Ingannevolezza e malafede in un marchio denominativo/figurativo davanti all’EUIPO

La Commissione di Ricorso allargata dell’EUIPO il 2 marzo 2020 (procedimento R1499/2016-G, marchio n° 012043436) ha deciso su un’istanza di nullità relativa al marchio <<La Irlandesa 1943> qui riprodotto

I motivi di nullità sono due : ingannevoleezza del segno e malafede al momento del deposito. Ciò secondo l’articolo 59 Paragrafo 1 , lett .a-b, del reg. 1001 del 2017 (naturalmente per l’ingannevolazza il riferimento è poi all’art. 7 lett. g) del medesimo reg.)

L’ingannevolezza

Per la commissione tale nullità presuppone <<l’accertamento di un inganno effettivo o di un rischio sufficientemente grave di inganno del consumatore>> § 25

La commissione poi richiama la Direttiva sulle pratiche commerciali sleali e la definizione Ivi presente di ingannevolezza, paragrafo 26. Non è però spiegato il motivo del richiamo, probabilmente per recepire questa nozione nel diritto dei marchi. Sarebbe stato meglio però un passaggio argomentativo specifico.

la Commissione poi precisa che, una volta accertato un inganno effettivo o un rischio sufficientemente grave di inganno del consumatore, <<diventa irrilevante che il marchio richiesto possa essere percepito in un modo che non sia ingannevole. In effetti, in seguito, il marchio può indurre in ogni caso in errore il pubblico e non è pertanto in grado di assolvere il proprio ruolo, ossia quello di garantire la provenienza dei prodotti e dei servizi cui esso fa riferimento. (..) Come confermato dal Tribunale, l’articolo 7, paragrafo 1, lettera g), RMUE, può applicarsi anche quando è possibile un uso non ingannevole del marchio in questione>> § 27-28

Nel caso specifico si trattava di latticini di provenienza dell’Irlanda e venduti in Spagna. Il rapporto di distribuzione commerciale era proseguito per molti anni ma era poi cessato. Nonostante ciò, l’ex distributore spagnolo aveva chiesto la registrazione del marchio europeo in questione.

Il marchio è descritto ai paragrafi 29-33 (v. anche la foto riprodotta sopra) e la commissione conclude al paragrafo 33 che c’è un richiamo diretto tra il marchio e l’origine geografica (difficilmente contestabile).

 La Corte conclude che il marchio è ingannevole e che lo era già al momento del deposito, paragrafo 34.

La prova sta nel fatto che le merci non provengono dall’Irlanda, come si desume dal fatto che nel catalogo complessivo dell’imprenditore spagnolo non c’è alcun prodotto di origine irlandese, paragrafo 36/39

La commissione aggiunge che il titolare del marchio contestato poteva utilizzare i prodotti in modo ingannevole (probabilmente si riferisce la dichiarazione integrative), ma che però non ha compiuto alcuno sforzo in tal senso (paragrafo 42).

A nulla del resto vale invocare precedenti dell’ufficio, paragrafo 46. Da un lato infatti bisogna che siano pertinenti e, dall’altro, <<l’applicazione dei principi della parità di trattamento e di buona amministrazione deve, però, essere conciliata con il rispetto del principio di legalità. Pertanto, la persona che chiede la registrazione di un segno come marchio non può invocare a suo vantaggio un’eventuale disparità commessa a suo favore o a beneficio altrui al fine di ottenere una decisione identica>>, § 46. In breve, eventuali errori passati non possono essere invocati per ottenerne la ripetizione.

Il marchio è quindi ingannevole e va dichiarato Nullo, paragrafo 48

Per curiosità si possono vedere le difese del titolare ai paragrafo 5 e 9.

La malafede

L’art. 59 § 1 recita così: <<Su domanda presentata all’Ufficio o su domanda riconvenzionale in un’azione per contraffazione, il marchio UE è dichiarato nullo allorché: a) …….; b) al momento del deposito della domanda di marchio il richiedente ha agito in malafede>>

La commissione ricorda che la legge non definisce il concetto e dunque va ricostruito dal decidente. Malafede va allora ravvisata <<laddove emerga da indizi pertinenti e concordanti che il titolare di un marchio dell’Unione europea ha presentato la domanda di registrazione di tale marchio, non con l’obiettivo di partecipare in maniera leale al gioco della concorrenza, ma con l’intenzione di pregiudicare, in modo non conforme alle consuetudini di lealtà, gli interessi di terzi, o con l’intenzione di ottenere, senza neppur mirare ad un terzo in particolare, un diritto esclusivo per scopi diversi da quelli rientranti nelle funzioni di un marchio, in particolare la funzione essenziale di indicare l’origine»>>Paragrafo 51

Si noti che, sebbene la malafede consista nel precedere il titolare del diritto alla registrazione e quindi costituisca illecito nei confronti di un soggetto determinato,  si tratta però di nullità assoluta, paragrafo 50 (v. anche in fine).

Inoltre <<l’intenzione del richiedente al momento pertinente è un elemento soggettivo che deve essere determinato con riferimento alle circostanze oggettive del caso di specie>>Paragrafo 51 e 55

Il giudizio richiesto sulla malafede prevede che si debbano valutare <<tutti i fattori pertinenti propri del caso di specie esistenti al momento del deposito della domanda di registrazione di un RMUE, in particolare: i) il fatto che il richiedente sapeva o avrebbe dovuto sapere che un terzo utilizzava, in almeno uno Stato membro, un segno identico o simile per un prodotto o servizio identico o simile e confondibile con il segno di cui è stata chiesta la registrazione; ii) l’intenzione del richiedente di impedire a detto terzo di continuare a utilizzare un siffatto segno e iii) il grado di tutela giuridica di cui godevano il segno del terzo ed il segno di cui veniva chiesta la registrazione>>, § 52 .

Inoltre si può anche tenere conto <<dell’origine del segno contestato e del suo utilizzo a partire dalla sua creazione, della logica commerciale nella quale si inserisce il deposito della domanda di registrazione del segno come marchio dell’UE nonché della cronologia degli avvenimenti che hanno caratterizzato la sopravvenienza di detto deposito>>, paragrafo 54

L’intenzione del richiedente può dedursi anche dalla situazione oggettiva di conflitto di interessi in cui la richiedente il marchio si è trovata adoperare paragrafo 56. Nel caso specifico può infatti essere dedotta dal concreto operato del titolare del marchio prima del deposito dalle relazioni contrattuali precontrattuali o postcontrattuali in vigore con la controparte oppure da altri doveri di lealtà scaturenti dall’aver ricoperto cariche particolari all’interno dei rapporti commerciali , paragrafo 56

In sintesi la malafede <<è connessa … ad una motivazione soggettiva della persona che presenta una domanda di registrazione di marchio, vale a dire a un’intenzione fraudolenta o ad altro motivo ingannevole. Essa implica un comportamento che si discosta dai principi riconosciuti come caratterizzanti un comportamento etico o dalle leali consuetudini in materia industriale o commerciale>>Paragrafo 57

Il richiedente sapeva bene che il Marchio era ingannevole, avendo subito già decisioni sfavorevoli all’inizio degli anni 2000 per marchi sostanzialmente uguali a quello sub judice, paragrafo 63. Inoltre gioca anche il fatto che c’è stato un rapporto di distribuzione commerciale per oltre 30 anni, paragrafo 65.

