Insufficiente affinità merceologica tra abbigliamento ed orologi di lusso: non raggiuntra la prova dell’abuso di notorietà o del danno ad essa

Trib. UE 18.01.2023, T-726/21, Rolex SA c. EUIPO-PWT A/S  nell’opposizione di Rolex (alta orologeria)  contro marchio simile per abbigliamento.

marchio dell’istante
anteriorità 1 dell’opponente Rolex

e

anteriorità 2 dell’opponente ROlex

<< it has already been held that jewellery and watches, even precious stones, one the one hand, and items of clothing, on the other, could not be regarded as similar (see, to that effect, judgments of 24 March 2010, 2nine v OHIM – Pacific Sunwear of California (nollie), T‑364/08, not published, EU:T:2010:115, paragraph 33 and the case-law cited, and of 10 October 2018, Cuervo y Sobrinos 1882 v EUIPO – A. Salgado Nespereira (Cuervo y Sobrinos LA HABANA 1882), T‑374/17, not published, EU:T:2018:669, paragraph 35 and the case-law cited). (…)

In addition, it must be pointed out that the fact that the goods at issue may be sold in the same commercial establishments, such as department stores, is not particularly significant, since very different kinds of goods may be found in such shops, without consumers automatically believing that they have the same origin (see, to that effect, judgment of 2 July 2015, BH Stores v OHIM – Alex Toys (ALEX), T‑657/13, EU:T:2015:449, paragraph 83 and the case-law cited).>>, §§ 25 E 31.

Sullo sfruttamento della e/o sul danno alla rinomanza:

<< 42   In order to benefit from the protection introduced by the provisions of Article 8(5) of Regulation No 207/2009, the proprietor of the earlier mark must, first of all, adduce proof, either that the use of the mark applied for would take unfair advantage of the distinctive character or the repute of the earlier mark, or that it would be detrimental to that distinctive character or that repute (see, by analogy, judgment of 27 November 2008, Intel Corporation, C‑252/07, EU:C:2008:655, paragraph 37).

43      In that regard, although the proprietor of the earlier trade mark is not required to demonstrate actual and present injury to its mark for the purposes of Article 8(5) of Regulation No 207/2009, it must, however, prove that there is a serious risk that such an injury will occur in the future (judgment of 4 March 2020, Tulliallan Burlington v EUIPO, C‑155/18 P to C‑158/18 P, EU:C:2020:151, paragraph 75; see also, by analogy, judgment of 27 November 2008, Intel Corporation, C‑252/07, EU:C:2008:655, paragraph 38).

44      The Board of Appeal noted that, in order to demonstrate the existence of one of the types of injury referred to in Article 8(5) of Regulation No 207/2009, the applicant had not submitted observations to it, but that, before the Opposition Division, it had argued that the intervener could take unfair advantage of the degree of recognition of the earlier composite mark on account of the fact that the signs at issue were almost identical and the immense reputation acquired by the earlier marks, which allegedly convey images of prestige, luxury and an active lifestyle. It found that, by those arguments, the applicant had in fact merely referred to the wording of Article 8(5) of Regulation No 207/2009, without submitting any coherent arguments as to why one of such injuries would occur. The Board of Appeal inferred from this that no injury referred to in that provision was established>>.

Un caso di rigetto di domanda del titolare di marchio rinomato verso prodotti merceologicamente lontani dai propri

Qualche volta anche ai titolari di marchi assai rinomati non va bene: provbabilmente si può dire che ciò capita quando la rinomanza è molto settoriale.

E’ questo il caso di Trib. Ue T-4/22 del 21.12.2022, Puma SE v. EUIPO + DN solutions co ltd.

Nonostante i segnia  parafone fossero quasi identici (

marchio del richiedente

e

 

marchio [rinomato] dell’opponente
) e nonostante il secondo fosse certamente rinomato, tuttavia l’opposizione è rigettata: troppa lontananza merceologica (Lathes; CNC (computer numerical control) lathes; machining centers; turning center; electric discharge machine’ versus abbigliamento)!

La Cassazione sulla parodia nel diritto di autore (con un cenno alla tutela del marchio rinomato verso usi non distintivi)

La pubblicità dell’acqua Brio Blu con l’evocazine (precis) di Zorro (su youtube è reperibile il video)  non è statga accettata dal titolare dei diritti, che ha agito in giudizio (nel 2007).

Dopo una sentenza di Cassazione 32 del 2007, la causa  vi ritorna e viene decisa da Cass. ord. 38.165 del 30.12.2022, sez. 1, rel. Falabella, CO.GE.DI. spa c. Zorro Productions inc..

Contiene una importante messa a punto della teoria giuridica della parodia e una precisazione pure utile sul marchio rinomato.

Vediamo i passaggi principali:

  •  § 2.2. sulla parodia in generale: <<Ciò posto, è anzitutto pacifica, in dottrina come in giurisprudenza, la tutelabilità del personaggio di fantasia: tutelabilità che è indipendente dalla protezione accordata all’opera (quale quella letteraria, teatrale, cinematografica, televisiva, radiofonica, musicale, ma anche fumettistica o del videogioco) in cui il personaggio stesso si colloca. Basterà ricordare, in proposto, il risalente arresto di questa Corte che pone i personaggi di Walt Disney, realizzati originariamente nel campo dei disegni, tra le creazioni intellettive dotate di caratteristiche figurative e normative che li rendono riconoscibili come creazioni tipiche: ciò che è stato ritenuto sufficiente perché esse siano protette come tali nelle varie forme di utilizzazione economica rese possibili dalla riproduzione in qualunque modalità figurativa contro ogni atto che, per via di identità o affinità espressiva, e avuto riguardo all’ordinaria capacita critica del pubblico, realizzi una ripetizione dell’idea dell’autore (Cass. 20 febbraio 1978, n. 810)>>.

