Precisazioni sui marchi: convalidazine, distintività e rapporto tra disciplina ad hoc e concorrenza sleale

Uili precisaizoni da Trib. Bologna n. 1782/2021, Rg 12664/2017, Montedil srl c. Mon.Edil srl, rel. Romagnoli, su questioni frequenti in tema di marchi:

1) << L’istituto della convalidazione può valere, però, solo per il marchio successivo registrato (cfr. Cass. civ.
Sez. I, n. 26498 del 2013) o al massimo per la denominazione sociale e il nome a dominio (che sono
comunque segni distintivi in qualche modo “registrati”) quindi non per il marchio di fatto, quale è quello
(o meglio, quelli) della convenuta (MONT.EDIL IMPRESA EDILE, MONTEDIL COSTRUZIONI
EDILI e MONTEDIL SRL con la raffigurazione dell’escavatore, cfr. docc. 2, 2 ter, 2 bis, 3, 4, 5 e 14);
d’altronde, l’eventuale tolleranza dell’uso della ditta o dominazione sociale MONT.EDIL, non significa
tolleranza nell’uso dello stesso segno come marchio (cfr. Cass .civ. Sez. I, 20.4.2017 n. 9966): dunque in
nessun modo potrebbe esservi convalidazione del marchio
>>, p. 5;

Del resto il tenore della disposizione (art. 28 cpi) è inequivoco.

2) << Va altresì disattesa ogni prospettazione di nullità dei marchi attorei per assenza di capacità distintiva ai
sensi dell’art. 13 CPI: il termine “edil” è senz’altro evocativo del servizio edile, ma è un tutt’uno non
distinguibile nel marchio MONTEDIL che con l’anteposizione del termine “mont” conferisce al segno
nella sua unitarietà una capacità distintiva avulsa dalla natura del servizio prestato; per altro verso, la
circostanza che il termine “montedil” sia utilizzato da diverse imprese nella propria denominazione
sociale non fa di esso un segno divenuto di uso comune nel commercio ai sensi della lett. a art. 13 cit.,
che invece fa riferimento alla parola del linguaggio comune che si pretenda di utilizzare come marchio
>> e poi, superrata la questione della validità di quello aizonaot, affronta quella della legittimità di quello conveuto: << Se ciò è vero, appare chiaro che anche a considerare la natura “debole” del marchio “montedil”
l’introduzione di un punto fra “mont” ed “edil” non è variazione sufficiente ad escludere la confondibilità
fra i servizi richiamati dal segno; d’altronde, pur riconoscendosi che il marchio MONT.EDIL è stato
utilizzato assieme ad altri elementi (terminologici o figurativi) reputa il collegio che tali elementi
aggiuntivi non riescano a controbilanciare la somiglianza (quasi identità) fonetica e morofologicolessicale.
Va dunque riconosciuto che l’uso del segno “montedil” comunque scritto (con l’inserimento del punto
fra “mont” ed “edil” ovvero con l’aggiunta di ulteriori termini come “impresa edile” o “costruzioni edili”
o di elementi figurativi come l’escavatore stilizzato) da parte della convenuta è in violazione dei marchi
registrati attorei ex art. 20/1° co. lett. b) CPI, e conseguentemente ne va disposta l’inibitoria da ogni
utilizzo, anche quale denominazione sociale e nome a dominio.
Quanto specificamente al nome a dominio
www.montedilparma.com il collegio apprezza che l’aggiunta
del termine “parma” neppure valga a differenziare adeguatamente il segno rispetto ai marchi dell’attrice,
perché l’indicazione territoriale associata alla denominazione sociale semmai induce il mercato a ritenere
che il segno sia riconducibile ad unità territoriale dell’impresa piuttosto che a diversa impresa avente la
stessa denominazione, sicchè non consiste in idoneo elemento qualificante a designare la convenuta e ad
escludere il rischio associativo fra imprese
>>, p. 6

3) << Va disattesa la domanda concernente la concorrenza sleale confusoria (art. 2598 n. 1 c.c.) sulla quale
domanda il collegio osserva quanto segue.
Sebbene siano astrattamente compatibili e cumulabili la tutela dei segni distintivi prevista dal codice
della proprietà industriale e quella prevista dal codice civile in tema di concorrenza sleale (in tal senso è
chiaramente l’
incipit dell’art. 2598 c.c.), va condiviso il principio per cui la medesima condotta può integrare sia la contraffazione della privativa industriale sia la concorrenza sleale per l’uso confusorio di
segni distintivi solo se la condotta contraffattoria integri anche una delle fattispecie rilevanti ai sensi
dell’art. 2598 c.c., cioè a dire che va esclusa la concorrenza sleale se il titolare della privativa industriale
si sia limitato a dedurre la sua contraffazione (cfr. Cass. sez. I, 02/12/2016, n. 24658 in materia di
brevetto), se – in altre parole ancora – le due condotte consistano nel medesimo addebito integrante la
violazione del segno (o del brevetto).
In buona sostanza, dall’illecito contraffattorio non discende automaticamente la concorrenza sleale, che – dunque – deve constare di un
quid pluris rispetto alla pura violazione del segno o del brevetto, cioè di una modalità ulteriore afferente il fatto illecito >> p. 6/7

Marchio di servizio al limite della distintività ma registrato: BLACK BIRTHING BILL OF RIGHTS

L’appello amministrativo del USPTO riforma e registra il marchio <BLACK BIRTHING BILL OF RIGHTS>  per servizi offerti da una “non-profit entity promoting improvements in Black maternal and infant health care”.

