;

C. The Amount and Substantiality of the Use, p. 37 ss;

D. The Effect of the Use on the Market for the Original, p. 44 ss.

In conclusione , la corte esamina anche la questione (logicamente a monte) del se l’opera di W. sia substantially similar allo scatto di G. (p, 51 ss): e naturalmente risponde di si, p. 55

vedi Commento in artnet.com .

Mission impossible: può una riproduzione tale quale di fotografia costituire fair use?

la risposta è negativa, per lo meno nel caso de quo, per la US D.C. del western district del Texas-s. antonio division 24 marzo 2021, , SA-20-CV-00360-XR, Von der Au c. Imber.

Un fotografo si accorge che un suo scatto è riprodotto tale quale in un sito “educational” da parte  di architetti.

Li cita ma questi si difendono con l’eccezione di fair use (17 U.S. Code § 107 – Limitations on exclusive rights: Fair use).

Dapprima il giudice ricorda il criterio per giudicare se due opere siano substanially similar: <<Determining whether two works are substantially similar usually requires a sidebyside comparison to identify whether the protected elements and elements in the allegedly infringing work are so alike that a layperson would view the two works as substantially similar. But such an element-by-element comparison is unnecessary when the allegedly infringing work extensively copies the protected material verbatim, such that protected elements of the original work are necessarily incorporated into the latter work.>>.

Ma nel caso specifico sono identiche: no problem!

Poi, quanto al fair use, per legge bisogna considerare: <<(1) the purpose and character of the use, including whether such use is of a commercial nature or is for nonprofit educational purposes; (2) the nature of the copyrighted work; (3) the amount and substantiality of the portion used in relation to the copyrighted work as a whole; and (4) the effect of the use upon the potential market for or value of the copyrighted work.>>

Tutti i fattori sono sfavorevoli al convenuto.

Circ il n.1, il fatto che la pubblicaione sia avvenuta su sito non profit, non toglie che il fattore sia sfavorevole, visto che deve in qualche modo essere un uso “transformative”. La corte dice che ciò  èfuori centro: ciò che conta è il profilo commerciale. Precisament: <<The parties miss the issue. The Supreme Court has noted that “[t]he crux of the profit/nonprofit distinction is not whether the sole motive of the use is monetary gain but whether the user stands to profit from exploitation of the copyrighted material without paying the customary price.” Harper & Row, Publishers, Inc. v. Nation Enters., 471 U.S. 539, 562 (1985). Here, Defendant asserts that the Website, www.michaelgimberblog.com, is intended to be used for educational purposes, while the Defendant promotes its architectural services at a separate website, www.michaelgimber.com. Imber Decl. ¶¶ 2, 4. Even though the Defendant did not produce the Photograph for individual sale or profit, it surely stood to profit indirectly from the publicity gained by publication of a blog that used the Photograph. That is, increased patronage of the blog is likely good for Defendant’s for-profit business, and the use of the Photograph is likely intended to increase web traffic to the blog. Such use is commercial in character. Accord Compaq Comput. Corp. v. Ergonome Inc., 387 F.3d 403, 409 (5th Cir. 2004). The first factor weighs against a finding of fair use.)>>

Circa il 4, l’effetto sul mercato potenziale è sicuro: sono uguali, tenendo conto poi che l’uso apparentemente non profit è in realtà profittevole (v. sub 1)

E ‘curioso che il prezzo di mercato per un uso licenziato di fotografia sia stimato in  900 dollari (p. 2). NOn  è poerò chiarito su quale tipo di siti, se a prescindere dal numero di visitatori  e per quanto tempo

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Riproducibilità dell’opera tramite “framing” (prohibente domino) e comunicazione al pubblico

la Corte di Giustizia con sentenza 09.03.2021, C-392/19, VG Bild-Kunst contro Stiftung Preußischer Kulturbesitz, si pronuncia sulla legittimità della riproduzione tramite framing di opera messa on line dal titolare, ma che intenda sottoporla (o a farla sottoporre da parte del licenziatario) a misure di protezione. In particolare sul se ciò costituisca comunicazione al pubblico (c.a.p.).