<<La parodia di un’opera altro non è che una rielaborazione attuata attraverso una imitazione caricaturale attuata con finalità satiriche, umoristiche, comunque critiche; tale può considerarsi anche la parodia di un personaggio della fantasia. Il connotato proprio della parodia riposa nell’assunzione, quale fondamentale suo riferimento, di un’opera o di un personaggio originali, da cui poi ci si discosta allo scopo di trasmettere un messaggio diverso da quello avuto di mira dall’autore dell’opera o del personaggio in questione. Evidente e’, pertanto, la differenza tra chi attua un’attività di mera riproduzione – nelle diverse forme del mero plagio, quale pedissequa imitazione, e della contraffazione, quale copiatura attuata con differenze di semplice dettaglio – e chi, con la parodia, reinterpreta l’opera o il personaggio e ne declina altrimenti il senso, veicolando, in tal modo, un messaggio nuovo. La parodia è quindi opera dell’ingegno autonoma rispetto all’originale, ponendosi essa in antinomia con quanto oggetto del travestimento. (…). Di qui la differenza tra contraffazione e parodia, magistralmente scolpita in queste poche parole: “o si tratta di riproduzione più o meno larvata dell’opera seria nella stessa serietà di tratti caratteristici, e si ha contraffazione più o meno volgare; o vi è una qualsiasi surrogazione del comico al tragico nella sostanza dell’opera primitiva, e si è in presenza di una parodia”. Ed è proprio in questa chiave che debbono leggersi gli arresti della nostra giurisprudenza di merito, che ha qualificato come parodia interventi, muniti di una qualche creatività, che, senza discostarsi dalla forma espressiva dell’originale, si sono rivelati capaci di stravolgere il significato di quest’ultimo: come nel caso della sostituzione di parole o lettere dei passi estratti dall’opera di riferimento, del mutamento degli elementi sintattici di un testo letterario, della derisoria interpretazione di un brano musicale. Per realizzare tale risultato l’autore della parodia deve necessariamente accostare l’utente all’originale e reimpiegarne i contenuti. Come è stato ben sottolineato dalla giurisprudenza di merito, la parodia “implica un ineliminabile carattere di parassitismo rispetto all’opera parodiata, nel senso che essa trova fondamento proprio nella preesistenza di un’opera di riferimento cui operare ripetuti rimandi in chiave deformante”>>.

  • § 2.4 sul fondamento della eccezione di parodia, reperito nell’eccezione di citazione ex art. 70 c.1 l. aut, quindi invocabile già ora e cioè anche senza espresso recepimento della possibilità prevista dalla dir. 29/2001, art. 5 lett. k). (è stata poi inserita nella disciplina della resposnabilità delle piattaforme, art. 102 nonies.2.b ex d. lgs.  177 del 2021 di recepimento della dir. 790/2019):

<<La L. n. 633 del 1941, art. 70, comma 1, consente il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico, se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera. Ora, il diritto di critica e di discussione può essere speso con diverse modalità, tra cui è ricompreso il registro ironico, utilizzato nella satira, e quello comico e burlesco, impiegato nella parodia, ove, attraverso l’uso della provocazione grottesca, si ridicolizzano elementi caratterizzanti di un’opera: attività, questa, che può lecitamente compiersi anche con riferimento a un personaggio di fantasia, di cui si deridano aspetti che lo contraddistinguono, come le fattezze fisiche, le qualità, gli atteggiamenti, con chiaro intento di rovesciare comuni stereotipi associati a quella identità letteraria o artistica. Può osservarsi, infatti, che la citazione dell’opera, di cui è parola nel cit. art. 70, comma 1, è anche quella costruita intorno a un personaggio dell’opera stessa (il quale è in sé è suscettibile di tutela, come si è visto): e il mascheramento dell’eroe in pagliaccio – per venire alla fattispecie che qui viene in esame – è una delle forme più comuni di parodia del personaggio.                       La liceità della parodia dell’opera o del personaggio creati da altri trova quindi il proprio fondamento nell’utilizzazione libera di cui alla L. n. 633 del 1942, cit. art. 70, comma 1. Non contraddice tale ricostruzione l’art. 5, comma 3, dir. 2001/29/CE (sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione), che accorda agli Stati membri la facoltà di disporre eccezioni o limitazioni ai diritti di riproduzione e di comunicazione di opere al pubblico, di cui rispettivamente agli artt. 2 e 3 della direttiva stessa anche nel caso, previsto dalla lett. k) del predetto articolo, quando “l’utilizzo avvenga a scopo di caricatura, parodia o pastiche”. Se è vero che non esiste, tra le norme nazionali che regolamentano le utilizzazioni libere atte a circoscrivere il diritto esclusivo dell’autore, una disposizione che puntualmente recepisca espressamente l’ipotesi di cui alla lett. k) cit. – e che quindi espressamente faccia rientrare l’utilizzo dell’opera tra le eccezioni e le limitazioni ai suddetti diritti di riproduzione e comunicazione -, è altrettanto vero che l’assenza di un intervento normativo nel senso indicato è da ascrivere al fatto che l’art. 70 già ricomprende l’eccezione di parodia, intesa come espressione del dritto di critica e discussione dell’opera protetta.>>

Il giudizio è esatto, anche se ancor più lo sarebbe stato il rifeirmento al diritto costituzonale di di parola e manifestazione del pensiero (cit. poco sopra dalla SC).

