Il diritto di riproduzione dei beni culturali è una privativa pubblicistica e non privatistica: per cui non è avvicinabile al diritto di autore

Gilberto Cavagna ci informa di un’interessante sentenza di appello, App. Bologna , Aceto Balsamico del Duca di Adriano Grosoli srl c. Min. Beni culturali, RG 162/2020, rel. Donofrio, relativo all’ormai importante tema dello sfruttamento commerciale (non autorizzato)  della riproduzione di beni culturali (art. 106 ss TU 42/2004).

Si trattava dell’inserimento in un marchio della riproduzione del quadro di Velasquez, raffigurante il Duca Francesco I di Este.

In primo grado la domanda di danno del Ministero era stata accolta e la srl aveva appellato.

In appello la sentenza viene in sostanza confermata, anche se per alcuni anni viene affermata la prescrizione (quinquennale) del credito per canoni omessi.

I punti più importanti :

i) la privativa cit. è pubblicistica , per cui non avvicinabile a quelle privatistiche tipiche (autore, marchi etc.). Ne segue che non sottosta alla necessità di pubblico dominio confermata dall’art. 14 Dir. Copyright (nella stessa ottica la disposizione nazionale attuativa, art. 32 quater l. aut.,  esenta ilcod. beni culturali).

Ci si potrebbe naturalmente chiedere se la disciplina nazionale fosse compatibile con la cit. norma UE.

ii) la sua disciplina non contrasta con alcuna disposizione costituizionale interna (“Si deve inoltre ritenere totalmente infondata la questione di costituzionalità come prospettata dall’appellante in rapporto all’asserito contrasto tra la normativa in materia di beni culturali e gli articoli 3, 9 10, 41,76 e 77 della Costituzione, giacchè, come già sopra evidenziato, i beni sottoposti a vincolo culturale ricevono dall’ordinamento una tutela pubblicistica in quanto espressione di un’identità collettiva che l’ordinamento intende preservare. Pertanto, la durata temporale illimitata dei diritti relativi ai beni culturali non appare irragionevole, ma risponde a prevalenti ragioni costituzionali di valorizzazione e fruizione collettiva degli stessi, escludendo, di conseguenza, una qualsiasi disparità di trattamento tra enti pubblici e privati nella gestione di tali beni, poiché soltanto i primi possono assicurarne un uso compatibile con le esigenze dell’ordinamento“).

iii) essa è avvicianabile invece al diritto al nome e al ritratto, per cui è ammessa l’inibitoria.

Il punto iii) è però assai dubbio ed anzi errato: parificare un diritto sulla res (seppur per ragioni di pubblica utilità) ad un diritto personalissimo come nome ed immagine non ha fondamento. L’insistere sulla sua ratio pubblicistica impedisce di (e contasta col) ravvisare l’eadem ratio, necessaria per invocare l’analogia coi citt. diritto a nomne e immagine.

Grazie a Gilberto per l’utile aggiornamento.

Sulla disciplina della fotografia semplice ex art. 87 ss l. aut.

Trib. Milano 31.08.2023 , RG 43030/2019, Appetito c. RSC, rel. Marangoni, sull’uso di una fotografia di Alberto Sordi sscatata nel 1979 durante le riprese di Il malato immaginario.

Il T. qualifica come fotografia semplice:

<<La valutazione della fotografia nel suo complesso non può che condurre ad assegnare alla stessa la più
limitata tutela di cui agli artt. 87 e ss. l.a.
Invero, l’immagine è pacificamente quella eseguita nel corso delle riprese del film “Il malato
immaginario” e rappresenta il protagonista del personaggio principale dell’opera interpretato
dall’attore Alberto Sordi in una posa della narrazione stessa, e cioè in un letto e in camicia da notte.
L’immagine ripresa dall’Appetito costituisce con evidenza la mera ripresa della rappresentazione del
personaggio nei termini e nell’aspetto scelti per la raffigurazione filmica di esso, senza che sia in effetti
individuabile l’aggiunta o l’integrazione in tale fotografia di scena di profili di caratterizzazione o di
creatività specificamente attribuibili al fotografo, al di là cioè di quelli che possono ritenersi pertinenti
alle scelte registiche, comprendenti anche gli aspetti scenografici e i costumi prescelti per la
rappresentazione stessa di quella particolare scena>>

A nulla serve che sia inserita in un Archivio storico: la valtuazione va fatta solo a sensi della l. aut.

Ne segue però che l’usoda parte di RCS, non menzinante il nome del fotografo, essendo avvenuto nel 2018 e cioè decorso il ventennio di protezione ex lege (art. 92), fu lecito.

Innteressante  è l’aggancio a tale temrine anche di quello del diritto morale di essere menzioanto ex art. 90 n. 1 l. aut.:

<<La disposizione dell’art. 90, comma 1 l.a. – che esige che gli esemplari della fotografia debbano essere
diffusi con la menzione dell’autore (o del soggetto titolare dei diritti di utilizzazione economica, quali
ad esempio il committente della stessa) – è evidentemente predisposta al fine di consentire
l’opponibilità dei diritti connessi del fotografo (o dei titolari dei diritti sull’immagine) ai terzi, sicchè –
a mente del secondo comma della medesima disposizione di legge – la mancanza di tali indicazioni
determina la libera riproducibilità dello scatto da parte di terzi.
Se, dunque, tale ipotesi comunque non pare attenere in sé alla tutela del diritto morale dell’autore della
fotografia – in quanto specificamente rivolta a consentire l’opponibilità dei diritti connessi
sull’immagine ai sensi degli artt. 88 e ss. l.a. – deve rilevarsi che l’imporre in epoca successiva alla
scadenza fissata dall’art. 92 l.a. ad un utilizzatore di un’immagine in libera riproduzione l’onere di
menzionare il nome dell’autore, oltre ad non essere stabilito da alcuna disposizione attinente alle
fotografie “semplici”, sarebbe evidentemente eccessivo e di fatto inesigibile, laddove – come nel caso
di specie – l’immagine sembrerebbe essere circolata priva di tale indicazione.
La semplice omissione del nome dell’autore – ove intervenuta la scadenza prevista dall’art. 92 l.a. –
non può costituire dunque fonte di illecito, mentre il richiamo a principi generali che consentono ad
ogni individuo di rivendicare la paternità del frutto delle proprie attività potrebbe trovare un
fondamento nella particolare ipotesi (qui non sussistente) in cui la paternità dell’immagine sia stata attribuita a persona diversa>>

 

Keyword advertising e avvedutezza del consumatore medio online nel diritto dei marchi

L’appello del 9 circuito n. 23-16060 del 22.10.2024, Lerner&Rowe v. Brown Engstrand&Shely decide una lite per violazione di marchio tra due studi legali avvenuta tramite keyword advertising (k.a.).

Il Panel non affronta le legittimità di quest’ultimo strumento secondo la legge marchi, limitandosi a dire che non ricorre confondibilità tra gli esiti della ricerca Google e il nome/i segno dello studio attore.

Rigetta quindi la domanda.

E’ infatti assai  fiducioso sull’avvedutezza dell’utente medio di internet:

<<Google’s search engine is so ubiquitous that we can be confident that the reasonably prudent online shopper is familiar with its layout and function, knows that it orders results based on relevance to the search term, and understands that it produces sponsored links along with organic search results. Moreover, in this case, the relevant consumers specifically typed in “Lerner & Rowe” as a search term, suggesting that they would be even more discerning of the results they received. Therefore, because this case involves shopping on Google by using the precise trademark at issue, this factor weighs in favor of ALG.>>

E poi:

<The district court was correct to conclude that this is one of the rare trademark infringement cases susceptible to summary judgment. The generally sophisticated nature of online shoppers, the evidence demonstrating that there is not an appreciable number of consumers who would find ALG’s use of the mark confusing, and the clarity of Google’s search results pages, convince us that ALG’s use of the “Lerner & Rowe” mark is not likely to cause consumer confusion.>>.

Del che c’è da dubitare, come avverte Eric Goldman (dal cui blog prendo notizia della e link alla sentenza)

L’opinione concorrente di  J. Desai invece esamina se il k.a. costituisca “uso del marchio”. Ricorda un importante precedente del 2011 del 9 ciruito, che rispose in senso affermativo: ma ora intende rovesciarlo,  perchè non esatto.

<<Whether an action, like bidding
on keywords, that involves no display or presentation of a
mark whatsoever satisfies the “use in commerce” definition.
In other words, does a buyer of advertising keywords who
bids on certain terms and phrases “use” its competitor’s
mark when bidding on it?
In Network Automation, we answered, yes. 638 F.3d at
1144–45. But we provided no analysis to support this
holding, id. at 1145, and we relied on cases with
meaningfully different facts. >>

Chiede quindi un riesame della questione.

La tutela del software copre solo i codici sorgente e oggetto, non le variabili ulteriori, sulle quali i concorrenti possono apportare modifiche con applicaizoni integrative

Importante (perchè non scontata) ed esatta precisazione di Corte Giust. 17/10/2027, C-159/23, Sony c. DAtel .

Il fatto:

<<15 La Sony commercializza, in qualità di licenziataria esclusiva per l’Europa, consolle per videogiochi Playstation nonché videogiochi per tali consolle. Fino al 2014, la Sony commercializzava, tra l’altro, la consolle PlayStationPortable (in prosieguo: la «consolle PSP») nonché taluni videogiochi per questa consolle, fra cui il videogioco MotorStorm Arctic Edge (in prosieguo: il «videogioco di cui trattasi»).

16 La Datel sviluppa, produce e distribuisce software, in particolare prodotti integrativi delle consolle per videogiochi della Sony, tra cui il software Action Replay PSP nonché un dispositivo, il Tilt FX, corredato di un software avente lo stesso nome, che consente di comandare la consolle PSP mediante movimento nello spazio. Tali software funzionano esclusivamente con i giochi originali della Sony.

17 L’esecuzione del software Action replay PSP avviene collegando la consolle PSP a un elaboratore ed inserendo in tale consolle una chiavetta USB che carica detto software. Dopo il riavvio di detta consolle, l’utilizzatore dispone, nell’interfaccia, di una funzione supplementare «Action replay» che offre all’utilizzatore opzioni di gioco non previste nell’attuale fase del videogioco da parte della Sony. In tale scheda figurano, ad esempio, per quanto riguarda il videogioco di cui trattasi, opzioni che consentono di eliminare qualsiasi restrizione nell’utilizzo del «turbo» (booster) o di disporre non soltanto di una parte dei conducenti, ma anche della parte di essi che, altrimenti, potrebbe essere attivata solo dopo aver ottenuto un determinato punteggio.

18 Per quanto riguarda il Tilt FX, l’utilizzatore dispone di un sensore che è collegato alla consolle PSP e che consente di comandare tale consolle grazie ai movimenti di quest’ultima nello spazio. In tale consolle deve essere introdotta anche una chiave USB allo scopo di predisporre l’intervento del sensore di movimento, il che rende disponibile, nell’interfaccia, una funzione supplementare che elimina, in particolare, talune restrizioni. Così, per il videogioco di cui trattasi, tale funzionalità consente un utilizzo illimitato del turbo>>.

La CG:

37  Risulta quindi dalla formulazione dell’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 2009/24, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 37 delle sue conclusioni, che il codice sorgente e il codice oggetto rientrano nella nozione di «forma di espressione» di un programma per elaboratore, ai sensi di tale disposizione, in quanto consentono la riproduzione o la realizzazione di tale programma in una fase successiva, mentre altri elementi di quest’ultimo, quali in particolare le sue funzionalità, non sono tutelati da tale direttiva. Detta direttiva non tutela neppure gli elementi mediante i quali gli utilizzatori sfruttano tali funzionalità, senza tuttavia consentire una simile riproduzione o realizzazione del programma in una fase successiva.

38 Come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 38 e 40 delle sue conclusioni, la tutela garantita dalla direttiva 2009/24 è limitata alla creazione intellettuale quale essa si riflette nel testo del codice sorgente e del codice oggetto e, pertanto, all’espressione letterale del programma per elaboratore in tali codici, che costituiscono rispettivamente una serie di istruzioni in base alle quali l’elaboratore deve svolgere i compiti previsti dall’autore del programma. (…)

50  Nel caso di specie, il giudice del rinvio osserva che il software della Datel è installato dall’utilizzatore sulla consolle PSP ed è eseguito contemporaneamente al software di gioco. Detto giudice aggiunge che tale software non modifica e non riproduce né il codice oggetto, né il codice sorgente, né la struttura interna e l’organizzazione del software della Sony, utilizzato sulla consolle PSP, ma si limita a modificare il contenuto delle variabili temporaneamente inserite dai videogiochi della Sony nella memoria RAM della consolle PSP, che sono utilizzate durante l’esecuzione del videogioco, cosicché quest’ultimo viene eseguito sulla base di tali variabili dal contenuto modificato.

51 Inoltre, come risulta dalla motivazione della decisione di rinvio, risulta che il software della Datel, modificando unicamente il contenuto delle variabili inserite da un programma per elaboratore tutelato nella memoria RAM di un elaboratore ed utilizzate da tale programma nel corso della sua esecuzione, non consente, in quanto tale, di riprodurre tale programma né una parte di esso, ma presuppone, al contrario, che tale programma sia eseguito in contemporanea. Come sostanzialmente sottolineato dall’avvocato generale al paragrafo 48 delle sue conclusioni, il contenuto delle variabili costituisce quindi un elemento di detto programma, attraverso il quale gli utilizzatori sfruttano le funzionalità di tale programma, elemento che non è protetto in quanto «forma di espressione» di un programma per elaboratore ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 2009/24, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare>>.

La tutela concerne le forme diespressioone di unprogramma le quali << sono quelle che consentono di riprodurlo in diversi linguaggi informatici, quali il codice sorgente e il codice oggetto >>, § 34.

Nel keyword search advertisement il mero acquisto del nome altrui non è violazione di marchio

App. del 2 circuito 08.10.2024, 1-800 contacts inc. d. Jand inc. afferma quanto nel titolo.

<<As outlined above, three components to a search advertising campaign are
relevant for our analysis of whether 1-800 has sufficiently alleged trademark
infringement by Warby Parker: first, the defendant’s purchase of a competitor’s
marks as keywords; second, the ads placed on the search results page for the
competitor’s marks; and third, the defendant’s landing webpage to which its ads
are linked. Thus, the central question in this case is whether 1-800 has sufficiently alleged a likelihood of confusion arising from Warby Parker’s use of 1-800’s Marks (i.e., 1800 Contacts,” “1 800 Contacts,” “1800contacts.com,” and “1800contacts”) in the keyword bidding process, the search ads, and/or the linked landing webpage. (….)
Further, in the search advertising context, an alleged infringer’s
purchase of a keyword comprising a competitor’s trademark constitutes a “use in
commerce” of such trademark under the Lanham Act. See Rescuecom Corp., 562
F.3d at 127 (holding that complaint regarding Google’s AdWord’s
recommendation of plaintiff’s trademark to plaintiff’s competitors “adequately
plead[ed] a use in commerce” under the Lanham Act)
(…)
1-800 alleges that Warby Parker made an infringing use of 1-800’s Marks in
the first component of its search advertising campaign: the keyword purchase.
However, as described above, the mere act of purchasing a competitor’s
trademarks as keywords in the search advertising context does not constitute
trademark infringement or unfair competition. See id. at 130. Warby Parker’s
purchase of 1-800’s Marks, standing alone, does not infringe 1-800’s Marks because “a defendant must do more than use another’s mark in commerce to violate the Lanham Act.” Id. The statute requires a showing that the defendant’s use caused consumer confusion. (….)

we conclude that 1-800 has failed to sufficiently plead that Warby Parker’s advertising plan was likely to confuse consumers at any point in the sales process because 1-800 does not claim that Warby Parker actually used the former’s Marks other than by buying them as keywords in the search engine auctions, and such use alone does not create a likelihood of consumer confusion>>

analoga soluzione probabilmente anche in base al nostro art. 20.2 cpi.-

La sentenza poi passa ad esaminare la confondibilità delle “landing pages”, negandola.

(notizia e link da Eric Goldman blog)

La malafede dell’utilizzatore posteire nella convalida del marchio ex art.- 28 cpi

Sorprendente interpretazione del concetto di “malafede” nell’art. 28 da parte di Trib. Milano rel. Bellesi, r.g. 26866/2020 , 07.09.23-27.03.24, FIORENTINA S.P.A. c. Zaffiro srl.

<<Benché debba ritenersi non sufficiente a integrare la malafede prevista dalla norma la semplice conoscenza dell’esistenza del marchio anteriore altrui, essendo anche necessaria l’intenzione di approfittare dell’accreditamento presso il pubblico da quello conseguito (in tal senso, Cass. civ. Sez. I Ord., 13/7/2018, n. 18736), va tenuto presente che l’istituto della convalidazione ha natura eccezionale e presuppone il rigoroso accertamento dei suoi presupposti.
Considerata la notorietà dei marchi della Fiorentina, che sono celebri e conosciuti in Italia e all’estero, per effetto dei successi sportivi della squadra, che è il simbolo della città di Firenze, può ritenersi provato che la dante causa della convenuta Zaffiro fosse a conoscenza dell’esistenza e dell’uso del marchio “Fiorentina”.
Non è ipotizzabile neppure che la stessa, pur essendo a conoscenza dei marchi dell’attrice, ritenesse senza sua colpa che fra i rispettivi segni non sussistesse confondibilità o che fra i rispettivi prodotti o servizi non vi fosse affinità.
Al contrario, la diffusione, la notorietà e l’affermazione presso il pubblico del segno anteriore consentono di affermare che vi fosse, in capo alla titolare del marchio posteriore, la volontà di confondersi o di agganciarsi a un segno anteriore precedentemente affermatosi sul mercato.
Del resto, la somiglianza fra i marchi di cui si controverte è incontestabile; si potrebbe parlare di identicità, se non fosse per la presenza del top level domain “.it” che è comunque irrilevante sotto il profilo distintivo>>.

Interpretazione soprendente dato che la mala fede è la consapevolezza di ledere l’altrui diritto e null’altro (argomenta dalla definizione di buona fede posta dall’art. 1147 cc sul possesso)

Corresponsabilità (contributory infringement) nella violazione del copyright a carico dell’internet provider

L’appello del 5 Distretto 09.10.2024, No. 23-50162, UMG Recordings, Capitol Records ed altre majorts della musica c. Grande Communications Network, decide un caso di corrsponsabilità di tipo P2P, confermando la condanna di prim grado (nell’an, non nel quantum),

Nel caso specifico la correpopnsabilità non era contestabile, dato che l’ISP era stato notiziato della violazione e nulla ha fatto.

Ma cìè staa battaglia comunque su due dei quattro requisiti di legge (<< Plaintiffs had to show (1) that Plaintiffs own or have exclusive control over valid copyrights and (2) that those copyrights were directly infringed by Grande’s subscribers. See BWP Media USA, 852 F.3d at 439. To further prove that Grande was secondarily liable for its subscribers’ conduct, Plaintiffs had to demonstrate (3) that Grande had knowledge of its subscribers’ infringing activity and (4) that Grande induced, caused, or materially contributed to that activity>>): precisamente sul 2 e sul 4. Nessuna invece sul n. 3, implicitamente ammmettendosi la willful blindness.

Qui contano spt. le tattiche di forensics: (1) ad es col software Audible Magic: Plaintiffs’ trade association, the Recording Industry Association of America, Inc.
(“RIAA”), used an industry-standard software program called Audible
Magic—which forensically analyzes the contents of digital audio files to
determine if those files match the contents of files in a database that contains
authorized authentic copies of Plaintiffs’ sound recordings—to verify that
Rightscorp in fact downloaded each work at issue,.

(2) Oppure col soggetto terzo incaricato da esse di indagini, Rightscorp: .

“To crack down on copyright infringement, third-party companies
have developed technologies to infiltrate BitTorrent and identify infringing
users by their IP addresses. One such company is Rightscorp, Inc.
(“Rightscorp”). Rightscorp’s proprietary technology:
• Interacts with BitTorrent users and obtains their agree-
ment to distribute unauthorized copies of copyrighted
works
• Records the relevant available details of that agreement,
such as the user’s IP address and what the infringed
content is
• Cross-references the user’s IP address against publicly
available databases to identify which ISP is affiliated
with that IP address
• Generates and sends infringement notices to the rele-
vant ISPs so that they can identify their infringing sub-
scribers and take appropriate action; and
• Frequently reconnects with the identified infringing IP
addresses and downloads copies of the copyrighted
works at issue directly from those users
In other words, Rightscorp identifies infringing conduct on
BitTorrent by engaging with BitTorrent users, documents that conduct, and
uses the information available to it to notify ISPs of its findings so that the
ISP can take appropriate action”.

Sintesi finale:

<< The evidence at trial demonstrated that Grande provided its
subscribers with the tools necessary to infringe (i.e., high-speed internet
access) and that Grande’s subscribers used those tools to infringe Plaintiffs’
copyrights.14 See BMG, 881 F.3d at 306-08. Based on the consistency of the
trial evidence, the district court determined that there was “no question that
[Grande] intentionally continued to provide Internet service” to its
infringing subscribers.
Grande’s affirmative choice to continue providing its services to
known infringing subscribers—rather than taking simple measures to
prevent infringement—distinguishes this case from Cobbler Nevada, LLC v.
Gonzales, 901 F.3d 1142 (9th Cir. 2018), on which Grande relies. There, the
Ninth Circuit considered a claim alleging that a subscriber of internet
services who received infringement notices failed to “secure, police and protect” his account from third parties who used his internet access to
infringe. Cobbler, 901 F.3d at 1145-46. The direct infringers were never
identified. See id. at 1145 n.1. Because the pleading premised liability
exclusively on the subscriber’s failure to take action against unknown third-
party infringers, it was insufficient to state a claim. See id. at 1147-49. Here,
Plaintiffs proved at trial that Grande knew (or was willfully blind to) the
identities of its infringing subscribers based on Rightscorp’s notices, which
informed Grande of specific IP addresses of subscribers engaging in
infringing conduct. But Grande made the choice to continue providing
services to them anyway, rather than taking simple measures to prevent
infringement. Additionally, Cobbler addressed only inducement liability
under Grokster; it did not opine on the evidence required for establishing
material contribution. See id. The court in Cobbler rejected the plaintiff’s
invitation to create “an affirmative duty for private internet subscribers to
actively monitor their internet service for infringement,” id. at 1149; it did
not absolve ISPs like Grande that continue providing services to known
infringing subscribers.
The evidence at trial demonstrated that Grande had a simple measure
available to it to prevent further damages to copyrighted works (i.e.,
terminating repeat infringing subscribers), but that Grande never took it. On
appeal, Grande and its amici make a policy argument—that terminating
internet services is not a simple measure, but instead a “draconian
overreaction” that is a “drastic and overbroad remedy”—but a reasonable
jury could, and did, find that Grande had basic measures, including
termination, available to it. See Amazon.com, 508 F.3d at 1172. And because
Grande does not dispute any of the evidence on which Plaintiffs relied to
prove material contribution, there is no basis to conclude a reasonable jury
lacked sufficient evidence to reach that conclusion.

In sum, because (1) intentionally providing material contribution to
infringement is a valid basis for contributory liability; (2) an ISP’s continued
provision of internet services to known infringing subscribers, without taking
simple measures to prevent infringement, constitutes material contribution;
and (3) the evidence at trial was sufficient to show that Grande engaged in
precisely that conduct, there is no basis to reverse the jury’s verdict that
Grande is liable for contributory infringement >>.

Interessante infine è la riduzine del quantum, dovendosi determinare il danno statutory non per singolo brano ma per albums., Ma ciò dipende da specifica norma del 17 US Code § 504 (“for the purposes of this subsection, all the parts of a compilation or derivative work constitute one work”).

 

(Notizia e link dal blog di Eric Goldman)

La formula tedesca e la determinazione dell’equo premio a favore dell’inventore dipendente (art. 64 c.2. cpi)

Interessanti passaggi della Corte di appello di Milano 2 aprile 2024 n. 976, rel. Meroni  (letta in Onelegale).

IN particolare è significativa la questione della pluralità di inventori : non determina moltiplicazione dell’equio premio, che rimane unico, ma suo frazionamento tra i coiventori.

Il principio va condiviso

<<L’affermazione di cui al principio sub (…) è certamente condivisibile nella parte in cui evidenzia che il criterio della cd. formula tedesca non è vincolante per la decisione in ordine alla determinazione dell’entità del premio, ma può solo essere considerato un criterio orientativo a cui apportare le modificazioni opportune in relazione alla fattispecie concreta, pur rilevandosi che tale criterio viene abitualmente utilizzato per tale scopo e che la disciplina legislativa tedesca è, in realtà, sostanzialmente analoga a quella italiana e che la circostanza che nel diritto tedesco il pagamento sia previsto anche a favore del dipendente già retribuito è irrilevante.
– L’affermazione di cui al principio sub. (…) è, invece, gravemente errata sul piano logico, soprattutto per il modo con cui tale principio è stato applicato dal collegio degli arbitratori, pur tenendo conto che la formulazione dell’alt 64 D.Lgs. n. 30 del 2005 è molto generica.
Il collegio degli arbitratori ha, infatti, ritenuto di tener conto della presenza di coinventori semplicemente ricorrendo al criterio della formula tedesca con riguardo ad un parametro (la voce “soluzione del problema” che contribuisce alla determinazione del fattore P), che non attiene per nulla al fatto che l’ invenzione sia stata conseguita da un solo ovvero da più coinventori, ma concerne invece
la valutazione del contributo del dipendente – inventore rapportato al contributo fornito dal datore di lavoro – organizzatore/finanziatore degli investimenti che hanno consentito l’ invenzione; seguendo il criterio utilizzato nel lodo ne conseguirebbe che l’ importo del premio, attribuito al singolo inventore, potrebbe avere la medesima entità sia nel caso in cui l’ invenzione sia stata ottenuta da un dolo dipendente sia nel caso in cui sia stata ottenuta da dieci o cento dipendenti, con la conseguenza che in questo caso l’importo complessivo dei premi sia decuplicato o centuplicato, fino ad arrivare a superare, anche di gran lunga, il valore effettivo dell’invenzione.
E’ evidente che, per la determinazione dell’entità del premio spettante al singolo dipendente – inventore ovvero ai plurimi dipendenti – inventori, una volta accertata (con la formula tedesca o con altro criterio) la quota del valore dell’invenzione, che si ritiene possa essere attribuita come premio per l’ inventore, è sempre necessario suddividere (qualora costoro siano più di uno) tale quota astratta per il numero degli inventori che hanno contribuito all’ invenzione (e tale suddivisione, in assenza di elementi che possano differenziare tra loro gli apporti dei diversi dipendenti, non può che essere fatta in parti uguali) e, una volta determinata la quota astratta, eventualmente anche interamente attribuibile a ciascun inventore, è necessario valutare quale sia stato l’apporto dell’organizzazione del datore di lavoro, che ovviamente comprimerà la parte spettante al dipendente in relazione alla sua rilevanza rapportata alla rilevanza dell’apporto del dipendente.
– L’affermazione sub. (…) è errata, posto che dal principio affermato da Cass. 20239/2016, come sopra riportato, non consegue affatto, neppure avvalendosi di una interpretazione estensiva, che “se vi sono coinventori, siano o no remunerati ad hoc oppure abbiano o no diritto anch’essi a un premio, il loro contributo si conta come contributo dell’azienda nel momento di valutare l’equo premio spettante a ciascun altro avente diritto “, come sostenuto dal collegio degli arbitratori.
Cass. 20239/2016, infatti, a fronte dell’eccezione sollevata in quel giudizio dal datore di lavoro della sussistenza di un litisconsorzio necessario tra tutti i dipendenti coinventori con riguardo alla spettanza dell’equo premio rivendicata da uno solo di loro, ha affermato che tale eccezione era infondata, in quanto il diritto al premio (che ha la funzione di indennizzare il dipendente – inventore per il fatto che i diritti derivanti dall’ invenzione, dallo stesso realizzata, sono attribuiti in via originaria al suo datore di lavoro) non è un diritto attribuito in modo unitario a tutti i plurimi dipendenti partecipanti all’ invenzione, ma ciascun dipendente – inventore ha diritto di rivendicare singolarmente il premio a lui spettante ed ha, altresì, precisato che la controversia, oggetto del suo esame, concerneva l’accertamento della sussistenza del diritto al premio in capo al dipendente e non già la sua quantificazione (che avrebbe potuto essere oggetto di altro giudizio), di guisa che in tale controversia il riconoscimento del premio, in favore del dipendente che aveva promosso il giudizio, non avrebbe potuto in alcun modo danneggiare gli altri dipendenti coinventori, senza che questi fossero partecipi del giudizio.
La Corte di Cassazione, cioè, con la sentenza suddetta ha esplicitamente affermato che il principio dalla stessa individuato (vale a dire l’assenza di litisconsorzio necessario tra tutti i dipendenti coinventori con riguardo al riconoscimento della sussistenza del diritto al premio in capo a ciascuno di loro) non aveva alcuna rilevanza con riguardo alle modalità di quantificazione e quindi di eventuale ripartizione del premio tra tutti i coinventori.
La decisione del collegio arbitrale, per quanto esposto, è, pertanto, certamente viziata da un errore grave di determinazione logica dell’entità del premio e quindi certamente passibile di dichiarazione di nullità da parte del giudice>>.

La corte riportaanche la formula tedesca considerata dal ctue l’applicaizone da lui fattane:

<<Il consulente tecnico ha così correttamente esposto la formula tedesca:
> EP = (W x C x R) / N x P; in cui:
– Co = equo premio,
– W = valore economico dell’ invenzione, pari alla sommatoria attualizzata di tutti gli utili conseguibili
dal brevetto e in via semplificata pari al 10% del ricavato,
– C = fattore correttivo che prevede una correzione di W, secondo una tabella prefissata (da 0,9 a 0,2) in
relazione all’entità dell’utile,
– R = fattore di riduzione (dal 12,5% al 33%, con valore normale al 20%) in relazione alla caratteristica
dell’invenzione,
– N = numero degli inventori,
– P = fattore di partecipazione, per il quale è previsto un punteggio: da 1 a 6 per la “posizione del
problema”, da 1 a 6 per la “soluzione del problema”, da 1 a 8 per le “mansioni svolte e la posizione occupata”; alla somma dei tre punteggi corrisponde la percentuale del fattore da utilizzare (ad es. alla somma del punteggio minimo di 3 corrisponde il fattore 3%, alla somma del punteggio massimo di 20 corrisponde il fattore 100%).
Il CTU, utilizzando il criterio della formula tedesca, ha così determinato il premio (nell’ ipotesi accolta nella sentenza definitiva del Tribunale):
. ha determinato il ricavo complessivo, per tutte le invenzioni brevettate in questione, per l’ intero periodo di efficacia in Euro 128.598.000: di cui Euro 114.379 per il periodo dal 1997 al 31.12.2019 (pari a Euro 104.193.000, corrispondente all’ importo dei ricavi effettivamente conseguiti, rivalutato alla data del 31.12.2019) ed Euro 14.219.000 per il periodo dal 1.1.2020 al 2024 (corrispondente al ricavo presumibile, attualizzato però al 31.12.2019, secondo la formula wacc);
. ha determinato il margine di utile nel 9,4% del ricavato, quindi pari a Euro 12.088.000, che con la correzione del fattore C (nel caso di brevetti singolarmente considerati) diventa pari a Euro 6.170.000 oppure (nel caso di brevetti complessivamente considerati) pari a Euro 4.948.000 e con l’abbattimento del fattore R (da prendere in considerazione per le caratteristiche delle invenzioni nel 30%) diventa pari a Euro 1.851.000 (nel caso di brevetti considerati singolarmente) o in Euro 1.484.000 (nel caso di brevetti considerati complessivamente);
. ha determinato il fattore N in 1/3, posto che gli inventori sono tre e non vi sono elementi per differenziare tra loro i rispettivi apporti;
. ha determinato per il fattore P il punteggio di 12: di cui 5 (come il collegio degli arbitratori) per “la posizione del problema”; 3 (anziché 1 attribuito dal collegio degli arbitratori) per “la soluzione del problema”; e 4 (come il collegio degli arbitratori) per “le mansioni svolte e posizione occupata”;
punteggio a cui corrisponde il 32% per il fattore P.
In conclusione, il CTU ha determinato l’equo premio (nell’ ipotesi accolta dal Tribunale) nell’importo complessivo di Euro 197.000 = 1.851.000 (utile abbattuto per i coefficienti C ed R, valutato per i brevetti considerati singolarmente) : 3 (per il numero degli inventori) x il 32% per il fattore P (cioè, il grado di partecipazione di OMISSIS all’invenzione in rapporto con il contributo apportato dal datore di lavoro>>

Il marchio di colore di posizione è difficile da registrare

Il Trib. UE conferma il rigetto della domanda di registrazione per un marchio di colore (rosso giallo nero) e di posizone, applicato a macchine agrigole (Trib. UE 11.0.2024, . Joined Cases T‑361/23 to T‑364/23, Väderstad Holding AB c, EUIPO).

Riporto qui uno dei quattro azionati:

Segnalo solo uno dei motivi di rigetto: il fatto che i detti colori svolgono funzione di sicurezza e segnalazione (“the Board of Appeal found that the signalling effect of the colours red and yellow was of particular importance for the goods at issue, for example at the time when they were used in accordance with their purpose, when they were ‘parked’ or ‘on the road’. It stated that although the colour yellow was more easily perceived in low-light conditions, the colour red was particularly eye-catching during the day and was frequently used for safety purposes on all types of equipment in various sectors, including the agricultural sector. Furthermore, according to the Board of Appeal, the colour black, combined with the colour yellow, creates a contrast and thus improves visibility. As regards the safety function, the Board of Appeal also took into account the presence, on the goods at issue, of the combination of the colours yellow and black in the form of a banal rectangle which further improves visibility. The Board of Appeal found that the combination of the colours red, yellow and black served a safety or signalling function“: § 56.)

L’istante fa presente che ciò non rientra tra i motivi espressi di  nullità del marchio secondo la giurisprudenza UE, § 57.

Da noi non rientra espressamente nell’art. 13.1 (forse però nell’inciso finale alla lett. b): “o altre arattreristiche del prodotto”), nè  nei motivi di invalidità per  quelli di forma ex art. 9 (qui forse si potrebbe farli rientrare nelle lettere  a opppure b-).

Il T. rigetta.

(segnalazione di Marcel Pemsel in IPKat).

Disegni e modelli: prova della anteriore divulgazione tramite screenshot di pagina internet

Anna Maria Stein in IPKat segnala interessante decisione sull’oggetto: 3rd Board of Appeal 11.09.2024 , case R 5/2024-3, Ekomill OÜ v. Ecosauna Project OÜ.

<<20 The invalidity applicant invoked as prior design D1, an oval-shaped wooden sauna as manufactured and sold by a Lithuanian company. It provided as evidence of disclosure two screenshots of two posts allegedly from Facebook, dated 22 August 2013 and July 2014 (Annex 3), and indicated two hyperlinks in its observations. It did not file any additional evidence at the appeal stage.
21 The Invalidity Division considered that this evidence constitutes sufficient proof of disclosure. The Board does not concur.
22 Although the appearance of a picture of a design on the internet constitutes a publication within the meaning of Article 7(1) CDR (20/10/2021, T‑823/19, Bobby pins, EU:T:2021:718, § 32), the invalidity applicant must provide solid evidence of this event of disclosure.
23 To establish disclosure, a printout or a screenshot should show the full URL address of a website, demonstrating the source of design disclosure on the internet (20/10/2021, T‑823/19, Bobby pins, EU:T:2021:718, § 33-34).
24 As correctly pointed out by the design holder, the indication of a hyperlink in the invalidity applicant’s observations cannot suffice in this respect. Hyperlinks or URL addresses per se cannot be considered sufficient evidence for proving the disclosure of a prior design. Even if these are active, they should be supplemented with additional evidence, such as a printout or a screenshot of the relevant information contained therein (07/02/2007, T 317/05, Guitar, EU:T:2007:39, § 43) including the full URL address. This is because information accessible through a hyperlink or URL address may later be altered, removed or difficult to identify. Even assuming that the URL link would display the screenshot, as shown in Annex 3, it is impossible for the Board to ascertain whether the content to be found under the hyperlink has been changed or removed over time.
25 In this regard, the Board notes that this assessment aligns with the ‘CP 10 Common Practice – Criteria for assessing disclosure of designs on the internet’ (Section 2.4.4, p. 29) established by the IP offices of the European Union in the framework of the European Union Trade Mark and Design Network, with the purpose of offering guidance on the sources, reliability, presentation, and assessment of online evidence. Accordingly, when the screenshot does not contain all relevant information, namely source, date, and depiction of the invoked prior design, additional evidence should be submitted. Although these texts are not binding for the Board, it may take it into account in its decision-making process.
26 Considering that the screenshots provided do not show the source of disclosure, and that the event of disclosure cannot be proved by means of probabilities or suppositions but must be demonstrated by solid and objective evidence (09/03/2012, T-450/08, Phials, EU:T:2012:117, § 24-25), the Board finds that the invalidity applicant failed to submit sufficient proof of disclosure of the prior design D1 within the meaning of Article 7(1) CDR>>.

La decisione va condivisa; solo che un difensore, minimamente prudente e pratico della rete, lo sa e lo fa d’istinto