Tuttavia la questione viene esaminata solo incidentalmente, essendo strumentale alla soluzione di una questione ulteiore: se sia lecito il rifiuto di concedere licenza al potenziale licenziatario che si rifiuti di adottare le misure anti-framing pretese dal titolare (una collecting society).

Avevo già ricordato le analitiche conclusioni dell’AG Szpunar con mio post 20.09.2020.

La CG lo segue (come spesso ormai succede, però, con motivazione assai meno ricca), ma solo fino ad un certo punto: e cioè solo nella impostazione generale. Diverge invece sulla conclusione relativa alla fattispecie sub iudice, il framing.

La fattispecie concreta, dunque, dovrebbe essere la seguente. La SPK, fondazione che gestisce la Deutsche Digitale Bibliothek, dedicata alla cultura e al sapere tramite la messa in rete delle istituzioni culturali e scientifiche tedesche (con link alle opere ivi presenti e anticipazione online delle relative miniature),  aveva chiesto alla collegting VG Bild Kunst (poi: VG) licenza di riprodurre opere di terzi, gestite da VG. Questa però pretende l’impegno di SPK di adottare misure tecnologiche contro il framing.

Il punto allora è se sia lecito pretendere tale impegno.

La risposta, dipenderebbe, secondo il BGH tedesco, dalla ravvisabilità o meno di comuncazione al pubblico nel dare libero accesso come framing ad  un’opera, quando il titolare (la collecting) ha applicato o ha chiesto di applicare misure di protezione contro il framing stesso (§§ 16-17)

Questione pregiudiziale sollevata: «Se l’incorporazione, mediante framing, di un’opera disponibile su un sito Internet liberamente accessibile con il consenso del titolare del diritto sul sito Internet di un terzo costituisca una comunicazione al pubblico dell’opera, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, qualora ciò avvenga aggirando le misure di protezione contro il framing che il titolare del diritto ha adottato o ha fatto adottare», § 18.

La CG, ricordati  i soliti principi in tema di c.a.p. (§ 30 ss),  passa alla fattispecie concreta.

Dice che la riproduzione tramite framing, quando il titolare lo ha vietato con misure di protezione o vietandolo ai licenziatari, costituisce c.a.p., § 42-43: si tratta infatti di un nuovo atto di counicazione (pubblico nuovo).

Nega che ciò contrasti con la giurisprudenza sulla liceità del linking , § 44 (casi Svensson e Bestwater): casi che concernono un’opera già pubblicata ma lecitamente..

La CG precisa cosa siano le misure restrittiva adottabili, tali che, se violate , si realizzi una c.a.p.

Tali sono solamente le misure <efficaci> ex art. 6/1 e 3, dir. 29 del 2001, poichè una tutela più ampia sarebbe troppo penalizzante per i terzi: <<al fine di garantire la certezza del diritto e il corretto funzionamento di Internet, il titolare del diritto d’autore non dovrebbe essere autorizzato a limitare il suo consenso se non per mezzo di misure tecnologiche efficaci, ai sensi dell’articolo 6, paragrafi 1 e 3, della direttiva 2001/29 (v., a quest’ultimo proposito, sentenza del 23 gennaio 2014, Nintendo e a., C‑355/12, EU:C:2014:25, punti 24, 25 e 27). Infatti, in mancanza di simili misure, potrebbe rivelarsi difficile, in particolare per i privati, accertare se il titolare dei diritti abbia voluto opporsi al framing delle sue opere. Una verifica del genere risulterebbe ancor più difficile quando tali opere sono state oggetto di sublicenze (v., per analogia, sentenza dell’8 settembre 2016, GS Media, C‑160/15, EU:C:2016:644, punto 46).>>, § 46 (il <non> è un errore di traduzione: si confronti ad es. il testo inglese).

Del resto il pubblico, preso in considerazione dal titolare, è solo quello del sito web,  ove si è realizzata la prima messa on line: non  quello dell’intero orbe terracqueo digitale, § 47.

Tale posizione, visto che ribadisce la sentenza Renckhoff del 2018 (citata), al momento possiamo quelificarla come <insegnamento consolidato>.