  •    § 2.5 la SC ricorda l’interpretazione della parodia nel diritto UIe operata da  Corte di giustizia nella sentenza Deckmyn del 2014, C-210/13.
  •  § 2.6. la disciplina dell’eccezione di critica (e di parodia) non confligge con quella europea della parodia .
  •  § 2.8 Principi di diritto:  “In tema di diritto di autore, la parodia costituisce un atto umoristico o canzonatorio che si caratterizza per evocare un’opera, o anche un personaggio di fantasia e non richiede un proprio carattere originale, diverso dalla presenza di percettibili differenze rispetto all’opera o al personaggio che sono parodiati.

“In tema di diritto di autore, la parodia deve rispettare un giusto equilibrio tra i diritti del soggetto che abbia titolo allo sfruttamento dell’opera, o del personaggio, e la libertà di espressione dell’autore della parodia stessa; in tal senso, la ripresa dei contenuti protetti può giustificarsi nei limiti connaturati al fine parodistico e sempre che la parodia non rechi pregiudizio agli interessi del titolare dell’opera o del personaggio originali, come accade quando entri in concorrenza con l’utilizzazione economica dei medesimi”.

Competerà al giudice del rinvio verificare  se nel caso specifico ricorra l’eccezione di parodia, così ricostruita

  •  Poi la SC passa al marchio rinomato esaminando il ricorso incidentale del titolare dei diritti (che l’aveva azionato assieme al copyright).

E dice che esso può essere fatto valere anche contro utilizzi  non distintivi (come nel caso de quo), §  5.6:  “In tema di marchi d’impresa, avendo riguardo alla disciplina anteriore alla modifica dell’art. 20 c.p.i. attuatasi con il D.Lgs. n. 15 del 2019, art. 9, comma 1, lett. a), lo sfruttamento del marchio altrui, se notorio, è da considerarsi vietato ove l’uso del segno senza giusto motivo, posto in essere nell’attività economica, consenta di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o rechi pregiudizio agli stessi, a nulla rilevando che il marchio non sia utilizzato per contraddistinguere i prodotti o i servizi dell’autore dell’uso, come può avvenire nel caso della rappresentazione parodistica del marchio in questione“.

Aggiungo qui sotto alcune definizini di <paerodia>:

1) GRANDE DIZIONARIO ITALIANO DELL’USO  DeMAURO : <composizione che ripropone uno stile, un’opera letteraria, un film e sim., accentuandone i caratteri in  modo caricaturale o satirico: fare la p. di una poesia, di una canzone, p. dello stile tragico, mettere in p.>

2) Grande dizionario della lingua italiana (BATTAGLIA):

<Parodìa,  sf.  Opera  letteraria,  testo  teatrale  (o parte  anche  minima  di  esso)  composto  modifi­ cando  in  modo  più  o  meno  radicale  uno  scritto preesistente,  uno  stile,  un  genere  costituito  at­traverso   l’introduzione,   con   intenzioni  comiche,

burlesche,  satiriche  o  anche  critiche,  di  varia zioni  di  lessico,  di  tono,  di  struttura,  di  livello  stilistico  o  la  trasposizione  della  narrazione  in età,   situazioni   e   contesti   differenti   da   quelli originali.  –  Anche:  il  genere  letterario  a  cui appartengono tali opere>

3) TOMMASEOONLINE  https://www.tommaseobellini.it/#/

< f. Gr. Παρῳδία. (Lett.) Centone di versi, ed Arte di comporre versi con l’uso de’ versi altrui, recando il serio a ridicolo. (Fanf.) In Ascon. – Salvin. Fier. Buon. 1. 1. 5. (M.) Parodía tratta del verso del Petrarca: Non a caso è virute… E lett. ill. ital. 41. (Man.) L’adattare poi questi medesimi pensieri e frasi a altri argomenti sarebbe fare una parodía difficile. T. Parodía dell’Eneide. – Parodía fatta dello stil dell’Alfieri, per canzonare la sua ricercata durezza e brevità: La morte di Socrate con tre personaggi. – Parodía dello stile ossianesco: Dammi gli occhiali miei, figli del naso. – Farse francesi, parodía d’altri drammi>.

4) OXFORD ENGLISH DICTIONARY -OED :

  1. A literary composition modelled on and imitating another work, esp. a composition in which the characteristic style and themes of a particular author or genre are satirized by being applied to inappropriate or unlikely subjects, or are otherwise exaggerated for comic effect. In later use extended to similar imitations in other artistic fields, as music, painting, film, etc.

I non fungible tokens rientrano nell’ambito della privativa di marchio , secondo il Tribunale di roma

Grazie ad  Eleonora Rosati in IPKat che fornisce il link al testo della ordinanza cautelare, già notiziataci dai media, ove  protagonsta attrice è Juventus Football Club (Trib. Roma 19/20.07.2022 ord., RG 32072/2022, repert. 14994/2022, giudice Lando Alfredo).

