Problem- solution approach in una valutazione veneziana di originalità dell’invenzione

Trib. Venezia 15.03.2024, RG 3212/2021, rel. Guzzo, Vem spa v. SACCARDO ELETTROMECCANICA s.r.l.u. :

<<Il metodo problem- solution approach, prevede che si debba procedere dopo l’
individuazione dell’arte nota più vicina (closest prior art) che nel caso di specie è
proprio l’elettromandrino EFL , all’identificazione del problema tecnico affrontato dal brevetto e alla valutazione circa il fatto se, partendo dall’anteriorità più prossima e dalla considerazione del problema tecnico, il trovato fatto oggetto del brevetto sarebbe risultato ovvio o meno per la persona esperta del ramo.

Quanto al problema tecnico le stesse linee Guida dell’EPO prevedono che debba essere individuato il problema tecnico che effettivamente l’invenzione risolve sulla base dell’effetto tecnico delle caratteristiche distintive del trovato; di tal che qualora emerga come nel caso di specie che l’ arte nota più vicina al brevetto non sia stata considerata nel brevetto, il problema tecnico non potrà essere confinato necessariamente al problema tecnico “soggettivamente” ivi indicato ma dovrà esser “riformulato” al fine di individuare il problema tecnico oggettivo che l’invenzione è idonea a risolvere sulla base delle sue caratteristiche distintive.
In tal senso è corretto e ben motivato l’operato del CTU che proprio in base alle caratteristiche distintive del trovato brevettuale già sopra illustrate ha individuato il problema tecnico oggettivo identificato “ in come montare in maniera semplice la testa  portautensile sull’albero motore 3 dell’elettromandrino con l’impiego di un inserto 10, il quale possa essere realizzato in materiale differente dal materiale, con il quale è realizzato l’albero motore 3, e possa preservare questo da possibili danneggiamenti legati all’uso dell’elettromandrino”.
Non è abbisognevole di ulteriori chiarimenti la individuazione del problema tecnico da risolvere effettuata dal CTU non essendo condivisibile il rilievo di parte attrice secondo cui le caratteristiche distintive non risolverebbero detto problema tecnico (che sarebbe dunque non correttamente formulato) stanti altri inconvenienti presenti (“il vincolo indiretto della testata all’albero motore tramite l’inserto” comporta lo svantaggio di richiedere “la rimozione dell’intera testata quando si deve rimuovere l’inserto in caso sia necessaria la sua sostituzione”) : invero non è raro che la soluzione al problema tecnico oggettivo, possa introdurre inconvenienti di diversa natura ma la presenza di altri inconvenienti- che potrà esser se del caso ovviata da altre soluzioni – non esclude
che le nuove caratteristiche trovate sia solutive di quel problema.
Infine è stato adeguatamente utilizzato il c.d. “could – would approach“, per verificare se alla luce dell’arte nota e della anteriorità più prossima l’esperto del ramo sarebbe stato spinto logicamente e quasi certamente (“would”), a risolvere il problema tecnico oggettivo come rivendicato in IT027 ovvero avrebbe solo potuto (“could”) giungere a detta soluzione>>.

La formula tedesca e la determinazione dell’equo premio a favore dell’inventore dipendente (art. 64 c.2. cpi)

Interessanti passaggi della Corte di appello di Milano 2 aprile 2024 n. 976, rel. Meroni  (letta in Onelegale).

IN particolare è significativa la questione della pluralità di inventori : non determina moltiplicazione dell’equio premio, che rimane unico, ma suo frazionamento tra i coiventori.

Il principio va condiviso

<<L’affermazione di cui al principio sub (…) è certamente condivisibile nella parte in cui evidenzia che il criterio della cd. formula tedesca non è vincolante per la decisione in ordine alla determinazione dell’entità del premio, ma può solo essere considerato un criterio orientativo a cui apportare le modificazioni opportune in relazione alla fattispecie concreta, pur rilevandosi che tale criterio viene abitualmente utilizzato per tale scopo e che la disciplina legislativa tedesca è, in realtà, sostanzialmente analoga a quella italiana e che la circostanza che nel diritto tedesco il pagamento sia previsto anche a favore del dipendente già retribuito è irrilevante.
– L’affermazione di cui al principio sub. (…) è, invece, gravemente errata sul piano logico, soprattutto per il modo con cui tale principio è stato applicato dal collegio degli arbitratori, pur tenendo conto che la formulazione dell’alt 64 D.Lgs. n. 30 del 2005 è molto generica.
Il collegio degli arbitratori ha, infatti, ritenuto di tener conto della presenza di coinventori semplicemente ricorrendo al criterio della formula tedesca con riguardo ad un parametro (la voce “soluzione del problema” che contribuisce alla determinazione del fattore P), che non attiene per nulla al fatto che l’ invenzione sia stata conseguita da un solo ovvero da più coinventori, ma concerne invece
la valutazione del contributo del dipendente – inventore rapportato al contributo fornito dal datore di lavoro – organizzatore/finanziatore degli investimenti che hanno consentito l’ invenzione; seguendo il criterio utilizzato nel lodo ne conseguirebbe che l’ importo del premio, attribuito al singolo inventore, potrebbe avere la medesima entità sia nel caso in cui l’ invenzione sia stata ottenuta da un dolo dipendente sia nel caso in cui sia stata ottenuta da dieci o cento dipendenti, con la conseguenza che in questo caso l’importo complessivo dei premi sia decuplicato o centuplicato, fino ad arrivare a superare, anche di gran lunga, il valore effettivo dell’invenzione.
E’ evidente che, per la determinazione dell’entità del premio spettante al singolo dipendente – inventore ovvero ai plurimi dipendenti – inventori, una volta accertata (con la formula tedesca o con altro criterio) la quota del valore dell’invenzione, che si ritiene possa essere attribuita come premio per l’ inventore, è sempre necessario suddividere (qualora costoro siano più di uno) tale quota astratta per il numero degli inventori che hanno contribuito all’ invenzione (e tale suddivisione, in assenza di elementi che possano differenziare tra loro gli apporti dei diversi dipendenti, non può che essere fatta in parti uguali) e, una volta determinata la quota astratta, eventualmente anche interamente attribuibile a ciascun inventore, è necessario valutare quale sia stato l’apporto dell’organizzazione del datore di lavoro, che ovviamente comprimerà la parte spettante al dipendente in relazione alla sua rilevanza rapportata alla rilevanza dell’apporto del dipendente.
– L’affermazione sub. (…) è errata, posto che dal principio affermato da Cass. 20239/2016, come sopra riportato, non consegue affatto, neppure avvalendosi di una interpretazione estensiva, che “se vi sono coinventori, siano o no remunerati ad hoc oppure abbiano o no diritto anch’essi a un premio, il loro contributo si conta come contributo dell’azienda nel momento di valutare l’equo premio spettante a ciascun altro avente diritto “, come sostenuto dal collegio degli arbitratori.
Cass. 20239/2016, infatti, a fronte dell’eccezione sollevata in quel giudizio dal datore di lavoro della sussistenza di un litisconsorzio necessario tra tutti i dipendenti coinventori con riguardo alla spettanza dell’equo premio rivendicata da uno solo di loro, ha affermato che tale eccezione era infondata, in quanto il diritto al premio (che ha la funzione di indennizzare il dipendente – inventore per il fatto che i diritti derivanti dall’ invenzione, dallo stesso realizzata, sono attribuiti in via originaria al suo datore di lavoro) non è un diritto attribuito in modo unitario a tutti i plurimi dipendenti partecipanti all’ invenzione, ma ciascun dipendente – inventore ha diritto di rivendicare singolarmente il premio a lui spettante ed ha, altresì, precisato che la controversia, oggetto del suo esame, concerneva l’accertamento della sussistenza del diritto al premio in capo al dipendente e non già la sua quantificazione (che avrebbe potuto essere oggetto di altro giudizio), di guisa che in tale controversia il riconoscimento del premio, in favore del dipendente che aveva promosso il giudizio, non avrebbe potuto in alcun modo danneggiare gli altri dipendenti coinventori, senza che questi fossero partecipi del giudizio.
La Corte di Cassazione, cioè, con la sentenza suddetta ha esplicitamente affermato che il principio dalla stessa individuato (vale a dire l’assenza di litisconsorzio necessario tra tutti i dipendenti coinventori con riguardo al riconoscimento della sussistenza del diritto al premio in capo a ciascuno di loro) non aveva alcuna rilevanza con riguardo alle modalità di quantificazione e quindi di eventuale ripartizione del premio tra tutti i coinventori.
La decisione del collegio arbitrale, per quanto esposto, è, pertanto, certamente viziata da un errore grave di determinazione logica dell’entità del premio e quindi certamente passibile di dichiarazione di nullità da parte del giudice>>.

