La responsabilità degli internet provider per violazioni IP: quella della piattaforma Cloudfare è negata

Secondo i titolari di diritto di autore su vestiti da nozze l’avvalersi della piattaforma Cloudfare per vendere prodotti contraffatti fa sorgere anche responsabilità di questa.

Lo nega la corte del nord Californa Case 3:19-cv-01356-VC del 6 ottobre 2021, MON CHERI BRIDALS c. Cloudfare.

secondo gli attori, <Cloudflare contributes to the underlying copyright infringement by providing infringers with caching, content delivery, and security services.>
Ma il controibutory infringement ricorre solo se <it “(1) has knowledge of
another’s infringement and (2) either (a) materially contributes to or (b) induces that infringement>.

la corte osserva: <Simply providing services to a copyright infringer does not qualify as a “material contribution.” Id. at 79798. Rather, liability in the internet context follows where a party “facilitate[s] access” to infringing websites in such a way that “significantly magnif[ies]” the underlying infringement. Perfect 10, Inc. v. Amazon.com, Inc., 508 F.3d 1146, 1172 (9th Cir. 2007); see A&M Records, Inc. v. Napster, Inc., 239 F.3d 1004, 1022 (9th Cir. 2001). A party can also materially contribute to copyright infringement by acting as “an essential step in the infringement process.” Louis Vuitton Malletier, S.A. v. Akanoc Solutions, Inc., 658 F.3d 936,  94344 (9th Cir. 2011) (quoting Visa International, 494 F.3d at 812 (Kozinski, J., dissenting)). >

Pertanto rigetta la domanda.

1 – Gli attori non hanno dato prova per cui una giuria possa dire <that Cloudflare’s performance-improvement services materially contribute to copyright infringement. The plaintiffs’ only evidence of the effects of these services is promotional material from Cloudflare’s website touting the benefits of its services. These general statements do not speak to the effects of Cloudflare on the direct infringement at issue here. For example, the plaintiffs have not offered any evidence that faster load times (assuming they were faster) would be likely to lead to significantly more infringement than would occur without Cloudflare. Without such evidence, no reasonable jury could find that Cloudflare “significantly magnif[ies]” the underlying infringement. Amazon.com, Inc., 508 F.3d at 1172. Nor are Cloudflare’s services an “essential step in the infringement process.” Louis Vuitton Malletier, 658 F.3d at 944. If Cloudflare were to remove the infringing material from its cache, the copyrighted image would still be visible to the user; removing material from a cache without removing it from the hosting server would not prevent the direct infringement from occurring. >

La questione della specificità (v. parole in rosso)  è importante -spesso decisiva- anche nel ns. ordinameto sul medesimo problema.

  1. nè Clouddfare rende più difficile l’0individuazione della contraffazione: <Cloudflare’s security services also do not materially contribute to infringement. From the perspective of a user accessing the infringing websites, these services make no difference. Cloudflare’s security services do impact the ability of third parties to identify a website’s hosting provider and the IP address of the server on which it resides. If Cloudflare’s provision of these services made it more difficult for a third party to report incidents of infringement to the web host as part of an effort to get the underlying content taken down, perhaps it could be liable for contributory infringement. But here, the parties agree that Cloudflare informs complainants of the identity of the host in response to receiving a copyright complaint, in addition to forwarding the complaint along to the host provider>.

Stranamente non si menziona la preliminare di rito (o pregiudiziale di merito?) della carenza di azione ex saharbour § 230 CDA: pareva invocabile.

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Software, decompilazione e tutela d’autore in sede europea (dopo le conclusioni dell’A.G., arriva la C.G.)

E’ messa la parola fine alla lite intorno al diritto di intervenire sul software quando sia necessario per rimediare ad errori, <<anche quando la correzione consista nel disattivare una funzione che incide sul corretto funzionamento dell’applicazione di cui fa parte il programma stesso.>>

Dopo le conclusioni 10.03.21 dell’avvocato generale accennate in mio post,  interviene la CG con sentenza 06.10.2021, C-13/20, Top System c. Stato belga.