Niente di nuovo. Sono questioni classiche di diritto industriale, tranne che per l’attività contraffattoria che nel caso è costituita da un qujd tecnologicamente nuovo: card in formato digitale (NFT).

Non c’è dubbio che la loro commercializzazione rientri nel concetto di “uso nell’attività economica” ex art. 21/1 c. propr. ind. (mai citato peraltro dal giudice!): è poco comprensibile quindi il clamore suscitato negli ambienti giuridici.

La cessata attività da parte del convenuto non farebbe venir meno il  periculum in mora, secondo il G.,  perchè potrebbe essere sempre reiterato l’illecito , anche considerato che il contretto di sfruttamento della notoreità in essere non è ancora scaduto.    Punto importante anche se il motivo è quasi tautologico.

Dei NFT non si dice che erano conservati su blockchain, come di solito avviene.

Nedim Malovic sempre su IPKat pone l’interessante questione delle modalità esecutive dell’ordine di distruzione quando i tokens siano su una blockchain, i cui dati dovrebbero essere immodificabili. Dà un paio di soluzioni possibili.

Altra Cassazione sulla confondibilità tra marchi

Purtroppo permane la bizzarria  tutta italiana di omettere nelle decisioni su marchi (figurativi) la loro rappresentazione grafico, invece essenziale per capire la fattispecie concreta (nel caso de quo li ho individuati in rete).

Parliamo di Cass. 13.12.2021 n. 39.764, Permasteelisa c. Bluesteel, rel. U. Scotti, che contiene anche molti snodi processuali, assai rilevanti per il pratico (ricordo solo quello -condivisibilissimo- sulla non contestazione ex art. 115 cpc, spesso superficialmente applicata: l’istituto riguarda solo fatti storici, non affermazioni diverse come le difese, § 2.5: ne segue che la disposizione non si applica all’affermazione di rinomanza del marchio, fatta dall’attore)

Passando al merito , va rimarcata l’affermazine per cui la rinomanza non va provata con <<l’internazionalità e notorietà della sua azienda; fatturato annuo; utilizzo costante del marchio; estensione del marchio in ventuno Paesi) >>. Sono invece <<fattori essenziali il grado di conoscenza da parte del pubblico e semmai il volume di investimenti pubblicitari, quale fatto presuntiva mente capace di generare a sua volta una presunzione di conoscenza collettiva>, § 2.6.

Su marchio debole/forte al § 3.7: <<Se il collegamento logico è intenso, si parla di marchio debole, se il collegamento logico si fa sempre più evanescente, si parla di marchio sempre più forte.

La ratio evidentemente sottesa a tale principio vuol impedire che attraverso la privativa sul segno si venga a precostituire un monopolio sullo stesso prodotto o servizio contraddistinto.

Inoltre il grado di tutela accordata al marchio muta, in termini di intensità, a seconda della sua qualificazione di esso quale marchio “forte” (e cioè costituito da elementi frutto di fantasia senza aderenze concettuali con i prodotti contraddistinti e, quindi, senza capacità descrittiva rispetto alla tipologia di prodotto contrassegnata) o “debole” (ossia costituito da un elemento avente una evidente aderenza concettuale rispetto al prodotto contraddistinto).

La distinzione fra i due tipi di marchio, debole e forte, si riverbera poi sulla loro tutela di fronte alle varianti: nel senso che, per il marchio debole, anche lievi modificazioni o aggiunte sono sufficienti ad escludere la confondibilità, mentre, al contrario, per il marchio forte devono ritenersi illegittime tutte le variazioni e modificazioni, anche se rilevanti ed originali, che lascino sussistere l’identità sostanziale del “cuore” del marchio, ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l’idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandolo in modo individualizzante.

Questi principi ispirano il costante orientamento di questa Corte in tema di marchi d’impresa, secondo cui la qualificazione del segno distintivo come marchio debole non incide sull’attitudine dello stesso alla registrazione, ma soltanto sull’intensità della tutela che ne deriva, nel senso che, a differenza del marchio forte, in relazione al quale vanno considerate illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l’identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l’idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante, per il marchio debole sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte (Sez. 1, n. 8942 del 14.5.2020, Rv. 657905 – 01; Sez. 1, n. 10205 del 11.4.2019, Rv. 653877 – 03; Sez. 1, n. 15927 del 18.6.2018, Rv. 649528 – 01; Sez. 1, n. 9769 del 19.4.2018, Rv. 648121 – 01; Sez. 1, Numero di raceolta gendale 39764/2021 Rv. 637809 – 01)>>.

Sul giudizio di confondibilità, si leggono affermazioni comunemente ricevute: <Ancora recentemente (Sez.6.1, n. 12566 del 12.5.2021) questa Corte ha riepilogato la propria giurisprudenza ferma nel ritenere che l’apprezzamento del giudice del merito sulla confondibilità fra segni distintivi similari deve essere compiuto non in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata considerazione di ogni singolo elemento, ma in via globale e sintetica (Sez. 1, n. 8577 del 6.4.2018, Rv. 647769 – 01; Sez. 1, n. 1906 del 28.1.2010, Rv. 611399 – 01; Sez. 1, n. 6193 del 7.3.2008, Rv. 602620 – 01); tale accertamento va condotto con riguardo all’insieme degli elementi salienti grafici e visivi, mediante una valutazione di impressione, che prescinde dalla possibilità di un attento esame comparativo e che va condotta in riferimento alla normale diligenza e avvedutezza del pubblico dei consumatori di quel genere di prodotti, dovendo il raffronto essere tra il marchio che il consumatore guarda ed il mero ricordo dell’altro (cfr. quanto evidenziato in motivazione da Cass. 17.10.2018, n. 26001, attraverso il richiamo a Sez. 1, n. 4405 del 28.2.2006, Rv. 589976 – 01).