La corte riportaanche la formula tedesca considerata dal ctue l’applicaizone da lui fattane:

<<Il consulente tecnico ha così correttamente esposto la formula tedesca:
> EP = (W x C x R) / N x P; in cui:
– Co = equo premio,
– W = valore economico dell’ invenzione, pari alla sommatoria attualizzata di tutti gli utili conseguibili
dal brevetto e in via semplificata pari al 10% del ricavato,
– C = fattore correttivo che prevede una correzione di W, secondo una tabella prefissata (da 0,9 a 0,2) in
relazione all’entità dell’utile,
– R = fattore di riduzione (dal 12,5% al 33%, con valore normale al 20%) in relazione alla caratteristica
dell’invenzione,
– N = numero degli inventori,
– P = fattore di partecipazione, per il quale è previsto un punteggio: da 1 a 6 per la “posizione del
problema”, da 1 a 6 per la “soluzione del problema”, da 1 a 8 per le “mansioni svolte e la posizione occupata”; alla somma dei tre punteggi corrisponde la percentuale del fattore da utilizzare (ad es. alla somma del punteggio minimo di 3 corrisponde il fattore 3%, alla somma del punteggio massimo di 20 corrisponde il fattore 100%).
Il CTU, utilizzando il criterio della formula tedesca, ha così determinato il premio (nell’ ipotesi accolta nella sentenza definitiva del Tribunale):
. ha determinato il ricavo complessivo, per tutte le invenzioni brevettate in questione, per l’ intero periodo di efficacia in Euro 128.598.000: di cui Euro 114.379 per il periodo dal 1997 al 31.12.2019 (pari a Euro 104.193.000, corrispondente all’ importo dei ricavi effettivamente conseguiti, rivalutato alla data del 31.12.2019) ed Euro 14.219.000 per il periodo dal 1.1.2020 al 2024 (corrispondente al ricavo presumibile, attualizzato però al 31.12.2019, secondo la formula wacc);
. ha determinato il margine di utile nel 9,4% del ricavato, quindi pari a Euro 12.088.000, che con la correzione del fattore C (nel caso di brevetti singolarmente considerati) diventa pari a Euro 6.170.000 oppure (nel caso di brevetti complessivamente considerati) pari a Euro 4.948.000 e con l’abbattimento del fattore R (da prendere in considerazione per le caratteristiche delle invenzioni nel 30%) diventa pari a Euro 1.851.000 (nel caso di brevetti considerati singolarmente) o in Euro 1.484.000 (nel caso di brevetti considerati complessivamente);
. ha determinato il fattore N in 1/3, posto che gli inventori sono tre e non vi sono elementi per differenziare tra loro i rispettivi apporti;
. ha determinato per il fattore P il punteggio di 12: di cui 5 (come il collegio degli arbitratori) per “la posizione del problema”; 3 (anziché 1 attribuito dal collegio degli arbitratori) per “la soluzione del problema”; e 4 (come il collegio degli arbitratori) per “le mansioni svolte e posizione occupata”;
punteggio a cui corrisponde il 32% per il fattore P.
In conclusione, il CTU ha determinato l’equo premio (nell’ ipotesi accolta dal Tribunale) nell’importo complessivo di Euro 197.000 = 1.851.000 (utile abbattuto per i coefficienti C ed R, valutato per i brevetti considerati singolarmente) : 3 (per il numero degli inventori) x il 32% per il fattore P (cioè, il grado di partecipazione di OMISSIS all’invenzione in rapporto con il contributo apportato dal datore di lavoro>>

Limitazioni del diritto di brevetto: la c.d. Bolar clause (art. 68.1.b, cod. propr. ind.) è invocabile anche da chi non è lo sperimentatore se finalizzata a chiedere l’ AIC

Cass. sez. I, 05/07/2024 n. 18.372, rel. Iofrida, con una importante sentenza (non son numerose)  sull’oggetto:

<<2.9. Il Tribunale di Milano e la Corte d’Appello, con la sentenza n. 1785/2021, qui impugnata, pur avendo ritenuto che l’esenzione Bolar si applichi non soltanto al soggetto che autonomamente produce il principio attivo, svolge le sperimentazioni necessarie per chiedere l’AIC e poi chiede l’AIC, ma anche ai terzi produttori di principi attivi che non chiedono successivamente l’AIC, ma che forniscono il principio attivo a coloro che intendono chiederla, così da metterli nelle condizioni di fare ciò, con ciò proponendo un’interpretazione ampliativa rispetto all’ambito soggettivo di applicazione dell’eccezione, hanno ritenuto che tale portata oggettiva vada però applicata solo quando il produttore del principio attivo brevettato e il richiedente l’AIC, che successivamente lo utilizza per attività di studio e sperimentazione, perseguano la medesima finalità, ovvero l’ottenimento di un AIC di un farmaco; è stato così ritenuto illecito il caso in cui la produzione/offerta del prodotto sia obiettivamente slegata dalla finalità di ottenere un’AIC ed il profitto che il produttore ricava dalla vendita dello stesso sia la remunerazione di un’attività di studio e produzione, offerta e pubblicizzazione ovvero di un’attività di sfruttamento commerciale del principio brevettato, in quanto tale attività non può ricevere alcuna copertura dalla scriminante in esame.

Si deve ricordare che la tesi restrittiva (espressa in alcune pronunce di merito), in ordine all’ambito soggettivo, individua la ratio della “eccezione sperimentale” nell’impossibilità, per lo sperimentatore, di ricavare comunque un profitto diretto dalla propria attività di ricerca, dovendo questa essere intesa come mera ricerca volta al superamento e/o al miglioramento dell’invenzione, senza un profitto diretto e senza attività prodromiche alla vendita o produzioni in quantità incompatibili con la sola sperimentazione>>.