La CG risponde positivamente al quesito del giudice belga: l’acquirente del software può decompilarlo quando necessario per rimediare ad errori e ciò  anche si deve  disattivarne un afunzione.

Interpretazione non molto difficile, peraltro: il concetto di <<correzione di errori>> (art. 5.1 dir. 1991 n. 250) porta tranquillamente a ciò.

Nè vi osta la disciplina sulla decompilazione ex art. 6 dir. cit., che si limita a regolarne un’ipotesi di liceità: non c’è alcun motivo per ritenerla l’unica (§§ 48-50). L’intepretazione complessiva degli artt. 5 e 6 lo conferma senza esitazione.

Ne segue che non ha alcuna base testuale nè logica pretendere per il caso di correzione degli errori i requisiti pretesi per la diversa ipotesi di decompilabilità ex citato art. 6.1 (§§ 68).

Tutto sommato decisione facile.

La CG accenna poi alla regolabilità contrattuale dell’evenienza di errori, § 66-67: non può portare all’esclusione totale del diritto di decompilazione. In altre parole questo è indisponibile, perchè posto da norma imperativa.

Infine sarà importante capire quando la decompilazione è realmente <necessaria> alla correzione.

La responsabilità risarcitoria da illecito concorrenziale (cartello vietato), accertato in capo alla società madre, si estende pure alla società figlia

Nella causa C-882/19, Sumal c. Mercedes, è arrivata la sentenza 06.10.2021 della corte di giustizia , dopo le conclusioni dell’AG (più articolate).

Il danneggiato ha azione anche verso la società figlia: questo il responso.

Questioni pregiudiziali, § 15:

«[1])      Se la dottrina dell’unità economica che deriva dalla giurisprudenza della stessa [Corte] giustifichi l’estensione della responsabilità della società madre alla società figlia oppure se tale dottrina si applichi solo ai fini di estendere la responsabilità delle società figlie alla società madre.

[2])      Se la nozione di unità economica debba essere estesa nell’ambito dei rapporti infragruppo facendo esclusivamente riferimento a fattori relativi al controllo o se possa fondarsi anche su altri criteri, tra cui il fatto che la società figlia abbia potuto trarre beneficio dalle infrazioni.

[3])      Nel caso in cui sia riconosciuta la possibilità di estendere la responsabilità della società madre alla società figlia, quali siano i relativi requisiti.

[4])      Se la risposta alle precedenti questioni fosse favorevole a riconoscere l’estensione alle società figlie della responsabilità delle società madri per le condotte poste in essere da queste ultime, se sia compatibile con tale orientamento [della Corte] una norma nazionale, come l’articolo 71, paragrafo 2, della [legge sulla tutela della concorrenza], che contempla unicamente la possibilità di estendere la responsabilità della società figlia alla società madre, purché sussista una situazione di controllo della società madre sulla società figlia».

Risposta (sulla 2 e 3):

<<48   … un’entità giuridica che non sia indicata in tale decisione come autrice dell’infrazione al diritto della concorrenza può nondimeno essere sanzionata per il comportamento illecito di un’altra persona giuridica allorché tali persone giuridiche facciano tutte e due parte della stessa entità economica e formino così un’impresa, che è l’autrice dell’infrazione ai sensi del citato articolo 101 TFUE (…)

49      Infatti, la Corte ha già dichiarato che il rapporto di solidarietà che unisce i membri di un’unità economica giustifica in particolare l’applicazione della circostanza aggravante della recidiva nei confronti della società madre sebbene quest’ultima non sia stata oggetto di precedenti procedimenti, che hanno dato luogo a una comunicazione degli addebiti e a una decisione. In una situazione del genere, appare determinante il precedente accertamento di una prima infrazione derivante dal comportamento di una società figlia con la quale detta società madre, coinvolta nella seconda infrazione, formava, già all’epoca della prima infrazione, una sola impresa ai sensi dell’articolo 101 TFUE (…)

50     Di conseguenza, nulla osta, in linea di principio, a che la vittima di una pratica anticoncorrenziale proponga un’azione di risarcimento danni nei confronti di una delle entità giuridiche che costituiscono l’unità economica e, pertanto, dell’impresa che, commettendo una violazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, abbia causato il danno subito da tale vittima.