Il principio inoltre è conforme all’insegnamento della giurisprudenza della Corte di giustizia, secondo cui il rischio di confusione tra marchi deve essere oggetto di valutazione globale, in considerazione di tutti i fattori pertinenti del caso di specie: valutazione che deve fondarsi, per quanto attiene alla somiglianza visuale, auditiva o concettuale dei marchi di cui trattasi, sull’impressione complessiva prodotta dai marchi, in considerazione, in particolare, degli elementi distintivi e dominanti dei marchi medesimi (Corte Giust. CE 11.11.1997, C-251.95, Sabel, 22 e 23; Corte Giust. CE 22.6.1999, C-342.97, Lloyd, 25, la quale precisa, al punto 26, che, il consumatore medio di una data categoria di prodotti, per quanto sia normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, solo raramente ha la possibilità di procedere a un confronto diretto dei vari marchi, ma deve fare affidamento sull’immagine non perfetta che ne ha mantenuto nella memoria).>

Su marchi di insieme e marchio complesso: <<Questa Corte ha ripetutamente chiarito che il marchio complesso consiste nella combinazione di più elementi, ciascuno dotato di capacità caratterizzante e suscettibile di essere autonomamente tutelabile (Sez. 1, n. 12368 del 18.05.2018, Rv. 648933 – 01; Sez. 1, n. 12860 del 15.06.2005, Rv. 583122 – 01).

Il marchio d’insieme si distingue dal marchio complesso: mentre quest’ultimo è riconoscibile nel segno risultante da una composizione di più elementi ciascuno dotato di capacità caratterizzante, la cui forza distintiva è tuttavia affidata ad uno di essi costituente il c.d. cuore, assolutamente protetto per la sua originalità, nel marchio d’insieme, invece, si ha la mancanza di un elemento caratterizzante (il c.d. cuore), essendo i vari elementi tutti singolarmente mancanti di distintività, ed essendo soltanto la combinazione cui tali elementi danno vita, ovvero appunto il loro insieme, che può avere, per come viene percepito dal mercato, un valore distintivo più o meno accentuato (Sez. 1, n. 7488 del 20.04.2004, Rv. 572177 – 01)>>, § 3.11.

Ancora, il giudizio sulla confondibilità è di merito, non censurabile presso la SC, § 3.12. Sul punto non concordo: i fatti riservati ai giudici di merito sono solo i fatti storici: quello di confondibilità tale non eè, dato che presuppne accertati  i fatti storici ed è un giudizio di diritto.

Principio di diritto : “In tema di tutela del marchio, l’apprezzamento del giudice del merito sulla confondibilità dei segni nel caso di affinità dei prodotti – apprezzamento che costituisce un giudizio di fatto, incensurabile in cassazione, se sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici – non deve essere compiuto in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata considerazione di ogni singolo elemento, ma in via globale e sintetica, con riguardo all’insieme degli elementi salienti grafici e visivi, mediante una valutazione d’impressione, che prescinde dalla possibilità di un attento esame comparativo e che va condotta in riferimento alla normale diligenza e avvedutezza del pubblico dei consumatori quel genere di prodotti, dovendo il raffronto essere eseguito tra il marchio che il consumatore guarda ed il mero ricordo mnemonico dell’altro; il predetto giudizio deve essere motivato e corredato dall’indicazione, concisa e sintetica, delle ragioni che lo hanno orientato e degli elementi che attirano primariamente l’attenzione del fruitore“.

Il marchio (super)notorio in Cassazione: precisazioni che non sarebbero necessarie

La SC interviene sui marchi rinomati Gucci (deprecabilmente non c’è corredo fotografico in sentenza) per ribadire regole ovvie, alla luce delle disposizioni vigenti (Cass,. 07.10.2021, n. 27.217, rel Fidanzia).

Sembra che la corte di appello toscana avesse centrato il giudizio di rigetto dalla domanda Gucci sulla assenza di confondibilità, quando invece il dettato è limpido nel dire che la tutela del marchio rinomato da essa prescinde. Infatti i  requisiti posti dall’art. 12.e)  (anzi, dall’art. 12.f), secondo la SC, § 4: non è chiaro perchè) non parlano di confondibilità ma solo di indebito vantaggio/pregiuzio.

Non si sa dunque come sia potuta la CdA incappare in tale svarione.

La SC allora si trova obbligata a ricordare, quanto al pregiudizio,  che: <<il pregiudizio arrecato al carattere distintivo del marchio che gode di notorietà, indicato anche con il termine di “diluizione”, si manifesta quando risulta indebolita la sua idoneità ad identificare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato, per il fatto che l’uso del segno identico o simile fa disperdere l’identità del marchio e della corrispondente presa nella mente del pubblico.

Tale situazione si verificherà soprattutto qualora il marchio non sia in grado di suscitare un’associazione immediata con i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato.