Rigettata la domanda in primo grado amministrativo per carenza di distintività, viene invece accolta in secondo grado:

<<We agree with Applicant that the specimens show BLACK BIRTHING BILL OF RIGHTS is used in rendering the identified services, and identifies Applicant as the source of those services. See In re ICE Futures U.S. Inc., 85 USPQ2d 1664, 1669 (TTAB 2008) (noting that use in the “rendition” of services is an element of the “sale” of services under Section 45 of the Trademark Act). In particular, Applicant’s social media posts featuring the BLACK BIRTHING BILL OF RIGHTS promote Black maternal and infant health care and are directed to the public at large, including both expectant mothers and care givers.
Moreover, the fact that at least six other “Bill of Rights” marks have registered for
a variety of services—including one for “public advocacy to promote awareness of credit, debit and payment card processing practices”—suggests that there is nothing inherently unregistrable about these kinds of marks.
>>

E poi:

<< Here, Applicant is using the phrase BLACK BIRTHING BILL OF RIGHTS to identify its own activities promoting Black maternal and infant health care, as evidenced by the Instagram posts. That is, Applicant uses BLACK BIRTHING BILL
OF RIGHTS to speak directly to expectant Black women and health care providers
about Black maternal and infant health care rights. Applicant also is allowing others to use the phrase BLACK BIRTHING BILL OF RIGHTS as part of their campaigns to promote Black maternal and infant health care. The fact that Applicant allows  others to use BLACK BIRTHING BILL OF RIGHTS does not diminish its rights in the mark for its promotional and advocacy services. Indeed, Applicant’s “posting guidelines” for third-party use of the BLACK BIRTHING BILL OF RIGHTS seeks to
Serial No. 90581377 ensure that the proposed mark will be associated with Applicant’s efforts to promote Black maternal and infant health care >>

Tenuto però conto che il cuore del servizio è la promozione di alcuni diritti a favore di donne e bambini di colore, sembrerebbe difficile -se fosse da noi- evitare la scure di nullità rappresentata dall’art. 13.1.b del c.p.i.

La decisione è USPTO Trademark Trial and Appeal Board , In re National Association to Advance Black Birth  23 aogosto 2022, Serial No. 90581377.

(segnalazione e link da tweet della prof.ssa Alexandra J. Roberts)

L’atto di citazione di Moderna c. Pfizer Biontech per violazione dei brevetti sui vaccini anticovid

Il prof. Chiris Seaman mette a disposizione il link all’atto di citazione di Moderna contro Pzifer Biontech. (poi: PB) (caso Case 1:22-cv-11378 presso la corte del Distretto del Massachusetts, depositatato il 26 agosto).

<21.  Pfizer and BioNTech copied two critical features of Moderna’s patented mRNA technology platform. First, out of numerous possible choices, they decided to make the exact same chemical modification to their mRNA that Moderna scientists first developed years earlier, and which the Company patented and uses in Spikevax®. Second, and again despite having many  different options, the Pfizer and BioNTech vaccine encoded for the exact same type of coronavirus protein (i.e., the full-length spike protein), which is the coronavirus vaccine design that Moderna had pioneered based off its earlier work on coronaviruses and which the company patented and uses in Spikevax®. The Moderna inventions that Pfizer and BioNTech chose to copy were foun-dational for the success of their vaccine>

La domanda giudiziale è basata <<on three patents that claim priority to applications filed be-tween 2011 and 2016 covering Moderna’s foundational intellectual property, and the Company is seeking damages for revenue Pfizer and BioNTech derived from sales in the United States that are not subject to 28 U.S.C. § 1498 and from its domestic manufacture for supply to non-AMC 92 countries outside the United States>>.   Il che è poi dettagliato nei §§ 54 ss.

I vaccini PB son descritti ai § 72 ss

Le allegazioni sulle tre violazioni sono ai §§ 83 ss, 104 ss e 122 ss.

Curiosamente (ma comprensibilmente) Moderna chiede non misure ripristinatorie (inibitoria e ritiro dal commercio; misure “correttive” secondo il ns. art. 124 cpi),  ma solo  il risarcimento del danno (oltre all’accertamento della violazione).

L’azione in corte pare contrastare con l’impegno, assuntosi da Moderna nel 2020 (vedilo ad es. qui), di non far valere i suoi brevetti contro alcuno che li usasse per contrastare il vodic 19, finechè durasse la pandemia.

Moderna affronta l’obiezione e tenta gi giustificare la propria scelta:  <<22. Given the unprecedented challenges of the COVID-19 pandemic, Moderna volun-tarily pledged on October 8, 2020 that, “while the pandemic continues, Moderna will not enforce our COVID-19 related patents against those making vaccines intended to combat the pandemic.” Moderna refrained from asserting its patents earlier so as not to distract from efforts to bring the pandemic to an end as quickly as possible.

23.  By early 2022, however, the collective fight against COVID-19 had entered a new endemic phase and vaccine supply was no longer a barrier to access in many parts of the world, including the United States. In view of these developments, Moderna announced on March 7, 2022, that it expected companies such as Pfizer and BioNTech to respect Moderna’s intellectual  property and would consider a commercially-reasonable license should they request one. This announcement was widely publicized, including through coverage in TheWall Street Journal.5Critically, however, and to further its belief that intellectual property should never be a barrier to access, as part of this announcement, Moderna committed to never enforce its patents for any COVID-19 vaccine used in the 92 low- and middle-income countries in the Gavi COVAX Ad-vance Market Commitment (“AMC”). This includes any product manufactured outside the AMC-92 countries, such as the World Health Organization’s project in South Africa, with respect to COVID-19 vaccines destined for and used in the AMC-92 countries. Although they have contin-ued to use Moderna’s intellectual property, Pfizer and BioNTech have not reached out to Moderna to discuss a license>>

V. però la dettagliata critica di  Jorge L. Contreras per cui la dichiarzione 2020 di Moderna è giuridcamente vincolante e ora non può revocarla

Marchio complesso, look alike e risarcimento del danno

Trib. Torino con sent. 3930/2021 del 10.08.2021, RG 13800/2019, rel. La Manna, si sofferma su una contraffazione di marchio della nota azienda dolciaria CHOCOLADEFABRIKEN LINDT & SPRÙNGLI AG .
Si v. a p. 9 i marchi a confronto con fotografia a colori.