51     Pertanto, ..  la vittima di tale infrazione può legittimamente cercare di far valere la responsabilità civile di una società figlia di tale società madre anziché quella della società madre, conformemente alla giurisprudenza citata al punto 42 della presente sentenza. La responsabilità della società figlia in parola può tuttavia sorgere solo se la vittima prova, sulla base di una decisione adottata in precedenza dalla Commissione in applicazione dell’articolo 101 TFUE, o con qualsiasi altro mezzo, in particolare qualora la Commissione abbia taciuto su tale punto in detta decisione o non sia stata ancora chiamata ad adottare una decisione, che, tenuto conto, da un lato, dei vincoli economici, organizzativi e giuridici di cui ai punti 43 e 47 della presente sentenza e, dall’altro, dell’esistenza di un legame concreto tra l’attività economica di tale società figlia e l’oggetto dell’infrazione di cui la società madre è ritenuta responsabile, la suddetta società figlia costituiva un’unità economica con la sua società madre.

52     Dalle considerazioni che precedono risulta che una siffatta azione di risarcimento danni proposta nei confronti di una società figlia presuppone che il ricorrente provi (…) i vincoli che uniscono tali società menzionati al punto precedente di quest’ultima, nonché il legame concreto, di cui al medesimo punto, tra l’attività economica di tale società figlia e l’oggetto dell’infrazione di cui la società madre è stata ritenuta responsabile. Pertanto, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, la vittima dovrebbe dimostrare, in linea di principio, che l’accordo anticoncorrenziale concluso dalla società madre per il quale essa è stata condannata riguarda gli stessi prodotti commercializzati dalla società figlia. Così facendo, la vittima dimostra che è proprio l’unità economica cui appartiene la società figlia, insieme alla sua società madre, che costituisce l’impresa che ha effettivamente commesso l’infrazione previamente accertata dalla Commissione ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, conformemente alla concezione funzionale della nozione di «impresa» accolta al punto 46 della presente sentenza.

53   (…)  54    A questo proposito, detta società figlia deve poter confutare la sua responsabilità per il danno lamentato, in particolare facendo valere qualsiasi motivo che avrebbe potuto dedurre se fosse stata coinvolta nel procedimento avviato dalla Commissione nei confronti della sua società madre, che ha portato all’adozione di una decisione della Commissione che constata l’esistenza di un comportamento illecito contrario all’articolo 101 TFUE (public enforcement).

55   Tuttavia, per quanto riguarda la situazione in cui un’azione di risarcimento danni si basa sulla constatazione, da parte della Commissione, di un’infrazione all’articolo 101, paragrafo 1, TFUE in una decisione rivolta alla società madre della società figlia convenuta, quest’ultima non può contestare, dinanzi al giudice nazionale, l’esistenza dell’infrazione così accertata dalla Commissione. Infatti, l’articolo 16, paragrafo 1, del regolamento n. 1/2003 prevede, segnatamente, che quando le giurisdizioni nazionali si pronunciano su accordi, decisioni o pratiche rientranti nell’ambito di applicazione dell’articolo 101 TFUE che sono già oggetto di una decisione della Commissione, non possono prendere decisioni che siano in contrasto con la decisione adottata dalla Commissione>>.

L’eccezione di sperimentazione (c.d. eccezione Bolar) verso il brevetto inventivo ex art. 68.1.b cod. propr. ind.

L’ecczione alla privativa brevettuale posta c.d di sperimetnazione o occezione Bolar da un noto caso giudiziario è cos’ discipolinata dalll’arty. 68.1.b:

<<1. La facolta’ esclusiva attribuita dal diritto di brevetto non si estende, quale che sia l’oggetto dell’invenzione:

a) ..

b) agli studi e sperimentazioni diretti all’ottenimento, anche in paesi esteri, di un’autorizzazione all’immissione in commercio di un farmaco ed ai conseguenti adempimenti pratici ivi compresi la preparazione e l’utilizzazione delle materie prime farmacologicamente attive a cio’ strettamente necessarie; >>

L’interessante questione sub iudice è quella del se l’eccezione copra solo il futuro produttore che chiederà l’AIc oppure anche eventuali terzisti incaricati dal produttore stesso, che non ha il tempo o le risorse per provvedere in proprio alla sperimentazione.

La corte di appello di Milano 08.06.2021, n. 1785/2021-Rg 858/2019, Sicor-Teva c. Boheringer, confermando la decisione di primo greado, ha così statuito:

– L’art. 68.1.b cpi << è  volta  a  conferire  una  maggiore rapidità nell’ingresso dei farmaci generici sul mercato, poiché il genericista non è obbligato a portare a termine tutti gli studi clinici atti a dimostrare l’efficacia e la sicurezza del prodotto, basandosi sugli  studi  già  effettuati  in  relazione  al  farmaco  di  riferimento,  il  cd.  originator.  Tuttavia, non sono esclusi, per il genericista, gli studi di bioequivalenza, idonei a dimostrare che il medicinale generico ha la stessa efficacia terapeutica ed analoghi effetti collaterali dell’originator.   Per questa ragione, l’art. 10, comma IX del D. lgs.    n.    219/06  stabilisce  che  gli  studi  necessari  per  consentire  al  genericista  la procedura abbreviata non comportano pregiudizio alla proprietà industriale>>;

<< il  giudice  di  primo  grado,  pur  dando  conto  del  carattere  eccezionale  che contraddistingue la disposizione citata, a tutela della privativa industriale brevettuale, ha valorizzato la finalità delle sperimentazioni necessarie ad introdurre farmaci generici sul mercato in tempi relativamente rapidi.  Nel tentativo, dunque,  di contemperare le opposte esigenze, del titolare della privativa e  del genericista, il  giudice di  prime  cure   ha  ritenuto  che la clausola  Bolar   non possa  applicarsi ai meri produttori/rivenditori di principio attivo:  “a    coloro, cioè,   che svolgano un’attività di sperimentazione e produzione non  finalizzata ex  ante  all’ottenimento  di  un’AIC,  bensì  finalizzata  ad  ottenere    il prodotto/principio attivo oggetto della privativa e ad offrirlo  in  vendita ad altri; in questi casi, invero, la  produzione/offerta del prodotto è obiettivamente slegata  dalla  finalità  di  ottenere  un’AIC  ed  il  profitto  che  il  produttore  ricava  dalla vendita  dello  stesso  è  la  remunerazione  di  un’attività  di  studio  e  produzione, offerta e pubblicizzazione, ovvero di un’attività  di sfruttamento commerciale del principio brevettato avvenuta senza alcuna copertura della scriminante”.   Sempre  in  un’ottica  teleologica,  il  giudice  di  prime  cure  ha  ritenuto  che  i genericisti  privi  delle  necessarie  attrezzature  tecnologiche  e  competenze  possano rivolgersi  a  terzi  produttori  del  principio  attivo  per  richiedere  un’attività  di produzione e di consegna, da ritenere legittima in quanto funzionale all’ottenimento di un’AIC. 25.

