L’emittente radiotelevisica ha diritto al compenso per le copie private (art. 5.2.b) dir. 29-2001)

Corte di giustizia  23.,11.2023, Seven.One entertainment v. Corint, C-260/22 illumina (poco, per vero) la norma in oggetto, in relazione alla sua trasposizione nazionale tedesca, che esenta dal diritto al compenso tramite collecting society le emittenti per le loro trasmissioni.

La soluzione della corte è scontata, visto il dettato letterale della dir. 298/2001. Palesement irrilevante, poi,  è la circostranza per cui certi organismi TV siano anche produttori di pellicole maturando così il relativo credito, giustamente osserva la CG.

Meno semplice è la sua attiazione e in particolare se lo Stao possa esentare certi aventi diritto sulla base di danno inesistente o minimo: o meglio, visto che può, quando ricorra tale fattiuspecie concreta. Serve poi parità di trattamento nel senso che è da vedere se può esentare tutti o solo caso per caso (ed allora in base a quali criteri oggettivi).

Ma su tutto ciò solo il giudice nazinale può decidere, conclude la CG

Violazione brevettuale : rapporto tra trasferimento dei profitti e risarcimento del danno (anche nel caso di più aventi diritto) nonchè problem solution approach

Cass. sez 1 del 09.11.2023 n. 31.170, rel. Scotti, Samsung v. Hop Mobile-fallim. Eko Mobile, esamina un tema solo apparentemente semplice (spt. punto III).

– I –

(la determinazione dell’altezza inventiva)

<<L’impiego, nell’apprezzamento dell’altezza inventiva del brevetto del criterio basato sul problem solution approach, che si struttura in tre scansioni (individuazione dello stato dell’arte più prossimo; determinazione del problema tecnico da risolvere; valutazione se l’invenzione per la quale si chiede il brevetto, alla luce dello stato dell’arte e del problema tecnico da risolvere, risulterebbe ovvia ad un soggetto esperto) è diffuso nella giurisprudenza di merito e si conforma a un orientamento consolidato del Board of Appeal dell’EPO. Tale criterio non discende tuttavia da una fonte normativa e men che meno dall’art. 48 c.p.i., di cui le ricorrenti prospettano la violazione e falsa applicazione; né questa Corte si è mai espressa nel senso che la mancata applicazione del problem solution approach, o una non corretta applicazione dei passaggi logici di tale metodo di valutazione, possa integrare un vizio della decisione deducibile in sede di legittimità a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 3; la violazione o la non corretta applicazione delle linee guida elaborate dall’EPO nel disciplinare la propria attività, in particolare quelle inerenti il metodo del problem solution approach, può venire in rilievo solo ove si risolva, sul piano del diritto nazionale, in una violazione o falsa applicazione del cit. art. 48 (sul punto cfr. Cass. 16 marzo 2022, n. 8584, in motivazione).

Il rilievo, poi, formulato dal CTU B., e incentrato sulla correlazione, che lo stesso esperto avrebbe ravvisato, tra l’affollamento del settore tecnico in cui si colloca l’invenzione brevettata e il valore che alla stessa potrebbe annettersi sul piano dell’altezza inventiva, rimane estraneo alla decisione della Corte di appello: onde la relativa censura è inammissibile perché carente del requisito della riferibilità alla pronuncia impugnata (cfr.: Cass. 24 febbraio 2020, n. 4905; Cass. 18 febbraio 2011, n. 4036; Cass. 3 agosto 2007, n. 17125) >>.

– II –

(sul danno da perdita del valore del brevetto)

<<La Corte di merito, andando in ciò in contrario avviso rispetto alla sentenza di primo grado, ha ritenuto dovesse liquidarsi, in favore di Hop Mobile, il danno per perdita di valore del brevetto; il danno è stato così commisurato alle royalties perdute dalla detta società per effetto della condotta delle società Samsung in relazione ai 14.211 cellulari commercializzati in Italia (pagg. 65 s. della sentenza impugnata).

In termini generali, non può escludersi la risarcibilità del danno consistente nella perdita di valore del diritto di proprietà industriale.

Che il brevetto abbia un proprio valore intrinseco è confermato, banalmente, dall’art. 2424 c.c. il quale include i diritti di brevetto industriale tra i valori delle immobilizzazioni da includere nello stato patrimoniale delle società per azioni.

Sul piano risarcitorio, il danno emergente conseguente alla contraffazione brevettuale ricomprende, poi, qualunque perdita dei valori economici esistenti nel patrimonio del titolare della privativa prima della consumazione dell’illecito.

Viene allora in considerazione anche quel danno che, come è stato osservato in dottrina, è direttamente incidente sulla stessa integrità della posizione di esclusiva: posizione che, per effetto della contraffazione, può essere compromessa anche irreversibilmente merce’ la duratura riduzione della possibilità di sfruttamento del brevetto. Assume così rilievo l’annacquamento (dilution) del pregio che è possibile associare al diritto, il quale si traduce in una corrispondente contrazione del suo valore patrimoniale: valore che, come sottolineato sempre in dottrina, può leggersi quale chance di una proficua collocazione del diritto stesso sul mercato.

In siffatta prospettiva la perdita di valore del brevetto può apprezzarsi avendo riguardo alla potenziale redditività dello stesso: onde è consentito attribuire rilievo alle royalties che il titolare può ritrarre nel tempo dal diritto di privativa, le quali sono da apprezzare proprio quale elemento indicatore della nominata redditività. In tal senso, la decisione impugnata non si espone a censura.

E’ peraltro evidente che l’apprezzamento del danno in questione non possa portare ad alcuna forma di overcompensation; e così, il riconoscimento della perdita di valore della privativa individuato come nel caso di specie sulla base della royalty ragionevole percettibile dal titolare del brevetto in un dato periodo non può aggiungersi al lucro cessante risentito in quello stesso arco di tempo dal predetto titolare o dal suo licenziatario: e ciò in quanto i due valori descrivono, se pure in modo diverso, il medesimo fenomeno, connotato dal fatto che, nel periodo dato, la privativa, per effetto della contraffazione, non è stata in grado di assicurare i profitti che in assenza di quella condotta illecita avrebbe procurato. La distinzione tra le due fattispecie sta nel fatto che il mancato guadagno nel secondo caso rileva in sé, mentre nel primo assume importanza quale elemento rivelatore dell’erosione del valore del diritto: tale distinzione non autorizza, tuttavia, la liquidazione delle due voci di danno, giacché il mancato guadagno che è conseguenza immediata e diretta dell’illecito (art. 1223 c.c.) – e che può assurgere, come si è detto, a indicatore della lamentata dilution – è unico. Allo stesso modo, deve negarsi che il danno da perdita di valore del brevetto correlato alla redditività di questo possa cumularsi con gli utili da restituire di cui all’art. 125, comma 3, c.p.i. Infatti, gli utili conseguiti dal contraffattore spettano nella misura in cui siano superiori al risarcimento del lucro cessante (onde non si aggiungono a tale risarcimento): sarebbe in conseguenza contraddittorio ammettere che il titolare del diritto, il quale non può ottenere, in aggiunta alla restituzione degli utili del contraffattore, il risarcimento del lucro cessante consistente nella mancata riscossione di royalties, sia in grado di raggiungere quel risultato pratico invocando il danno da perdita di valore del brevetto. Gioca, anche qui, l’esigenza di evitare meccanismi di sovracompensazione del danno. Un problema di sommatoria dei diversi rimedi (risarcimento del danno da lucro cessante o retroversione degli utili, da un lato, e risarcimento del danno incidente sulla redditività del brevetto, dall’altro) non si pone, invece, quando gli stessi operano su segmenti temporali non coincidenti.

In conclusione, il danno da perdita di valore del brevetto dipendente dalla sua contraffazione è suscettibile di essere risarcito e il ristoro patrimoniale ben può essere commisurato alla diminuita o annullata redditività del titolo di privativa, calcolato sulla base dell’ammontare delle royalties non percepite per effetto dell’illecito posto in essere; resta tuttavia escluso che attraverso la liquidazione del danno in questione possa pervenirsi ad alcun effetto duplicativo del ristoro spettante all’avente diritto>>.

– III – 

(sull’ar. 125.3 cpi; NB: la parte più interessante)

<<Il rimedio della retroversione degli utili, previsto dall’art. 125, comma 3, c.p.i. – e nell’art. 13.2 della dir. 2004/48/CE (c.d. direttiva enforcement), ove la misura è però specificamente contemplata in relazione alle ipotesi di violazione inconsapevole dell’altrui diritto – obbedisce alla finalità di dissuadere dall’attività contraffattiva l’operatore economico che sia più efficiente del titolare della privativa: dell’imprenditore che, cioè, si mostri in grado di ritrarre dallo sfruttamento del brevetto un utile superiore rispetto a quello che dalla privativa può conseguire l’avente diritto, evidentemente in possesso di una minore capacità di impresa. E’ del tutto chiaro che, in assenza di uno strumento di tutela quale quello della retroversione, per l’autore dell’illecito sarebbe sempre conveniente la contraffazione, dal momento che una misura meramente compensativa consentirebbe comunque al detto soggetto di incamerare il differenziale economico tra il suo profitto e l’altrui danno. Come è stato sottolineato in dottrina, se il contraffattore è più efficiente del titolare e il suo arricchimento è superiore al danno provocato a quest’ultimo, una regola solo risarcitoria (incentrata, cioè, sulla mera riparazione del danno effettivamente occorso) adempie, sì, a una funzione compensativa, ma non ha alcun effetto preventivo o deterrente. Nella prospettiva di un disegno legislativo volto a vietare ogni forma di parassitismo, la retroversione degli utili opera, dunque, nel senso della deterrenza: con la sola avvertenza, pure espressa dalla dottrina, che quando la violazione ha carattere doloso o colposo la retroversione mostra chiaramente questa finalità disincentivante della contraffazione economicamente efficiente, mentre nel caso di violazione inconsapevole il rimedio si spiega con la volontà legislativa di “rafforzare le prerogative di chi sfrutta legittimamente la proprietà industriale”.

All’istituto in questione si ritiene invece estranea un’accezione punitiva [NB- non concordo: si sottraggono al violatore anche risorse proprie, cioè che non spettano al/provengono dal violato]: conclusione, questa, che è possibile desumere da una pluralità di dati. Può richiamarsi, anzitutto, l’argomento speso da chi ha sottolineato come la retroversione operi in alternativa al risarcimento del danno e nella misura in cui gli utili eccedano tale risarcimento, “e non sempre e in toto, come sarebbe logico se la sanzione davvero contenesse i danni punitivi”. Può farsi pure menzione del tenore del considerando 26 della direttiva enforcement che ha trovato recepimento nel D. Lgs. n. 140 del 2006, con cui è stato novellato l’art. 125 c.p.i. secondo cui il fine della disciplina delle compensazioni pecuniarie in favore della parte lesa “non è quello di introdurre un obbligo di prevedere un risarcimento punitivo, ma di permettere un risarcimento fondato su una base obiettiva” (anche se, per la verità, la giurisprudenza unionale ha lasciato irrisolta la questione circa la contrarietà o meno del risarcimento punitivo all’art. 13 della direttiva 2004/48: cfr., infatti, Corte giust. UE 25 gennaio 2017, C-367/15, Stowarzyszenie, 29). Possono citarsi, ancora, le stesse parole della relazione ministeriale al D. Lgs. n. 140 del 2006: nell’illustrare che il novellato art. 125 considera le misure del risarcimento del danno e della retroversione degli utili come operativamente e concettualmente distinte, siccome riconducibili, rispettivamente, al profilo della reintegrazione del patrimonio leso e a quello dell’arricchimento senza causa, la detta relazione mostra di attribuire al rimedio in questione una matrice del tutto diversa da quella punitiva.

Anche questa S.C. è venuta precisando che “l’istituto della retroversione degli utili non configura un’ipotesi di danni punitivi (punitive o exemplary damages), ma piuttosto una misura rimediale speciale, sui generis, di natura mista, compensatoria e dissuasiva, fondata su di un particolare arricchimento ingiustificato” (Cass. 29 luglio 2021, n. 21832, in motivazione). E’ stato spiegato che nell’istituto si rinviene, più che una funzione punitiva, una correlazione analogica, espressa in termini di non completa sovrapposizione delle fattispecie, “con i principi che governano l’arricchimento senza causa”; l’intento legislativo – si è precisato – è quello di riallocare la distribuzione di ricchezza “fra colui che ha realizzato dei benefici ingiustificati, sfruttando la privativa altrui, e colui il cui diritto assoluto è stato sfruttato per realizzarli, a prescindere dall’accertamento controfattuale circa il conseguimento di quegli stessi benefici da parte sua, in una sequenza di eventi alternativa” (sent. cit., sempre in motivazione).

Ciò detto, nella soluzione proposta da Hop Mobile e dal Fallimento (Omissis) la somma da liquidarsi risulterebbe superiore non solo al pregiudizio patrimoniale sofferto dall’avente diritto per lucro cessante, ma anche all’utile conseguito dal contraffattore.

[NB: ecco la parte di gran lunga più inteessante, perchè da quasi nessuno studiata: il caso del quantum, in casop di più soggetti lesi]

 Si frappongono a tale risultato più elementi ostativi.

Anzitutto, l’esito indicato non è compatibile con la finalità compensativa e dissuasiva della misura della retroversione degli utili; rispetto a tale connotazione funzionale del rimedio attraverso cui è assicurato sia il ristoro del pregiudizio patrimoniale del danneggiato, sia l’effetto di deterrenza verso la contraffazione dell’operatore economico che si mostri efficiente – risulta debordante il riconoscimento di somme ulteriori a titolo di retroversione degli utili: di somme che si aggiungerebbero, cioè, all’importo già accordato al danneggiato come risarcimento del lucro cessante (ove questo sia superiore all’utile del contraffattore) o come retroversione dell’utile (nel caso opposto in cui il detto utile risulti superiore al mancato guadagno). L’attribuzione di un importo aggiuntivo non trova giustificazione proprio in quanto la finalità compensativa e dissuasiva del rimedio consente di riversare sul contraffattore un obbligo restitutorio che è pari all’utile da lui conseguito (ove superiore al lucro cessante): oltre detta soglia il ristoro perde la sua funzione compensativa e dissuasiva e finisce per piegarsi a una finalizzazione punitiva che, come si visto, è estranea all’istituto.

In secondo luogo, l’utile da prendere in considerazione ai fini che qui interessano deve essere uno, in quanto esso va riferito all'”autore della violazione”: mentre il danno da lucro cessante può assumere diversa consistenza in ragione della pluralità dei soggetti danneggiati, l’utile suscettibile di retroversione ha come referente soggettivo non la persona del danneggiato, ma quella del contraffattore, onde non può mutare di entità per effetto del numero dei soggetti che abbiano risentito un pregiudizio dalla condotta illecita posta in essere.

In definitiva, in presenza di più aventi diritto non si giustifica che l’utile del contraffattore sia assegnato a uno dei danneggiati in aggiunta a quanto già riconosciuto a titolo di risarcimento o di retroversione ad altro danneggiato.

In particolare, nell’ipotesi in cui il lucro cessante già accordato sopravanzi l’utile del contraffattore, è da considerare un preciso indicatore normativo quanto alla non cumulabilità dei rimedi: indicatore che si rinviene nell’art. 125, comma 3, c.p.i. Tale norma configura come alternative le misure del risarcimento del danno e della restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione (pur consentendo la condanna a tale restituzione nel caso in cui gli utili eccedono il risarcimento), onde preclude la sommatoria dei due rimedi. Non rileva, ad avviso del Collegio, che la norma manchi di considerare l’ipotesi, che qui ricorre, della pluralità dei potenziali danneggiati. Sul piano testuale quel che conta è l’opposto: e cioè che la norma non contempli eccezioni al divieto del cumulo. Il dato desumibile dall’interpretazione letterale si salda, poi, con quello ricavato dall’esegesi funzionale: se l’art. 125, comma 3, cit., in una logica cui sono estranei intenti punitivi, intende sottrarre il contraffattore a misure compensative date dalla sommatoria del danno per lucro cessante e dell’arricchimento ingiustificato da lui conseguito, non si vede per quale ragione tale disposizione, nell’ipotesi in cui gli aventi diritto al risarcimento siano più d’uno, debba avere una diversa portata.

Ad analoga conclusione deve pervenirsi nell’ipotesi in cui sia pronunciata condanna alla retroversione degli utili in favore di uno degli aventi diritto e si dibatta della possibilità di emettere analoga statuizione a beneficio di altro danneggiato (fattispecie che potrebbe tornare di attualità, nel presente giudizio, in ragione dell’accoglimento del dodicesimo motivo del ricorso principale e del conseguente accertamento, demandato al Giudice di rinvio, della reale entità del danno risarcibile per lucro cessante che andrebbe risarcito). Con riferimento a questa ipotesi è da ribadire che l’utile retrovertibile è unico, non potendo riprodursi in conseguenza della pluralità dei danneggiati. Ma vale la pena di osservare, in aggiunta, che una diversa soluzione sarebbe, di nuovo, non compatibile con la funzione (solo) compensativa e dissuasiva dell’istituto.

Resta inteso che il divieto riguarda il cumulo delle due misure, onde nulla impedisce che nel computo del danno da lucro cessante da risarcire (e da prendere in considerazione per il raffronto con l’utile, in vista della liquidazione finale) entrino in gioco plurimi elementi patrimoniali, rappresentativi, in diversa misura, del pregiudizio risentito da ciascuno dei diversi danneggiati. E resta inteso, altresì, che il giudice del merito debba comunque valutare come ripartire tra i diversi aventi diritto il risarcimento o l’utile da assegnare.

Deve dunque concludersi nel senso che, in tema di proprietà industriale, nel caso di pluralità di aventi diritto, il contraffattore non può essere tenuto al risarcimento del lucro cessante (siccome superiore agli utili da lui conseguiti) nei confronti di uno dei danneggiati e, insieme, alla retroversione degli utili in favore degli altri, così come non può essere tenuto a una plurima retroversione in favore dei diversi danneggiati, dovendo, semmai, il risarcimento del danno o l’utile retrovertibile oggetto della condanna essere ripartiti tra i diversi aventi diritto>>.

Il ruolo di Facebook nella presenza (conosciuta) di marchi contraffatti sul suo marketplace

Direct liability no, ma contributory si, dice il tribunale del Distr. Nord di New York 7.11.2023, caso 5:22-CV-1305 (MAD/ML), Car-Freshner v. Meta.

Si tratta del marchio del noto alberello deodorante di largo uso negli autoveicoli.

responsabilità diretta, no: <<In Tiffany, the Second Circuit concluded that eBay did not directly infringe on Tiffany’s
trademark where it resold genuine Tiffany goods. Tiffany, 600 F.3d at 103. Tiffany argued that
some of the goods being sold on eBay were counterfeit, which the Second Circuit explained “is
not a basis for a claim of direct trademark infringement against eBay, especially inasmuch as it is
undisputed that eBay promptly removed all listings that Tiffany challenged as counterfeit and
took affirmative steps to identify and remove illegitimate Tiffany goods.” Id. The Second Circuit
continued, “[t]o impose liability because eBay cannot guarantee the genuineness of all of the
purported Tiffany products offered on its website would unduly inhibit the lawful resale of
genuine Tiffany goods.” Id.
Although Plaintiffs allege that Meta did not promptly remove the infringing products from
its websites, there are no allegations that Meta “placed” the infringing marks on any goods. 15
U.S.C. § 1127(1)(A); see also Lops v. YouTube, LLC, No. 3:22-CV-843, 2023 WL 2349597, *3
(D. Conn. Mar. 3, 2023) (footnote omitted) (“[T]he exhibits indicate that the videos were created
or posted by third parties rather than by YouTube. But YouTube cannot be subject to direct
liability for trademark infringement based on videos uploaded by third parties”);
Nike, Inc. v. B&H Customs Servs., Inc., 565 F. Supp. 3d 498, 508 (S.D.N.Y. 2021) (“[T]he
infringer must have some intention to sell, advertise, or distribute the infringing product or service
in order for strict liability to attach. Mere unwitting transportation of another’s goods is not enough . . . “). As such, the Court grants Meta’s motion and dismisses the direct liability claims>>.

ma contributory liability, si, visto che Meta sapeva delle dopcumentate contestazioni dell’attore:

<<Plaintiffs’ allegations are different from those in Business Casual Holdings because Plaintiffs allege that Meta did not remove the infringing post or products from Facebook or Instagram until Plaintiffs filed their original complaint with this Court. See Dkt. No. 13 at ¶¶ 114-
15, 117, 119, 121. Plaintiffs allege that even after they notified Facebook and Instagram of the alleged infringement, both websites advertised and offered the infringing products. See id. at ¶¶ 110. Accepting Plaintiffs’ allegations as true, they have sufficiently stated a contribution claim as they allege that Meta had knowledge of the alleged infringement and instead of removing the posts or products from its websites, it continued to advertise the products. Thus, the Court denies Meta’s motion to dismiss>>.

La sentenza riproduce pure i marchi a confronto (p. 48-49), ravvisandone la sufficiente confondibilità per rigettare l’istanza di dismiss di Meta e per proseguire il processo

L’intelligenza artificiale di Facebook viola il diritto di elaborazione delle opere letterarie utilizzate?

Large Language Model Meta AI (LLaMA)  (v.ne la descrizione nel sito di Meta) non viola il diritto di elaborazione sulle opere letterarie usate per creare tali modelli, dice il Trib. del distretto nord della Calofiornia Case No. 23-cv-03417-VC, 20 novembre 2023 , Kadrey v. Meta.

Nè nella costituzione dei modelli medesimi nè nell’output genrato dal loro uso:

<<1. The plaintiffs allege that the “LLaMA language models are themselves infringing
derivative works” because the “models cannot function without the expressive information
extracted” from the plaintiffs’ books. This is nonsensical. A derivative work is “a work based
upon one or more preexisting works” in any “form in which a work may be recast, transformed,
or adapted.” 17 U.S.C. § 101. There is no way to understand the LLaMA models themselves as a
recasting or adaptation of any of the plaintiffs’ books.

[più che altro non c’è prova: non si può dire che sia impossibile in astratto]
2. Another theory is that “every output of the LLaMA language models is an infringing
derivative work,” and that because third-party users initiate queries of LLaMA, “every output
from the LLaMA language models constitutes an act of vicarious copyright infringement.” But
the complaint offers no allegation of the contents of any output, let alone of one that could be  understood as recasting, transforming, or adapting the plaintiffs’ books. Without any plausible
allegation of an infringing output, there can be no vicarious infringement. See Perfect 10, Inc. v.
Amazon.com, Inc., 508 F.3d 1146, 1169 (9th Cir. 2007).
The plaintiffs are wrong to say that, because their books were duplicated in full as part of
the LLaMA training process, they do not need to allege any similarity between LLaMA outputs
and their books to maintain a claim based on derivative infringement. To prevail on a theory that
LLaMA’s outputs constitute derivative infringement, the plaintiffs would indeed need to allege
and ultimately prove that the outputs “incorporate in some form a portion of” the plaintiffs’
books. Litchfield v. Spielberg, 736 F.2d 1352, 1357 (9th Cir. 1984); see also Andersen v.
Stability AI Ltd., No. 23-CV-00201-WHO, 2023 WL 7132064, at *7-8 (N.D. Cal. Oct. 30, 2023)
(“[T]he alleged infringer’s derivative work must still bear some similarity to the original work or
contain the protected elements of the original work.”); 2 Melville B. Nimmer & David Nimmer,
Nimmer on Copyright § 8.09 (Matthew Bender Rev. Ed. 2023) (“Unless enough of the pre-
existing work is contained in the later work to constitute the latter an infringement of the former,
the latter, by definition, is not a derivative work.”); 1 Melville B. Nimmer & David Nimmer,
Nimmer on Copyright § 3.01 (Matthew Bender Rev. Ed. 2023) (“A work is not derivative unless
it has substantially copied from a prior work.” (emphasis omitted)). The plaintiffs cite Range
Road Music, Inc. v. East Coast Foods, Inc., 668 F.3d 1148 (9th Cir. 2012), but that case is not
applicable here. In Range Road, the infringement was the public performance of copyrighted
songs at a bar. Id. at 1151-52. The plaintiffs presented evidence (namely, the testimony of
someone they sent to the bar) that the songs performed were, in fact, the protected songs. Id. at
1151-53. The defendants presented no evidence of their own that the protected songs were not
performed. Nor did they present evidence that the performed songs were different in any
meaningful way from the protected songs. Id. at 1154. The Ninth Circuit held that, under these
circumstances, summary judgment for the plaintiffs was appropriate. And the Court rejected the
defendants’ contention that the plaintiffs, under these circumstances, were also required to
present evidence that the performed songs were “substantially similar” to the protected songs.
That contention made no sense, because the plaintiffs had already offered unrebutted evidence
that the songs performed at the bar were the protected songs. Id. at 1154. Of course, if the
defendants had presented evidence at summary judgment that the songs performed at the bar
were meaningfully different from the protected songs, then there would have been a dispute over
whether the performances were infringing, and the case would have needed to go to trial. At that
trial, the plaintiffs would have needed to prove that the performed songs (or portions of the
performed songs) were “substantially similar” to the protected songs. That’s the same thing the
plaintiffs would need to do here with respect to the content of LLaMA’s outputs. To the extent
that they are not contending LLaMa spits out actual copies of their protected works, they would
need to prove that the outputs (or portions of the outputs) are similar enough to the plaintiffs’
books to be infringing derivative works. And because the plaintiffs would ultimately need to
prove this, they must adequately allege it at the pleading stage>>

[anche qui manca la prova]

Motivazione un pò striminzita, per vero.

(notizia e link dal blog di Eric Goldman)

La lite sui marchi HAMILTON v. LEWIS HAMILTON

il segno LEWIS HAMILTON (del pilota di F1) è confondibile con HAMILTON (nota marca di orologi svizzeri) per prodotti sostanzialmente eguali?

Risponde positivamente il 1° board dell’appello amministrativo dell’EUIPO 17.10.2023, Case R 336/2022-1, 44IP ltd v. Hamilton International AG .

Si dimostra sempre difficile provare la propria notorietà a livello europeo: qui però, si badi, allo scopo di escludere confondibilità con il previo segno della casa orologiaia svizzera. Si v. la parte VI “Public perception and knowledge of Lewis Hamilton”.

Non è infatti discussa la questione del se ricorrsse uan notirrietà vicile del corridore nel 2015, anno di deposiuto del marchio della casa orologiaia. Ma una norma come nil n. art. 8.3 cpi nella UE non esiste. pur se la giurisprudenza di fatto ha posto una regola analoga ma non uguale (diritto di continuare ad usare mna no ndi impedire la registaszione altrui):  <<§ 61 In accordance with case-law, famous persons enjoy special protection when applying for trade marks. Insofar as their name is recognized, this recognition neutralizes any similarity with other signs which, under normal circumstances, would lead to a likelihood of confusion (24/06/2010, C-51/09 P, Barbara Becker, EU:C:2010:368; 02/12/2008, T-212/07, Barbara Becker, EU:T:2008:544; 17/09/2020, C-449/18 P & C-474/18 P, MESSI (fig.) / MASSI et al., EU:C:2020:722; 26/04/2018, T-554/14, MESSI (fig.) / MASSI et al., EU:T:2018:230; 16/06/2021, T-368/20, Miley Cyrus / Cyrus et al., EU:T:2021:372)>>

Conclusione:

<< 135 According to the case-law of the Court of Justice, the risk that the public might believe that the goods or services in question come from the same undertaking or, as the case may be, from economically-linked undertakings, constitutes a likelihood of confusion. It follows from the very wording of Article 8(1)(b) EUTMR that the concept of a likelihood of association is not an alternative to that of a likelihood of confusion, but serves to define its scope (29/09/1998, C-39/97, Canon, EU:C:1998:442, § 29; 22/06/1999, C-342/97, Lloyd Schuhfabrik, EU:C:1999:323, § 17).
136 A likelihood of confusion on the part of the public must be assessed globally. That global assessment implies some interdependence between the factors taken into account and in particular similarity between the trade marks and between the goods or services covered.
Accordingly, a lesser degree of similarity between these goods or services may be offset by a greater degree of similarity between the signs, and vice versa (29/09/1998, C-39/97, Canon, EU:C:1998:442, § 17; 22/06/1999, C-342/97, Lloyd Schuhfabrik, EU:C:1999:323, § 19). The more distinctive the earlier trade mark, the greater the risk of confusion, and trade marks with a highly distinctive character, either per se or because of the reputation they possess on the market, enjoy broader protection than trade marks with a less distinctive character (29/09/1998, C-39/97, Canon, EU:C:1998:442, § 18).
137 Where a common element, retains an independent distinctive role in the composite sign, the overall impression produced by that sign may lead the public to believe that the goods or services at issue come, at the very least, from companies which are linked economically, in which case a likelihood of confusion must be held to be established (22/10/2015, C‑20/14, BGW / BGW, EU:C:2015:714, § 40).
138 In numerous members states, family names are given more weight than first names, even if they are at the beginning (03/06/2015, T-559/13, Giovanni Galli, EU:T:2015:353, § 47). In the absence of any arguments or evidence submitted with this respect, the Board considers that the family name has no less importance than the first name in neither Bulgaria, Estonia, Croatia, Latvia nor Lithuania.
139 In light of the at least average degree of similarity between the goods and services, the average degree of similarity of the signs and the normal inherent distinctive character of the earlier trade mark, a likelihood of confusion exists in at least Bulgaria, Estonia, Croatia, Latvia and Lithuania. Despite the fact that the average consumer will display a high level of attention, even these consumers may believe that the EUTM applied for is a sub-brand of the earlier trade mark and that both belong to the same or economically-linked undertakings.
140 For the sake of completeness, the Board would like to add the following:
141 Even if Lewis Hamilton were a famous person in the entire European Union, it needs to be taken into consideration that the evidence in file suggests that he is often referred to by his family name. This is evident from the evidence submitted by the opponent in its response to the statement of grounds (page 27ss, page 6 351 of the file and Annex AN44.1), which proves that newspapers refer to him only as ‘Hamilton’. This does not mean anything else than that the relevant public will immediately associate ‘Hamilton’ with ‘Lewis Hamilton’. Even if ‘Lewis Hamilton’ enjoyed the status of a famous person, the term ‘Hamilton’ alone would also be associated with him, which would lead to the fact that the public could believe that the earlier trade mark is also
endorsed by the applicant, and leading therefore also to a likelihood of confusion since the public might believe, that both trade marks are coming from the same undertaking or belong to undertakings economically-connected.
142 The relevant facts in these proceedings are different from those in the proceedings which led to the judgments on which the applicant relies. Nothing in the file allowed the conclusion that the public would refer to Barbara Becker as Becker alone. The same holds true with respect to Miley Cyrus, who is only known as Miley Cyrus and not as Cyrus. Last, in the Messi case, the opposing trade mark was not Messi. Consequently, in these cases, the fame and repute of Barbara Becker, Miley Cyrus and Leo Messi could exceptionally rule out any likelihood of confusion>>

(segnalazine odierna di Marcel Pemsel su IPKat)

Concorrenza sleale per storno dei dipendenti

Sul sempre difficile (teoricmente e praticamente) tema in oggetto, v. Trib. Bologna  n° 1033/2023 del 16 maggio 2023, RG 12327/2018, rel,. Erede:

<<Al riguardo, si rileva in linea teorica che, affinché possano ravvisarsi gli estremi della fattispecie dello storno di dipendenti di un’azienda da parte di un imprenditore concorrente – comportamento vietato in quanto atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c. – non è sufficiente il mero trasferimento di collaboratori da un’impresa ad un’altra concorrente, né la contrattazione che un imprenditore intrattenga con il collaboratore altrui.
In questi casi, ricorre un’attività di per sé legittima, in quanto espressione del principio della libera circolazione del lavoro, ove non attuata con lo specifico scopo di danneggiare l’altrui azienda, in quanto la mobilità dei dipendenti corrisponde sia al diritto del lavoratore di migliorare la propria posizione professionale, sia al diritto dell’imprenditore di organizzare al meglio la propria azienda, in modo efficiente e produttivo, attingendo alle migliori professionalità presenti sul mercato.
La giurisprudenza di legittimità ha in proposito affermato, in più occasioni, che lo storno deve essere caratterizzato dall’ “animus nocendi”, che va desunto dall’obiettivo che l’imprenditore concorrente si proponga – attraverso il trasferimento dei dipendenti – di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista, creando nel mercato l’effetto confusorio, o discreditante, o parassitario capace di attribuire ingiustamente, a chi lo cagiona, il frutto dell’investimento (ossia, l’avviamento) di chi lo subisce. Il giudizio di difformità dello storno dai principi della correttezza professionale non va condotto sulla base di un’indagine di tipo soggettivo, ma secondo un criterio puramente oggettivo dovendosi valutare se lo spostamento dei dipendenti si sia realizzato con modalità tali, da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di arrecare pregiudizio all’organizzazione e alla struttura produttiva dell’imprenditore concorrente, svuotandola delle sue specifiche possibilità operative (tra tante, Cass. civ. n. 3865 del 17.02.2020; Cass. civ. n. 31203 del 29.12.2017; Cass. civ. n. 20228 del 4.09.2013; Cass. civ. n. 13424 del 23.05.2008).
In base a questi principi, nella concreta esperienza giurisprudenziale, al fine di verificare la sussistenza del requisito dell’animus nocendi, si valuta non solo se lo storno sia stato realizzato in violazione delle regole della correttezza professionale (come nei casi di impiego di mezzi contrastanti con i principi della libera circolazione del lavoro, di denigrazione del datore di lavoro, o avvalendosi di dipendenti dell’impresa che subisce lo storno, o quando il trasferimento del collaboratore sia finalizzato all’acquisizione dei segreti del concorrente), ma principalmente se le caratteristiche e le modalità del trasferimento evidenzino la finalità di danneggiare l’altrui azienda, in misura eccedente il normale pregiudizio che può derivare dalla perdita di prestatori di lavoro trasferiti ad altra impresa, non essendo sufficiente che l’atto in questione sia diretto a conquistare lo spazio di mercato del concorrente (App. Milano 1.08.2019, n. 3393; Trib. Bologna 16.03.2016, n. 683).

Per potersi configurare un’attività di storno di dipendenti, alla luce del requisito dell’animus nocendi, assumono rilievo i seguenti elementi: a) la quantità e la qualità dei dipendenti stornati; b) il loro grado di fungibilità; c) la posizione che i dipendenti rivestivano all’interno dell’azienda concorrente; d) la tempistica dello sviamento; d) la portata dell’organizzazione complessiva dell’impresa concorrente.
Si è anche affermato che “lo storno illecito normalmente afferisce allo spostamento di più soggetti da un imprenditore ad un altro, mentre la sottrazione di un solo dipendente è considerato elemento per lo più inidoneo a predicare la contrarietà alla legge” (Trib. Milano 19.09.2014, n. 11082).
Nel caso di specie, non si ravvisano nelle condotte dei convenuti modalità tali da indurre a riconoscere la volontà degli stessi di danneggiare l’organizzazione dell’impresa concorrente. In disparte la carenza di un rapporto diretto di concorrenzialità tra i convenuti dipendenti persone fisiche e COROB, si osserva che parte attrice non ha allegato e provato alcuna circostanza utile a far ritenere la sussistenza del rapporto di solidarietà dei convenuti ex dipendenti con ALFA in punto di responsabilità nei confronti di COROB, limitandosi a generiche allegazione rimaste sfornite di adeguata prova. Inoltre non può non rilevarsi come nella vicenda in esame alcuna concreta allegazione e prova parte attrice abbia fornito in ordine alla sussistenza di un intento di ALFA di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva della concorrente COROB, quale elemento soggettivo dell’illecito concorrenziale. Si richiama sul punto quel consolidato orientamento giurisprudenziale della S.C. che anche di recente ha affermato che “Per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale, commessi per mezzo dello storno di dipendenti e/o collaboratori, è necessario che l’attività distrattiva delle risorse di personale dell’imprenditore sia stata posta in essere dal concorrente con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente, disgregando in modo traumatico l’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore e procurandosi un vantaggio competitivo indebito; a tal fine assumono rilievo innanzitutto le modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori dall’una all’altra impresa, che non può che essere diretto, ancorché eventualmente dissimulato, per potersi configurare un’attività di storno, la quantità e la qualità del personale stornato, la sua posizione nell’ambito dell’organigramma dell’impresa concorrente, le difficoltà ricollegabili alla sua sostituzione e i metodi adottati per indurre i dipendenti e/o collaboratori a passare all’impresa concorrente.”( così Cass. n. 3865/2020; conf. più di recente Cass. n. 22625/2022).
In disparte il dato che la contestazione dell’illecito concorrenziale per “storno dei
dipendenti” mossa da COROB non possa riguardare singole persone fisiche, quali ABELLI LUNGHINI, SOLERA e VERONESI e MAZZALVERI -legati a COROB da rapporto di dipendenza e/o collaborazione- non sono essi stessi imprenditori concorrenti e quindi non possono essere soggetti attivi dell’illecito stesso, deve rilevarsi che, con riguardo al MAZZALVERI, lo stesso all’atto della cessazione del suo rapporto di lavoro subordinato con COROB, a seguito di accordo risolutorio (v. doc. 24 allegato alla citazione), ha sottoscritto contestuale contratto di collaborazione con la stessa società ( v. doc. 25 allegato alla citazione), con esclusione di qualsiasi risvolto negativo per COROB.

Peraltro, va pure evidenziato come l’esiguo numero dei dipendenti stornati, in rapporto al numero complessivo dei dipendenti di COROB (119 dipendenti al 31.12.2017, come da visura prodotta dall’attrice sub doc. 1) per quanto specializzati possano essere, certamente non può determinare quella disgregazione traumatica dell’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore COROB, cosi come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità richiamata per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale, commessi per mezzo dello storno di dipendenti e/o collaboratori.
Alla luce delle considerazioni che precedono, quindi, alcuna tutela inibitoria e risarcitoria può accordarsi in questa sede a COROB, così come vanno disattese le pretese sanzionatorie della stessa attrice>>.

Nell’incertezza sul tema, certo è che l’animus nocendi non può provarsi che in temini oggettivi, giammai psicologico/soggettivi.

Inoltre ricorda la figura dell’abuso del diritto: che ricorre quando un vantaggio per il preteso violatore non c’è per nulla (da tutti ammesso) o c’è ma in misura minima (controverso; da vedere poi come rendere il relativo giudizio e cioè quale ne sarebbe il parametro: ha senso paragonare il vantaggio al danno provocato?).

Va segnalata pure  un’applicazone (con rigetto) della disciplina dei segreti commerciali, art.- 98 cpi

Il giudizio di confondibilità quando il marchio anteriore è di certificazione: il caso Grillhoumi c. Halloumi, con soccombenza del governo cipriota

Altra vicenda nella lite sui segni richiamanti il formaggio cipriota Halloumi.

Si tratta della sentenza Trib. UE 11.10.2023 N, T-415/22 .

Sul punto in oggetto si legge:

<< The General Court held, in particular, that, where the earlier marks relied on in the opposition were national certification marks, which had been registered under national legislation transposing Directive 89/104, the likelihood of confusion had to be understood – by analogy with the rules governing collective marks – as being the risk that the public might believe that the goods or services covered by those earlier trade marks and those covered by the trade mark applied for all originated from persons authorised by the proprietor of those earlier marks to use them or, where appropriate, from undertakings economically linked to those persons or to that proprietor. It added that, furthermore, although, in the event of opposition by the proprietor of a certification mark, the essential function of that type of mark had to be taken into account in order to understand what was meant by likelihood of confusion, within the meaning of Article 8(1)(b) of Regulation No 207/2009, the fact remained that the case-law establishing the criteria with regard to which the existence of such a likelihood of confusion had to be assessed in practice was applicable to cases concerning an earlier certification mark>>.

Rimane difficilino registrare marchi di posizione (soprattutto se consistente nella colorazione delle suole dei calzari)

Descrizione del marchio nella pagina web EUIPO: <<The mark consists of a product configuration consisting of a metallic gold sole on footwear. The dotted lines demonstrate placement of the mark and are not claimed as a feature of the mark. >>

Disegno ivi presente:

(dal fascicolo EUIPO)

Rigettata la domanda di registaizone dallEUIPOP  n° 018731419 con decisione 31 agosto u.s..: il segno  <<does not possess at first sight any distinctive character in relation to the goods pursuant to Article 7(1)(b) EUTMR and is therefore unable to function as a trade mark in the market place, i.e. it fails to distinguish these goods from those of other undertakings>>

Però la corte di giustizia UE 12.06.2018 ha validato quello rinomato di colore rosso di Louboutin (caso C-163/16) (L?ufficio non la menziona)

(segnalazione di Louise Rooms in IPKat)

Confondibilità rigettata in appello EUIPO

marchio posteriore for classes 5, 35 and 44, namely “pharmaceuticals”, “medical preparations”, “food supplements” and “dietetic substances for babies (colori rivendicati)
marchio anteriore designating, inter alia, classes 5, 30 and 32, “ia” designating goods in class 10 and “ia” designating services in class 35.

Il 1st board of appeal EUIPO 31.10.2023, case R 1529/2023-1, INTERAPOTHEK, S.A.U. v. Q4MEDIA rigetta per assebnza di confondibilità ex art. 8.1.b EUTMR.

Conclusione:

<<Overall assessment of the likelihood of confusion
36 The enhanced distinctiveness of the earlier mark was not claimed. Its inherent
distinctiveness results from the distinctive element ‘iaʼ in the central and initial position
but is weakened by the fact that its second word ‘BABYʼ is descriptive. The last word
‘interapothekʼ cannot be seen as a meaningful expression: as explained before, even if its
part ‘apothekʼ can be related to ‘Apothekeʼ (German word for ‘pharmacyʼ) the
combination with the prefix ‘interʼ lacks any tangible sense and is not descriptive. The
element may be seen as allusive but still distinctive. Overall, the inherent distinctiveness
of the earlier mark is under average.
37 The level of attention of both, the professional and the general public is high. The mark
has been found aurally similar to an average degree but conceptually and visually only to
a low degree. For the relevant goods and services the visual aspect is not less important
than the aural one, because the goods are bought on sight and the services are often
contracted on basis of written descriptions (offers, catalogues, Internet searches).
Therefore, taking into consideration the high level of attention of the relevant public and
the weakened distinctiveness of the earlier mark, the likelihood of confusion cannot be
confirmed even for identical goods. Even less so can this likelihood exist for goods that
are only similar.
38 The other earlier marks invoked in the opposition are even less similar to the EUTM
application as they overlap with the latter in only two letters, but differ in a multitude of
factors (beginning, length, font of the letter ‘aʼ, colours, initial letter/sound, number of
syllables). The likelihood of confusion does not exist on the basis of these marks either.>>

Coreografia v. “emotes” nel diritto di autore: l’appello in Hanagami v. Epic Games

Avevo notiziato il 05.09.2022 su Central District della California 24 agosto 2022, caso 2: 22-cv-02063-SVW-MRW che aveva rigettato la domanda di tutela verso l’uso nel gioco Fortnite.

Ora l’appello (in 14 mesi !!!) che riforma la sentenza di primo grado.

La sentenza è di una certa  importanza per capire la disciplina della tutela autorale dell’opera coreografica.

Dal summary iniziale:

<<Games, Inc., the creator of the videogame Fortnite, infringed
the copyright of a choreographic work when the company
created and sold a virtual animation, known as an “emote,”
depicting portions of the registered choreography.
The panel held that, under the “extrinsic test” for
assessing substantial similarity, Hanagami plausibly alleged
that his choreography and Epic’s emote shared substantial
similarities. The panel held that, like other forms of
copyrightable material such as music, choreography is
composed of various elements that are unprotectable when
viewed in isolation. What is protectable is the
choreographer’s selection and arrangement of the work’s
otherwise unprotectable elements. The panel held that
“poses” are not the only relevant element, and a
choreographic work also may include body position, body
shape, body actions, transitions, use of space, timing, pauses,
energy, canon, motif, contrast, and repetition. The panel
concluded that Hanagami plausibly alleged that the creative
choices he made in selecting and arranging elements of the
choreography—the movement of the limbs, movement of the hands and fingers, head and shoulder movement, and tempo—were substantially similar to the choices Epic made in creating the emote.
The panel held that the district court also erred in dismissing Hanagami’s claim on the ground that the allegedly copied choreography was “short” and a “small component” of Hanagami’s overall work. The panel declined to address the issue whether the work was entitled to broad or only thin copyright protection>>.

(notizia e link da Eric Goldman)