Giudizio sulla riprodiuzione dell’elemento figurativo principale (un drago) : <<Sulla base di tali criteri ritiene il Collegio che l’elemento figurativo utilizzato da Maja nelle proprie
confezioni relative ai prodotti per cui è causa sia contraffattivo del marchio attoreo attesa l’evidente
similitudine tra il drago contenuto nell’elemento circolare con la scritta facente riferimento alla casa
produttrice e alla data da cui la stessa sarebbe operativa. L’utilizzo del colore nero anzichè di quello oro
e la diversa configurazione del drago Maja rispetto a quello Lindt, nell’ottica di una valutazione
complessiva e globale, proprio in ragione della citata particolare capacità distintiva del marchio in
esame, non sono sufficienti, al fine di escludere che il consumatore medio della tipologia di prodotti per
cui è causa possa essere indotto in confusione nel raffronto tra i due elementi. La raffigurazione di un
drago, pur se disegnato diversamente da quello del marchio Lindt, inserito in un elemento circolare con
la scritta inserita è, di per sé solo, un elemento di significativo richiamo al marchio attoreo e di
conseguente possibilità di confusione tra i due elementi.
Per tali ragioni, quindi, la domanda di contraffazione deve essere ritenuta fondata con riferimento al
marchio complesso citato.
>>

Quanto al look alike, lo qualifica come imitazione servile e lo ravvisa nel caso de quo:

<<Ciò premesso in termini di principi generali si evidenzia che nella fattispecie in esame, come già
rilevato in sede cautelare, è ravvisabile un’ipotesi di
look alike. Risulta, infatti, evidente la forte
somiglianza tra le confezioni oggetto di causa, anche con riferimento alla confezione della variante
Pistacchio. Come chiaramente desumibile dalle immagini riportate, infatti, la somiglianza attiene tutti
gli elementi delle confezioni in esame, ovvero la forma della confezione a parallelepipedo con i lati
corti curvilinei, il cordino bianco posto come una maniglia nella parte superiore della scatola
trasversalmente tra il lato anteriore e quello posteriore della confezione, l’apertura a finestra con i
contorni curvilinei profilati in oro da cui si intravede l’uovo ricoperto di nocciole (nei prodotti
Nocciolato) protetto da una pellicola trasparente e avvolto in un nastro con un grande fiocco centrale, le
immagini sulle pareti laterali della scatola, la scritta Nocciolato di cui già si è detto, la figura del drago
inserita nell’elemento circolare con la scritta circostante. A proposito di tale ultimo elemento appare
chiaro, quindi, come la violazione del marchio complesso di cui sopra si è trattato si inserisce nel più
ampio contesto di imitazione dell’intera confezione relativa ai prodotti per cui è causa. E’, inoltre,
pacificamente emerso che le confezioni in esame venivano vendute in un mercato di Napoli a fianco a
quelle dell’attrice e che nello spaccio della convenuta Brusa venivano anche vendute le uova di Pasqua
a marchio Caffarel sempre prodotte dal Lindt, circostanze, queste, significative nella valutazione del
look alike in quanto costituiscono un’ulteriore circostanza da cui desumere la possibilità di
associazione tra i due prodotti da parte del consumatore.
Né vale affermare che tale rischio di associazione potrebbe essere scongiurato dalla differenza di
prezzo tra i due prodotti avendo la giurisprudenza già chiarito l’irrilevanza, ai fini della confondibilità
tra due prodotti, delle differenze di prezzo (in tal senso Tribunale Milano 14.7.2006, Tribunale Milano
17.7.2006)
>>

La retroversione degli utili: << Infine, ai sensi dell’art. 125 c.p.i., comma 3, il titolare danneggiato può chiedere il risarcimento del danno nella forma alternativa della restituzione degli utili del contraffattore. La retroversione degli utili può cumularsi al danno emergente e può essere chiesta o in via alternativa
al risarcimento del mancato guadagno o nella misura in cui gli utili del contraffattore superino il suddetto pregiudizio subito
>>. Errore: la restituzione degli utili non è una forma di risarcimento del danno: è pena privata.

Ma il g. lo  intuisce subito sotto: << La retroversione degli utili ha una causa petendi diversa, autonoma e alternativa rispetto alle fattispecie
risarcitorie di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 125. Ci si trova di fronte non ad una mera e tradizionale
funzione esclusivamente riparatoria o compensativa del risarcimento del danno, nei limiti del
pregiudizio subito dal soggetto danneggiato, ma ad una funzione, se non propriamente sanzionatoria,
diretta, quantomeno, ad impedire che il contraffattore possa arricchirsi mediante l’illecito consistito
nell’indebito sfruttamento del diritto di proprietà intellettuale altrui
>>

Il caso Gianni Rivera c. RCS: tra right of publicity , libertà di informazione e data protection

Cass. sez. 1  n. 19.515 del 16 giugno 2022 decide il ricordo nella lite RCS c. Gianni Rivera.

Il noto calciatore e poi parlamentare aveva lamentato la diffusione abusiva della sua immagine inserita in un DVD e poi in medagliette.

La SC regola solo la prima fattispecie (l’altra era stata processualmente abbandonata).

Le foto inserite nel DVD rigurardavano : << 7. … Una, menzionata in ricorso e materialmente incorporata nella memoria illustrativa, raffigura R.G. che scende dall’aereo brandendo la Coppa intercontinentale appena vinta (cfr ricorso, pag.14, penultimo capoverso).