La  Corte  reputa  corretta  tale  interpretazione,  che  costituisce  a  tutti  gli  effetti  un valido compromesso tra la libertà di iniziativa economica in un settore particolarmente significativo per la collettività mondiale e la necessaria tutela del titolare della privativa. Ed è dunque nel solco dell’attività  di  produzione  e  di consegna  dietro  specifica  richiesta  del  genericista  che  il  terzo  produttore  può muoversi  senza  trasmigrare  nell’ambito  della  commercializzazione  e  della pubblicizzazione  del  prodotto.        In altri termini, ciò significa che l’attività  del terzo  produttore,  non  potendo  essere  svincolata  da  una  specifica  richiesta  del genericista,    non  può    comprendere  una  vera  e  propria  attività  di  marketing, perché  il  concetto  di  marketing  si  pone  in  evidente  contrasto  con  le    finalità sperimentative  e registrative tipiche dell’eccezione  consentita dalla disposizione legislativa;  come,  del  resto,  anche  la  produzione  del  principio  attivo  in  quantità svincolate da una specifica richiesta e, perciò  stesso, neppure ex ante controllabili (come anche infra spiegato).   Ebbene, Sicor e Teva – che non hanno impugnato in maniera specifica l’interpretazione della disposizione nei termini sopra esposti – si sono  limitate  ad affermare che sarebbe “irrealistico” pensare che un produttore di  principi  attivi  inizi  a  sviluppare  il  processo  di  produzione  di  un  principio soltanto dopo aver ricevuto richiesta da un genericista, proprio perché, in tal caso, egli  non  sarebbe  mai  in  grado  di  soddisfare  tempestivamente  tale  richiesta  (cfr. atto di citazione in appello, I  cpv,  pag. 22).   Coerentemente, Sicor e Teva hanno ammesso nei propri atti di aver avviato le attività di produzione e pubblicizzazione del tiotropio prima ed indipendentemente da una specifica richiesta  ed  incarico  da  parte  di  una  società  genericista  (cfr.  pagg.  20  –  21  della comparsa conclusionale delle appellanti), in contrasto proprio con l’interpretazione pure estensiva ammessa dal giudice di prime cure. 26. Poste queste premesse di ordine generale, occorre passare in rassegna le obiezioni sollevate  dalle  parti  appellanti  e  ritenute  non  adeguatamente  valorizzate  dal Tribunale, alla  luce delle quali la  produzione  del principio attivo dovrebbe ritenersi  coperta  e  avallata  dalla  clausola  Bolar.    Le  impugnanti,  infatti,  hanno evidenziato  di  aver  sempre  avvertito  i  genericisti  di  poter  vendere  soltanto  per finalità Bolar, come, del resto, risultava dal sito internet.  Non avendo adeguatamente valorizzato tale circostanza, il giudice di prime cure aveva dunque errato.  Parimenti non era stato considerato il fatto che la stessa Sicor, pur avendo chiesto  ed  ottenuto  da  AIFA  un’autorizzazione  alla  produzione  del  tiotropio bromuro  a  fini  di  sola  sperimentazione  anche  clinica  e  per  mero  errore  avendo invece ottenuto l’autorizzazione a fini commerciali, si era poi attivata  per  far riscontrare detto errore, come risultava dai documenti nn.  34 – 3d.  27. La  Corte  premette  che  concorda  con  l’interpretazione  proposta  dal  giudice  di prime cure, sulla base della quale il mero inserimento del prodotto nel sito internet costituisce  espressione  della  nota  attività  di  marketing,  funzionale  a  catturare l’attenzione dei possibili clienti genericisti>>.

Il passaggio chiave è <dietro  specifica  richiesta  del  genericista> 

E’ infine interessante la discussione infatto sul se nel caso specifico ricorresse tale requisito o se invece il c.d. terzista avesse messo in vendita i propri risultati sperimentali.

Copia privata su server in cloud ed equo compenso in diritto di autore

Interviene l’avvocato generale (AG) , C-433/20, 23.09.2021, Austro-Mechana Gesellschaft  c. Strato AG sulla questione del se la copia privata, memorizzata in cloud tramite apposito servizio,  costituisca <immissione in commercio di supporto di registrazione> che obbliga al pagamento dell’equoo compenso ex art. 5.2.b Dir. UE 29 del 2001 e disposizione austriaca attuativa .

Questioni sottoposte (§ 22):

«(1)      Se la nozione “su qualsiasi supporto” di cui all’articolo 5, paragrafo 2, lettera b), della direttiva [2001/29] debba essere interpretata nel senso che essa include anche i server di proprietà di terzi, i quali mettono ivi a disposizione di persone fisiche (clienti) a fini privati (e non per scopi di lucro diretti o indiretti) uno spazio di archiviazione, che i clienti utilizzano per effettuare riproduzioni mediante archiviazione («cloud computing»).

(2)      In caso di risposta affermativa: se la disposizione citata nella prima questione debba essere interpretata nel senso che essa si applica ad una normativa nazionale in base alla quale l’autore ha diritto ad un equo compenso (compenso per supporto di registrazione):

–        qualora debba presumersi che di un’opera (trasmessa a mezzo radio, messa a disposizione del pubblico ovvero trasferita su un supporto di registrazione prodotto a fini commerciali), vengano effettuate, in considerazione della sua natura, riproduzioni a fini personali o privati, mediante memorizzazione su un “supporto di registrazione di qualsiasi tipo idoneo a riproduzioni di tal genere e immesso in commercio nel territorio nazionale”,

–        e nel caso in cui, a tal fine, venga impiegato il metodo di archiviazione descritto nella prima questione».

Sulla prima lAG risponde posirivamente: la dir. comprende anche i supporti usati non tramite l’esercizio del dir. di proprietà sulla res ma solo fruendo del servizio di cloud hosting., spt. § 35 ss

La risposta era qui abbastanza semplice.

E’ invece più difficile, come intuibile, rispondere alla seconda (anche perchè la domanda è mal posta: la UE non può dire se la disposizione è interpretabile o no in un certo modo ma se una certa disposizione -o, al limite,  una sua interpretazione- è o meno compabitile con il diritto UE). Il precedente di riferimento in tema di copia privata è naturalmente la sentenza del 2010  nel caso Padawan, C-467/08.

La premessa è che la dir. nell’art. cit. vuole che l’eccezione << di cui all’articolo 5, paragrafo 2, lettera b), di tale direttiva non sia in contrasto con lo sfruttamento normale (58) dell’opera o degli altri materiali protetti e non arrechi ingiustificato pregiudizio agli interessi legittimi (59) del titolare.>>, § 64.

Il che, applicato al caso de quo, porta l’AG a … non giudicare la disposizione interna austriaca per mancanza di dati istruttori sull’entità di danno che la non imposizione nel caso de quo produrrebbe ai titolari dei dirtitti , rinviando dunque al giudice a quo. Bisogna infatti prima capire, dire,  se un equo compenso derivi ai titolati già da smartphone o altri devices, tal che l’imposizione pure sulla riproduizione in cloud risulti eccessiva

Precisamente: <<70.     A mio avviso, data la natura necessariamente imprecisa dei prelievi forfettari sui dispositivi o sui supporti, occorre essere prudenti prima di associare tali prelievi forfettari ad altri sistemi di remunerazione o di innestarvi altri prelievi per i servizi cloud senza condurre preventivamente uno studio empirico in materia – e senza stabilire, in particolare, se l’uso combinato di tali dispositivi/supporti e servizi arrechi un danno aggiuntivo ai titolari dei diritti – in quanto ciò potrebbe dar luogo a una sovracompensazione e alterare il giusto equilibrio tra titolari dei diritti e utenti di cui al considerando 31 della direttiva 2001/29.

71.      Inoltre, se non si tiene conto della riproduzione/memorizzazione nel cloud, vi può essere il rischio di sottocompensare il danno arrecato al titolare dei diritti. Tuttavia, poiché l’upload e il download di contenuti protetti dal diritto d’autore sul cloud mediante dispositivi o supporti potrebbe essere classificato come un unico processo ai fini della copia privata, gli Stati membri hanno la possibilità, alla luce dell’ampio potere discrezionale di cui dispongono, di istituire, se del caso, un sistema in cui l’equo compenso è corrisposto unicamente per i dispositivi o i supporti che costituiscono una parte necessaria di tale processo, purché ciò rifletta il pregiudizio arrecato al titolare del diritto dal processo in questione.

72.      In sintesi, quindi, non è dovuto un prelievo o un contributo separato per a riproduzione da parte di una persona fisica a fini personali basata su servizi di cloud computing forniti da un terzo, purché i prelievi pagati per i dispositivi/supporti nello Stato membro in questione riflettano anche il pregiudizio arrecato al titolare del diritto da tale riproduzione. Se uno Stato membro ha infatti scelto di prevedere un sistema di prelievo per i dispositivi/media, il giudice del rinvio è in linea di principio legittimato a presupporre che ciò costituisca di per sé un «equo compenso» ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2001/29, a meno che il titolare del diritto (o il suo rappresentante) possa dimostrare chiaramente che tale pagamento sia, nelle circostanze del caso di specie, inadeguato.

73.      Questa valutazione – che richiede una notevole competenza economica e a conoscenza di numerosi settori – deve essere effettuata a livello nazionale dal giudice del rinvio>>

Da noi la disposizione di riferimento è l’art. 71 sexiex l. aut.

La proprietà intellettuale, cui non si applica il safe harbour ex 230 CDA, comprende pure il right of publicity

Una giornalista vede la propria immagine riprodotta illecitamente in Facebook e nel social Imgur, cui portava un link presente in Reddit.

Cita tute le piattaforme per violazione del right of publicity (r.o.f.) ma queste invocano il § 230 CDA.

Il quale però non si applica alla intellectual property (IP) (§ 230.e.2).

Per le piattaforme il right of publicity è altro dall ‘ IP e dunque il safe harbour può operre.

La pensa allo stesso modo il giudice di primo grado.

Per la corte di appello del 3° circuito, invece, vi rientra appieno: quindi il safe harbour non opera (sentenza Hepp c. Facebook, Reddit, Imgur e altri, N° 202725 & 2885, 23.09.2021)

I dizionari -legali e non- alla voce <intellectual property> indirettamente comprendono il r.o.f. (p. 18-19): spt. perchè vi includono i marchi, cui il r.o.f. va assimilato.

(sub D infine il collegio si premura di chiarire che non ci saranno conseguenze disastrose da questa presa di posizine, apparentemente contro la comunicazione in internet via piattaforme)

(testo e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Anche il Regno Unito nega il brevetto all’invenzione generata da intelligenza artificiale (sul caso Thaler-DABUS)

la corte di appello UK , 21.09.2021, caso No: A3/2020/1851, Thaler c. COMPTROLLER GENERAL OF PATENTS TRADE MARKS AND DESIGNS, a maggioranza conferma il rigetto della domanda brevettuale.

La lunga battaglia processuale del dr. Thaler in  molti Uffici brevettuali e tribunali, sparsi nel mondo, segna un’altra battuta di arresto (si v. quella di inizio mese in Virginia USA, ricordata nel mio post di ieri).

Secondo i giudici Arnold e Laing, nè DABUS è inventore (deve esserlo un umano) nè Thaler (poi: T.) ha indicato un titolo (derivativo o altro) per essere indicato lui come tale.

J. Birss concorda sul primo punto , ma non sul secondo: secondo lui  i) T. ha in buona fede  indicato chi secondo lui è l’inventore, § 58, e ii) quale costruttore della macchimna , gli spetta -per accessione, direi- il diritto sull’output della stessa e cioè l’esclusiva brevettuale, § 82 (J. Arnold nega l’invocabilità dell’accession doctrine: § 130 ss).

Quanto ad ii) non mi pronuncio, se non per dire che l’applicazine dell’accession agli intangibles è ammissibile pur se in base al criterio analogico (essendo indubbiamente dettata dal diritto positivo per le res) .

Quanto ad i), c’è un palese errore. La sec. 13.2.a del patent act, laddove dice <<identifying the person or persons whom he believes to be the inventor  or inventors>>, intende si l’indicazione di chi secondo il depositante è l’inventore, ma sempre purchè sia persona fisica

Invenzione ad opera di intelligenza artificiale: chi è l’inventore? Altra pronuncia provocata da StephenThaler (ma a lui sfavorevole)

Anche la corte distrettuale est della Virginia si occupa del chi è l’inventore nel caso di invenzione generata tramite intelligenza artiticiale (AI).

Si tratta della sentenza 2 settembre 2021, caso Case 1:20-cv-00903-LMB-TCB, Thaler c. Hirshfekld come rappresentante del USPTO-United States Patent and Trademark Office (fonte _ the Verge, notizia reperita in Serrano, gizmodo.com.au).

Il giudice conferma il rigetto dela domanda brevettuale, avvenuto in sede amministrativa.

la definizione di inventore è  : The term “inventor” means the individual or, if a joint invention, the individuals collectively who invented or discovered the subject matter of the invention ( tit. 35 US code § 100, lettera f; così pure la lettera g).

Quindi in domanda, dovendosi indicare l’inventore, si deve indicare un individuo e cioè una persona fisica.

Ciò sia per interpretazione letterale (p. 9 ss) sia per per insufficiente prova dell’allegazione del dr. Thaler per cui motivi di policy (id est interpretazione teleologica: favorire l’innovazione) sosterrebbero la sua tesi e contasterebbero quella dell’ufficio , p. 15

L’embedding di altrui post Instagram non costituisce comunicazione al pubblico

Secondo il Tribunale del northern district della california, 17.09.2021, Hunley e altri c. Instagram, caso 21-cv-03778-CRB, inserire nel proprio sito una fotografia latrui reperita su Instagram con lo strumento “embedding tool” non costituisce <display> e dunque non viola il diritto <<to display the copyrighted work publicly; >> (§ 106.5 del 17 US code).

Ciò sulla base di una interpretazione dei concetto di copy , di fixed e di display posta dalla decisione del 2007 Perfect 10 v. Amazon, secondo cui <<an “image is a work that is ‘fixed’ in a tangible medium of expression, for purposes of the Copyright Act, when embodied (i.e., stored) in a computer’s server (or hard disk, or other storage device).” Id. (internal quotation marks omitted). If a website publisher does not “store” an image or video in the relevant sense, the website publisher does not “communicate a copy” of the image or video and thus does not violate the copyright owner’s exclusive display right. Id.  This rule is known as the “server test.”>>.

Deicsione assai opinabile per un doppio passaggio logico di dubbia fondatezza:

i) che la legge sia interpretabile come dice Perfect 10 (ma qui -probabilmente- opera in prima battuta il vincolo del precedente, proprio della common law);

ii) che Perfect 10 sia interpetabile come dice il giudice californiano de quo

Infatti nessuna delle due fonti dice che lo storage del convenuto debba avvenire sui propri PC . Allora si può desumerne che per entrambi è ammssibile che la violazione avvenga con fissazione su PC di terzi , di cui il convenuto abbia per qualche motivo (lecito o illecito) il controllo . Come nel caso de quo, ove l’embedding fa rimanere il post fisicamente sui server di Instagram.

Violazione di marchio e concorrenza sleale tramite metatags illeciti

Una corte californiana decide una causa di marchio basata sul presunto illecito uso di marchio altrui nei metatags del proprio sito (a fini di maggior propria visilità nei risutlati dai search engines, evidentemetne).

Ci stratta di US D.C. central district of California, 13 luglio 2021, Case 2:20-cv-00423-RGK-KS , Reflex media c. Luxy (notizia e link dal blog di Eric Goldman).

Nonostante il maggior motore dica di aver smesso di usare i metatags come criterio per il ranking  (v. voce in wikipedia, sub Origine), è tutto da verificare se ciò sia vero.

In ogni caso il contenzioso non manca,

Nel caso in oggetto la corte ravvisa sufficiente plausibilità di fondatezza della domanda e , rigettando l’istanza to dismiss dei convenuti, la fa prosegjuire nel merito.

Si v. soprattuto i cenni all’initial interest confusion: infatti poi  l’utente arriva nel sito del concorrente , ove i segni distintivi di questo dovrebbero escludere confusione.