Opinione condivisa dalla SC:

<< In sostanza, l’obiettivo perseguito dal legislatore, anche Europeo, è quello di rendere lecite le attività necessarie per la presentazione alle autorità competenti di una richiesta di AIC per un farmaco generico, anche se comportano l’uso dell’invenzione brevettata altrui, e di consentire ai fabbricanti di farmaci generici di essere nelle condizioni per immettere sul mercato i loro prodotti nel minor tempo possibile, dopo la scadenza del brevetto, evitando che il titolare del brevetto farmaceutico, al quale l’ordinamento già attraverso il meccanismo del certificato di protezione complementare permette di recuperare, con un prolungamento della protezione, il tempo occorso per ottenere la concessione dell’autorizzazione all’immissione in commercio, goda, scaduta la sua privativa, di un ulteriore prolungamento di fatto del regime di esclusiva, in relazione al tempo occorrente al genericista per ottenere una “AIC” sul farmaco generico.

E, peraltro, l’art. 68, comma 1, lett. b), c.p.i., non richiede che chi presenti la domanda di “AIC” abbia fabbricato direttamente il principio attivo o compia direttamente le attività di sperimentazione.

In forza quindi della ratio della norma, si deve avere riguardo, più che al soggetto che pone in essere le condotte scriminate, alle finalità delle sperimentazioni necessarie ad introdurre farmaci generici sul mercato in tempi relativamente rapidi, che caratterizza l’eccezione Bolar.

Di conseguenza, dovendosi guardare alla finalità della eccezione Bolar (l’ottenimento di una “AIC” in tempi più rapidi, compatibilmente con quelli del settore farmaci), seppure essa possa applicarsi anche al produttore di principi attivi che svolga attività di studio/sperimentazione/produzione per le finalità registrative, non proprie ma, di un terzo genericista, occorre, in tal caso, che la finalità Bolar sia chiara ab origine e che quindi, a monte della attività di produzione e commercializzazione del principio attivo, vi sia un rapporto di “committenza”, in virtù del quale il produttore viene avvicinato dal terzo genericista “per un’attività di studio produzione e consegna a sua volta lecita in quanto ex ante connaturata alla predetta finalità” ed il produttore agisce “solo in ragione di una richiesta sorretta da una dichiarata finalità idonea a scriminare il suo comportamento espressamente contemplata – come limite di utilizzo – nel relativo regolamento negoziale”.

Le attività scriminate dalla lett. b) dell’art. 68 sono quelle finalizzate alla presentazione di un’autorizzazione all’immissione in commercio di un farmaco e tale finalità deve emergere, nel caso in cui l’attività sia svolta non a fini registrativi propri ma di terzi, ex ante e in modo inequivoco.

Al di fuori di una richiesta da parte, la produzione/offerta del prodotto risulta slegata dalla finalità di ottenere una “AIC” e il profitto che il produttore ricava dalla vendita dello stesso è la remunerazione di un’attività di studio e produzione, offerta e pubblicizzazione, ovvero di un’attività di mero sfruttamento commerciale del principio brevettato da altri, avvenuta senza alcuna copertura della scriminante.

Soltanto chi fabbrica principi attivi o campioni per conto di un committente che possa avvalersi della Bolar (a fini registrativi sopra descritti) non può essere considerato contraffattore dell’altrui privativa industriale, anche se riceve un corrispettivo per il servizio offerto ad altri.

Nulla poi impedisce all’azienda produttrice di principi attivi di pubblicizzare in termini generali la propria attività, affinché il genericista – interessato ad un determinato principio attivo – possa rivolgersi a tale azienda per verificare se sia o meno interessata a produrre (su suo incarico) quello specifico principio attivo.

Vero che il genericista di piccole dimensioni (e quindi non dotato di strutture operative proprie), interessato a depositare e vedersi concedere una domanda di “AIC” per un proprio farmaco generico, in anticipo sulla scadenza del brevetto o del “CCP”, dovrà attivarsi per tempo, anche diversi anni prima facendo apposita richiesta a un produttore terzo che possa studiare e quindi produrre il principio attivo necessario ai fini registrativi.

Ma le tempistiche legate alla produzione di un principio attivo che il genericista “dotato di struttura produttiva interna” dovrà affrontare (ivi incluse quelle necessarie all’ottenimento delle varie autorizzazioni regolatorie) sono le medesime che dovranno essere affrontate dal produttore terzo contattato dal genericista di piccole dimensioni.

E, sempre nell’ottica funzionale-teleologica dell’interpretazione estensiva (si ripete, comunque favorevole alle ricorrenti, rispetto ad una interpretazione letterale), correttamente, la Corte territoriale ha ritenuto che perché possa affermarsi che la finalità Bolar connoti l’attività del produttore del principio attivo ab origine occorra, oltre alla preventiva richiesta da parte del genericista, anche che tale finalità registrativa sia indicata a livello negoziale quale limite di utilizzo, come previsione dell’impegno all’uso del principio attivo secondo le finalità Bolar, sorretto dalla pattuizione del pagamento di una penale in caso di violazione dell’impegno.

Si tratta di minime misure precauzionali al fine di evitare usi del principio attivo non scriminati dalla eccezione.

In definitiva, affinché possa applicarsi l’esenzione Bolar anche a chi produca il principio attivo protetto dal brevetto non per ottenere direttamente la “AIC” ma per cederlo a terzo (il genericista) che lo utilizzerà a tal fine, occorre che la finalità Bolar sia univoca e possa essere adeguatamente provata come presente ab origine. La corretta interpretazione della norma di diritto si impone con tale evidenza, da non lasciare adito a ragionevoli dubbi interpretativi>>.

Principio di diritto:
“In tema di limitazioni del diritto di brevetto e di interpretazione e applicazione dell’art. 68, comma 1, lett. b), del codice di proprietà industriale, di cui al D.Lgs. n. 30 del 10 febbraio 2005, frutto del recepimento in Italia della direttiva 2001/83/CE (art.10.6), poi modificata nella direttiva 2004/27/CE, la ratio della c.d. “Bolar clause” o “esenzione Bolar”, secondo cui sono consentite le attività di sperimentazione di un farmaco coperto da altrui brevetto, finalizzate all’ottenimento di una autorizzazione amministrativa all’immissione in commercio del farmaco, che si intende operare dopo la scadenza del brevetto altrui, è quella di agevolare il tempestivo ingresso sul mercato dei farmaci generici per non prolungare, di fatto, la durata della privativa, consentendo ai produttori genericisti di iniziare le attività amministrative e di sperimentazione prodromiche all’ottenimento di un’AIC, pur in costanza del brevetto di riferimento, introducendo limiti al diritto di esclusiva; l’eccezione o esenzione Bolar può ritenersi applicabile anche all’attività di terzi che producono il principio attivo del farmaco brevettato, per finalità registrative non proprie ma di terzi genericisti, non attrezzati a produrre in proprio, ma intenzionati ad entrare sul mercato, alla scadenza dell’esclusiva del titolo brevettuale; tuttavia tale interpretazione estensiva della eccezione presuppone, perché possa affermarsi che la finalità Bolar connoti l’attività del produttore del principio attivo ab origine ed ex ante, oltre alla preventiva richiesta da parte del genericista, anche che tale finalità registrativa sia indicata a livello negoziale quale limite di utilizzo, come previsione dell’impegno all’uso del principio attivo secondo le finalità Bolar“.

Rivendicazioni e descrizione nell’interpretazione del brevetto

Europeran Patent Office, Board of appeal, 28.-09.2023, case numeber T 0447/ 22 – 3.2.05, Patent Proprietor: Picote Solutions Oy Ltd , § 13.1 Reasons, p. 43 ss:

<<There is an extensive body of case law of the Boards of
Appeal according to which, within certain limits, a
claim may be interpreted with the help of the
description and the drawings for understanding the
subject-matter to be assessed under the requirements of
the EPC.
It is a general principle applied throughout the EPC
that a term of a claim can be interpreted only in
context. The claims do not stand on their own, but
together with the description and the drawings they are
part of a unitary document, which must be read as a
whole (see e.g. T 556/02, Reasons 5.3; T 1646/12,
Reasons 2.1, T 1817/14, Reasons 7.3, and T 169/20,
Reasons 1).
The extent to which description and drawings can
provide an aid to interpret the claims is however
subject to certain limitations.
A decision often cited in this context is T 190/99,
which in point 2.4 of the Reasons states that the
skilled person when considering a claim should rule out
interpretations which are illogical or which do not
make technical sense. He should try, with synthetical
propensity i.e. building up rather than tearing down,
to arrive at an interpretation of the claim which is
technically sensible and takes into account the whole
disclosure of the patent; the patent must be construed
by a mind willing to understand not a mind desirous of
misunderstanding.
The present board concurs with T 1408/04 (Reasons 1)
that this statement must be understood to mean only
that technically illogical interpretations should be
excluded (see also T 1582/08, Reasons 16, and T 169/20,
Reasons 1.3.3). A claim can thus be interpreted in the
light of the description and the drawings to the extent
that they contain logical and technical sensible
information.
Furthermore, interpreting the claims in the light of
the description and the drawings does not make it
legitimate to read into the claim features appearing
only in the description or the drawings and then
relying on such features to provide a distinction over
the prior art. This would not be to interpret claims
but to rewrite them (see T 881/01, Reasons 2.1). In this context, it is important to differentiate between a claim consisting of terms with a clear technical
meaning and an unclear claim wording. The preparatory
material available on the discussions leading up to the
European Patent Convention shows that even in the
framework of Article 69 EPC and its Protocol on
Interpretation (see for instance Armitage, “Die
Auslegung europäischer Patente”, in GRUR Int. 1983,
242; Decker in Stauder/Luginbühl, “Europäisches
Patentübereinkommen”, 9th edition, Art 69, marginal no.
22, with reference to Stauder, “Die
Entstehungsgeschichte von Art 69(1) EPÜ und Art 8(3)
StraßbÜ über den Schutzbereich des Patents”, GRUR Int.
1990, 793, 799), it was never the scope to exclude what
on the clear meaning was covered by the terms of the
claims. Accordingly, many decisions of the Boards of
Appeal have concluded that a discrepancy between the
claims and the description is not a valid reason to
ignore the clear linguistic structure of a claim and to
interpret it differently (see, for example, T 431/03,
Reasons 2.2.2; T 1597/12, Reasons 3.2.1; T 1249/14,
Reasons 1.5). The description cannot be used to give a
different meaning to a claim feature which in itself
imparts a clear, credible technical teaching to the
skilled reader (T 1018/02, Reasons 3.8; T 1391/15,
Reasons 3.5). On a similar note, the board in T 197/10
(Reasons 2.3) held that, in the event of a discrepancy
between the claims and the description, those elements
of the description not reflected in the claims are not,
as a rule, to be taken into account for the examination
of novelty and inventive step>>.

(segnalazione di  Rose Hughes in IPKat)

Interpretazione del brevetto

Cass. sez. I, ord. 10/05/2023 n. 12.499, rel. Nazzicone:

Premessa processuale:

<<3.1. – Occorre premettere che l’interpretazione del brevetto per invenzione industriale, a qualunque effetto sia resa, si risolve in un accertamento di fatto circa la determinazione della portata dell’invenzione e la volontà del soggetto che domanda il brevetto in ordine al contenuto del diritto di esclusiva, il quale è rimesso al giudice del merito e non è soggetto a controllo da parte della Corte di cassazione in via diretta e primaria, ma solo mediatamente, attraverso la verifica della correttezza logica e giuridica delle ragioni poste a fondamento del convincimento espresso dal giudice>>.

Poi il profilo sostanziale:

<<3.3.2. – I criteri interpretativi del brevetto, dalla ricorrente invocati, prevedono che alla domanda di concessione di brevetto per invenzione industriale debbano unirsi la descrizione, le rivendicazioni e i disegni necessari alla sua intelligenza, dovendo l’invenzione essere descritta in modo sufficientemente chiaro e completo perché ogni persona esperta del ramo possa attuarla (art. 51, commi 1 e 2), e che la descrizione e i disegni servano ad interpretare le rivendicazioni (art. 52, comma 2); essi aggiungono, altresì, che occorre garantire, nel contempo, un’equa protezione al titolare ed una ragionevole sicurezza giuridica ai terzi (art. 52, comma 3).

Dunque, la descrizione ed i disegni assolvono alla funzione di interpretare le rivendicazioni, il che deve avvenire secondo una regola di contemperamento, ossia in modo da garantire, nel contempo, un’equa protezione al titolare dell’invenzione e una ragionevole sicurezza giuridica ai terzi (cfr. Cass. 4 gennaio 2022, n. 120).

Questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che la rivendicazione va interpretata alla luce del dato tecnico risultante dalla descrizione (Cass. 4 settembre 2017, n. 20716, non massimata; Cass. 28 luglio 2016, n. 15705; Cass. 8 febbraio 1999, n. 1072) e, dunque, anche dai disegni, espressamente richiamati dall’art. 52, comma 2, cod. propr. ind. (Cass. n. 20716 del 2017, cit.).

Ne’ tali criteri impediscono naturalmente che tale valutazione sia compiuta da soggetto diverso dal tecnico del ramo, secondo i canoni ermeneutici della lettera della rivendicazione, dei dati tecnici descritti e dei disegni allegati.

Come prevede la legge, nell’interpretazione del brevetto si deve fare, invero, riferimento alle cognizioni ed al linguaggio di un tecnico esperto del ramo; ma ciò non implica che solo questi sia in grado di comprendere le descrizioni, né, in particolare, che solo un sarto sia idoneo a comprendere le descrizioni di tagli e cuciture, salva la prova di situazioni eccezionali, nella specie neppure prospettate.

Del resto, l’interpretazione del brevetto va compiuta secondo il nucleo di principi di razionalità ermeneutica, utilizzabili nell’ambito delle interpretazioni anche di atti diversi dal negozio giuridico, alla cui stregua occorre tenere in considerazione il tenore letterale delle parole tecniche usate nelle rivendicazioni ed il significato logico delle stesse, secondo il senso complessivo del contenuto del brevetto, riportato nelle rivendicazioni e nella descrizione, nonché alla luce del criterio esposto del contemperamento tra protezione al titolare e sicurezza giuridica per i terzi. Ne deriva un’evidente contiguità tra le regole speciali e quelle generali di corretta interpretazione degli atti.

3.3.3. – Nella specie, la Corte d’appello non ha esorbitato da tali criteri, come lamentato dalla ricorrente, ma ha, da un lato, affidato le valutazioni ad un tecnico ingegnere, adeguatamente giustificando tale scelta, e, dall’altro lato, proceduto all’interpretazione delle rivendicazioni anche alla luce dei disegni.

Pertanto, la Corte territoriale non ha affatto violato il metodo indicato dalla legge, atteso che questa consente l’ausilio interpretativo delle prime (le rivendicazioni) per mezzo delle seconde (descrizione e disegni), né impone al giudice, ogni volta che sia coinvolto un brevetto nell’ambito merceologico dell’abbigliamento, di consultare un esperto di sartoria, spettando poi sempre al giudice del merito apprezzare le concrete capacità del consulente da lui nominato>>.

Brevettabilità delle AI-assisted inventions

Le invenzioni solo “AI assisted” (cioè non totalmente generate da AI)  e quindi con seriio contributo umano sono brevbettabuili se quest’ultimo è significativo.

L’ufficio brevettuale usa ha appena diffuso stimolanti  guidelines (DEPARTMENT OF COMMERCE Patent and Trademark Office [Docket No. PTO–P–2023–0043]
Inventorship Guidance for AI-Assisted Inventions) (v. qui la pag. web e qui il pdf).

Ne danno notizia varie fonti tra cui Anna Maria Stein in IPKat.

L’ufficio si riferisce al precedente  Pannu v. Iolab Corp., 155 F.3d 1344, 1351 (Fed.
Cir. 1998) e diuce che la significance contribution ricorre quando ciascun coinventore: << (1) contribute in some significant manner to the conception or reduction to practice of the invention, 32 (2) make a contribution to the claimed invention that is not insignificant in quality, when that contribution is measured against the dimension of the full invention, and (3) do more than merely explain to the real inventors well-known concepts and/or the current state of the art’’ (Pannu factors)>>.

Regole applicabili anche alle AI assisted inventions: <<Although the Pannu factors are generally applied to two or more people who create an invention (i.e., joint inventors), it follows that a single person who uses an AI system to create
an invention is also required to make a significant contribution to the invention, according to the Pannu factors, to be considered a proper inventor>>.

Ed ecco alllora i suggerimenti dell’ufficio:

<< 1. A natural person’s use of an AIsystem in creating an AI-assisted invention does not negate the person’scontributions as an inventor.  The natural person can be listed as theinventor or joint inventor if the natural person contributes significantly to theAI-assisted invention.

2. Merely recognizing a problem orhaving a general goal or research plan topursue does not rise to the level ofconception.  A natural person whoonly presents a problem to an AI systemmay not be a proper inventor or jointinventor of an invention identified fromthe output of the AI system. However,a significant contribution could beshown by the way the person constructsthe prompt in view of a specificproblem to elicit a particular solutionfrom the AI system.

3. Reducing an invention to practicealone is not a significant contributionthat rises to the level of inventorship. Therefore, a natural person who merelyrecognizes and appreciates the output ofan AI system as an invention,particularly when the properties andutility of the output are apparent tothose of ordinary skill, is not necessarily an inventor.  However, a person whotakes the output of an AI system andmakes a significant contribution to theoutput to create an invention may be a proper inventor. Alternatively, incertain situations, a person whoconducts a successful experiment usingthe AI system’s output coulddemonstrate that the person provided asignificant contribution to the inventioneven if that person is unable to establish conception until the invention has been reduced to practice.

4. A natural person who develops an essential building block from which theclaimed invention is derived may beconsidered to have provided asignificant contribution to theconception of the claimed inventioneven though the person was not presentfor or a participant in each activity thatled to the conception of the claim ed invention.  In some situations, thenatural person(s) who designs, builds,or trains an AI system in view of aspecific problem to elicit a particular solution could be an inventor, where thedesigning, building, or training of the AIsystem is a significant contribution tothe invention created with the AIsystem.

5. Maintaining ‘‘intellectual domination’’ over an AI system does not, on its own, make a person an inventor of any inventions createdthrough the use of the AI system. Therefore, a person simply owning or overseeing an AI system that is used in the creation of an invention, without providing a significant contribution to the conception of the invention, does not make that person an inventor.>>

L’intelligenza artificiale DABUS del dr. Thaler non può essere inventore secondo il patent act inglese

La Supreme Court con sentenza 20 dicembre 2023 ne caso [2023] UKSC 49 , Thaler v. Comptroller dell’Ufficio (v. qui pure il Press Summary) conferma che DABUS non può essere titolare delle invenzini, non potendo qualificarsi come “inventor”.

A cascata, nemmeno dr. Thaler può esserlo. A parte ciò, nemmeno può vantare in titolo di acquisto derivativo da chicchessia, secondo la dettagliatqa formulazine della legge UK.

<<In my judgment, the position taken by the Comptroller on this issue is entirely correct. The structure and content of sections 7 and 13 of the Act, on their own and in the context of the Act as a whole, permit only one interpretation: an inventor within the meaning of the 1977 Act must be a natural person, and DABUS is not a person at all, let alone a natural person: it is a machine and on the factual assumption underpinning these proceedings, created or generated the technical advances disclosed in the applications on its own. Here I use the term “technical advance” rather than “invention”, and the terms “create” or “generate” rather than “devise” or “invent” deliberately to avoid prejudging the first issue we have to decide. But it is indisputable that DABUS is a machine, not a person (whether natural or legal), and I do not understand Dr Thaler to suggest otherwise.

Section 130 of the 1977 Act provides that the term “inventor” has the meaning ascribed to it by section 7. As we have seen, section 7(3) provides that “inventor” in relation to an invention means the actual deviser of the invention. There is no suggestion that “deviser” here has anything other than its ordinary meaning, that is to say, a person who devises a new and non-obvious product or process (the invention) which is capable of industrial application and may be protected under the patent system.

This interpretation is also consistent with the scheme of section 7 to which I have already referred. Hence an application for a patent may be made by any person (section 7(1)). And there is a rebuttable presumption that the person making the application is entitled to be granted the patent (section 7(4)).

A patent may be granted only to a person falling in one of the three categories of persons set out in section 7(2), however. The primary person to whom a patent may be granted is the inventor (section 7(2)(a)). But in preference to the inventor, it may be granted to a person or persons mentioned in section 7(2)(b), or to the successor or successors in title of any person mentioned in paragraph (a) or (b) (section 7(2)(c)) – again being persons with legal personality, although not necessarily natural persons – for they may include, for example, a corporate employer>> (§§ 56-59).

(notizia e link di Henry P Yang su IPKat)

Anche da noi il cpi menziona l'<inventore> e l'<autore dell’invenzione> (art. 62-63-64 e spt. il 63.2, 83, 160.3.c) etc.)

Violazione brevettuale : rapporto tra trasferimento dei profitti e risarcimento del danno (anche nel caso di più aventi diritto) nonchè problem solution approach

Cass. sez 1 del 09.11.2023 n. 31.170, rel. Scotti, Samsung v. Hop Mobile-fallim. Eko Mobile, esamina un tema solo apparentemente semplice (spt. punto III).

– I –

(la determinazione dell’altezza inventiva)

<<L’impiego, nell’apprezzamento dell’altezza inventiva del brevetto del criterio basato sul problem solution approach, che si struttura in tre scansioni (individuazione dello stato dell’arte più prossimo; determinazione del problema tecnico da risolvere; valutazione se l’invenzione per la quale si chiede il brevetto, alla luce dello stato dell’arte e del problema tecnico da risolvere, risulterebbe ovvia ad un soggetto esperto) è diffuso nella giurisprudenza di merito e si conforma a un orientamento consolidato del Board of Appeal dell’EPO. Tale criterio non discende tuttavia da una fonte normativa e men che meno dall’art. 48 c.p.i., di cui le ricorrenti prospettano la violazione e falsa applicazione; né questa Corte si è mai espressa nel senso che la mancata applicazione del problem solution approach, o una non corretta applicazione dei passaggi logici di tale metodo di valutazione, possa integrare un vizio della decisione deducibile in sede di legittimità a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 3; la violazione o la non corretta applicazione delle linee guida elaborate dall’EPO nel disciplinare la propria attività, in particolare quelle inerenti il metodo del problem solution approach, può venire in rilievo solo ove si risolva, sul piano del diritto nazionale, in una violazione o falsa applicazione del cit. art. 48 (sul punto cfr. Cass. 16 marzo 2022, n. 8584, in motivazione).

Il rilievo, poi, formulato dal CTU B., e incentrato sulla correlazione, che lo stesso esperto avrebbe ravvisato, tra l’affollamento del settore tecnico in cui si colloca l’invenzione brevettata e il valore che alla stessa potrebbe annettersi sul piano dell’altezza inventiva, rimane estraneo alla decisione della Corte di appello: onde la relativa censura è inammissibile perché carente del requisito della riferibilità alla pronuncia impugnata (cfr.: Cass. 24 febbraio 2020, n. 4905; Cass. 18 febbraio 2011, n. 4036; Cass. 3 agosto 2007, n. 17125) >>.

– II –

(sul danno da perdita del valore del brevetto)

<<La Corte di merito, andando in ciò in contrario avviso rispetto alla sentenza di primo grado, ha ritenuto dovesse liquidarsi, in favore di Hop Mobile, il danno per perdita di valore del brevetto; il danno è stato così commisurato alle royalties perdute dalla detta società per effetto della condotta delle società Samsung in relazione ai 14.211 cellulari commercializzati in Italia (pagg. 65 s. della sentenza impugnata).

In termini generali, non può escludersi la risarcibilità del danno consistente nella perdita di valore del diritto di proprietà industriale.

Che il brevetto abbia un proprio valore intrinseco è confermato, banalmente, dall’art. 2424 c.c. il quale include i diritti di brevetto industriale tra i valori delle immobilizzazioni da includere nello stato patrimoniale delle società per azioni.

Sul piano risarcitorio, il danno emergente conseguente alla contraffazione brevettuale ricomprende, poi, qualunque perdita dei valori economici esistenti nel patrimonio del titolare della privativa prima della consumazione dell’illecito.

Viene allora in considerazione anche quel danno che, come è stato osservato in dottrina, è direttamente incidente sulla stessa integrità della posizione di esclusiva: posizione che, per effetto della contraffazione, può essere compromessa anche irreversibilmente merce’ la duratura riduzione della possibilità di sfruttamento del brevetto. Assume così rilievo l’annacquamento (dilution) del pregio che è possibile associare al diritto, il quale si traduce in una corrispondente contrazione del suo valore patrimoniale: valore che, come sottolineato sempre in dottrina, può leggersi quale chance di una proficua collocazione del diritto stesso sul mercato.

In siffatta prospettiva la perdita di valore del brevetto può apprezzarsi avendo riguardo alla potenziale redditività dello stesso: onde è consentito attribuire rilievo alle royalties che il titolare può ritrarre nel tempo dal diritto di privativa, le quali sono da apprezzare proprio quale elemento indicatore della nominata redditività. In tal senso, la decisione impugnata non si espone a censura.

E’ peraltro evidente che l’apprezzamento del danno in questione non possa portare ad alcuna forma di overcompensation; e così, il riconoscimento della perdita di valore della privativa individuato come nel caso di specie sulla base della royalty ragionevole percettibile dal titolare del brevetto in un dato periodo non può aggiungersi al lucro cessante risentito in quello stesso arco di tempo dal predetto titolare o dal suo licenziatario: e ciò in quanto i due valori descrivono, se pure in modo diverso, il medesimo fenomeno, connotato dal fatto che, nel periodo dato, la privativa, per effetto della contraffazione, non è stata in grado di assicurare i profitti che in assenza di quella condotta illecita avrebbe procurato. La distinzione tra le due fattispecie sta nel fatto che il mancato guadagno nel secondo caso rileva in sé, mentre nel primo assume importanza quale elemento rivelatore dell’erosione del valore del diritto: tale distinzione non autorizza, tuttavia, la liquidazione delle due voci di danno, giacché il mancato guadagno che è conseguenza immediata e diretta dell’illecito (art. 1223 c.c.) – e che può assurgere, come si è detto, a indicatore della lamentata dilution – è unico. Allo stesso modo, deve negarsi che il danno da perdita di valore del brevetto correlato alla redditività di questo possa cumularsi con gli utili da restituire di cui all’art. 125, comma 3, c.p.i. Infatti, gli utili conseguiti dal contraffattore spettano nella misura in cui siano superiori al risarcimento del lucro cessante (onde non si aggiungono a tale risarcimento): sarebbe in conseguenza contraddittorio ammettere che il titolare del diritto, il quale non può ottenere, in aggiunta alla restituzione degli utili del contraffattore, il risarcimento del lucro cessante consistente nella mancata riscossione di royalties, sia in grado di raggiungere quel risultato pratico invocando il danno da perdita di valore del brevetto. Gioca, anche qui, l’esigenza di evitare meccanismi di sovracompensazione del danno. Un problema di sommatoria dei diversi rimedi (risarcimento del danno da lucro cessante o retroversione degli utili, da un lato, e risarcimento del danno incidente sulla redditività del brevetto, dall’altro) non si pone, invece, quando gli stessi operano su segmenti temporali non coincidenti.

In conclusione, il danno da perdita di valore del brevetto dipendente dalla sua contraffazione è suscettibile di essere risarcito e il ristoro patrimoniale ben può essere commisurato alla diminuita o annullata redditività del titolo di privativa, calcolato sulla base dell’ammontare delle royalties non percepite per effetto dell’illecito posto in essere; resta tuttavia escluso che attraverso la liquidazione del danno in questione possa pervenirsi ad alcun effetto duplicativo del ristoro spettante all’avente diritto>>.

– III – 

(sull’ar. 125.3 cpi; NB: la parte più interessante)

<<Il rimedio della retroversione degli utili, previsto dall’art. 125, comma 3, c.p.i. – e nell’art. 13.2 della dir. 2004/48/CE (c.d. direttiva enforcement), ove la misura è però specificamente contemplata in relazione alle ipotesi di violazione inconsapevole dell’altrui diritto – obbedisce alla finalità di dissuadere dall’attività contraffattiva l’operatore economico che sia più efficiente del titolare della privativa: dell’imprenditore che, cioè, si mostri in grado di ritrarre dallo sfruttamento del brevetto un utile superiore rispetto a quello che dalla privativa può conseguire l’avente diritto, evidentemente in possesso di una minore capacità di impresa. E’ del tutto chiaro che, in assenza di uno strumento di tutela quale quello della retroversione, per l’autore dell’illecito sarebbe sempre conveniente la contraffazione, dal momento che una misura meramente compensativa consentirebbe comunque al detto soggetto di incamerare il differenziale economico tra il suo profitto e l’altrui danno. Come è stato sottolineato in dottrina, se il contraffattore è più efficiente del titolare e il suo arricchimento è superiore al danno provocato a quest’ultimo, una regola solo risarcitoria (incentrata, cioè, sulla mera riparazione del danno effettivamente occorso) adempie, sì, a una funzione compensativa, ma non ha alcun effetto preventivo o deterrente. Nella prospettiva di un disegno legislativo volto a vietare ogni forma di parassitismo, la retroversione degli utili opera, dunque, nel senso della deterrenza: con la sola avvertenza, pure espressa dalla dottrina, che quando la violazione ha carattere doloso o colposo la retroversione mostra chiaramente questa finalità disincentivante della contraffazione economicamente efficiente, mentre nel caso di violazione inconsapevole il rimedio si spiega con la volontà legislativa di “rafforzare le prerogative di chi sfrutta legittimamente la proprietà industriale”.

All’istituto in questione si ritiene invece estranea un’accezione punitiva [NB- non concordo: si sottraggono al violatore anche risorse proprie, cioè che non spettano al/provengono dal violato]: conclusione, questa, che è possibile desumere da una pluralità di dati. Può richiamarsi, anzitutto, l’argomento speso da chi ha sottolineato come la retroversione operi in alternativa al risarcimento del danno e nella misura in cui gli utili eccedano tale risarcimento, “e non sempre e in toto, come sarebbe logico se la sanzione davvero contenesse i danni punitivi”. Può farsi pure menzione del tenore del considerando 26 della direttiva enforcement che ha trovato recepimento nel D. Lgs. n. 140 del 2006, con cui è stato novellato l’art. 125 c.p.i. secondo cui il fine della disciplina delle compensazioni pecuniarie in favore della parte lesa “non è quello di introdurre un obbligo di prevedere un risarcimento punitivo, ma di permettere un risarcimento fondato su una base obiettiva” (anche se, per la verità, la giurisprudenza unionale ha lasciato irrisolta la questione circa la contrarietà o meno del risarcimento punitivo all’art. 13 della direttiva 2004/48: cfr., infatti, Corte giust. UE 25 gennaio 2017, C-367/15, Stowarzyszenie, 29). Possono citarsi, ancora, le stesse parole della relazione ministeriale al D. Lgs. n. 140 del 2006: nell’illustrare che il novellato art. 125 considera le misure del risarcimento del danno e della retroversione degli utili come operativamente e concettualmente distinte, siccome riconducibili, rispettivamente, al profilo della reintegrazione del patrimonio leso e a quello dell’arricchimento senza causa, la detta relazione mostra di attribuire al rimedio in questione una matrice del tutto diversa da quella punitiva.

Anche questa S.C. è venuta precisando che “l’istituto della retroversione degli utili non configura un’ipotesi di danni punitivi (punitive o exemplary damages), ma piuttosto una misura rimediale speciale, sui generis, di natura mista, compensatoria e dissuasiva, fondata su di un particolare arricchimento ingiustificato” (Cass. 29 luglio 2021, n. 21832, in motivazione). E’ stato spiegato che nell’istituto si rinviene, più che una funzione punitiva, una correlazione analogica, espressa in termini di non completa sovrapposizione delle fattispecie, “con i principi che governano l’arricchimento senza causa”; l’intento legislativo – si è precisato – è quello di riallocare la distribuzione di ricchezza “fra colui che ha realizzato dei benefici ingiustificati, sfruttando la privativa altrui, e colui il cui diritto assoluto è stato sfruttato per realizzarli, a prescindere dall’accertamento controfattuale circa il conseguimento di quegli stessi benefici da parte sua, in una sequenza di eventi alternativa” (sent. cit., sempre in motivazione).

Ciò detto, nella soluzione proposta da Hop Mobile e dal Fallimento (Omissis) la somma da liquidarsi risulterebbe superiore non solo al pregiudizio patrimoniale sofferto dall’avente diritto per lucro cessante, ma anche all’utile conseguito dal contraffattore.

[NB: ecco la parte di gran lunga più inteessante, perchè da quasi nessuno studiata: il caso del quantum, in casop di più soggetti lesi]

 Si frappongono a tale risultato più elementi ostativi.

Anzitutto, l’esito indicato non è compatibile con la finalità compensativa e dissuasiva della misura della retroversione degli utili; rispetto a tale connotazione funzionale del rimedio attraverso cui è assicurato sia il ristoro del pregiudizio patrimoniale del danneggiato, sia l’effetto di deterrenza verso la contraffazione dell’operatore economico che si mostri efficiente – risulta debordante il riconoscimento di somme ulteriori a titolo di retroversione degli utili: di somme che si aggiungerebbero, cioè, all’importo già accordato al danneggiato come risarcimento del lucro cessante (ove questo sia superiore all’utile del contraffattore) o come retroversione dell’utile (nel caso opposto in cui il detto utile risulti superiore al mancato guadagno). L’attribuzione di un importo aggiuntivo non trova giustificazione proprio in quanto la finalità compensativa e dissuasiva del rimedio consente di riversare sul contraffattore un obbligo restitutorio che è pari all’utile da lui conseguito (ove superiore al lucro cessante): oltre detta soglia il ristoro perde la sua funzione compensativa e dissuasiva e finisce per piegarsi a una finalizzazione punitiva che, come si visto, è estranea all’istituto.

In secondo luogo, l’utile da prendere in considerazione ai fini che qui interessano deve essere uno, in quanto esso va riferito all'”autore della violazione”: mentre il danno da lucro cessante può assumere diversa consistenza in ragione della pluralità dei soggetti danneggiati, l’utile suscettibile di retroversione ha come referente soggettivo non la persona del danneggiato, ma quella del contraffattore, onde non può mutare di entità per effetto del numero dei soggetti che abbiano risentito un pregiudizio dalla condotta illecita posta in essere.

In definitiva, in presenza di più aventi diritto non si giustifica che l’utile del contraffattore sia assegnato a uno dei danneggiati in aggiunta a quanto già riconosciuto a titolo di risarcimento o di retroversione ad altro danneggiato.

In particolare, nell’ipotesi in cui il lucro cessante già accordato sopravanzi l’utile del contraffattore, è da considerare un preciso indicatore normativo quanto alla non cumulabilità dei rimedi: indicatore che si rinviene nell’art. 125, comma 3, c.p.i. Tale norma configura come alternative le misure del risarcimento del danno e della restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione (pur consentendo la condanna a tale restituzione nel caso in cui gli utili eccedono il risarcimento), onde preclude la sommatoria dei due rimedi. Non rileva, ad avviso del Collegio, che la norma manchi di considerare l’ipotesi, che qui ricorre, della pluralità dei potenziali danneggiati. Sul piano testuale quel che conta è l’opposto: e cioè che la norma non contempli eccezioni al divieto del cumulo. Il dato desumibile dall’interpretazione letterale si salda, poi, con quello ricavato dall’esegesi funzionale: se l’art. 125, comma 3, cit., in una logica cui sono estranei intenti punitivi, intende sottrarre il contraffattore a misure compensative date dalla sommatoria del danno per lucro cessante e dell’arricchimento ingiustificato da lui conseguito, non si vede per quale ragione tale disposizione, nell’ipotesi in cui gli aventi diritto al risarcimento siano più d’uno, debba avere una diversa portata.

Ad analoga conclusione deve pervenirsi nell’ipotesi in cui sia pronunciata condanna alla retroversione degli utili in favore di uno degli aventi diritto e si dibatta della possibilità di emettere analoga statuizione a beneficio di altro danneggiato (fattispecie che potrebbe tornare di attualità, nel presente giudizio, in ragione dell’accoglimento del dodicesimo motivo del ricorso principale e del conseguente accertamento, demandato al Giudice di rinvio, della reale entità del danno risarcibile per lucro cessante che andrebbe risarcito). Con riferimento a questa ipotesi è da ribadire che l’utile retrovertibile è unico, non potendo riprodursi in conseguenza della pluralità dei danneggiati. Ma vale la pena di osservare, in aggiunta, che una diversa soluzione sarebbe, di nuovo, non compatibile con la funzione (solo) compensativa e dissuasiva dell’istituto.

Resta inteso che il divieto riguarda il cumulo delle due misure, onde nulla impedisce che nel computo del danno da lucro cessante da risarcire (e da prendere in considerazione per il raffronto con l’utile, in vista della liquidazione finale) entrino in gioco plurimi elementi patrimoniali, rappresentativi, in diversa misura, del pregiudizio risentito da ciascuno dei diversi danneggiati. E resta inteso, altresì, che il giudice del merito debba comunque valutare come ripartire tra i diversi aventi diritto il risarcimento o l’utile da assegnare.

Deve dunque concludersi nel senso che, in tema di proprietà industriale, nel caso di pluralità di aventi diritto, il contraffattore non può essere tenuto al risarcimento del lucro cessante (siccome superiore agli utili da lui conseguiti) nei confronti di uno dei danneggiati e, insieme, alla retroversione degli utili in favore degli altri, così come non può essere tenuto a una plurima retroversione in favore dei diversi danneggiati, dovendo, semmai, il risarcimento del danno o l’utile retrovertibile oggetto della condanna essere ripartiti tra i diversi aventi diritto>>.

Emanate le linee guida ministeriali sull’applcazione dell’art. 65 cod. propr. ind.

Il c. 5 del c.p.i., dopo la novella 2023 (L. 102 del 2023), così recita:

<<5. I diritti derivanti dall’invenzione realizzata nell’esecuzione
di attivita’ di ricerca svolta dai soggetti di cui al comma 1,
finanziata, in tutto o in parte, da altro soggetto, sono disciplinati
dagli accordi contrattuali tra le parti redatti sulla base delle
linee guida, che individuano i principi e i criteri specifici per la
regolamentazione dei rapporti contrattuali, adottate con decreto del
Ministro delle imprese e del made in Italy, di concerto con il
Ministro dell’universita’ e della ricerca, entro sessanta giorni
dalla data di entrata in vigore della presente disposizione. Sono
fatti salvi gli accordi stipulati tra le parti prima dell’emanazione
delle predette linee guida>>.

Il Ministero predetto ha pubblicato sul suo cito le Linee guida allegate al D.M. 26.09.2023.

Qui la pagina ad hoc del sito minsiteriale .

la parte più interessante è quella del regim,e delel consocemnze prefgresse e di quelle attese (§§  6.4 – 6.5)

Trib. Venezia sulla closest prior art per determinare l’attività inventiva dell’invenzione brevettanda

Trib. Venezia 7 novembre 2022, sent. n° 1873/2022, RG 11305/2018, rel. Boccuni,  JP STEEL PLANTECH c. Danieli spa (notizia e testo da giurisprudenzadelleimprese.it):

Premessa:

<<L’art. 48 D.Lgs. n. 30/2005, nel regolare il requisito di brevettabilità dell’attività inventiva, prescrive che l’invenzione è considerata come implicante una attività inventiva se, per una persona esperta del ramo, essa non risulti in modo evidente dallo stato della tecnica, di modo che il brevetto deve considerarsi nullo ove l’invenzione sia in modo evidente ricompresa nello stato della tecnica noto, secondo il parametro di valutazione proprio del tecnico del ramo.   In altre parole, deve giungersi ad affermare la nullità del brevetto ove l’inventore poteva giungere alla soluzione del problema tecnico evidenziato sulla scorta del complesso delle conoscenze ed indicazioni tecniche note al momento della domanda di brevetto. Inoltre, lo stato della tecnica rilevante ai fini del giudizio sulla attività inventiva è quello definito dai commi 1 e 2 dell’art. 46 D.Lgs. n. 30/2005, comprendendosi le conoscenze dello stato della tecnica inerenti il settore di appartenenza dell’invenzione a cui si aggiungono le cognizioni tecniche generali ovvero quelle relative a settori vicini da selezionare, tuttavia, in modo tale da individuare quelle che il tecnico del ramo avrebbe effettivamente preso in considerazione per affrontare il problema tecnico oggetto dell’invenzione brevettata>>.

Andando poi al punto:

<<Al fine di giudicare l’altezza inventiva del trovato, il criterio utilizzato del problem solution approach richiede di individuare la c.d. closest prior art, ovvero l’anteriorità che rappresenti il punto di partenza più promettente per giungere al trovato, dovendo essa essere diretta al medesimo scopo o effetto dell’invenzione o almeno appartenere al medesimo campo della tecnica o a campo molto vicino a quello del trovato. Così, la closest prior art è quella che corrisponde ad un simile uso e che richiede i minori cambiamenti strutturali o funzionali per giungere all’invenzione. Inoltre, il giudizio di evidenza o di non evidenza del trovato deve essere condotto valutando gli insegnamenti che avrebbe considerato e, quindi, ciò che avrebbe fatto, partendo dall’arte nota anteriore più prossima, la persona esperta del ramo: se il problema tecnico spinge l’esperto a cercare la sua soluzione in un altro settore, lo specialista di detto settore è la persona qualificata a risolvere il problema, chiarendosi così che, se lo stato della tecnica non contenga suggerimenti nel senso di guardare a diversi campi, rispetto a quello in cui il problema tecnico si è posto per trovare la soluzione, il riferimento allo specialista di quel campo ed alle sue conoscenze come base di partenza per il giudizio di non evidenza, sarebbe frutto di una analisi a posteriori che penalizzerebbe il titolare, in quanto non sarebbe stato ovvio per l’inventore attingere al sapere di un altro ramo.
Ciò che appare dirimente, quindi, è che la prior closest art contenga suggerimenti oggettivi, anche impliciti ma riconoscibili, per arrivare al trovato di cui si discute della validità in ragione della soluzione data al problema tecnico>>.