La differenza dalle conclusioni dell’AG sta proprio sul framing.

L’AG aveva posto una distinzione fondamentale tra link cliccabili (§ 81 ss) e link automatici (§§ 92 ss): i primi non ampliano il pubblico originariamente considerato e dunque non vanno autorizzati, i secondi invece si (le ragioni di tale distinzione, § 114 ss, però, non riescono del tutto persuasive).

La CG invece non distingue: ogni riproduzione sul proprio sito del materiale, tratto da sito altrui  (meglio: con dettaglio tecnico tale da farlo apparire sul proprio sito) amplia il pubblico considerato dal titolare con la prima messa on line: Pertanto sottosta ad autorizzazione-

Copiare post di una community da un social ad un altro , per evitare di sottostare a condizioni d’uso non gradite: è lecito sotto il profilo copyright?

Un gestore/moderatore di una pagina , relativa ad una comunità locale, su un social (LiveJournal) non accetta che il social cambi le condizioni d’uso per adeguarle al diritto russo . Per questo si sposta su altro social (Dreamwith).

Un follower, però, gli fa causa, dicendo che tale riproduzione viola il copyright sui suoi post.

La corte distrettuale del Massachusetts nega che vi sia violazione, affermando il ricorrere del fair use (17 US COde § 107): si tratta di US D.C. of Mass., 21.01.2021, Monsarrat c. Newman, civ. act. n. 20-10810-RGS (sub Discussion.a, p. 3 ss). Sopratutto perchè è rispettato il criterio più imporante dei quatro (l’ultimo, quello relativo all’effetto economico-concorrenziale, pp. 7/8.

Sul fair use v. lo studio “quantitativo” della giurisprudenza 1978-2019 in <<An Empirical Study of U.S. Copyright Fair Use Opinions Updated, 1978-2019>>, di Barton Beebe, NEW YORK UNIVERSITY JOURNAL OF INTELLECTUAL PROPERTY & ENTERTAINMENT LAW, vol.10/1, 2020 .

Viene anche proposta una domanda ex diffamazione , a causa della ripubblicazione di vecchi messaggi diffamatori (parrebbe, non è chiarissimo; sub Discussion.b, p. 8 ss.; il republishing è citato a p. 10). Pertanto il moderatore con ciò sarebbe divenuto <publisher>, non più mero <host> di informazioni altrui : in breve, l’informazione sarebbe propria (anche) del moderatore, invece che (solo) di chi a suo tempo la caricò.

Il moderatore covneuto invoca tuttavia il § 230 CDA.

La Corte accoglie l’eccezione, non avcendo l’attore provato un coinvolgimento del moderatore nella produzione della notizia diffamatoria, p. 10-11.

La decisione è interessante: amplia assai il concetto di <internet service provider> , che in tali termini potrà probabilmente essere usato anche nel diritto nazionale ed euroipeo.

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Copyright, fair use e riproduzione di post contenente fotografia protetta

Un’editore di notizie sportive, che in un articolo riproduce un post su Instagram della tennista Caroline Wozniacki , annunciante il suo ritiro e contenente una fotografia che la rappresenta, viola il copyright sulla foto o invece costituisce fair use?

E’ giusta : costituisce fair use, secondo la U.S. D.C. Easter Distric di N.Y,, 02.11.2020, M. Barrett Boesen c. United Sports Publications, n°20-CV-1552 (ARR) (SIL) .

Ne ricorrono i requisiti:

  1. non è  pedissequa riproduzione ma tranformative use, Discusssion I.A;
  2. la natura dell’opera, informativa e creativa, induce a tanto, ivi, sub B;
  3. quantità della riprduzione: l’editore si è limitato a riprodurre tutto il post, che a sua volta tagliava la foto originale, ivi sub C;
  4. non cè concorrenza tra l’uso censurato e quello che può fare l’autore, ivi sub D.

La domanda del fotografo danese Boesen, dunque,. va rigettata.

L’articolo incriminato dovrebbe essere questo .

La disposizione sul fair use è il § 107 del titolo 17 del US Code.