Pertanto <<in considerazione della summenzionata cronologia degli eventi, è chiaro che il primo marchio (spagnolo) «LA IRLANDESA» della titolare del MUE ha avuto origine dal rapporto contrattuale tra le parti. Non si tratta di un marchio che nasce indipendentemente da questa relazione commerciale, ma è direttamente associato all’origine irlandese dei prodotti che la titolare del MUE era stata autorizzata a vendere in Spagna dalla seconda richiedente la nullità. Si può pertanto concludere, come sostenuto dalle richiedenti la nullità, che il marchio contestato è stato inizialmente creato e depositato dalla titolare del MUE nell’ambito della relazione commerciale tra le parti e che il suo scopo iniziale era pertanto quello di distinguere gli alimenti venduti dalla titolare del MUE aventi origine irlandese>>, paragrafo 67

Le prove hanno evidenziato che non c’è più legame con l’origine irlandese § 68: per cui era irragionevole commercialmente depositare il marchio sub-judice paragrafo 69

Visto poi che la richiedente non ha giustificato sotto il profilo economico commerciale quel tipo di marchio, emerge dagli atti <<che la titolare del MUE abbia intenzionalmente chiesto la registrazione del marchio contestato per generare un’associazione con l’Irlanda e continuare a beneficiare dall’attività svolta durante la loro relazione commerciale, con l’intenzione e allo scopo di ottenere un indebito vantaggio dall’immagine di cui godono i prodotti irlandesi>>Paragrafo 70.

E dunque, ricordando che l’intenzione di Malafede va desunto anche da Fattori oggettivi, nella fattispecie i fattori oggettivi <<derivano dall’utilizzo, in modo ingannevole, del marchio contestato e dalle decisioni pronunciate in precedenza dalla corte spagnola e dall’EUIPO, nonché dalla pregressa relazione commerciale, ora conclusa, con la seconda richiedente la nullità. In considerazione di queste circostanze particolari, è possibile concludere che la titolare del MUE, nel depositare il MUE contestato, intendeva continuare a ingannare il pubblico circa l’origine geografica dei prodotti e trarre vantaggio dalla buona immagine dei prodotti irlandesi, così come faceva quando la relazione con la seconda richiedente la nullità era ancora in corso>> § 72.

Una siffatta condotta falsa misura rilevante il comportamento economico dei consumatori paragrafo 73.

In conclusione dunque <<è possibile accertare l’intenzione fraudolenta della titolare del MUE al momento del deposito del marchio contestato, ossia che esso è stato depositato deliberatamente allo scopo di generare un’associazione con l’Irlanda e, quindi, è stato depositato in malafede >> § 74

Il punto più interessante di questa decisione riguarda il rapporto tra malafede ingannevolezza. Il motivo della malafede, pur essendo sostanzialmente direzionato verso un concorrente determinato, è causa come detto di nullità assoluta e quindi dovrebbe trovare la sua ragione nella tutela dell’interesse generale (soprattutto dei consumatori).

Tuttavia di per sé la malafede (l’intenzione prava) non può essere semplicemente il voler frodare il pubblico, dal momento che questa fattispecie è meglio è governata da dal motivo di nullità della ingannevolezza. L’intenzione prava/malafede sembra proprio quella direzionata verso uno o più soggetti determinati, poer cui dovrebbeessere sanzionata da nullità relativa: ma il dato testuale è inequivoco.

La commissione accenna implicitametne a questo aspetto nel passaggio appena riportato: <<l’intenzione di pregiudicare (…) gli interessi di terzi, o con l’intenzione di ottenere, senza neppur mirare ad un terzo in particolare, un diritto esclusivo>> (§ 51). Se ne desume che la mala fede copre ogni caso di intenzione “fraudolenta”, sia che pregiudichi in via diretta un concorrente determinato (anzi, forse non necessariamente un concorrente: a ben vedere è un’appropriazione di pregi), sia che non ne pregiuridichi alcuno in via diretta.  Certo che nel secondo caso pare avere la medesima area concettuale dell’ingannevolezza.

L’elemento soggettivo per il “recupero” dei profitti in caso di violazione di marchi: si pronuncia la Corte Suprema USA

Si è pronunciata la Corte Suprema statunitense nel caso Romag Fasteners v. Fossil Group con sentenza 23 aprile 2020.

Romag e Fossil avevano stipulato un accordo, in base al quale Fossil avrebbe utilizzato nei suoi prodotti in cuoio le cerniere di Romag. Questa però scopri che le aziende, fornitrici la compoensitica a Fossil, usavano cinture contraffatte.

Pertanto Romag citò in giudizio Fossil ed altri suoi venditori per violazione di marchio, secondo il § 1125.a del 15 US Code.

La Corte a quo aveva respinto la domanda di riconoscimento di profitti, perché la giuria, pur accettando che Fossil avesse agito duramente (callously), aveva però negato che avesse agito dolosamente (willfully).

La S.C. respinge il ragionamento, dato che <a plaintiff in a trademark infringement suit is not required to show that a defendant willfully infringed the plaintiff’s trademark as a precondition to a profits award>, p. 1.

L’opinione è  scritta da giudice Gorsuch. La norma centrale è il § 1117(a) del cit. 15 US Code :

<When a violation of any right of the registrant of a mark registered in the Patent and Trademark Office, a violation under section 1125(a) or (d) of this title, or a willful violation under section 1125(c) of this title, shall have been established in any civil action arising under this chapter, the plaintiff shall be entitled, subject to the provisions of sections 1111 and 1114 of this title, and subject to the principles of equity, to recover (1) defendant’s profits, (2) any damages sustained by the plaintiff, and (3) the costs of the action>.

Ne segue, visto che l’attore aveva agito in base al § 1125.a, che nel caso specifico non è richiesta la willfulf violation, la quale invece è richiesta solo per l’azione in corte secondo la lettera c) del § 1125.

La Corte prosegue dicendo che in molti altri punti il Lanham Act richiede specificamente l’elemento soggettivo: per cui la mancanza della menzione di esso nella disposizione invocata e significativo, pagg. 3/4.

Ancora, il soggetto leso invoca i principi di equity, menzionati nella norma sopra citata.

Secondo la Corte, però, è implausibile che ciò possa modificare la scelta normativa del Congresso, che altrove -come detto- richiede espressamente l’elemento soggettivo, p. 4.

Inoltre dice la Corte è dubbio che i principi di equity possono riferirsi all’elemento soggettivo negli illeciti di marchio: ciò perchè di solito essi <contain transsubstantive guidance on broad and fundamental questions about matters like parties, modes of proof, defenses, and remedies….Given all this, it seems a little unlikely Congress meant “principles of equity” to direct us to a narrow rule about a profits remedy within trademark law>, p. 5.

E’ però strano che nel concetto di <principles of equity> non possa rientrare la disciplina dell’elemento soggettivo negli illeciti, che non è certo di secondaria importanza: dalle menzioni fatte, forse, per la Corte l’equity comprende prevalentemente regole processuali..

Secondo la Corte, poi, è tutt’altro che chiaro che la tradizione del diritto dei marchi richieda la dolosità, prima di concedere il rimedio dei profitti; ammette però che in dottrina il dolo da taluno è richiesto e che altre sentenze non sono chiare sul punto, pp. 5/6.

Alla fine dunque il massimo che si può dire con certezza è che <Mens rea figured as an important consideration in awarding profits in pre-Lanham Act cases. This reflects the ordinary, transsubstantive principle that a defendant’s mental state is relevant to assigning an appropriate remedy>,  pp. 6/7.

Alla luce di ciò, conclude la Corte, l’elemento soggettivo è sì importante per decidere se il rimedio dei profitti  sia appropriato: ma questo è molto diverso dal dire che  è una precondizione necessaria per il rimedio medesimo. Precisamente: <we do not doubt that a trademark defendant’smental state is a highly important consideration in determining whether an award of profits is appropriate. But acknowledging that much is a far cry from insisting on the inflexible precondition to recovery Fossil advances>, p.7.

Sembra dire, in altre parole, che non è un  requisito necessario, ma che va comunque tenuto in conto. Il che sembrerebbe confermato dalla brevissima opinione concorrente del giudice Alito: <The decision below held that willfulness is such a prerequisite. App. to Pet. for Cert. 32a. That is incorrect. The relevant authorities, particularly pre-Lanham Act caselaw, show that willfulness is a highly important consideration in awarding profits under §1117(a), but not an absolute precondition. I would so hold and concur on that ground>.

Affermazione , comunque, che a me risulta poco chiara (l’elemento soggettivo serve per decidere o l’an o il quantum del rimedio) e forse riposante sulla natura di judge-made law del diritto statunitense.

Nella sentenza si dice che anche il giudice Sotomayor abbia dato una concurring opinion e nelle conclusioni lo è. Però inserisce qualche considerazione dissonante dal ragionamento di J. Gorsuch, ad esempio: <The majority suggests that courts of equity were just as likely to award profits for such “willful” infringement as they were for “innocent” infringement. Ante, at 5–6. But that does not reflect the weight of authority, which indicates that profits were hardly, if ever, awarded for innocent infringement>.

Da noi il rimedio del recupero dei profitti (anzi meglio del trasferimento dei profitti, dal momento che non è affatto detto che si tratti di un recupero dell’indebito) è previsto dal Codice di proprietà industriale all’articolo 125 u. c. .

Questa disposizione però non menziona l’elemento soggettivo: c’è allora da chiedersi se dolo/colpa siano o meno necessari. La risposta è negativa, se si riconosce al rimedio de quo natura restitutoria o di arricchimento senza causa; positiva, se invece gli si riconosce natura punitiva.

Non è chiaro nemmeno il rapporto con il rimedio risarcitorio. Una soluzione potrebbe essere la cumulabilità con il risarcimento del danno subìto, ma solo per il supero, non in toto.  Se ad es. il danno subito è 150 e i profitti sono 80, nessun trasferimenti di profitti ma solo risarcimento del danno. Se invece quest’ultimo è di 150 e i profitti 210, allora sarà riconosciuti sia il danno di 150 sia profitti per 60 (la differenza). Oppure i due rimedi potrebbero essere cumulabili solo in sede processuale tramite domande alternative , chiedendo l’accoglimento di quella che porti ad un importo più elevato.

Da ultimo, la disposizione nazionale non spiega come si calcolino i profitti e cioè quali costi siano deducibili dai ricavi: aspetto tremendamente importante nella pratica.

Sull’argomento v. il mio saggio Restituzione e trasferimento dei profitti nella tutela della proprietà industriale.

Esiste il copyright sui tatuaggi? Un’interessante sentenza della Corte Distrettuale di New York

I fatti sono i seguenti. La ditta Solid Oak Sketches LLC (di seguito: l’attore) agisce in giudizio contro 2k Games Incorporated e contro Take-two Interactive Software Incorporated, del medesimo gruppo, (di seguito: i convenuti), affermando che costoro nei loro videogiochi riproducono illecitamente i tatuaggi impressi sul corpo dei giocatori, tatuaggi su cui l’attore vanterebbe un copyright-

La vertenza è stata decisa dalla Southern District Court di New York il 26 marzo 2020, giudice Laura Taylor Wayne.

I convenuti sviluppano e vendono videogiochi e annualmente rilasciano un videogioco, che raffigura le squadre della NBA, tra cui anche i singoli giocatori con i  loro tatuaggi, pagina 3

Secondo l’attore, i convenuti hanno violato i suoi diritti, diffondendo opere per i quali era l’attore a detenere il copyright : in particolare sui cinque tatuaggi dipinti sui giocatori (dell’NBA) Eric Bledsoe, LeBron James, and Kenyon Martin, p.3.

L’attore ha licenza esclusiva su ciascuno di questi tatuaggi. Tuttavia è accertato che non è autorizzato ad applicarli alla pelle delle persone nè gode di publicity Right o diritti di marchio sull’aspetto/immagine (likeness; di seguito: immagine) dei giocatori, pagina 3.

I giocatori , poi, avevano dato licenza sull’immagine ad NBA, con facoltà di cederlo a terzi : e NBA così ha fatto, cedendoli proprio a Take Two.

i giocatori avevano ceduto pure a Take-two direttamente il diritto di usare il loro immagine pagine 3/4 (era il medesimo diritto, quindi acquistato da Take-Two due volte?).

La sentenza è ben fatta, perché dettaglia le circostanze fattuali sub iudice: ad esempio a pagina 6 ss. descrive il videogioco e come vengono visualizzati in esso i tatuaggi.

A pagina 8/9 viene specificato che l’attore non è entrato nel mercato delle licenze dei tatuaggi nè ha mai creato un videogioco che li rappresenti nè ha dato licenze in tal senso: probabilmente per dire che non era in concorrenza con le convenute, a fini del fair use e in particolare del 4° fattore  (v. sotto).

La domanda attorea viene rigettata sostanzialmente per tre motivi: 1) uso de minimis; 2) licenze implicita, 3) fair use.

1) De minimis , p. 11

La Corte ricorda i requisiti per poter accogliere la difesa de minimis, menzionando precedente giurisprudenza:

<<“To establish that the infringement of a copyright is de minimis, and therefore not actionable, the alleged infringer must demonstrate that the copying of the protected material is so trivial ‘as to fall below the quantitative threshold of substantial similarity, which is always a required element of actionable copying.’” Sandoval v. New Line Cinema Corp., 147 F.3d 215, 217 (2d Cir. 1998) (quoting Ringgold, 126 F.3d at 74).

The quantitative component of a de minimis analysis concerns (i) “the amount of the copyrighted work that is copied,” (ii) “the observability of the copied work – the length of time the copied work is observable in the allegedly infringing work,” and (iii) factors such as “focus, lighting, camera angles, and prominence.” Ringgold, 126 F.3d at 75 (citing 4 Melville B. Nimmer & David Nimmer, Nimmer on Copyright §§ 13.03[A][2] (1997)). “[O]bservability of the copyrighted work in the allegedly infringing work” is fundamental to a determination of whether the “quantitative threshold” of substantial similarity has been crossed. Sandoval, 147 F.3d at 217>>

Viene precisato che la somiglianza sostfanziale (Substantial similarity) va determinata <<through application of the “ordinary observer test,” which considers “whether an average lay observer would recognize the alleged copy as having been appropriated from the copyrighted work.” Rogers v. Koons, 960 F.2d 301, 307 (2d Cir. 1992) (internal quotation marks omitted). In other words, the Court considers “whether the ordinary observer, unless he set out to detect the disparities, would be disposed to overlook them, and regard their aesthetic appeal as the same.” Id. at 307-08 (internal quotation marks omitted). Summary judgment may be granted on a de minimis use claim when “no reasonable trier of fact could find the works substantially similar” >>, p. 11-12.

A pagina 13 vengono poi indicati i fatti che portano a ravvisare il non superamento della soglia de minimis:

  • The Tattoos only appear on the players upon whom they are inked, which is just three out of over 400 available players. The undisputed factual record shows that average game play is unlikely to include the players with the Tattoos;
  • even when such players are included, the display of the Tattoos is small and indistinct, appearing as rapidly moving visual features of rapidly moving figures in groups of player figures;
  • furthermore, the Tattoos are not featured on any of the game’s marketing materials.
  • when the Tattoos do appear during gameplay (because one of the Players has been selected), the Tattoos cannot be identified or observed.
  • the Tattoos are significantly reduced in size: they are a mere 4.4% to 10.96% of the size that they appear in real life. The video clips proffered by Defendants show that the Tattoos “are not displayed [in NBA 2K] with sufficient detail for the average lay observer to identify even the subject matter of the [Tattoos], much less the style used in creating them.”

Per cui la conclusione è: <<while Plaintiff previously asserted that NBA 2K “employs the broad range of the video game’s features to focus, angle the camera on, or make the subject tattoos more prominent” (March Ord. at 7-8), Plaintiff has not proffered any evidence to support that proposition. The undisputed evidence of record shows that Defendants’ use of the Tattoos in NBA 2K falls below the quantitative threshold of substantial similarity.>> , p. 14.

2) Licenza implicita, p.  14 seguenti

I convenuti affermano di aver avuto una licenza implicita di raffigurare i tatuaggi come parte della licenza sull’immagine.

Anche questa difesa viene accolta: <<Here, the undisputed factual record clearly supports the reasonable inference that the tattooists necessarily granted the Players nonexclusive licenses to use the Tattoos as part of their likenesses, and did so prior to any grant of rights in the Tattoos to Plaintiff. According to the declarations of Messrs. Thomas, Cornett, and Morris,

(i) the Players each requested the creation of the Tattoos,

(ii) the tattooists created the Tattoos and delivered them to the Players by inking the designs onto their skin, and

(iii) the tattooists intended the Players to copy and distribute the Tattoos as elements of their likenesses, each knowing that the Players were likely to appear “in public, on television, in commercials, or in other forms of media.” (Declaration of Justin Wright (“Wright Decl.”), Docket Entry No. 133, ¶ 10.)

Thus, the Players, who were neither requested nor agreed to limit the display or depiction of the images tattooed onto their bodies, had implied licenses to use the Tattoos as elements of their likenesses. Defendants’ right to use the Tattoos in depicting the Players derives from these implied licenses, which predate the licenses that Plaintiff obtained from the tattooists.>>, p. 15

Si notino le tre circostanze sub i-ii-iii.

La Corte su questa eccezione conclude dunque: <<Therefore, Defendants had permission to include the Tattoos on the Players’ bodies in NBA 2K because the Players had an implied license to use the Tattoos as part of their likeness, and the Players either directly or indirectly granted Defendants a license to use their likenesses.>>, p. 16

3) Fair use counterclaim (corrisponde al nostro domanda/eccezione riconvenzionale)

La disposizione sul fair use è contenuta nel paragrafo 107 il capitolo 17 del US code che così recita:

<<Notwithstanding the provisions of sections 106 and 106A, the fair use of a copyrighted work, including such use by reproduction in copies or phonorecords or by any other means specified by that section, for purposes such as criticism, comment, news reporting, teaching (including multiple copies for classroom use), scholarship, or research, is not an infringement of copyright. In determining whether the use made of a work in any particular case is a fair use the factors to be considered shall include—

(1) the purpose and character of the use, including whether such use is of a commercial nature or is for nonprofit educational purposes;

(2) the nature of the copyrighted work;

(3) the amount and substantiality of the portion used in relation to the copyrighted work as a whole; and

(4) the effect of the use upon the potential market for or value of the copyrighted work>>.

Si notano i quattro requisiti che il giudice deve considerare, per decidere se ricorra o meno il fair use e che pure la Corte ha esaminato, uno per uno.

Circa 1),  pp- 17-19, la Corte ravvisa la natura transformative cioè elaborativa del uso dei tatuaggi. Si osservi il dettaglio fattuale con cui il giudice arriva a questa conclusione : dicendo d’esempio che i tatuaggi appaiono in una dimensione dal 4,4% al 10,96% della loro dimensione reale, pagina 18.

Circa 2) , la Corte osserva che tale fattore va così inteso: <<This factor “calls for recognition that some works are closer to the core of intended copyright protection than others, with the consequence that fair use is more difficult to establish when the former works are copied.” Blanch, 467 F.3d at 256 (internal quotation marks omitted). Courts consider two factors in evaluating whether the copyrighted work is of the nature that is conducive to fair use: “(1) whether the work is expressive or creative . . . or more factual, with a greater leeway being allowed to a claim of fair use where the work is factual or informational, and (2) whether the work is published or unpublished, with the scope for fair use involving unpublished works being considerably narrower.>>, p. 19.

E sulla base di ciò ravvisa il fair use, dato che :

– l’attore riconosce che i tatuaggi erano già stati in precedenza resi pubblici,

– i tatuaggi sono più factual che expressive perché ciascuno di essi riproduce oggetti comuni e che non avevano creato gli autori del tatuaggio, pagina 19 20. Cioè in pratica l’originalità è modesta.

– gli stessi autorui del tatuaggio avevano riconoscouto di aver copiato motivi comuni e diffuisi., p. 20

Circa 3), il giudice rileva che i tatuaggi erano stati sì copiati per intero, ma solo per creare l’elaborazione e cioè realizzare un’esperienza di gioco realistica: cosa non evitabile, se si voleva permettere questa possibilità elaborativa, pagina 21

Circa 4), la Corte esamina l’incidenza sul business dell’attore, p. 21-22-. Qui il giudice dice, da un lato, che l’uso elaborativo non incide sul business dell’opera originaria (non lo priva di significant revenue); dall’altro, che è improbabile che si sviluppi un mercato del  licensing per i tatuaggi nei videogiochi o in altri media.

Per questo accoglie pure la domanda riconvenzionale di fair use.

La proteggibiltià dei tatuaggi tramite diritto d’autore non è questione nuova.

Dalla sentenza si ricava che, sebbene la risposta sia astrattamente positiva, i tre fattori addotti (soglia de minimis, licenza implicita, fair use) faranno si che concretamente la protezione d’autore verrà concessa con molta difficoltà.

“Comunicazione al pubblico” in diritto d’autore e noleggio di veicoli equipaggiati con apparecchi radio

La Corte di Giustizia (d’ora in poi: CG) con una sentenza invero un po’ sbrigativa (molto più dettagliate le conclusioni 15.01.2020 dell’AG Szpunar) decide la questione pregiudiziale, relativa alla qualificabilità come <comunicazione al pubblico> del noleggio di autoveicoli equipaggiati con apparecchi radio. Si tratta della sentenza 2 aprile 2020 C-753/18, Stim e Sami contro Fleetmanager Sweden AB e Nordisk Biluthyrning AB.

Le collecting societies svedesi avevano agito contro due compagnie di autonoleggio per il recupero di diritti non pagati, relativi alla violazione del diritto d’autore: vioolazione che sarebbe consistita nel fatto che offrivano veicoli con autoradio capaci di captare il segnale, ciò che costituirebbe <comunicazione al pubblico>.

Le norme pertinenti sono l’articolo 3 della direttiva c.d. infosoc 2001/29 e relativo il considerando 27 nonchè la Direttiva 2006/115 articolo 8/2.

La questione pregiudiziale sollevata dalla corte suprema svedese è la seguente <<1) Se il noleggio di autoveicoli equipaggiati con serie con impianti       radio implichi che il noleggiatore dei veicoli medesimi costituisca un utilizzatore che proceda ad una “comunicazione al pubblico” ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 ovvero, rispettivamente, ad una “comunicazione al pubblico ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 2, della direttiva 2006/115. 2)      In qual misura rilevino le dimensioni dell’attività di autonoleggio nonché la durata dei singoli noleggi>>

La Corte ricorda ciò che è comunque di senso comune e cioè che il concetto di comunicazione al pubblico nelle due norme è sostanzialmente uguale, § 28

La Corte ricorda poi che per aversi comunicazione al pubblico la giurisprudenza consolidata alcuni requisiti tra cui <<il ruolo imprescindibile dell’utente e il carattere intenzionale del suo intervento. Questi realizza, infatti, un atto di comunicazione quando interviene, con piena cognizione delle conseguenze del proprio comportamento, per consentire ai propri clienti l’accesso ad un’opera protetta, in particolare quando, in mancanza di tale intervento, i clienti medesimi non potrebbero, in via di principio, fruire dell’opera diffusa.[v., segnatamente, sentenze del 15 marzo 2012, SCF, C‑135/10, EU:C:2012:140, punto 82 e giurisprudenza citata; del 15 marzo 2012, Phonographic Performance (Ireland), C‑162/10, EU:C:2012:141, punto 31, nonché del 14 giugno 2017, Stichting Brein, C‑610/15, EU:C:2017:456, punto 26 e giurisprudenza citata].>>, § 32

Tuttavia sia il considerando 27 della direttiva infosoc, che l’articolo 8 del Trattato sul Diritto d’autore del Ompi dicono che la mera fornitura di attrezzature fisiche, che permettono di effettuare una comunicazione, non costituisce atto di comunicazione al pubblico, paragrafo 33

Questo, dice la CG, è proprio ciò che succede nella fornitura di un impianto radio integrato in un veicolo dato a noleggio: <<34 … la fornitura d’un impianto radio integrato in un autoveicolo di noleggio, che consenta di captare, senza alcun intervento aggiuntivo da parte della società di noleggio, la radiodiffusione terrestre accessibile nelle zone in cui il veicolo si trova, come parimenti rilevato, in sostanza, dall’avvocato generale al paragrafo 32 delle proprie conclusioni. 35      Una fornitura, del genere indicata al punto precedente, si distingue dagli atti di comunicazione con cui prestatori di servizi trasmettano deliberatamente opere protette alla propria clientela, distribuendo volutamente un segnale a mezzo di ricevitori installati nei loro locali (sentenza del 31 maggio 2016, Reha Training, C‑117/15, EU:C:2016:379, punti 47 e 54 nonché la giurisprudenza citata).>>

Poi viene il punto più complicato a livello concettuale.

La CG precisa che <<una fornitura, del genere indicata al punto precedente, si distingue dagli atti di comunicazione con cui prestatori di servizi trasmettano deliberatamente opere protette alla propria clientela, distribuendo volutamente un segnale a mezzo di ricevitori installati nei loro locali (sentenza del 31 maggio 2016, Reha Training, C‑117/15, EU:C:2016:379, punti 47 e 54 nonché la giurisprudenza citata)>>, § 35.

Pertanto <<mettendo a disposizione del pubblico autoveicoli equipaggiati con impianti radio, le società di noleggio di autoveicoli non compiono un «atto di comunicazione» al pubblico di opere protette>>, § 36.

Questo dicevo è il punto nodale.

Secondo la corte e l’avvocato generale (Conclusioni §§ 38-46) bisogna distinguere tra la mera posa di infrastrutture fisiche, che non costituisce comunicazione al pubblico, e l’erogazione del segnale, che invece la costituisce.

Questa distinzione era stata anticipata nella nota sentenza C-306/5 SGAE c. Rafael Hoteles del 7 dicembre 2006, secondo cui << ** La mera fornitura di attrezzature fisiche, come quella di apparecchi televisivi installati nelle camere di un albergo, non costituisce in quanto tale una comunicazione al pubblico ai sensi della direttiva 2001/29, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione. Per contro, la distribuzione di un segnale, che consenta la comunicazione di opere mediante apparecchi siffatti da parte di un albergo ai clienti alloggiati nelle sue camere, indipendentemente dalla tecnica di trasmissione del segnale utilizzata, costituisce un atto di comunicazione al pubblico ai sensi dell’art. 3, n. 1, di tale direttiva.     ** Infatti, come chiarisce la guida alla Convenzione di Berna, per la protezione delle opere letterarie ed artistiche, l’autore, autorizzando la radiodiffusione della sua opera, prende in considerazione solo gli utilizzatori diretti, ossia i detentori di apparecchi di ricezione i quali, individualmente o nella loro sfera privata o familiare, captano le trasmissioni. Una volta che questa ricezione avviene per intrattenere un pubblico più ampio, mediante un atto indipendente col quale l’opera trasmessa viene comunicata ad un nuovo pubblico, tale ricezione pubblica dà adito al diritto esclusivo dell’autore di autorizzarla. Orbene, la clientela di un albergo costituisce un tale pubblico nuovo, in quanto la distribuzione dell’opera radiodiffusa a tale clientela mediante apparecchi televisivi non costituisce un semplice mezzo tecnico per garantire o migliorare la ricezione della trasmissione originaria nella sua zona di copertura.  ** Per contro, l’albergo è l’organismo che interviene, con piena cognizione delle conseguenze del suo comportamento, per dare ai suoi clienti accesso all’opera protetta. Il carattere privato delle camere di tale albergo non osta a che il segnale costituisca un atto di comunicazione al pubblico>> (massime ufficiali).

Questa teoria lascia perplessi.

Distinguere tra la posa dell’infrastruttura e l’erogazione del segnale ha poco senso, se -come pare- presuppone che , per non aversi <comunicazione al pubblico>, bisogna che ci sia solo la mera infrastruttura posata senza i cavi di collegamento o senza collegamento con i ponti radio: “erogare il segnale”, pare di capire,  significherebbe proprio questo. Tuttavia per un albergo -come pure per un impresa che voglia noleggiare auto dotate di autoradio- installare l’apparecchiatura senza la possibilità di ricevere il segnale è una insensatezza. L’apparecchiatura ha senso solo per ricevere il segnale e cioè solo se collegata alla rete:  e ciò che serve allo scopo non può che essere realizzato dall’albergo o dalle imprese di autonoleggio (o meglio ancora dal produttore automobilistico).

Chi comunica il segnale è piuttosto chi lo fa sentire all’esterno della propria sfera, attivando con il pulsante di accensione l’apparecchiatura esistente: non chi si limita a predisporre l’apparecchiatura stessa. Tanto si desume dal sostantivo <<comunicazione>>.

Sotto questo profilo non c’è differenza tra radio-tv, fornite nelle stanze d’albergo, e radio-tv, fornite nell’autoveicolo.

Quindi invocare la sentenza CG Reha Training del 31.05.2016, C-117/15, non è pertinente: in quel caso il centro riabilitativo Reha Training non solo aveva predisposto l’impianto di distribuzione del segnale, ma provvedeva lui stesso a diffonderlo al proprio interno a favore dei clienti tramite altoparlanti.

Nel caso SGAE e nel caso qui esaminato, invece, il segnale viene attivato dal singolo utente, nella sua stanza o all’interno dei veicolo. Dunque non può essere il propreitario dell’ingrastrattura a realizzare la comunicazione al pubblico,  ricorra o meno l’astratta possibilità di un  collegametno radio con l’esterno

Sulla qualità di contraffattore del mero depositario di merci contraffatte: la lite Coty contro Amazon (il caso Davidoff)

la Corte di Giustizia (poi: CG) con sentenza 2 aprile 2020, C-567/18, Coty Germany contro Amazon Services Europe ed altre soc. del gruppo , decide la nota lite promossa da in sede Europea da Coty contro il gruppo  Amazon.

Coty è titolare di licenza sul marchio Ue Davidoff, per profumi

Nel 2014 Coty scopriva che su internet veniva venduto un profumo in contraffazione.

Sembra di capire -ma non è detto in modo chiaro- che tali flaconi provenissero dalla nota casa profumiera, ma che avessero  avuto un’iniziale destinazione extraeuropea: per cui su di essi non era si era verificato il c.d. esaurimento del diritto, paragrafo 10.

La non applicazione dell’esaurimento alle merci provenienti dal di fuori della UE costitusice ormai diritto vivente, anche se privo di fondamento sicuro.

La CG  precisa che venditore era un soggetto a terzo, non Amazon stesso: il quale aveva il mero ruolo di depositario e poi di spedizioniere  per conto della venditrice, paragrafo 10

Coty invitava Amazon a rimetterle tutti i flaconi di profumo. Scopriva poi che una parte di questi erano di proprietà di un diverso venditore e chiedeva ad Amazon di indicarglielo. Amazon rispondeva di non essere in grado di fare ciò, paragrafo 11 (non è detto se perchè priva di informazioni o perchè impedita giuridicamente dal fornirle).

La società che gestiva il deposito era Amazon FC graben, paragrafo 9.

Coty cita dunque in giudizio sia Amazon Service Europe che Amazon FC Graben, ritenendo che avessero violato il diritto sul marchio controverso. In particolare chiedeva che fossero condannate ad astenersi dallo stoccaggio dallo spedire o a farsi toccare o a far spedire in Germania nel commercio profumi recanti il marchio Davidoff Hot Water, qualora non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso (paragrafo 12)

Il quesito sollevato dal BGH Bundesgerichtshof è il seguente : <<Se una persona che conserva per conto di un terzo prodotti che violano un diritto di marchio, senza essere a conoscenza di tale violazione, effettui lo stoccaggio di tali prodotti ai fini dell’offerta o dell’immissione in commercio, nel caso in cui solo il terzo, e non anche essa stessa, intenda offrire o immettere in commercio detti prodotti».>>,  paragrafo 18

Le norme applicabili sono l’articolo 9 paragrafo 2 lettera B del regolamento 207 2009 (corrispondente all’articolo 9 paragrafo 3 lettera B del regolamento 2017/1001)

Dagli atti dunque risulta che Amazon si limitasse al magazzinaggio senza averli offerti in vendita o averli messi in commercio essa stessa e nemmeno intendesse farlo in futuro, paragrafo 34

Bisogna allora capire se questa operazione costituisca un <uso> ai sensi dell’articolo 9 paragrafo 1 regolamento 207: in particolare se configuri uno <<stoccaggio>> ai sensi del 9 paragrafo 2 lettera B.

La risposta è negativa: non costitusice stoccaggio.

La Corte dice che il verbo <usare> implica un comportamento attivo e un controllo sull’atto che costituirebbe <uso>. Del resto nell’elenco il § 2 fa uso di comportamenti attivi da parte del terzo, paragrafo 37: solo un terzo, che ha il controllo diretto e indiretto sull’atto che costituisce l’uso, è in grado di cessare tale uso e quindi conformarsi al divieto , paragrafo 38.

La corte ha anche precisato che l’uso vietato implica che l’uso avvenga nell’ambito della comunicazione commerciale del soggetto accusato, paragrafo 39

Ne consegue che <<affinché il magazzinaggio di prodotti rivestiti di segni identici o simili a marchi possa essere qualificato come «uso» di tali segni, occorre pure, come rilevato, in sostanza, dall’avvocato generale al paragrafo 67 delle sue conclusioni, che l’operatore economico che effettua tale magazzinaggio persegua in prima persona le finalità cui si riferiscono tali disposizioni, che consistono nell’offerta dei prodotti o nella loro immissione in commercio>> , paragrafo 45

A dire il vero il tenore letterale dell’articolo 9 paragrafo 2  in particolare lettera B del regolamento 207 non dice questo: nè parrebbe n prima battuta desumibile.

Astrattamente potrebbe ritenersi che l’esclusiva si estendesse anche alla condotta di chi, pur non sapendo, pone in essere atti strumentali all’atto successivo, che veramente è più significativamente lede gli interessi economici del titolare del marchio (la vendita)..

Tuttavia le altre  condotte elencate nel medesimo paragrafo 2  lasciano forse intendere che giuridicamente risponde delle stesse solo chi ne fruirà e cioè chi hai il potere di deciderle:  questi due aspetti di solito vanno assieme, anche se la realtà potrebbe essere meno semplice dell’ipotesi teorica.

Nel caso sub iudice il giudice del rinvio aveva indicato <<senza ambiguità che non hanno esse stesse offerto in vendita i prodotti di cui trattasi né li hanno immessi in commercio, precisando, anzi, nel testo della sua questione, che è solo il terzo che intende offrire i prodotti o immetterli in commercio. Ne consegue che esse non fanno, di per sé, uso del segno nell’ambito della loro comunicazione commerciale>>, p .47.

Sì badi però che il quesito sottoposto alla CG prevedeva l’ipotesi in cui il depositario non fosse a conoscenza della violazione.

Le cose possono dunque cambiare se il depositario è invece a conoscenza della violazione:  in questo caso è difficile evitare la qualificazione giuridica di <<compartecipe nell’illecito>>.

Tale evenienza è al confine tra diritto nazionale e diritto europeo, dal momento che la responsabilità civile generale non è armonizzata, ma solo quella derivante dal diritto dei marchi. Allora sorge il problema del se un depositario, consapevole della natura contraffattoria delle merci ricevute in deposito, sia responsabile e se lo sia solo in base alle norme nazionali di responsabilità civile (da noi art. 2055) oppure direttamente in base alle tutele previste  nella disciplina del marchio (armonizzata).

Del resto nella disciplina degli internet service provider, si dice che , quanto alla soggezione ad injunctions/ininibitoria, siano responsibile anche se non liable.

Cioè il concorso in materia armonizzata è di competenza della UE o del diritto statale? O ancora, quale è il profilo soggettivo della violazione di marchio (o design, o dirito d’autore)? rileva solo per il risarcimento del danno o per qualunque misura (anche per l’inibitoria)?

la Corte accenna a qualcosa del genere al paragrafo 49

Coty poi aveva chiesto alla CG di dire se un tale depositario potesse fruire del Safe Harbor previsto dall’articolo 14 paragrafo 1 della direttiva sul commercio elettronico numero 31 del 2000 paragrafo 50: la risposta sarebbe stata in astratto positiva, ricorrendone i requisiti.

Ma tale domanda non rientrava in quella pregiudiziale sollevata dal BGH e dunque non viene esaminato dalla CG.

In sintesi e operativamente  i depositari possono stare tranquilli qualora nulla sappiano della liceità o meno a delle merci ricevute in deposito. Entrano invece in acque incerte quando abbiano conoscenza certa o presunta dell’iliceità.

Ancora la Corte di Giustizia sul marchio rinomato: il caso Burlington

Con la sentenza 4 marzo 2020 nelle cause riunite da C-155/18 P fino a C-158/18 P la CG interviene su alcuni aspetti sostanziali e procedurali del diritto dei marchi.

La normativa applicata ratione temporis è per alcune registrazioni il regolamento UE 40/94 e per un’altra il regolamento UE 207 del 2009.

Sappiamo che l’articolo 8/5  del regolamento 207/2009 dice: <<In seguito all’opposizione del titolare di un marchio anteriore registrato ai sensi del paragrafo 2, la registrazione del marchio depositato è altresì esclusa se il marchio è identico o simile al marchio anteriore, a prescindere dal fatto che i prodotti o i servizi per i quali si chiede la registrazione siano identici, simili o non simili a quelli per i quali è registrato il marchio anteriore, qualora, nel caso di un marchio UE anteriore, quest’ultimo sia il marchio che gode di notorietà nell’Unione o, nel caso di un marchio nazionale anteriore, quest’ultimo sia un marchio che gode di notorietà nello Stato membro in questione e l’uso senza giusto motivo del marchio depositato possa trarre indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio anteriore o recare pregiudizio agli stessi.>>

I marchi a confronto sono quelli anteriori di Burlington Arcade da una parte e quelli posteriori di Burlington (figurativi e denominativi), dall’altra: si vedano rispettivamente i punti 21 e 19 della sentenza.

I prodotti per i quali sono stati registrati , come sempre nel diritto dei marchi, sono essenziali: a prima vista sotto il profilo merceologico però non c’è sovrapposizione o meglio affinità.

Qui mi fermo solo sul profilo della tutela e in particolare sulla fattispecie astratta di cui all’articolo 8 paragrafo 5 regolamento 207 cit. (la norma è del tutto simile anche nel regolamento 40 del 94). La Corte interviene pure su altri aspetti soprattutto procedurali, dei quali qui non mi occupo.

Le messe a punto della CG non sono particolarmente innovative ma ma vale la pena di ripassarle

La Corte ricorda gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’articolo 8 paragrafo 5 regolamento 207, paragrafo 73 e ricorda che una sola di queste tre violazioni è sufficiente, paragrafo 74

Ricorda poi che <<sebbene il titolare del marchio anteriore non sia tenuto a dimostrare l’esistenza di una violazione effettiva e attuale del suo marchio ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 5, del regolamento n. 207/2009, egli deve, tuttavia, dimostrare l’esistenza di elementi che permettano di concludere per un rischio serio che la violazione abbia luogo in futuro>>, paragraph 75

Come al solito, ricorda pure che la valutazione va eseguita complessivamente <<tenendo conto di tutti gli elementi rilevanti del caso di specie, fra i quali compaiono, in particolare, il livello di notorietà e il grado di distintività del marchio anteriore, il grado di somiglianza fra i marchi in conflitto, nonché la natura e il grado di prossimità dei prodotti o dei servizi interessati (sentenza del 27 novembre 2008, Intel Corporation, C‑252/07, EU:C:2008:655, punto 68)>> paragrafo 76

 in particolare circa il pregiudizio <<arrecato al carattere distintivo del marchio anteriore, detto anche «diluizione», «corrosione» o «offuscamento», esso si manifesta quando risulta indebolita l’idoneità di tale marchio ad identificare come provenienti dal suo titolare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato e viene utilizzato, per il fatto che l’uso del marchio posteriore fa disperdere l’identità del marchio anteriore e la sua capacità di far presa nella mente del pubblico. Ciò si verifica, in particolare, quando il marchio anteriore non è più in grado di suscitare un’associazione immediata con i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato (sentenza del 27 novembre 2008, Intel Corporation, C‑252/07,EU:C:2008:655, punto 29).>>, § 77

Sotto il profilo probatorio, <<la prova che l’uso del marchio posteriore rechi o possa recare pregiudizio al carattere distintivo del marchio anteriore richiede che siano dimostrati una modifica del comportamento economico del consumatore medio dei prodotti e dei servizi per i quali il marchio anteriore è registrato, dovuta all’uso del marchio posteriore o un rischio serio che una tale modifica si produca in futuro (sentenza del 27 novembre 2008, Intel Corporation, C‑252/07, EU:C:2008:655, punto 77).>>, § 78.    E’ forse l’indicazione più utile per la pratica.

Sul concetto di marchio contrario all’ordine pubblico: termina la vertenza su «Fack Ju Göhte»

E’ giunta a conclusione la vertenza europea relativa al marchio «Fack Ju Göhte». Tale segno peraltro è pure il titolo di una commedia cinematografica tedesca prodotta dalla ricorrente,  che ha rappresentato uno dei maggiori successi cinematografici del 2013 in Germania. Due sequel di questa commedia cinematografica sono stati prodotti dalla ricorrente, che sono usciti nelle sale con i titoli «Fack Ju Göhte 2» e «Fack Ju Göhte 3» rispettivamente nel 2015 e nel 2017 (§ 9)
La sentenza è quella della Corte di Giustizia (di seguito solo CG) 27 febbraio 2020, C-240/18, Constantin Film Produktion GmbH c. EUIPO (di seguito : l’ufficio).

La sentenza è stata preceduta dalle articolate conclusioni dell’avvocato generale Bobek 02.07.2019,  sostanzialmente seguite dalla CG. Ne avevo riferito qui .

La lite è governata ratione temporis dal reg. 207/2009 (par 2). La norma che governa la fattispecie è l’articolo 7.1.f , secondo cui sono esclusi dalla registrazione di Marchi contrari all’ordine pubblico o al buon costume.
La società produttrice cinematografica (Constantin Film) presentava domanda di registrazione del marchio denominativo sopra indicato per svariate classi merceologiche, tra cui sostanze per bucato, supporti di dati registrati, dati audio video testi gioielleria eccetera
L’esaminatore respingeva la domanda per violazione appunto del predetto articolo 7.1.f in combinato disposto col seg. paragrafo 2, secondo cui <<Il paragrafo 1 si applica anche se le cause d’impedimento esistono soltanto per una parte della Comunità.>>
La Constantin Film presentava ricorso che veniva però respinto.
Nè aveva miglior sorte la fase giudiziale presso il Tribunale; a Constantin Film non rimaveva che adire la CG, ciò che fece.
Il caso è interessante perché Constantine adduce non solo la violazione del citato articolo 7.1.f , ma anche la violazione del principio sia di parità di trattamento che della certezza del diritto e di buona amministrazione. Tuttavia, essendo accolto il primo motivo, gli altri sono dalla CG considerati assorbiti e non esaminati, § 57. Erano stati invece esaminati dall’Avvocato Generale ai §§ 99 ss.
Il primo motivo (violazione dell’articolo 71.f) si articola in quattro parti, § 21 seguenti
La Corte ricorda che il motivo della rigetto della registrazione atteneva alla violazione divieto di registrare marchi contrari al buon costume, non all’ordine pubblico, par 38
Bisogna quindi indagare come vada inteso il concetto normativo di <ordine pubblico> e quello di <contrarietà all’ordine pubblico>

La risposta si trova i paragrafi 41- 42- 43.

Per ravvisare tale concetto, <<non è sufficiente che il segno in questione sia considerato di cattivo gusto. Al momento dell’esame quest’ultimo deve essere percepito dal pubblico di riferimento come contrastante con i valori e con le norme morali fondamentali della società, così come esistenti in quel momento.>>, par 41.
Bisogna a tale scopo basarsi <<sulla percezione di un soggetto ragionevole che abbia soglie medie di sensibilità e di tolleranza, tenendo conto del contesto in cui è possibile venire a contatto con il marchio e, se del caso, delle circostanze peculiari della parte dell’Unione interessata. A tal fine, sono pertinenti elementi quali i testi legislativi e le prassi amministrative, l’opinione pubblica e, eventualmente, il modo in cui il pubblico di riferimento ha reagito in passato a questo segno o a segni simili, nonché qualsiasi altro elemento che possa consentire di valutare la percezione del pubblico stesso.>>, par 42.
Questo esame non può limitarsi <<ad una valutazione astratta del marchio richiesto, o di alcuni suoi componenti, ma va accertato, in particolare qualora il richiedente abbia fatto valere elementi tali da far sorgere dubbi sul fatto che tale marchio sia percepito dal pubblico di riferimento come contrario al buon costume, che l’utilizzo del marchio stesso, nel contesto sociale concreto e attuale, sarebbe effettivamente percepito da tale pubblico come contrario ai valori e alle norme morali fondamentali della società.>>, par 43.
Questi i principi teorici, che vanno applicati al caso sub iudice
Il contesto di percezione da parte del pubblica è analiticamente allegato e provato in causa e ricordato dalla CG , la quale censura sul punto il Tribunale per non averlo considerato:<<52…. tra questi elementi [di contesto] figurano il grande successo della citata commedia omonima presso il grande pubblico germanofono e il fatto che il suo titolo non sembra aver dato adito a controversie, il fatto che sia stato autorizzato l’accesso alla commedia stessa da parte del pubblico giovane e che il Goethe Institut, che è l’istituto culturale della Repubblica federale di Germania, attivo a livello mondiale e che ha tra i suoi compiti quello di promuovere la conoscenza della lingua tedesca, ne faccia uso a fini pedagogici [numeri in rosso da me aggiunti]. 53 Poiché tali elementi sono, a priori, idonei a costituire un indizio del fatto che, nonostante l’assimilazione della prima parte del marchio richiesto all’espressione inglese «Fuck you», il grande pubblico germanofono non percepisce il segno denominativo «Fack Ju Göhte» come moralmente inaccettabile, il Tribunale, per dichiarare tale segno incompatibile con il buon costume, non poteva basarsi esclusivamente sul carattere intrinsecamente volgare di quell’espressione inglese senza esaminare i citati elementi e senza esporre in termini concludenti le ragioni per cui ritiene, ciononostante, che il grande pubblico germanofono percepisca quel segno come contrario ai valori e alle norme morali fondamentali della società nel momento in cui esso viene utilizzato come marchio.>>, §§ 52-53 (numeri in rosso da me aggiunti).
La CG censura poi l’affermazione, per cui la libertà di espressione è diritto antagonista solo del diritto di autore, non di quello di marchio: <<infine, si deve aggiungere che, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale al punto 29 della sentenza impugnata, vale a dire che «nel settore dell’arte, della cultura e della letteratura esiste una costante preoccupazione di preservare la libertà di espressione che non esiste nel settore dei marchi», la libertà di espressione, sancita dall’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dev’essere tenuta in considerazione, come riconosciuto dall’EUIPO in udienza e come esposto dall’avvocato generale ai paragrafi da 47 a 57 delle sue conclusioni, in sede di applicazione dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 207/2009. