La Piaggio ottiene finalmente ragione circa la registrazione come marchio di forma dellle linee della Vespa LX

Il Trib. UE 29.11.2023, T-19/22,  nella lite tra Piaggio e il produttore cinese dà ragione alla prima circa la registrabilità come marchio tridimensionale dell’aspetto della Vespa modello LX, che riproduto qui sotto:

(dal sito curia.eu)

La sentenza è interessante assai, anche per il profilo probatorio reggente l’accertamento di distintività sopravvenuta.

Il Trib. nega la distintività ab origine, ma accoglie la domanda di distintivià sopravvenuta (secodnary meaning), riformando la decisione amminstrativa, con miotivaiozne che riporto di seguito.

Va notato che viene superata l’insidiosa eccezione del produttore cinese, per cui i documenti provatori di Pioaggio erano sì relativi alal Vespa ma non esattamente al modello de quo (§ 95).

Ed ecco la motivaizone pertinetne:

<< 99   Nel caso di specie, dagli elementi del fascicolo risulta che la forma rappresentata dal marchio contestato corrisponde alla raffigurazione tridimensionale dello scooter «Vespa LX» commercializzato dalla ricorrente.

100    Sebbene gran parte degli elementi di prova prodotti dalla ricorrente non si riferiscano direttamente a tale raffigurazione, ma piuttosto alla «Vespa» in generale o ad altri modelli di «Vespa», resta tuttavia il fatto che la ricorrente ha prodotto taluni elementi di prova che riguardano specificamente il marchio contestato, come gli opuscoli e i sondaggi di opinione.

101    Inoltre, occorre osservare che l’apparenza complessiva degli scooter che figurano negli elementi di prova prodotti dalla ricorrente, ivi compreso lo scooter «Vespa LX», resta essenzialmente la stessa.

102    Come rilevato dalla ricorrente, ciò è corroborato, in particolare, dalla circostanza che le tre caratteristiche della forma rappresentata dal marchio contestato che sono state menzionate dalla ricorrente, ossia lo scudo a forma di freccia, la forma a «Ω rovesciata» tra la sella e la pedana nonché la forma a «X» tra le bombature laterali e il sottosella, compaiono in tutti gli altri scooter «Vespa» che figurano negli elementi di prova della ricorrente e in tutti gli scooter «Vespa» commercializzati tra il 1945 e il 2008 che sono stati presentati dalla ricorrente nella sua risposta alla comunicazione dell’esaminatrice del 3 aprile 2014.

103    Tale constatazione è altresì corroborata dalla sentenza del 6 aprile 2017 del Tribunale di Torino (allegato 12 al ricorso), nella quale è stato riconosciuto che le tre caratteristiche summenzionate nonché la forma a goccia della scocca erano ricorrenti in tutti i modelli di «Vespa» dal 1945 a oggi e, in ogni caso, certamente nello scooter «Vespa LX», la cui forma è rappresentata dal marchio contestato.

104    Infine, le variazioni tra i diversi modelli di scooter «Vespa» sono poco numerose.

105    Ne consegue che, tenuto conto dell’esistenza di elementi di prova che riguardano specificamente il marchio contestato, gli elementi di prova che fanno riferimento alla «Vespa» in generale o ad altri modelli di «Vespa» concernono, in un certo modo, la forma rappresentata dal marchio contestato e non possono essere ignorati nell’ambito dell’esame del carattere distintivo acquisito in seguito all’uso del marchio contestato. Infatti, non è escluso che tali elementi di prova, considerati nel loro insieme, siano idonei a dimostrare che il pubblico di riferimento percepisce tutti gli scooter «Vespa», ivi compreso lo scooter «Vespa LX» la cui forma è rappresentata dal marchio richiesto, come provenienti da una stessa impresa determinata, tenuto conto del loro aspetto complessivo, che è rimasto essenzialmente lo stesso dal 1945. La commissione di ricorso ha, pertanto, commesso un errore di valutazione nel ritenere in sostanza, ai punti 72 e 73 della decisione impugnata, che tali elementi di prova non fossero rilevanti.

106    Sotto un secondo profilo, la commissione di ricorso ha rilevato che i dati relativi al volume delle vendite, ai fatturati, alle quote di mercato e agli investimenti pubblicitari non erano affidabili e che nessun elemento di prova consentiva di corroborarli.

107    A tal riguardo, dalla tabella contenente i dati relativi al volume delle vendite e alla quota di mercato della «Vespa» in 26 Stati membri risulta che i modelli di «Vespa» hanno avuto il volume di vendite più elevato, e che essi hanno altresì detenuto una delle quote di mercato più considerevoli in tutti gli Stati membri tra il 2007 e il 2012. Inoltre, per quanto riguarda i dati relativi a Cipro e a Malta, che non figurano nella tabella summenzionata, dalla tabella che presenta il volume delle vendite e il fatturato relativi a detti modelli in tutti gli Stati membri risulta che il volume delle vendite e i fatturati per questi due Stati membri non sono stati particolarmente importanti, ma sono aumentati tra il 2009 e il 2012.

108    Sebbene, come ha correttamente sottolineato la commissione di ricorso, tali dati consistano in semplici tabelle Excel preparate dalla ricorrente stessa, sicché il loro valore probatorio è limitato, resta nondimeno il fatto che la ricorrente ha prodotto elementi di prova idonei a confermare taluni dati relativi al volume delle vendite e alla quota di mercato detenuta dalla «Vespa». Si tratta, in particolare, della lettera dell’ANCMA del 29 gennaio 2015 la quale conferma, quanto meno, i dati relativi al volume delle vendite e alle quote di mercato della «Vespa» in Italia tra il 2007 e il 2012. Parimenti, la relazione di verifica contabile attesta che la ricorrente ha ottenuto notevoli introiti tra il 2005 e il 2013 in Italia, grazie alla vendita di «Vespa».

109    La commissione di ricorso ha, pertanto, commesso un errore di valutazione nel ritenere in sostanza, ai punti 70 e 84 della decisione impugnata, che nessun elemento di prova fosse tale da corroborare i dati relativi al volume delle vendite, ai fatturati e alle quote di mercato della «Vespa».

110    Per di più, dalla tabella relativa agli investimenti pubblicitari della ricorrente risulta che quest’ultima ha destinato importi molto elevati alla promozione della «Vespa», perlomeno in Italia, Germania, Spagna, Francia e Belgio, tra il 2003 e il 2012.

111    Se è vero che anche tali dati sono contenuti in una tabella Excel preparata dalla ricorrente stessa, sicché il loro valore probatorio è limitato, occorre tuttavia osservare che taluni elementi di prova erano idonei a corroborare l’entità degli investimenti pubblicitari realizzati dalla ricorrente.

112    Anzitutto, la relazione di verifica contabile conferma che la ricorrente ha realizzato considerevoli investimenti pubblicitari tra il 2005 e il 2013 in Italia. La ricorrente ha poi presentato opuscoli in inglese e in italiano su diversi modelli di «Vespa», un libro dedicato al «mito di Vespa» e una pubblicazione intitolata «Vespa. Un’avventura italiana nel mondo», i quali erano idonei a dimostrare che la «Vespa» era stata pubblicizzata non solo in Italia, ma anche a livello internazionale. Infine, il catalogo «Eurovespa 2000» e la presenza di «Vespa club» in 20 Stati membri erano parimenti tali da dimostrare che la ricorrente aveva compiuto alcuni sforzi al fine di promuovere la «Vespa» all’interno dell’Unione.

113    La commissione di ricorso ha, pertanto, commesso un errore di valutazione nel ritenere, al punto 71 della decisione impugnata, che nessun elemento di prova fosse idoneo a corroborare i dati relativi agli investimenti pubblicitari realizzati dalla ricorrente rispetto alla «Vespa».

114    Sotto un terzo profilo, la commissione di ricorso ha ritenuto che gli elementi di prova non coprissero l’intero territorio dell’Unione. In particolare, i sondaggi di opinione sarebbero stati realizzati solo in dodici Stati membri e, quindi, coprirebbero solo una parte di detto territorio. Inoltre, i dati relativi al volume delle vendite, ai fatturati e alle quote di mercato non sarebbero corroborati da alcun elemento oggettivo, sicché la ricorrente non avrebbe prodotto elementi di prova rilevanti per quanto riguarda gli Stati membri non interessati dai sondaggi di opinione. Detta commissione ha pertanto ritenuto che, anche ammettendo che i sondaggi di opinione e le altre prove prodotte dalla ricorrente siano rilevanti, i risultati dei citati sondaggi in dodici Stati membri non potevano né essere estesi a tutti gli Stati membri, né essere completati e corroborati, negli Stati membri non interessati dai sondaggi in parola, dagli altri elementi di prova prodotti dalla ricorrente.

115    Se è certo vero che i sondaggi di opinione riguardano solo dodici Stati membri, mentre l’Unione ne contava 27 alla data di deposito della domanda di registrazione, occorre tuttavia sottolineare che, benché occorra dimostrare che il marchio contestato ha acquisito carattere distintivo in tutti gli Stati membri dell’Unione, non è affatto richiesto che gli stessi tipi di elementi di prova vengano prodotti per ogni Stato membro [v. sentenza del 28 ottobre 2009, BCS/UAMI – Deere (Combinazione dei colori verde e giallo), T‑137/08, EU:T:2009:417, punto 39 e giurisprudenza ivi citata]. Infatti, l’assenza di sondaggi non esclude che sia dimostrato che un segno ha acquisito carattere distintivo in seguito all’uso, dal momento che tale dimostrazione può essere fornita mediante altri elementi (v., in tal senso, sentenze del 28 ottobre 2009, BCS/UAMI – Deere (Combinazione dei colori verde e giallo), T‑137/08, EU:T:2009:417, punto 41, e del 10 giugno 2020, Louis Vuitton Malletier/EUIPO – Wisniewski (Raffigurazione di un motivo a scacchiera), T‑105/19, non pubblicata, EU:T:2020:258, punto 63).

116    Inoltre, come ricordato al precedente punto 88, gli elementi di prova del carattere distintivo acquisito in seguito all’uso possono riguardare complessivamente tutti gli Stati membri oppure un gruppo di Stati membri. Taluni elementi di prova possono, di conseguenza, presentare una rilevanza riguardo a più Stati membri, se non a tutta l’Unione (v., in tal senso, sentenza del 25 luglio 2018, Société des produits Nestlé e a./Mondelez UK Holdings & Services, C‑84/17 P, C‑85/17 P e C‑95/17 P, EU:C:2018:596, punti 80 e 87). Come ricordato al precedente punto 85, nessuna disposizione del regolamento n. 207/2009 impone di dimostrare con prove distinte l’acquisizione del carattere distintivo in seguito all’uso in ciascun singolo Stato membro, e sarebbe eccessivo esigere che la prova di una siffatta acquisizione venga fornita separatamente per ciascuno Stato membro.

117    Orbene, si deve necessariamente constatare che taluni elementi di prova diversi dai dati relativi al volume delle vendite, ai fatturati e alle quote di mercato potevano essere rilevanti ai fini della valutazione del carattere distintivo acquisito in seguito all’uso del marchio contestato negli Stati membri non interessati dai sondaggi di opinione.

118    Si tratta, in particolare, della presenza della «Vespa» nel Museum of Modern Art di New York, dei numerosi estratti di giornali online che mettono tutti in luce che, secondo esperti internazionali di design, la «Vespa» fa parte dei dodici oggetti che hanno segnato il design mondiale nel corso degli ultimi cento anni, delle fotografie contenute nella pubblicazione intitolata «Il mito di Vespa», le quali mostrano l’utilizzo degli scooter «Vespa» in film noti a livello mondiale, come «Vacanze romane», o ancora della presenza di «Vespa club» in numerosi Stati membri, i quali erano idonei a dimostrare il carattere iconico della «Vespa» e, quindi, il suo riconoscimento a livello globale, anche in tutta l’Unione.

119    La commissione di ricorso ha, pertanto, commesso un errore di valutazione nell’omettere di tener conto degli elementi di prova in questione i quali erano, invece, tali da dimostrare il carattere distintivo acquisito in seguito all’uso del marchio contestato in tutta l’Unione>>.

Servizi di modella/mannequin offerti tramite marchio costituito da fotografia di una di esse: è distintivo?

Il viso di modella per  ‘services of mannequins and photo models for publicity or sales promotion’ in class 35 and ‘model and mannequin services for leisure or recreational purposes’ in class 41, è sufficientemente distintivo?

L’ufficio UE dice di no in primo grado (art. 7.1.b EUTMR), di si in appello.

Dal 4° Board of appeal EUIPO 30.10.2023 , caso R 1266/2023-4, Roos Abels Holding B.V. (segnalazione e link di Marcel Pemsel in IPKat, che segnala altra decisione con motivaizone uguale in fattispecie sostanzialmente uguale):

<<19  It is true that, although special or original characteristics are not criteria for the distinctive character of a trade mark, the mark in question must enable the public to distinguish the goods and services in question from those of other undertakings or persons (04/07/2017, T-81/16, a pair of curved strips on the side of a Tire, EU:T:2017:463, § 49).
20 The Board of Appeal considers that this is the case with the sign applied for. The image at issue, as also indicated by the examiner, consists, taken as a whole, of the faithful representation of a woman’s head/face, in common colours and on a common background.
Contrary to the view taken by the examiner, that image does indeed enable the relevant public, consisting of the general public and a specialised public, to distinguish the services in question from those of a different commercial origin and, in particular, as originating from the specific person depicted.
21 Themere fact that a photograph is a natural faithful representation of what has been depicted does not mean that that representation cannot be perceived as a trade mark, all the more so since the image in itself does not say anything about the services sought. The sign applied for relates, undoubtedly, to the representation of the face of a particular person, with its unique faces, that is to say, its specific external features and that is to say, in the form of a passport photograph. In addition to (inter alia) the surname and first name, the representation of the face in the form of a passport photograph applies to the identification of a person and thus to his or her distinction from other persons. Whether the person can actually be named when viewing the image because it is known to the
relevant public does not alter this.
22 In the view of the Board of Appeal, the representation at issue is therefore capable of fulfilling the essential function of a trade mark in order to distinguish the services applied for from a different origin, as repeatedly held in relation to comparable trade marks. The Chamber refers in this regard to the decisions of 16/11/2017, R 2063/2016-4, device (PHOTO) OF THE HEAD OF A Woman, § 37; 23/10/2019, R 2574/2018-1, FOTOGRAFÍA AND COLOR DEL ROSTRO DE UNA PERSONA, § 14-15; 19/05/2021, R 378/2021-4, WEERGAVE OF THE face OF A PERSOON (fig.), § 17; 19/05/2021, R 468/2021-4, WEERGAVE OF A PERSOON (fig.), § 17). All those decisions concern similar figurative marks for, inter alia, similar or even identical services in Classes 35 and/or 41.
23 That finding of the Chamber is not affected by the fact that, as the examiner points out, many other faithful images of faces are conceivable from women and men. They will each represent a unique representation of that particular person, with his/her own specific external characteristics. In this context, the existence of double-riders and identical multiple births may be disregarded as exceptional and exceptional. Moreover, that argument could be put forward, also wrongly, against any other type of trade mark; how many words, patterns, images of animals, etc. do not exist?

24 Theexaminer’s argument that, with regard to the services requested in Classes 35 and 41 of mannequins and photomomodels, the image would represent only the person providing those services, indicates, on the contrary, that the image may be perceived as a means of distinguishing the commercial origin of those services. The relevant public will perceive the sign as a means of identifying the origin of the services in question, namely that they originate from the person depicted, with whom the sign fulfils the essential function of a trade mark (16/11/2017, R 2063/2016-4, device (PHOTO) OF THE HEAD OF A Woman, § 24-25; 19/05/2021, R 378/2021-4, WEERGAVE OF THE face OF A PERSOON (fig.),
§ 19; 19/05/2021, R 468/2021-4, WEERGAVE OF A PERSOON (fig.), § 19).
25 Similarly, the examiner’s finding that it is not unusual for the services applied for in Classes 35 and 41 that they are presented with the representation of the person providing the services does not call into question the conclusion that the mark applied for has distinctive character. Apart from the fact that such a finding, which, moreover, is unsubstantiated, is consistent with the ground for refusal laid down in Article 7(1) (d) EUTMR, which is not at issue in the present case, the representation appears in the mark applied for only in its kind. Nor is there any question that the use of precisely the mark applied for is customary for the services in question.
26 Finally, the comparison of examiner with the case-law cited above is flawed. The decision of 24/07/2001, R 341/2000-1, Figurative MARK (Doll’s head), which was more than 22 years old, concerns the application for a figurative mark relating to a stylised representation of a popp head with the typical characteristics of all the new-born babies similar, applied for dolls and toys in Class 28. The decision of 01/09/2015, R 2993/2014-5, device OF A SQUAIRE WITH FOUR PICTURES (fig.) concerns the application for a figurative mark relating to a collection of four photographs showing as many as five different persons of
different ages applied for for goods and services in the medical sector.
Conclusion
27 Contrary to the view taken by the examiner, the mark applied for does not infringe the absolute grounds for refusal set out in Article 7(1) (b) EUTMR.
28 It is therefore not necessary to examine whether it has acquired distinctive character through use in relation to the services in respect of which registration is sought pursuant to Article 7(3) EUTM>>

La soluzione data non è condivisibilissima (pur in un caso non facile), sia per la distiontività sia per l’individuaizone del consumatore diriferimeno (non è il general public)

La fotografia di in viso determnatonon è perceputo come indicaizone dell’origine aziendale

Rapporto (non facile) tra DOP (denominazione di origine protetta) e marchio collettivo aventi ad oggetto segni quasi uguali: le privative possono cumularsi, secondo l’EUIPO

Alessandro Cerri su IPKat segnala una assai interessante decisione della 5 Commissione di ricorso EUIPO 15.11.2023, proc. n° R 1073/2022-5, Consorzio Grana Padano ,

Il consorzio è titolare della DOP  “Grana Padano” e ora vuole registrare un marchio collettivo quasi identico.

In primo grado amministrativo la domanda è rigettata ex art. 76.2  reg. 2017/1001 (“La domanda di marchio collettivo UE viene inoltre respinta se il pubblico rischia di essere indotto in errore circa il carattere o il significato del marchio, in particolare quando questo non sembri un marchio collettivo“).

segni a confronto (dal post di A. Cerri in IPKat)

Per l’ufficio non c’è incompatibiità ex lege.

Nemmeno c’è confondibilità in concreto , stanti la diversità sia dei segni che delle reciproche modalità regolamentari di uso (solo sulle forme per la DOP; sulla confezione dei formaggi apporzionati per il marchio collettivo).

Sul presupposto che sia esatto ritenere rilevante la confondibilità, i due aspetti fattuali sono di dubbia sufficienza ad escluderla.

I segni sono infatti assai sinili; la dichiarazione negoziale programmaticaa sulle modalità di uso parrebbe insufficiente , essendo lasciato alla discrezione (giuridica o quanto meno fattuale, anche se in contrasto con la  prima) del titolare (profilo da verificare però).

Tema comunuje assai interessante e meritevole di approfondimento.

Va segnalata l’analitica difesa del Consorzio riportata nella decissione

L’emittente radiotelevisica ha diritto al compenso per le copie private (art. 5.2.b) dir. 29-2001)

Corte di giustizia  23.,11.2023, Seven.One entertainment v. Corint, C-260/22 illumina (poco, per vero) la norma in oggetto, in relazione alla sua trasposizione nazionale tedesca, che esenta dal diritto al compenso tramite collecting society le emittenti per le loro trasmissioni.

La soluzione della corte è scontata, visto il dettato letterale della dir. 298/2001. Palesement irrilevante, poi,  è la circostranza per cui certi organismi TV siano anche produttori di pellicole maturando così il relativo credito, giustamente osserva la CG.

Meno semplice è la sua attiazione e in particolare se lo Stao possa esentare certi aventi diritto sulla base di danno inesistente o minimo: o meglio, visto che può, quando ricorra tale fattiuspecie concreta. Serve poi parità di trattamento nel senso che è da vedere se può esentare tutti o solo caso per caso (ed allora in base a quali criteri oggettivi).

Ma su tutto ciò solo il giudice nazinale può decidere, conclude la CG

Violazione brevettuale : rapporto tra trasferimento dei profitti e risarcimento del danno (anche nel caso di più aventi diritto) nonchè problem solution approach

Cass. sez 1 del 09.11.2023 n. 31.170, rel. Scotti, Samsung v. Hop Mobile-fallim. Eko Mobile, esamina un tema solo apparentemente semplice (spt. punto III).

– I –

(la determinazione dell’altezza inventiva)

<<L’impiego, nell’apprezzamento dell’altezza inventiva del brevetto del criterio basato sul problem solution approach, che si struttura in tre scansioni (individuazione dello stato dell’arte più prossimo; determinazione del problema tecnico da risolvere; valutazione se l’invenzione per la quale si chiede il brevetto, alla luce dello stato dell’arte e del problema tecnico da risolvere, risulterebbe ovvia ad un soggetto esperto) è diffuso nella giurisprudenza di merito e si conforma a un orientamento consolidato del Board of Appeal dell’EPO. Tale criterio non discende tuttavia da una fonte normativa e men che meno dall’art. 48 c.p.i., di cui le ricorrenti prospettano la violazione e falsa applicazione; né questa Corte si è mai espressa nel senso che la mancata applicazione del problem solution approach, o una non corretta applicazione dei passaggi logici di tale metodo di valutazione, possa integrare un vizio della decisione deducibile in sede di legittimità a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 3; la violazione o la non corretta applicazione delle linee guida elaborate dall’EPO nel disciplinare la propria attività, in particolare quelle inerenti il metodo del problem solution approach, può venire in rilievo solo ove si risolva, sul piano del diritto nazionale, in una violazione o falsa applicazione del cit. art. 48 (sul punto cfr. Cass. 16 marzo 2022, n. 8584, in motivazione).

Il rilievo, poi, formulato dal CTU B., e incentrato sulla correlazione, che lo stesso esperto avrebbe ravvisato, tra l’affollamento del settore tecnico in cui si colloca l’invenzione brevettata e il valore che alla stessa potrebbe annettersi sul piano dell’altezza inventiva, rimane estraneo alla decisione della Corte di appello: onde la relativa censura è inammissibile perché carente del requisito della riferibilità alla pronuncia impugnata (cfr.: Cass. 24 febbraio 2020, n. 4905; Cass. 18 febbraio 2011, n. 4036; Cass. 3 agosto 2007, n. 17125) >>.

– II –

(sul danno da perdita del valore del brevetto)

<<La Corte di merito, andando in ciò in contrario avviso rispetto alla sentenza di primo grado, ha ritenuto dovesse liquidarsi, in favore di Hop Mobile, il danno per perdita di valore del brevetto; il danno è stato così commisurato alle royalties perdute dalla detta società per effetto della condotta delle società Samsung in relazione ai 14.211 cellulari commercializzati in Italia (pagg. 65 s. della sentenza impugnata).

In termini generali, non può escludersi la risarcibilità del danno consistente nella perdita di valore del diritto di proprietà industriale.

Che il brevetto abbia un proprio valore intrinseco è confermato, banalmente, dall’art. 2424 c.c. il quale include i diritti di brevetto industriale tra i valori delle immobilizzazioni da includere nello stato patrimoniale delle società per azioni.

Sul piano risarcitorio, il danno emergente conseguente alla contraffazione brevettuale ricomprende, poi, qualunque perdita dei valori economici esistenti nel patrimonio del titolare della privativa prima della consumazione dell’illecito.

Viene allora in considerazione anche quel danno che, come è stato osservato in dottrina, è direttamente incidente sulla stessa integrità della posizione di esclusiva: posizione che, per effetto della contraffazione, può essere compromessa anche irreversibilmente merce’ la duratura riduzione della possibilità di sfruttamento del brevetto. Assume così rilievo l’annacquamento (dilution) del pregio che è possibile associare al diritto, il quale si traduce in una corrispondente contrazione del suo valore patrimoniale: valore che, come sottolineato sempre in dottrina, può leggersi quale chance di una proficua collocazione del diritto stesso sul mercato.

In siffatta prospettiva la perdita di valore del brevetto può apprezzarsi avendo riguardo alla potenziale redditività dello stesso: onde è consentito attribuire rilievo alle royalties che il titolare può ritrarre nel tempo dal diritto di privativa, le quali sono da apprezzare proprio quale elemento indicatore della nominata redditività. In tal senso, la decisione impugnata non si espone a censura.

E’ peraltro evidente che l’apprezzamento del danno in questione non possa portare ad alcuna forma di overcompensation; e così, il riconoscimento della perdita di valore della privativa individuato come nel caso di specie sulla base della royalty ragionevole percettibile dal titolare del brevetto in un dato periodo non può aggiungersi al lucro cessante risentito in quello stesso arco di tempo dal predetto titolare o dal suo licenziatario: e ciò in quanto i due valori descrivono, se pure in modo diverso, il medesimo fenomeno, connotato dal fatto che, nel periodo dato, la privativa, per effetto della contraffazione, non è stata in grado di assicurare i profitti che in assenza di quella condotta illecita avrebbe procurato. La distinzione tra le due fattispecie sta nel fatto che il mancato guadagno nel secondo caso rileva in sé, mentre nel primo assume importanza quale elemento rivelatore dell’erosione del valore del diritto: tale distinzione non autorizza, tuttavia, la liquidazione delle due voci di danno, giacché il mancato guadagno che è conseguenza immediata e diretta dell’illecito (art. 1223 c.c.) – e che può assurgere, come si è detto, a indicatore della lamentata dilution – è unico. Allo stesso modo, deve negarsi che il danno da perdita di valore del brevetto correlato alla redditività di questo possa cumularsi con gli utili da restituire di cui all’art. 125, comma 3, c.p.i. Infatti, gli utili conseguiti dal contraffattore spettano nella misura in cui siano superiori al risarcimento del lucro cessante (onde non si aggiungono a tale risarcimento): sarebbe in conseguenza contraddittorio ammettere che il titolare del diritto, il quale non può ottenere, in aggiunta alla restituzione degli utili del contraffattore, il risarcimento del lucro cessante consistente nella mancata riscossione di royalties, sia in grado di raggiungere quel risultato pratico invocando il danno da perdita di valore del brevetto. Gioca, anche qui, l’esigenza di evitare meccanismi di sovracompensazione del danno. Un problema di sommatoria dei diversi rimedi (risarcimento del danno da lucro cessante o retroversione degli utili, da un lato, e risarcimento del danno incidente sulla redditività del brevetto, dall’altro) non si pone, invece, quando gli stessi operano su segmenti temporali non coincidenti.

In conclusione, il danno da perdita di valore del brevetto dipendente dalla sua contraffazione è suscettibile di essere risarcito e il ristoro patrimoniale ben può essere commisurato alla diminuita o annullata redditività del titolo di privativa, calcolato sulla base dell’ammontare delle royalties non percepite per effetto dell’illecito posto in essere; resta tuttavia escluso che attraverso la liquidazione del danno in questione possa pervenirsi ad alcun effetto duplicativo del ristoro spettante all’avente diritto>>.

– III – 

(sull’ar. 125.3 cpi; NB: la parte più interessante)

<<Il rimedio della retroversione degli utili, previsto dall’art. 125, comma 3, c.p.i. – e nell’art. 13.2 della dir. 2004/48/CE (c.d. direttiva enforcement), ove la misura è però specificamente contemplata in relazione alle ipotesi di violazione inconsapevole dell’altrui diritto – obbedisce alla finalità di dissuadere dall’attività contraffattiva l’operatore economico che sia più efficiente del titolare della privativa: dell’imprenditore che, cioè, si mostri in grado di ritrarre dallo sfruttamento del brevetto un utile superiore rispetto a quello che dalla privativa può conseguire l’avente diritto, evidentemente in possesso di una minore capacità di impresa. E’ del tutto chiaro che, in assenza di uno strumento di tutela quale quello della retroversione, per l’autore dell’illecito sarebbe sempre conveniente la contraffazione, dal momento che una misura meramente compensativa consentirebbe comunque al detto soggetto di incamerare il differenziale economico tra il suo profitto e l’altrui danno. Come è stato sottolineato in dottrina, se il contraffattore è più efficiente del titolare e il suo arricchimento è superiore al danno provocato a quest’ultimo, una regola solo risarcitoria (incentrata, cioè, sulla mera riparazione del danno effettivamente occorso) adempie, sì, a una funzione compensativa, ma non ha alcun effetto preventivo o deterrente. Nella prospettiva di un disegno legislativo volto a vietare ogni forma di parassitismo, la retroversione degli utili opera, dunque, nel senso della deterrenza: con la sola avvertenza, pure espressa dalla dottrina, che quando la violazione ha carattere doloso o colposo la retroversione mostra chiaramente questa finalità disincentivante della contraffazione economicamente efficiente, mentre nel caso di violazione inconsapevole il rimedio si spiega con la volontà legislativa di “rafforzare le prerogative di chi sfrutta legittimamente la proprietà industriale”.

All’istituto in questione si ritiene invece estranea un’accezione punitiva [NB- non concordo: si sottraggono al violatore anche risorse proprie, cioè che non spettano al/provengono dal violato]: conclusione, questa, che è possibile desumere da una pluralità di dati. Può richiamarsi, anzitutto, l’argomento speso da chi ha sottolineato come la retroversione operi in alternativa al risarcimento del danno e nella misura in cui gli utili eccedano tale risarcimento, “e non sempre e in toto, come sarebbe logico se la sanzione davvero contenesse i danni punitivi”. Può farsi pure menzione del tenore del considerando 26 della direttiva enforcement che ha trovato recepimento nel D. Lgs. n. 140 del 2006, con cui è stato novellato l’art. 125 c.p.i. secondo cui il fine della disciplina delle compensazioni pecuniarie in favore della parte lesa “non è quello di introdurre un obbligo di prevedere un risarcimento punitivo, ma di permettere un risarcimento fondato su una base obiettiva” (anche se, per la verità, la giurisprudenza unionale ha lasciato irrisolta la questione circa la contrarietà o meno del risarcimento punitivo all’art. 13 della direttiva 2004/48: cfr., infatti, Corte giust. UE 25 gennaio 2017, C-367/15, Stowarzyszenie, 29). Possono citarsi, ancora, le stesse parole della relazione ministeriale al D. Lgs. n. 140 del 2006: nell’illustrare che il novellato art. 125 considera le misure del risarcimento del danno e della retroversione degli utili come operativamente e concettualmente distinte, siccome riconducibili, rispettivamente, al profilo della reintegrazione del patrimonio leso e a quello dell’arricchimento senza causa, la detta relazione mostra di attribuire al rimedio in questione una matrice del tutto diversa da quella punitiva.

Anche questa S.C. è venuta precisando che “l’istituto della retroversione degli utili non configura un’ipotesi di danni punitivi (punitive o exemplary damages), ma piuttosto una misura rimediale speciale, sui generis, di natura mista, compensatoria e dissuasiva, fondata su di un particolare arricchimento ingiustificato” (Cass. 29 luglio 2021, n. 21832, in motivazione). E’ stato spiegato che nell’istituto si rinviene, più che una funzione punitiva, una correlazione analogica, espressa in termini di non completa sovrapposizione delle fattispecie, “con i principi che governano l’arricchimento senza causa”; l’intento legislativo – si è precisato – è quello di riallocare la distribuzione di ricchezza “fra colui che ha realizzato dei benefici ingiustificati, sfruttando la privativa altrui, e colui il cui diritto assoluto è stato sfruttato per realizzarli, a prescindere dall’accertamento controfattuale circa il conseguimento di quegli stessi benefici da parte sua, in una sequenza di eventi alternativa” (sent. cit., sempre in motivazione).

Ciò detto, nella soluzione proposta da Hop Mobile e dal Fallimento (Omissis) la somma da liquidarsi risulterebbe superiore non solo al pregiudizio patrimoniale sofferto dall’avente diritto per lucro cessante, ma anche all’utile conseguito dal contraffattore.

[NB: ecco la parte di gran lunga più inteessante, perchè da quasi nessuno studiata: il caso del quantum, in casop di più soggetti lesi]

 Si frappongono a tale risultato più elementi ostativi.

Anzitutto, l’esito indicato non è compatibile con la finalità compensativa e dissuasiva della misura della retroversione degli utili; rispetto a tale connotazione funzionale del rimedio attraverso cui è assicurato sia il ristoro del pregiudizio patrimoniale del danneggiato, sia l’effetto di deterrenza verso la contraffazione dell’operatore economico che si mostri efficiente – risulta debordante il riconoscimento di somme ulteriori a titolo di retroversione degli utili: di somme che si aggiungerebbero, cioè, all’importo già accordato al danneggiato come risarcimento del lucro cessante (ove questo sia superiore all’utile del contraffattore) o come retroversione dell’utile (nel caso opposto in cui il detto utile risulti superiore al mancato guadagno). L’attribuzione di un importo aggiuntivo non trova giustificazione proprio in quanto la finalità compensativa e dissuasiva del rimedio consente di riversare sul contraffattore un obbligo restitutorio che è pari all’utile da lui conseguito (ove superiore al lucro cessante): oltre detta soglia il ristoro perde la sua funzione compensativa e dissuasiva e finisce per piegarsi a una finalizzazione punitiva che, come si visto, è estranea all’istituto.

In secondo luogo, l’utile da prendere in considerazione ai fini che qui interessano deve essere uno, in quanto esso va riferito all'”autore della violazione”: mentre il danno da lucro cessante può assumere diversa consistenza in ragione della pluralità dei soggetti danneggiati, l’utile suscettibile di retroversione ha come referente soggettivo non la persona del danneggiato, ma quella del contraffattore, onde non può mutare di entità per effetto del numero dei soggetti che abbiano risentito un pregiudizio dalla condotta illecita posta in essere.

In definitiva, in presenza di più aventi diritto non si giustifica che l’utile del contraffattore sia assegnato a uno dei danneggiati in aggiunta a quanto già riconosciuto a titolo di risarcimento o di retroversione ad altro danneggiato.

In particolare, nell’ipotesi in cui il lucro cessante già accordato sopravanzi l’utile del contraffattore, è da considerare un preciso indicatore normativo quanto alla non cumulabilità dei rimedi: indicatore che si rinviene nell’art. 125, comma 3, c.p.i. Tale norma configura come alternative le misure del risarcimento del danno e della restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione (pur consentendo la condanna a tale restituzione nel caso in cui gli utili eccedono il risarcimento), onde preclude la sommatoria dei due rimedi. Non rileva, ad avviso del Collegio, che la norma manchi di considerare l’ipotesi, che qui ricorre, della pluralità dei potenziali danneggiati. Sul piano testuale quel che conta è l’opposto: e cioè che la norma non contempli eccezioni al divieto del cumulo. Il dato desumibile dall’interpretazione letterale si salda, poi, con quello ricavato dall’esegesi funzionale: se l’art. 125, comma 3, cit., in una logica cui sono estranei intenti punitivi, intende sottrarre il contraffattore a misure compensative date dalla sommatoria del danno per lucro cessante e dell’arricchimento ingiustificato da lui conseguito, non si vede per quale ragione tale disposizione, nell’ipotesi in cui gli aventi diritto al risarcimento siano più d’uno, debba avere una diversa portata.

Ad analoga conclusione deve pervenirsi nell’ipotesi in cui sia pronunciata condanna alla retroversione degli utili in favore di uno degli aventi diritto e si dibatta della possibilità di emettere analoga statuizione a beneficio di altro danneggiato (fattispecie che potrebbe tornare di attualità, nel presente giudizio, in ragione dell’accoglimento del dodicesimo motivo del ricorso principale e del conseguente accertamento, demandato al Giudice di rinvio, della reale entità del danno risarcibile per lucro cessante che andrebbe risarcito). Con riferimento a questa ipotesi è da ribadire che l’utile retrovertibile è unico, non potendo riprodursi in conseguenza della pluralità dei danneggiati. Ma vale la pena di osservare, in aggiunta, che una diversa soluzione sarebbe, di nuovo, non compatibile con la funzione (solo) compensativa e dissuasiva dell’istituto.

Resta inteso che il divieto riguarda il cumulo delle due misure, onde nulla impedisce che nel computo del danno da lucro cessante da risarcire (e da prendere in considerazione per il raffronto con l’utile, in vista della liquidazione finale) entrino in gioco plurimi elementi patrimoniali, rappresentativi, in diversa misura, del pregiudizio risentito da ciascuno dei diversi danneggiati. E resta inteso, altresì, che il giudice del merito debba comunque valutare come ripartire tra i diversi aventi diritto il risarcimento o l’utile da assegnare.

Deve dunque concludersi nel senso che, in tema di proprietà industriale, nel caso di pluralità di aventi diritto, il contraffattore non può essere tenuto al risarcimento del lucro cessante (siccome superiore agli utili da lui conseguiti) nei confronti di uno dei danneggiati e, insieme, alla retroversione degli utili in favore degli altri, così come non può essere tenuto a una plurima retroversione in favore dei diversi danneggiati, dovendo, semmai, il risarcimento del danno o l’utile retrovertibile oggetto della condanna essere ripartiti tra i diversi aventi diritto>>.

Il ruolo di Facebook nella presenza (conosciuta) di marchi contraffatti sul suo marketplace

Direct liability no, ma contributory si, dice il tribunale del Distr. Nord di New York 7.11.2023, caso 5:22-CV-1305 (MAD/ML), Car-Freshner v. Meta.

Si tratta del marchio del noto alberello deodorante di largo uso negli autoveicoli.

responsabilità diretta, no: <<In Tiffany, the Second Circuit concluded that eBay did not directly infringe on Tiffany’s
trademark where it resold genuine Tiffany goods. Tiffany, 600 F.3d at 103. Tiffany argued that
some of the goods being sold on eBay were counterfeit, which the Second Circuit explained “is
not a basis for a claim of direct trademark infringement against eBay, especially inasmuch as it is
undisputed that eBay promptly removed all listings that Tiffany challenged as counterfeit and
took affirmative steps to identify and remove illegitimate Tiffany goods.” Id. The Second Circuit
continued, “[t]o impose liability because eBay cannot guarantee the genuineness of all of the
purported Tiffany products offered on its website would unduly inhibit the lawful resale of
genuine Tiffany goods.” Id.
Although Plaintiffs allege that Meta did not promptly remove the infringing products from
its websites, there are no allegations that Meta “placed” the infringing marks on any goods. 15
U.S.C. § 1127(1)(A); see also Lops v. YouTube, LLC, No. 3:22-CV-843, 2023 WL 2349597, *3
(D. Conn. Mar. 3, 2023) (footnote omitted) (“[T]he exhibits indicate that the videos were created
or posted by third parties rather than by YouTube. But YouTube cannot be subject to direct
liability for trademark infringement based on videos uploaded by third parties”);
Nike, Inc. v. B&H Customs Servs., Inc., 565 F. Supp. 3d 498, 508 (S.D.N.Y. 2021) (“[T]he
infringer must have some intention to sell, advertise, or distribute the infringing product or service
in order for strict liability to attach. Mere unwitting transportation of another’s goods is not enough . . . “). As such, the Court grants Meta’s motion and dismisses the direct liability claims>>.

ma contributory liability, si, visto che Meta sapeva delle dopcumentate contestazioni dell’attore:

<<Plaintiffs’ allegations are different from those in Business Casual Holdings because Plaintiffs allege that Meta did not remove the infringing post or products from Facebook or Instagram until Plaintiffs filed their original complaint with this Court. See Dkt. No. 13 at ¶¶ 114-
15, 117, 119, 121. Plaintiffs allege that even after they notified Facebook and Instagram of the alleged infringement, both websites advertised and offered the infringing products. See id. at ¶¶ 110. Accepting Plaintiffs’ allegations as true, they have sufficiently stated a contribution claim as they allege that Meta had knowledge of the alleged infringement and instead of removing the posts or products from its websites, it continued to advertise the products. Thus, the Court denies Meta’s motion to dismiss>>.

La sentenza riproduce pure i marchi a confronto (p. 48-49), ravvisandone la sufficiente confondibilità per rigettare l’istanza di dismiss di Meta e per proseguire il processo

L’intelligenza artificiale di Facebook viola il diritto di elaborazione delle opere letterarie utilizzate?

Large Language Model Meta AI (LLaMA)  (v.ne la descrizione nel sito di Meta) non viola il diritto di elaborazione sulle opere letterarie usate per creare tali modelli, dice il Trib. del distretto nord della Calofiornia Case No. 23-cv-03417-VC, 20 novembre 2023 , Kadrey v. Meta.

Nè nella costituzione dei modelli medesimi nè nell’output genrato dal loro uso:

<<1. The plaintiffs allege that the “LLaMA language models are themselves infringing
derivative works” because the “models cannot function without the expressive information
extracted” from the plaintiffs’ books. This is nonsensical. A derivative work is “a work based
upon one or more preexisting works” in any “form in which a work may be recast, transformed,
or adapted.” 17 U.S.C. § 101. There is no way to understand the LLaMA models themselves as a
recasting or adaptation of any of the plaintiffs’ books.

[più che altro non c’è prova: non si può dire che sia impossibile in astratto]
2. Another theory is that “every output of the LLaMA language models is an infringing
derivative work,” and that because third-party users initiate queries of LLaMA, “every output
from the LLaMA language models constitutes an act of vicarious copyright infringement.” But
the complaint offers no allegation of the contents of any output, let alone of one that could be  understood as recasting, transforming, or adapting the plaintiffs’ books. Without any plausible
allegation of an infringing output, there can be no vicarious infringement. See Perfect 10, Inc. v.
Amazon.com, Inc., 508 F.3d 1146, 1169 (9th Cir. 2007).
The plaintiffs are wrong to say that, because their books were duplicated in full as part of
the LLaMA training process, they do not need to allege any similarity between LLaMA outputs
and their books to maintain a claim based on derivative infringement. To prevail on a theory that
LLaMA’s outputs constitute derivative infringement, the plaintiffs would indeed need to allege
and ultimately prove that the outputs “incorporate in some form a portion of” the plaintiffs’
books. Litchfield v. Spielberg, 736 F.2d 1352, 1357 (9th Cir. 1984); see also Andersen v.
Stability AI Ltd., No. 23-CV-00201-WHO, 2023 WL 7132064, at *7-8 (N.D. Cal. Oct. 30, 2023)
(“[T]he alleged infringer’s derivative work must still bear some similarity to the original work or
contain the protected elements of the original work.”); 2 Melville B. Nimmer & David Nimmer,
Nimmer on Copyright § 8.09 (Matthew Bender Rev. Ed. 2023) (“Unless enough of the pre-
existing work is contained in the later work to constitute the latter an infringement of the former,
the latter, by definition, is not a derivative work.”); 1 Melville B. Nimmer & David Nimmer,
Nimmer on Copyright § 3.01 (Matthew Bender Rev. Ed. 2023) (“A work is not derivative unless
it has substantially copied from a prior work.” (emphasis omitted)). The plaintiffs cite Range
Road Music, Inc. v. East Coast Foods, Inc., 668 F.3d 1148 (9th Cir. 2012), but that case is not
applicable here. In Range Road, the infringement was the public performance of copyrighted
songs at a bar. Id. at 1151-52. The plaintiffs presented evidence (namely, the testimony of
someone they sent to the bar) that the songs performed were, in fact, the protected songs. Id. at
1151-53. The defendants presented no evidence of their own that the protected songs were not
performed. Nor did they present evidence that the performed songs were different in any
meaningful way from the protected songs. Id. at 1154. The Ninth Circuit held that, under these
circumstances, summary judgment for the plaintiffs was appropriate. And the Court rejected the
defendants’ contention that the plaintiffs, under these circumstances, were also required to
present evidence that the performed songs were “substantially similar” to the protected songs.
That contention made no sense, because the plaintiffs had already offered unrebutted evidence
that the songs performed at the bar were the protected songs. Id. at 1154. Of course, if the
defendants had presented evidence at summary judgment that the songs performed at the bar
were meaningfully different from the protected songs, then there would have been a dispute over
whether the performances were infringing, and the case would have needed to go to trial. At that
trial, the plaintiffs would have needed to prove that the performed songs (or portions of the
performed songs) were “substantially similar” to the protected songs. That’s the same thing the
plaintiffs would need to do here with respect to the content of LLaMA’s outputs. To the extent
that they are not contending LLaMa spits out actual copies of their protected works, they would
need to prove that the outputs (or portions of the outputs) are similar enough to the plaintiffs’
books to be infringing derivative works. And because the plaintiffs would ultimately need to
prove this, they must adequately allege it at the pleading stage>>

[anche qui manca la prova]

Motivazione un pò striminzita, per vero.

(notizia e link dal blog di Eric Goldman)

La lite sui marchi HAMILTON v. LEWIS HAMILTON

il segno LEWIS HAMILTON (del pilota di F1) è confondibile con HAMILTON (nota marca di orologi svizzeri) per prodotti sostanzialmente eguali?

Risponde positivamente il 1° board dell’appello amministrativo dell’EUIPO 17.10.2023, Case R 336/2022-1, 44IP ltd v. Hamilton International AG .

Si dimostra sempre difficile provare la propria notorietà a livello europeo: qui però, si badi, allo scopo di escludere confondibilità con il previo segno della casa orologiaia svizzera. Si v. la parte VI “Public perception and knowledge of Lewis Hamilton”.

Non è infatti discussa la questione del se ricorrsse uan notirrietà vicile del corridore nel 2015, anno di deposiuto del marchio della casa orologiaia. Ma una norma come nil n. art. 8.3 cpi nella UE non esiste. pur se la giurisprudenza di fatto ha posto una regola analoga ma non uguale (diritto di continuare ad usare mna no ndi impedire la registaszione altrui):  <<§ 61 In accordance with case-law, famous persons enjoy special protection when applying for trade marks. Insofar as their name is recognized, this recognition neutralizes any similarity with other signs which, under normal circumstances, would lead to a likelihood of confusion (24/06/2010, C-51/09 P, Barbara Becker, EU:C:2010:368; 02/12/2008, T-212/07, Barbara Becker, EU:T:2008:544; 17/09/2020, C-449/18 P & C-474/18 P, MESSI (fig.) / MASSI et al., EU:C:2020:722; 26/04/2018, T-554/14, MESSI (fig.) / MASSI et al., EU:T:2018:230; 16/06/2021, T-368/20, Miley Cyrus / Cyrus et al., EU:T:2021:372)>>

Conclusione:

<< 135 According to the case-law of the Court of Justice, the risk that the public might believe that the goods or services in question come from the same undertaking or, as the case may be, from economically-linked undertakings, constitutes a likelihood of confusion. It follows from the very wording of Article 8(1)(b) EUTMR that the concept of a likelihood of association is not an alternative to that of a likelihood of confusion, but serves to define its scope (29/09/1998, C-39/97, Canon, EU:C:1998:442, § 29; 22/06/1999, C-342/97, Lloyd Schuhfabrik, EU:C:1999:323, § 17).
136 A likelihood of confusion on the part of the public must be assessed globally. That global assessment implies some interdependence between the factors taken into account and in particular similarity between the trade marks and between the goods or services covered.
Accordingly, a lesser degree of similarity between these goods or services may be offset by a greater degree of similarity between the signs, and vice versa (29/09/1998, C-39/97, Canon, EU:C:1998:442, § 17; 22/06/1999, C-342/97, Lloyd Schuhfabrik, EU:C:1999:323, § 19). The more distinctive the earlier trade mark, the greater the risk of confusion, and trade marks with a highly distinctive character, either per se or because of the reputation they possess on the market, enjoy broader protection than trade marks with a less distinctive character (29/09/1998, C-39/97, Canon, EU:C:1998:442, § 18).
137 Where a common element, retains an independent distinctive role in the composite sign, the overall impression produced by that sign may lead the public to believe that the goods or services at issue come, at the very least, from companies which are linked economically, in which case a likelihood of confusion must be held to be established (22/10/2015, C‑20/14, BGW / BGW, EU:C:2015:714, § 40).
138 In numerous members states, family names are given more weight than first names, even if they are at the beginning (03/06/2015, T-559/13, Giovanni Galli, EU:T:2015:353, § 47). In the absence of any arguments or evidence submitted with this respect, the Board considers that the family name has no less importance than the first name in neither Bulgaria, Estonia, Croatia, Latvia nor Lithuania.
139 In light of the at least average degree of similarity between the goods and services, the average degree of similarity of the signs and the normal inherent distinctive character of the earlier trade mark, a likelihood of confusion exists in at least Bulgaria, Estonia, Croatia, Latvia and Lithuania. Despite the fact that the average consumer will display a high level of attention, even these consumers may believe that the EUTM applied for is a sub-brand of the earlier trade mark and that both belong to the same or economically-linked undertakings.
140 For the sake of completeness, the Board would like to add the following:
141 Even if Lewis Hamilton were a famous person in the entire European Union, it needs to be taken into consideration that the evidence in file suggests that he is often referred to by his family name. This is evident from the evidence submitted by the opponent in its response to the statement of grounds (page 27ss, page 6 351 of the file and Annex AN44.1), which proves that newspapers refer to him only as ‘Hamilton’. This does not mean anything else than that the relevant public will immediately associate ‘Hamilton’ with ‘Lewis Hamilton’. Even if ‘Lewis Hamilton’ enjoyed the status of a famous person, the term ‘Hamilton’ alone would also be associated with him, which would lead to the fact that the public could believe that the earlier trade mark is also
endorsed by the applicant, and leading therefore also to a likelihood of confusion since the public might believe, that both trade marks are coming from the same undertaking or belong to undertakings economically-connected.
142 The relevant facts in these proceedings are different from those in the proceedings which led to the judgments on which the applicant relies. Nothing in the file allowed the conclusion that the public would refer to Barbara Becker as Becker alone. The same holds true with respect to Miley Cyrus, who is only known as Miley Cyrus and not as Cyrus. Last, in the Messi case, the opposing trade mark was not Messi. Consequently, in these cases, the fame and repute of Barbara Becker, Miley Cyrus and Leo Messi could exceptionally rule out any likelihood of confusion>>

(segnalazine odierna di Marcel Pemsel su IPKat)

Concorrenza sleale per storno dei dipendenti

Sul sempre difficile (teoricmente e praticamente) tema in oggetto, v. Trib. Bologna  n° 1033/2023 del 16 maggio 2023, RG 12327/2018, rel,. Erede:

<<Al riguardo, si rileva in linea teorica che, affinché possano ravvisarsi gli estremi della fattispecie dello storno di dipendenti di un’azienda da parte di un imprenditore concorrente – comportamento vietato in quanto atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c. – non è sufficiente il mero trasferimento di collaboratori da un’impresa ad un’altra concorrente, né la contrattazione che un imprenditore intrattenga con il collaboratore altrui.
In questi casi, ricorre un’attività di per sé legittima, in quanto espressione del principio della libera circolazione del lavoro, ove non attuata con lo specifico scopo di danneggiare l’altrui azienda, in quanto la mobilità dei dipendenti corrisponde sia al diritto del lavoratore di migliorare la propria posizione professionale, sia al diritto dell’imprenditore di organizzare al meglio la propria azienda, in modo efficiente e produttivo, attingendo alle migliori professionalità presenti sul mercato.
La giurisprudenza di legittimità ha in proposito affermato, in più occasioni, che lo storno deve essere caratterizzato dall’ “animus nocendi”, che va desunto dall’obiettivo che l’imprenditore concorrente si proponga – attraverso il trasferimento dei dipendenti – di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista, creando nel mercato l’effetto confusorio, o discreditante, o parassitario capace di attribuire ingiustamente, a chi lo cagiona, il frutto dell’investimento (ossia, l’avviamento) di chi lo subisce. Il giudizio di difformità dello storno dai principi della correttezza professionale non va condotto sulla base di un’indagine di tipo soggettivo, ma secondo un criterio puramente oggettivo dovendosi valutare se lo spostamento dei dipendenti si sia realizzato con modalità tali, da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di arrecare pregiudizio all’organizzazione e alla struttura produttiva dell’imprenditore concorrente, svuotandola delle sue specifiche possibilità operative (tra tante, Cass. civ. n. 3865 del 17.02.2020; Cass. civ. n. 31203 del 29.12.2017; Cass. civ. n. 20228 del 4.09.2013; Cass. civ. n. 13424 del 23.05.2008).
In base a questi principi, nella concreta esperienza giurisprudenziale, al fine di verificare la sussistenza del requisito dell’animus nocendi, si valuta non solo se lo storno sia stato realizzato in violazione delle regole della correttezza professionale (come nei casi di impiego di mezzi contrastanti con i principi della libera circolazione del lavoro, di denigrazione del datore di lavoro, o avvalendosi di dipendenti dell’impresa che subisce lo storno, o quando il trasferimento del collaboratore sia finalizzato all’acquisizione dei segreti del concorrente), ma principalmente se le caratteristiche e le modalità del trasferimento evidenzino la finalità di danneggiare l’altrui azienda, in misura eccedente il normale pregiudizio che può derivare dalla perdita di prestatori di lavoro trasferiti ad altra impresa, non essendo sufficiente che l’atto in questione sia diretto a conquistare lo spazio di mercato del concorrente (App. Milano 1.08.2019, n. 3393; Trib. Bologna 16.03.2016, n. 683).

Per potersi configurare un’attività di storno di dipendenti, alla luce del requisito dell’animus nocendi, assumono rilievo i seguenti elementi: a) la quantità e la qualità dei dipendenti stornati; b) il loro grado di fungibilità; c) la posizione che i dipendenti rivestivano all’interno dell’azienda concorrente; d) la tempistica dello sviamento; d) la portata dell’organizzazione complessiva dell’impresa concorrente.
Si è anche affermato che “lo storno illecito normalmente afferisce allo spostamento di più soggetti da un imprenditore ad un altro, mentre la sottrazione di un solo dipendente è considerato elemento per lo più inidoneo a predicare la contrarietà alla legge” (Trib. Milano 19.09.2014, n. 11082).
Nel caso di specie, non si ravvisano nelle condotte dei convenuti modalità tali da indurre a riconoscere la volontà degli stessi di danneggiare l’organizzazione dell’impresa concorrente. In disparte la carenza di un rapporto diretto di concorrenzialità tra i convenuti dipendenti persone fisiche e COROB, si osserva che parte attrice non ha allegato e provato alcuna circostanza utile a far ritenere la sussistenza del rapporto di solidarietà dei convenuti ex dipendenti con ALFA in punto di responsabilità nei confronti di COROB, limitandosi a generiche allegazione rimaste sfornite di adeguata prova. Inoltre non può non rilevarsi come nella vicenda in esame alcuna concreta allegazione e prova parte attrice abbia fornito in ordine alla sussistenza di un intento di ALFA di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva della concorrente COROB, quale elemento soggettivo dell’illecito concorrenziale. Si richiama sul punto quel consolidato orientamento giurisprudenziale della S.C. che anche di recente ha affermato che “Per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale, commessi per mezzo dello storno di dipendenti e/o collaboratori, è necessario che l’attività distrattiva delle risorse di personale dell’imprenditore sia stata posta in essere dal concorrente con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente, disgregando in modo traumatico l’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore e procurandosi un vantaggio competitivo indebito; a tal fine assumono rilievo innanzitutto le modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori dall’una all’altra impresa, che non può che essere diretto, ancorché eventualmente dissimulato, per potersi configurare un’attività di storno, la quantità e la qualità del personale stornato, la sua posizione nell’ambito dell’organigramma dell’impresa concorrente, le difficoltà ricollegabili alla sua sostituzione e i metodi adottati per indurre i dipendenti e/o collaboratori a passare all’impresa concorrente.”( così Cass. n. 3865/2020; conf. più di recente Cass. n. 22625/2022).
In disparte il dato che la contestazione dell’illecito concorrenziale per “storno dei
dipendenti” mossa da COROB non possa riguardare singole persone fisiche, quali ABELLI LUNGHINI, SOLERA e VERONESI e MAZZALVERI -legati a COROB da rapporto di dipendenza e/o collaborazione- non sono essi stessi imprenditori concorrenti e quindi non possono essere soggetti attivi dell’illecito stesso, deve rilevarsi che, con riguardo al MAZZALVERI, lo stesso all’atto della cessazione del suo rapporto di lavoro subordinato con COROB, a seguito di accordo risolutorio (v. doc. 24 allegato alla citazione), ha sottoscritto contestuale contratto di collaborazione con la stessa società ( v. doc. 25 allegato alla citazione), con esclusione di qualsiasi risvolto negativo per COROB.

Peraltro, va pure evidenziato come l’esiguo numero dei dipendenti stornati, in rapporto al numero complessivo dei dipendenti di COROB (119 dipendenti al 31.12.2017, come da visura prodotta dall’attrice sub doc. 1) per quanto specializzati possano essere, certamente non può determinare quella disgregazione traumatica dell’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore COROB, cosi come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità richiamata per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale, commessi per mezzo dello storno di dipendenti e/o collaboratori.
Alla luce delle considerazioni che precedono, quindi, alcuna tutela inibitoria e risarcitoria può accordarsi in questa sede a COROB, così come vanno disattese le pretese sanzionatorie della stessa attrice>>.

Nell’incertezza sul tema, certo è che l’animus nocendi non può provarsi che in temini oggettivi, giammai psicologico/soggettivi.

Inoltre ricorda la figura dell’abuso del diritto: che ricorre quando un vantaggio per il preteso violatore non c’è per nulla (da tutti ammesso) o c’è ma in misura minima (controverso; da vedere poi come rendere il relativo giudizio e cioè quale ne sarebbe il parametro: ha senso paragonare il vantaggio al danno provocato?).

Va segnalata pure  un’applicazone (con rigetto) della disciplina dei segreti commerciali, art.- 98 cpi

Il giudizio di confondibilità quando il marchio anteriore è di certificazione: il caso Grillhoumi c. Halloumi, con soccombenza del governo cipriota

Altra vicenda nella lite sui segni richiamanti il formaggio cipriota Halloumi.

Si tratta della sentenza Trib. UE 11.10.2023 N, T-415/22 .

Sul punto in oggetto si legge:

<< The General Court held, in particular, that, where the earlier marks relied on in the opposition were national certification marks, which had been registered under national legislation transposing Directive 89/104, the likelihood of confusion had to be understood – by analogy with the rules governing collective marks – as being the risk that the public might believe that the goods or services covered by those earlier trade marks and those covered by the trade mark applied for all originated from persons authorised by the proprietor of those earlier marks to use them or, where appropriate, from undertakings economically linked to those persons or to that proprietor. It added that, furthermore, although, in the event of opposition by the proprietor of a certification mark, the essential function of that type of mark had to be taken into account in order to understand what was meant by likelihood of confusion, within the meaning of Article 8(1)(b) of Regulation No 207/2009, the fact remained that the case-law establishing the criteria with regard to which the existence of such a likelihood of confusion had to be assessed in practice was applicable to cases concerning an earlier certification mark>>.