Il pregiudizio arrecato alla notorietà, designato anche con il termine di “corrosione”, si verifica quando i prodotti o i servizi per i quali il segno identico o simile è usato dal terzo possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere di attrazione del marchio ne risulti compromesso (v. sentenza L’Ore’al punti 39 e 40; Cass. n. 26000/2018).

Non vi è dubbio, infatti, che una estesa commercializzazione di prodotti recanti segni identici o simili a marchi rinomati possa fondatamente cambiare le abitudini della clientela cui tali articoli sono normalmente indirizzati, soprattutto di quella che è orientata all’acquisto per il carattere esclusivo del prodotto, per l’elevatissimo target del medesimo, la quale, per non incorrere nel rischio che il suo costoso accessorio di lusso possa essere confuso con uno contraffatto, può dirigersi verso altre marche altrettanto rinomate>> .    Questo è probabilmente il passaggio più interessante.

Quanto al requisito alternativo (indebito vantaggio), ricorda che: <<La nozione di “vantaggio indebitamente tratto dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio”, detto anche “parassitismo”, va, invece ricollegato non al pregiudizio subito dal marchio, quanto piuttosto al vantaggio tratto dal terzo dall’uso del segno identico o simile al marchio. Essa comprende, in particolare, il caso in cui, grazie ad un trasferimento dell’immagine del marchio o delle caratteristiche da questo proiettate sui prodotti designati dal segno identico o simile, sussista un palese sfruttamento parassitario nella scia del marchio che gode di notorietà (sentenza nella causa C-487/07 cit., punto 41) senza che il titolare del marchio posteriore abbia dovuto operare sforzi propri in proposito e senza qualsivoglia remunerazione economica atta a compensare lo sforzo commerciale effettuato dal titolare del marchio per crearlo e mantenerne l’immagine (v. sempre sentenza nella causa C-487/07 cit., punto 49).

Il titolare del segno posteriore, in sostanza, ponendosi nel solco del marchio notorio, beneficia del suo potere attrattivo, della sua reputazione e del suo prestigio, senza dover sborsare alcun corrispettivo economico.

Dunque, è del tutto irrilevante che coloro i quali sono soliti acquistare prodotti G. possano non essere indotti in errore in ordine alla provenienza del prodotto recante il marchio del contraffattore, potendo tale prodotto indirizzarsi a quei consumatori che lo scelgono in modo consapevole non per le sue caratteristiche, decorative o di materiale, intrinseche, ma solo per la sua forte somiglianza a quello “celebre”, magari per “spacciarlo” come quello originale ai conoscenti meno attenti o meno qualificati nel riconoscere i marchi rinomati.

Esaminati i requisiti previsti dalla normativa sia comunitaria che italiana per accordare la tutela al marchio dotato di rinomanza, secondo la giurisprudenza comunitaria sopra citata (vedi sempre sentenza L’Oreal), al fine di accertare se l’uso del segno tragga indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio, occorre effettuare una valutazione complessiva che tenga conto di tutti gli elementi rilevanti del caso di specie, fra i quali compaiono, in particolare, l’intensità della notorietà e il grado del carattere distintivo del marchio, il grado di somiglianza fra i marchi in conflitto, nonché la natura e il grado di prossimità dei prodotti o dei servizi interessati. In particolare, quanto all’intensità della notorietà e del grado di carattere distintivo del marchio, è stato evidenziato che più il carattere distintivo e la notorietà del marchio di cui si tratta sono rilevanti, più facilmente sarà ammessa l’esistenza di una violazione; inoltre, più l’evocazione del marchio ad opera del segno successivo è immediata e forte, più aumenta il rischio che l’uso attuale o futuro del segno tragga un vantaggio indebito dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio o rechi loro pregiudizio (v., in tal senso, anche sentenza 27 novembre 2008, causa C 252/07, Intel Corporation, punti 67-69)>>.  Attenzione però: che la maggior rinomanza aumenti il rischio di vantaggio è direi quasi certo; che aumenti pure quello di pregiudizio, lo è meno (forse dipende dal tipo di rinomanza, ad es. a seconda che sia o meno basata su un’immagine di ricerca qualitativa)

Marchi rinomati, scissioni aziendali e liti tra familiari

La corte di appello di Venezia nel 2017 aveva giudicato la lite tra esponenti della nota famiglia di ristoratori Cipriani intorno a marchi denominativi contenenti il detto cognome (APP. Venezia 2798/2017 del 30.11.2017, rel. Bazzo).

Non si ripercorrono qui le complesse vicende fattuali.  Solo si riporta il passaggio ove si dice che la fama della persona e quindi l’uso del proprio nome non può andare ad incidere su marchi anteriori: la tutela civile del nome  è altro dalla tutela del suo valore commerciale. Si tratta di tema spesso ricorrente per cui vale la pena di leggere le analitiche considerazione della Corte:

<<Ciò premesso, va rilevato che una volta avvenuta la scissione (vuoi a seguito dell’accordo del 1967, vuoi per effetto di vicende successive) tra la figura di Giuseppe Cipriani senior ed i segni “Cipriani”, ed “Hotel Cipriani” – il primo concesso su domanda risalente già al 1969 per le classi 43 (alberghi, ristoranti caffetteria), 35 (gestione d’alberghi) e 16 (stampati) – la notorietà del suddetto e del figlio Arrigo quali personaggi di rilievo (ed imprenditori di successo grazie alla fama dell’Harry’s Bar) non potrà minimamente giustificare l’uso del patronimico in contrasto con la tutela da assicurare ai citati marchi (italiani e comunitari), divenuti celebri, e che in quanto tali non possono tollerare interferenze ed agganciamenti di sorta, apparendo anzi irrilevante quanto ipotizzato dal tribunale circa la preesistente notorietà delle iniziative economiche nel settore della ristorazione della famiglia Cipriani (asseritamente anteriore ai marchi registrati, in capo ad Hotel Cipriani); basti rimarcare che – come già detto – detta notorietà va semmai ricollegata all’esercizio del locale suindicato (Harry’s Bar), e si rivela a ben vedere ininfluente dopo che Giuseppe Cipriani senior (con l’adesione del figlio) ebbe a disporre del suo nome al momento dell’uscita dalla compagine dell’Hotel Cipriani lasciando che la Società conservasse in esclusiva il nome Cipriani (giusta l’accordo del 1967: si veda al riguardo la recente pronuncia resa in data 29 giugno 2017 dal Tribunale dell’Unione a definizione del ricorso di Arrigo Cipriani sulla richiesta di annullamento del marchio comunitario, depositata all’udienza di conclusioni, laddove la statuizione di accertamento resa dal Tribunale di Venezia in altra controversia tra Arrigo Cipriani e l’odierna appellante – con sentenza n. 1838/2011 – non appare sufficiente a consentire diverse conclusioni).
Si osserva dunque che la diversa interpretazione prospettata dal Tribunale (coerente con la possibilità per gli odierni appellati di svolgere attività di ristorazione sotto un segno distintivo incentrato sul loro nome anagrafico poiché di per sé non decettivo, sempre che proposto in dimensioni grafiche “contenute”), presuppone che sia del tutto conforme alla correttezza professionale l’uso del suddetto nome al fine di veicolare un valore di qualità e tradizione (asseritamente “sinonimo di qualità, eleganza e stile in tutto il mondo”, come puntualizzato nella memoria di costituzione degli appellati, ricollegabile in modo esplicito al segno de quo), ma ciò avverrebbe in concorrenza ed aggancio con i marchi celebri “Cipriani” ed “Hotel Cipriani”, con ogni conseguente rischio di confusione e di associazione tra le attività contraddistinte dai segni in conflitto, in presenza di attività imprenditoriali svolte nello stesso settore o comunque in settori affini.>>

Poi così prosegue la Corte: <<Né risulta decisiva in contrario la sottolineata esigenza di comunicare al pubblico le competenze e professionalità acquisite, consentendo agli appellati di “firmare” in qualche modo le loro attività, dando loro una precisa impronta; i predetti a ben vedere non possono essere annoverati tra gli artisti o i “creatori” di moda, o “stilisti” che si affermino in attività artistiche o professionali che richiedano una puntuale informazione al pubblico della provenienza dell’attività creativa realizzata, appartenendo al mondo della ristorazione (per quanto di fascia alta) e provvedendo in detta veste ad aprire e gestire ristoranti nelle più disparate località, sulla base di personali scelte imprenditoriali, alle quali risultano non pertinenti i profili di “creatività” nel senso sopra indicato.
In definitiva, per quanto ogni valutazione concreta non sia stata resa agevole dalla scarsezza del materiale offerto in causa, gli argomenti addotti nell’impugnata sentenza per consentire l’utilizzo delle espressioni “by Arrigo Cipriani”, “by Giuseppe Cipriani”, “by famiglia Cipriani” e consimili (“managed by” o “directed by”), al fine di indicare la gestione di attività di ristorazione da parte delle persone delle persone individuate nelle stesse (o individuabili con esse), non si rivelano idonei a configurare l’asserita valenza descrittiva, ipotizzata sulla base di astratte (ed opinabili) considerazioni, a fronte di una indubbia valenza distintiva delle medesime, le quali – per loro natura – sono destinate (quali sinonimi di elevata ospitalità, convivialità e buon vivere) non certo a comunicare mere informazioni essenziali relative alla “specie, alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca,,,” del servizio, bensì ad attirare l’attenzione dei potenziali clienti sul nome anagrafico sotto il quale il servizio è proposto e dunque sulla origine e sulla qualità dello stesso, in quanto tale in grado di connotarlo con il richiamo ad un patronimico divenuto famoso, poiché oggetto dei marchi celebri in legittima titolarità dell’appellante (nel settore alberghiero e della ristorazione).
In tal senso deve escludersi che l’utilizzo del patronimico Cipriani corrisponda ai principi di correttezza professionale ovvero alle consuetudini di lealtà in campo commerciale e industriale, tenuto conto dell’inevitabile rischio di aggancio e di confusione con i segni distintivi propri delle affini attività alberghiere e di ristorazione esercitate dalla società appellante mediante iniziative imprenditoriali sostenute da marchi celebri e tra l’altro rivolte alla medesima fascia alta di clientela.>>.

la notorietà del titolare incide sul giudizio di confondibilità

La Corte europea si pronuncia nella lite tra Lione Messi e un produttore di prodotti simili  circa i rispettivi marchi, regolata dall’art. 8/1 reg. 207/2009.

Il calciatore depositò il marchio seguente:

marchio di Lionel Messi

L’opponente era titolare del marchio denominativo “MASSI”

la fase amministrativa fu sfavorevole al calciatore, che invece ottenne ragione davanti al Tribunale di 1 grado: il quale ritenne che la sua notorietà compensasse le somiglianze visive e fonetiche.

La C.G. concorda col Tribunale.

La Corte osserva che, al pari della notorietà del marchio anteriore, << l’eventuale notorietà della persona che chiede che il proprio nome sia registrato come marchio è uno degli elementi rilevanti per valutare il rischio di confusione, dal momento che tale notorietà può avere un’influenza sulla percezione del marchio da parte del pubblico di riferimento. Il Tribunale non è pertanto incorso in errore nel considerare che la notorietà del sig. Messi Cuccittini costituiva un elemento rilevante al fine di stabilire una differenza sul piano concettuale tra i termini «messi» e «massi»  >>(così il comunicato stampa 108/20 del 17.09.2020)

Conferma poi che la notorietà del calciatore costituisce <fatto notorio>, autonomamente accertabile dal giudice.

Si tratta della sentenxza Corte Giustizia 17.09.2020, C‑449/18 P et C‑474/18 P, EUIPO c. Messi ed altri, (solo in francese e spagnolo)

Ancora la Corte di Giustizia sul marchio rinomato: il caso Burlington

Con la sentenza 4 marzo 2020 nelle cause riunite da C-155/18 P fino a C-158/18 P la CG interviene su alcuni aspetti sostanziali e procedurali del diritto dei marchi.

La normativa applicata ratione temporis è per alcune registrazioni il regolamento UE 40/94 e per un’altra il regolamento UE 207 del 2009.

Sappiamo che l’articolo 8/5  del regolamento 207/2009 dice: <<In seguito all’opposizione del titolare di un marchio anteriore registrato ai sensi del paragrafo 2, la registrazione del marchio depositato è altresì esclusa se il marchio è identico o simile al marchio anteriore, a prescindere dal fatto che i prodotti o i servizi per i quali si chiede la registrazione siano identici, simili o non simili a quelli per i quali è registrato il marchio anteriore, qualora, nel caso di un marchio UE anteriore, quest’ultimo sia il marchio che gode di notorietà nell’Unione o, nel caso di un marchio nazionale anteriore, quest’ultimo sia un marchio che gode di notorietà nello Stato membro in questione e l’uso senza giusto motivo del marchio depositato possa trarre indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio anteriore o recare pregiudizio agli stessi.>>

I marchi a confronto sono quelli anteriori di Burlington Arcade da una parte e quelli posteriori di Burlington (figurativi e denominativi), dall’altra: si vedano rispettivamente i punti 21 e 19 della sentenza.

I prodotti per i quali sono stati registrati , come sempre nel diritto dei marchi, sono essenziali: a prima vista sotto il profilo merceologico però non c’è sovrapposizione o meglio affinità.

Qui mi fermo solo sul profilo della tutela e in particolare sulla fattispecie astratta di cui all’articolo 8 paragrafo 5 regolamento 207 cit. (la norma è del tutto simile anche nel regolamento 40 del 94). La Corte interviene pure su altri aspetti soprattutto procedurali, dei quali qui non mi occupo.

Le messe a punto della CG non sono particolarmente innovative ma ma vale la pena di ripassarle

La Corte ricorda gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’articolo 8 paragrafo 5 regolamento 207, paragrafo 73 e ricorda che una sola di queste tre violazioni è sufficiente, paragrafo 74

Ricorda poi che <<sebbene il titolare del marchio anteriore non sia tenuto a dimostrare l’esistenza di una violazione effettiva e attuale del suo marchio ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 5, del regolamento n. 207/2009, egli deve, tuttavia, dimostrare l’esistenza di elementi che permettano di concludere per un rischio serio che la violazione abbia luogo in futuro>>, paragraph 75

Come al solito, ricorda pure che la valutazione va eseguita complessivamente <<tenendo conto di tutti gli elementi rilevanti del caso di specie, fra i quali compaiono, in particolare, il livello di notorietà e il grado di distintività del marchio anteriore, il grado di somiglianza fra i marchi in conflitto, nonché la natura e il grado di prossimità dei prodotti o dei servizi interessati (sentenza del 27 novembre 2008, Intel Corporation, C‑252/07, EU:C:2008:655, punto 68)>> paragrafo 76

 in particolare circa il pregiudizio <<arrecato al carattere distintivo del marchio anteriore, detto anche «diluizione», «corrosione» o «offuscamento», esso si manifesta quando risulta indebolita l’idoneità di tale marchio ad identificare come provenienti dal suo titolare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato e viene utilizzato, per il fatto che l’uso del marchio posteriore fa disperdere l’identità del marchio anteriore e la sua capacità di far presa nella mente del pubblico. Ciò si verifica, in particolare, quando il marchio anteriore non è più in grado di suscitare un’associazione immediata con i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato (sentenza del 27 novembre 2008, Intel Corporation, C‑252/07,EU:C:2008:655, punto 29).>>, § 77

Sotto il profilo probatorio, <<la prova che l’uso del marchio posteriore rechi o possa recare pregiudizio al carattere distintivo del marchio anteriore richiede che siano dimostrati una modifica del comportamento economico del consumatore medio dei prodotti e dei servizi per i quali il marchio anteriore è registrato, dovuta all’uso del marchio posteriore o un rischio serio che una tale modifica si produca in futuro (sentenza del 27 novembre 2008, Intel Corporation, C‑252/07, EU:C:2008:655, punto 77).>>, § 78.    E’ forse l’indicazione più utile per la pratica.