Un’altra, menzionata in ricorso, raffigura R.G., insieme ad altri noti calciatori della (OMISSIS) dell’epoca, M.S., D.S.G. e I.A., in un ritiro della Nazionale (cfr ricorso, pag.13, primo paragrafo); un’altra ancora (sempre in ricorso, pag.13, primo paragrafo) lo ritrarrebbe presumibilmente nel corso di un’intervista; nulla si sa di più preciso, salvo la connotazione descrittiva in negativo operata dalla sentenza impugnata (esclusione della raffigurazione di R. in azione di gioco o in divisa da calciatore).>>

Per la SC , che riforma la decisione di appello, il contesto era legato al settore di provenienza della notorietà e dunque la pubblicazione rispettata gli art. 10 cc – 97 l. aut.       A nulla c’entra che Rivera fosse in abito civile anzichè in tenuta sportiva, come vorrebbe la corte di appello.

L’affermazione è esatta, anche se quasi scontata: è ovvio che i due contesti sopra indicato rientrino nell’ambito di lecita riproduzione ex art. 97 l. aut.

In particolare: <<Il punto è quindi se la notorietà di un personaggio possa essere rigorosamente delimitata allo stretto ambito delle attività in cui si è inizialmente delineata e da cui è emersa. ,…

18. Il Collegio conviene con il Procuratore generale che non si tratta di addivenire a una lettura estensiva dell’art. 97 L.d.a., ma più semplicemente di diagnosticare e riconoscere l’ambito della notorietà effettivamente raggiunta da un personaggio pubblico e il correlativo spazio di operatività della deroga prevista dalla legge alla necessità del consenso del personaggio ritratto.

19. Pare tuttavia eccessivo spingersi sino a sostenere che i ritratti fotografici dei personaggi dello sport, come pure quelli dei protagonisti della musica di consumo o del cinema, per limitarsi ai casi esemplificati nella requisitoria del Procuratore generale, possano essere divulgati, senza il loro consenso, anche in contesti del tutto avulsi da quelli che hanno reso noti tali personaggi.

Occorre pur sempre verificare non solo il rispetto del decoro, della convenienza e della reputazione, ma anche quello della sfera di riservatezza che la persona ritratta ha inteso legittimamente proteggere dalle ingerenze altrui.

20. Il Collegio ritiene dunque che la corretta applicazione dell’esimente dell’art. 97 L.d.a. renda lecita la divulgazione di ritratti fotografici di personaggi famosi non solo allorché essi siano raffigurati nell’espletamento dell’attività specifica che li ha consegnati alla pubblica notorietà (vale a dire: per lo sportivo l’attività agonistica, per il cantante l’esibizione sul palco, per l’attore la recitazione in scena), come troppo restrittivamente perimetrato dalla Corte milanese, ma anche quando la fotografia li ritrae nello svolgimento di attività accessorie e connesse, che rientrano nel cono di proiezione della loro immagine pubblica e quindi nella sfera di interesse pubblico dedicato dalla collettività alla loro attività.

Vi rientrano pertanto certamente le fotografie che ritraggono un noto calciatore in partenza o al rientro per una competizione sportiva, o mentre esibisce un trofeo vinto, o nell’atto di rilasciare a un giornalista una intervista legata alla sua attività, o ancora insieme ad altri calciatori, per di più se in un ritiro organizzato dalla sua squadra o dalla (OMISSIS).

Ipotesi tutte in cui l’atleta, pur non indossando la divisa e non praticando attualmente il proprio sport, viene raffigurato in stretta connessione con l’ambito di attività per cui ha conseguito la notorietà, e in cui è oggetto di interesse da parte del pubblico proprio in quanto sportivo noto.

E’ evidente che nei casi esemplificati l’interesse del pubblico è rivolto proprio al personaggio sportivo, per vedere come gioisca dei propri trionfi, come si relazioni con la stampa specializzata, come si prepari alle partite e come si rilassi dopo di esse, come interagisca con altri atleti famosi: per personaggi di quel calibro non si può circoscrivere la notorietà all’ambito originario da cui è germinata (nel caso il calcio) per escludere situazioni in cui l’atleta viaggia, parla con altri calciatori, o appare in pubblico in abiti borghesi ma in connessione con la propria attività.

Per giunta, la diversa interpretazione, troppo restrittiva dell’art. 97 L.d.a., accolta dalla Corte milanese, dovrebbe valere anche per la stampa ordinaria, come osserva persuasivamente la ricorrente.>>

Resta invece fuori dall’ambito dell’esimente la fotografia del personaggio <<ritratto in occasioni private, prive di alcun collegamento, anche indiretto, con l’attività che ha determinato la celebrità e per le quali, del tutto lecitamente, il personaggio noto ha esercitato il diritto di ammantare di riservatezza, attraverso uno jus excludendi alios, la propria sfera privata>>.

Interessante è il punto sul se vi sia stato uso commerciale dell’immagine, annosa questione: <<22. Nella fattispecie, inoltre, l’immagine di R.G. non è stata utilizzata a fini pubblicitari e promozionali, che non possono essere desunti meccanicamente dalla natura imprenditoriale dell’attività di RCS.

Non bisogna infatti confondere la natura professionale dell’attività di cronaca informativa e documentazione didattico-culturale, che comporta la pubblicazione di informazioni e di immagini, con le finalità di utilizzo dell’immagine in senso stretto.

Altrimenti – come osserva efficacemente la ricorrente – si finirebbe per interdire l’esercizio stesso della cronaca giornalistica: suona assai convincente l’argomentazione della difesa di RCS che obietta che, così ragionando, le sarebbe stato interdetto pubblicare le foto anche sui quotidiani o settimanali del gruppo editoriale.

E difatti l’attività informativa, didattica e culturale, ben può essere rivolta anche con lo sguardo al passato, per raccontare e illustrare in modo organico vicende pregresse, e non solo con l’attenzione al presente per aggiornare sugli eventi in corso>>

Qui sarei meno sicuro, dipendendo dal contenuto del DVD: un record di immagini giustapposte senza approfondimento storico/sportivo, ad es., sarebbe lecito?

Tutela del made in italy e uso di segno di distintivo composto da nome italiano, pur se realizzato in Cina

Cass. 20.226 del 23.06.2022 , rel. Iofrida, giudica il se un cognome italiano su scarpe (o sul loro packaging?), ma realizzate in Cina (come attestato in piccolo all’interno), violi la disciplina del made inItaly posta dal c. 49 e 49 bis dell’art. 4, legge 350 / 2003.

C. 49: “costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. Per i prodotti alimentari,…. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 10.000 ad Euro 250.000“.

C. 49 : è reato <<l’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine, costituisce reato ed è punita ai sensi dell’art. 517 c.p.“. Si individua, in particolare, come falsa indicazione la stampigliatura “made in Italy” “su prodotti e merci non originari dell’Italia ai sensi della normativa Europea sull’origine” e come “fallace indicazione” quella in cui, “anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci”, vi sia l’uso di segni, figure, o quant’altro che “possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, fatto salvo quanto previsto dal comma 49 bis>>

Ebbene per la SC nel caso speifico ricorre la violazione del c. 49 bis:

<<Ora, nella specie, l’etichetta apposta sui prodotti oggetto di contestazione raffigurava il marchio italiano, un segno patronimico evocante la realizzazione ad opera di persona determinata che si sia avvalsa del know-how italiano in un settore di tradizionale e di rinomata produzione, “(OMISSIS)” (registrato nel Regno Unito), e non recava alcuna ulteriore indicazione idonea – in modo univoco – ad esteriorizzare che le calzature erano state importate dalla Cina.

E l’indicazione “made in China” stampigliata all’interno della tomaia, con minore visibilità del solito, non poteva certamente qualificarsi come un riferimento evidente e visibile immediatamente e quindi chiaro ed esplicito dal quale desumere, senza equivoci, la provenienza estera della merce controllata.

Ne deriva che l’opposizione del marchio aziendale con nome e cognome italiani, registrato, sulle confezioni, in assenza di diversa indicazione di origine e provenienza estera (precisamente cinese), integrava la fattispecie contestata trattandosi di condotta idonea a trarre in inganno il consumatore circa l’esatta origine geografica del prodotto.

La condotta ascritta alla Domolux avrebbe dovuto essere legittimamente sussunta in quella descritta nelle disposizioni richiamate come “fallace indicazione di origine e provenienza” dei prodotti in discorso, dal momento che la riportata indicazione non consentiva – indiscutibilmente -di comprendere che i prodotti industriali erano stati importati dalla Cina, così essendo – senza alcun dubbio – in grado di indurre in errore la platea dei consumatori sulla effettiva origine dei prodotti (cfr. Cass. 20982/2019, in fattispecie di analoga opposizione a sanzione amministrativa).>>

Nulla da eccepire.

Il risarcimento del danno da violazione di disegno comunitario e non registrato (ovvero: sull’art. 125 cod. propr. ind.)

Nella lite Diesel v. Zara, si pronuncia con sentenza 5877/2022 del 5 luglio 2022, Rg 22303/2022 il Trib. Milano, rel. Marangoni, con interessanti considerazioni .

Si tratta di sentenza determinativa del danno, dopo la precedente condanna generica .

1) la rinuncia alla iniziale di domanda di risarcimento del  danno, a favore di quella di retroversione degli utili ex 125 c.3 cpi, deve essere espressa. E tale non è l’espressione << “La quantificazione di tale danno dovrà avvenire ex art. 125 CPI, ovvero in funzione: 1) degli utili indebitamente realizzati dal violatore del diritto (retroversione degli utili);…” (pag. 24 atto di citazione) >>  usata in citazione (segue distinguo tra il risarcimento del danno e il trasferimento degli utili).

2) il mancato calo di fatturato dell’aggredito non esclude il danno: esso infatti può consistere nel suo mancato incremento: <<Nel caso di specie la commercializzazione dei prodotti ritenuti in contraffazione dei titoli di privativa
di pertinenza delle società attrici risulta essere stata eseguita dalle convenute su larghissima scala
internazionale, come dimostrano i dati innanzi riportati con particolare riguardo per il modello di
jeans
ritenuto in contraffazione.
Tali dati pongono dunque in diretta evidenza la sussistenza di un danno a carico delle parti attrici, che
hanno quantomeno sofferto una effettiva diminuzione del potenziale delle loro vendite dei prodotti
originali per effetto della larga diffusività dell’attività delle società convenute oltre che un effetto di
diluizione delle caratteristiche peculiari dei modelli (registrati e non) ritenuti contraffatti.
Seppure sia evidente che non si possa presumere che ogni vendita realizzata dal contraffattore sia una
vendita non realizzata dal titolare del diritto, in ogni caso la valutazione dei dati di vendita conseguiti
dalle convenute appare elemento importante ai fini di valutare l’entità del danno risarcibile
>>.

Non è però chiaro dove stia la <diretta evidenza>

3) Non è pertinente estendere la ctu al bilancio consolidato, perchè qui ci son dati troppo generici in quanto non riferiti ai prodotti contraffatti e inoltre largamente riferiti a vendite extra UE : <<Invero l’utilizzazione a tali fini del bilancio consolidato di gruppo – secondo il CTU – non sarebbe
possibile in quanto il livello di approssimazione cui la sua analisi condurrebbe risulterebbe troppo
elevato, posto che nel bilancio consolidato non sono riportate informazioni atte a determinare la
marginalità di ciascuna linea di prodotto o addirittura – come per il caso di specie – relative ad un
singolo prodotto. Il bilancio consolidato mostra infatti la migliore rappresentazione economicopatrimoniale e finanziaria dell’andamento di un gruppo ma sono solo i bilanci separati di ciascun
soggetto ad esso appartenente – che mantiene comunque la sua autonomia giuridica e contabile –
rappresentano l’attività della società stessa.
Inoltre, senza disporre delle informazioni di dettaglio utilizzate per la formazione del bilancio
consolidato non sarebbe possibile identificare e quindi isolare anche significativi effetti dovuti alle
interessenze di terze economie, oltre ai rapporti infragruppo, con il rischio dunque di utilizzare elementi
informativi non congruenti con lo scopo dell’analisi proposta dalle parti attrici, posto che tale
strumento appare predisposto e finalizzato ad altri fini informativi e rappresentativi del gruppo stesso.
A tali considerazioni possono aggiungersi ulteriori elementi critici rispetto alla possibilità di
determinare un MOL consolidato riferibile ai soli due prodotti in contestazione (di cui il sandalo appare
peraltro avere avuto una diffusione del tutto minima).
Va infatti rilevato che il gruppo Zara ha una vastissima diffusione mondiale attraverso le sue numerose
società controllate, dislocate nei vari Paesi europei ed extraeuropei. Esso opera in decine e decine di
mercati diversi ed anche
online.
Ciò comporta logicamente che per una grandissima parte dei mercati ove essa opera tramite le sue
controllate – e cioè per i Paesi extraeuropei – la vendita dei prodotti contestati si sarebbe svolta in
assenza di diritti delle società attrici validamente opponibili, tenuto conto del perimetro di territorialità
proprio dei titoli europei ritenuti violati che è necessariamente limitato agli Stati membri dell’Unione
Europea. Di conseguenza gli utili conseguiti dalle società controllate aventi sede ed operatività al di
fuori dell’Unione Europea non potrebbero essere inclusi nei benefici (illeciti) conseguenti all’attività di
contraffazione
>>.

4) vanno addebitate alla capogruppo (operava come centrale di acquisto)  non solo le sue vendite alle comntrollate, ma anche quelle operate dalle controllate nelle successive fasi di commercializzazione. Va infatti ravvisata una compartecipazine agli illeciti commessi dalle controllate (ex art. 2055 cc, direi: ma il Trib. non lo menziona): << Tale orientamento appare nel caso di specie fondato sulla considerazione che la società capogruppo
INDUSTRIA DE DISENO TEXIL SA ha materialmente posto in essere la fase iniziale dell’illecito –
acquisendo in maniera centralizzata i prodotti contraffatti e provvedendo alla loro distribuzione in sede
locale tramite le società controllate – e che pertanto il suo contributo ha posto in essere una causa
immediata e diretta anche degli ulteriori danni derivanti dalla distribuzione dei prodotti al consumatore.
Pare particolarmente evidente nel caso di specie l’esistenza di un’unità di comportamento sul mercato
tra società madre e società controllate, posto che – oltre al rapporto di controllo azionario – sussiste un
centro unitario decisionale (la centrale d’acquisto costituita da INDUSTRIA DE DISENO TEXIL SA)
cui corrisponde una correlativa unità di imputazione delle scelte strategiche e dei comportamenti attuati
dai vari appartenenti al gruppo al di là della forma giuridica autonoma che comunque la giurisprudenza
comunitaria non ritiene ostativa all’applicazione delle norme sulla concorrenza (si veda in particolare
Corte di Giustizia CE, causa C-724/17, sentenza 14 marzo 2019, Skanska Industrial Solutions, che
seppure emessa in un contesto relativo a pratica anticoncorrenziale ha affermato che la responsabilità
civile conseguente appare comunque riconducibile a tutte le società che costituiscono una “
unità
economica”
, secondo una teoria dell’unità economica che risulta ormai consolidata in ambito europeo).
La parzialità dei dati a disposizione del Tribunale – che non possono obbiettivamente essere oggetto di
ulteriori integrazioni ed approfondimenti che risulterebbero per il numero delle società coinvolte di
estrema complessità e di esito sostanzialmente incerto – consente tuttavia di provvedere alla
liquidazione del danno “…
in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle
presunzioni che ne derivano”
(art. 125, comma 2 c.p.i.
>>

L’avatar può essere riprodotto in giocattoli fisici, senza consenso del suo creatore?

La piattaforma Roblox (v. sito web), creatrice di mondi virtuali e avatar, cita in giudizio l’impresa di HonkKong WowWee per aver messo in vendita giocattoli riproducenti (quasi in toto) gli avatar della propria piattaforma.

Aziona copyright, marchio, concorrenza sleale (anche il c.d. trade dress) e  violazioni contrattuali.

E’ disponibile in rete (post di NeerMcd su Twitter) l’atto introduttivo in cui la domanda giudiziale è spiegata in dettaglio e quindi pure il funzionamento della piattaforma Roblox : si presenta dunque di un certo interesse.

Il punto allora è non tanto  se il personaggio solo digitale sia tutelabile con marchio e/o diritto di autore (certamente si), quanto se lo sia solo contro riproduzioni nel medesimo contesto digitale oppure anche nel mondo fisico.

La risposta dovrebbe essere anche qui positiva: il mondo digitale è solo un mercato dal punto di vista ordinamentale, in nulla diverso da quello fisico, per cui l’esclusiva anche in esso opera. Con poche differenze, a ben vedere, da ogni creazione letteraria che -magari in modalità seriale- può riuscire e creare un proprio “mondo”, che però non sfugge alle regole giuridiche generali. Semplicemente oggi questo mondo ideal-fantastico può essere più variegato , anche grazie all’interazione con i clienti/utenti resa possibile da digitalizzazione e internet.

Rumble v. Google su abuso di posizione dominante ai danni di concorrente (art. 2 Sherman Act): decisione interlocutoria

Il distretto nord della California con sentenza 29 luglio 2022 , Case 4:21-cv-00229-HSG , Rumble c. Google interviene sull’oggetto con decisione processuale non definitiva.

Lo ricorda Glenn Greenwald in Scheerpost.com il 30.07.2022.

Rumble è una piattaforma di condivisione video (amatoriali e professionali) assai cresciuta di recente: viene quindi naturalmente ostacolata da Youtube/Google.

E’ interessante l’allegazione fattuale di Rumble circa la modalità con cui G. la ostacola:

<< First, by manipulating the algorithms (and/or other means and
mechanisms) by which searched-for-video results are listed, Google
insures [sic] that the videos on YouTube are listed first, and that those
of its competitors, such as Rumble, are listed way down the list on the
first page of the search results, or not on the first page at all.

Second, by pre-installation of the YouTube app (which deters smart phone
manufacturers from pre-installing any competitive video platform
apps) as the default online video app on Google smart phones, and by
entering into anti-competitive, illegal tying agreements with other
smartphone manufacturers to do the same (in addition to requiring
them to give the YouTube app a prime location on their phones’
opening page and making it not-deletable by the user), Google assures
the dominance of YouTube and forecloses competition in the video
platform market
>>

E’ pure interessante la precisazione sui contratti di Google con gli Android-based mobile smart device manufacturers and distributors to ensure its monopoly of the video platform market :

<< Plaintiff alleges that once an Android device manufacturer signs an anti-forking agreement,
Google will only provide access to its vital proprietary apps and application program interfaces if
the manufacturer agrees: “(1) to take (that is, pre-install) a bundle of other Google apps (such as its
YouTube app); (2) to make certain apps undeletable (including its YouTube app); and (3) to give
Google the most valuable and important location on the device’s default home screen (including
for its YouTube app).”
Id. ¶ 85. As another example, Plaintiff asserts that “Google provides a
share of its search advertising revenue to Android device manufacturers, mobile phone carriers,
competing browsers, and Apple; in exchange, Google becomes the preset default general search
engine for the most important search access points on a computer or mobile device.”
Id. ¶ 86.
“And, by becoming the default general search engine, Google is able to continue its manipulation
of video search results using its search engine to self-preference its YouTube platform, making
sure that links to videos on the YouTube platform are listed above the fold on the search results
page.”
Id.; see also id. ¶¶ 161–72 (alleging that Google’s revenue sharing agreements allow it to
maintain a monopoly in the general search market and online video platform market).
Plaintiff alleges that Defendant uses these agreements “to ensure that its entire suite of
search-related products (including YouTube) is given premium placement on Android GMS
devices.”
Id. ¶ 149. Rumble alleges that the agreements “effectuate a tie” that “reinforces
Google’s monopolies.”
Id. ¶ 151. Specifically, Plaintiff alleges that Defendant provides “Android
device manufacturers an all-or-nothing choice: if a manufacturer wants Google Play or GPS, then
the manufacturer must also preinstall, and in some cases give premium placement to, an entire
suite of Google apps, including Google’s search products and Google’s YouTube app.”
Id.
Plaintiff alleges that “[t]he forced preinstallation of Google’s apps (including the YouTube app)
deters manufacturers from preinstalling those of competitors, including Rumble’s app. . . . [and]
forecloses distribution opportunities to rival general search engines and video platforms,
protecting Google’s monopolies.”
Id. Moreover, Plaintiff alleges that “[i]n many cases” the
agreements expressly prohibit the preinstallation of rival online video platforms, like Rumble.
See
id.
¶ 87.
According to Plaintiff, Defendant’s “monopolist’s stranglehold on search, obtained and
maintained through anticompetitive conduct, including tying agreements in violation of antitrust
laws, has allowed Google to unfairly and wrongfully direct massive video search traffic to its
wholly-owned YouTube platform” and therefore secure monopoly profits from YouTubegenerated ad revenue.
Id. ¶ 176. Plaintiff alleges that because “a very large chunk of that video
search traffic . . . should have rightfully been directly to Rumble’s platform,” Plaintiff and content
creators who have exclusively licensed their videos to Rumble “have lost a massive amount of ad
revenue they would otherwise have received but for Google’s unfair, unlawful, exclusionary and
anticompetitive conduct.”
Id >>

Ancora, <<without real dispute, Plaintiff has adequately alleged a Section 2 claim. First, it alleges that Defendant obtained and maintains monopoly power in the online video platform market, asserting that YouTube controls 73% of global online video activity. Id. ¶ 37, 63, 193.   And second, Plaintiff alleges among other things that Defendant, with no valid business purpose or benefit to users, designs its search engine algorithms to show users YouTube links instead of links to its competitors’ sites. Id. ¶ 71; see also ¶¶ 68-74. According to Plaintiff, “Rumble and consumers (e.g. content creators) are disadvantaged, and competition is harmed, in the defined market because Google provides self-preferencing search advantages to its wholly-owned YouTube platform as a part of its scheme to maintain its monopoly power, and to reap a
monopolist’s financial rewards.”
>>

G. avanza un’interessante teoria (inreressante sarebbe capure quale la ragione distratgegia processuale) per cui la domanda avveraria sarebe in realtià triplice in quanto concernernebbe tre vioalzioni. Deduce che due di queste sono inmfomndante e chiede alla corte di procedere solo sulla terza e di chiudere invece il processo sulle prime due.

La Corte rigetta questa istanza processuale

Ancora liti sulla responsabilità del provider per contenuti illeciti postati dai suoi utenti

Trib. Roma sent. n. 11672/2022 del 21 luglio 2022, RG 86854/2016, rel. G. Russo, caso Rojadirecta, affronta la ormai risalente questione relativa alla fornitura di link a siti web ove son presenti illecite riproduzioni di programmi Mediaset (per lo più partite di calcio nazionali o europee).

Fa valere il diritto d’autore , quale licenziatario,  e diritti connessi, tra cui art. 79 l. aut., oltre a marchi e conccorenza sleale.

I convenuti invocano il safe harbour ex artt. 13-17 d. lgs. 70 del 2003.

Sul server sub iudice ci sono solo link di utenti, non contenuti postati dai titolari stessi: però con link organizzati in modo preciso, come riferisce il ctu:

<< Nel dettaglio si tratta di “un motore di ricerca di diversi eventi
sportivi con la possibilità di visualizzare gli eventi stessi secondo
un ordine cronologico”
. Il gestore del portale organizza tali
informazioni, inclusi i
link ai contenuti illeciti, secondo un ordine
cronologico e quindi compiendo un’attività di indicizzazione e
catalogazione su base cronologica degli eventi, che necessariamente
presuppone un controllo diretto su tutte le informazioni così
indicizzate ed organizzate. Tanto è confermato dal fatto che il CTU
riconosce che la gestione tecnica della piattaforma consente di
“organizzare il calendario eventi mediante controllo della corretta
esecuzione degli script automatici garantendo la completezza dello
stesso”
(cfr. pag. 12).
Lo stesso CTU poi riferisce (cfr. ancora pag. 12) che
“nella
versione corrente del sito l’utente visualizzatore può: 1) Visionare
eventi sportivi in diretta; 2) Scaricare o guardare interi eventi
passati (si viene girati su di un thread del forum); 3) Visionare
degli spezzoni più importanti di eventi passati; 4) Andare sul forum
http://forum.rojadirecta.es”
.
Il “forum di discussione”, che i convenuti dichiarano di
gestire/controllare direttamente, è tutt’altro che uno spazio
neutrale: tramite questo
forum, infatti, vengono condivisi “le
pratiche di utilizzo e i siti di file sharing per scaricare eventi
passati”
(cfr. pag. 11 Relazione Tecnica del CTU).
Per quanto evidenziato dal consulente d’ufficio (cfr. pag. 84 della
Relazione Tecnica)
“pur non essendo presenti i contenuti sul sito
Rojadirecta, il calendario giornaliero degli eventi sportivi è da
sempre caratterizzato da un estrema completezza”
e “la
caratteristica di esaustività della lista degli eventi … è proprio
alla base del successo del portale e dei “cloni” attualmente in
circolazione”>>
.

La sentenza è poco rigorosa.

Liquida la questione del link in due parole ritenendolo illecito ex sentenze Corte di Giustizia UE Renckoff, C-161/2017, che nulla c’entra, e Stichting Brein contro Jack Frederik Wullems, C-527/17.  Ignora però il dibattito teorico per cui il link è solo un indicazione e non può essere ritento compartecipe dell’illecito.

Poi, non è chiara sull’interpretazione delle due ipotesi di esimente ex art. 16.1 d. lgs. 70 del 2003 (<< Sul punto è bene precisare che le due ipotesi prese in
considerazione dalla disposizione di legge sono tra loro
alternative, nel senso che è sufficiente che non ricorra anche una
sola di esse affinché il
provider non sia esente da responsabilità >>):  è vero che sono legate da una disgiuntiva implicita (esplressa nella dir. UE: v. art. 14 dir. 31-2000) ma regolano due fattispecie concrete diverse.

Ancora , erra laddove osserva: << Ebbene la CGUE ha affermato che, anche
in riferimento al semplice prestatore di un servizio
dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni
fornite da un destinatario del servizio medesimo (cd.
hosting
passivo), va esclusa l’esenzione di responsabilità prevista
dall’art. 14 della Direttiva, 31/2000 quando lo stesso
“dopo aver
preso conoscenza, mediante un’informazione fornita dalla persona
lesa o in altro modo, della natura illecita di tali dati o di attività
di detti destinatari abbia omesso di prontamente rimuovere tali dati
o disabilitare l’accesso agli stessi”
, così sancendo il principio
secondo il quale la conoscenza, comunque acquisita (non solo se
conosciuta tramite le autorità competenti o a seguito di esplicita
diffida del titolare dei diritti) dell’illiceità dei dati
memorizzati fa sorgere la responsabilità civile e risarcitoria del
prestatore di servizi (sentenza del 23.03.2010, relativa alle Cause
riunite da C-236/08 a C-238/08 – Google cs. Louis Vuitton)
>>.   Erra perchè non distingue in modo chiaro tra perdita (non invocabilità) dell’esimente e affermazione di responsabilità.-

Infine, superficialmente segue la linea della rilevanza giuridica del concetto di hosting attivo, che invece è assai poco rigoroso (ns. critica in Albertini, LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEGLI INTERNET SERVICE PROVIDER PER I MATERIALI
CARICATI DAGLI UTENTI (CON QUALCHE CONSIDERAZIONE SUL RUOLO DI
GATEKEEPERS
DELLA COMUNICAZIONE, §§ 6 segg.), parlando di <cooperazione mediante omissione>.

Interessante per i pratici è però il calcolo del lucro cessante, basato sul numero di accessi , però ridotto (al 35 % ) passando al numero di ipotizzabili acquisti di diritti di visione di singoli eventi (stimati in euro 9 cadauno).

E’ liquidato pure un danno non patrimoniale equitativo di euro 50.000, non meglio motivato se non tramite il rif. al combinato disposto degli art. 185 c. pen. e art. 171 ter l. aut. (il reato)  e alla affermazine <<tenuto conto del tempo di protrazione della condotta e della natura della lesione che ha senz’altro compromesso l’immagine commerciale di parte attrice introducendo un elemento di forte dissuasione alla stipula od al rinnovo degli abbonamenti con evidenti ricadute anche sulla capacità di attrarre investimenti pubblicitari>>. Questo però ha a che fare con un pregiudizio totalmente patrimoniale! La questione del danno non patrimoniale per gli enti , commerciali soprattutto, è complicata ….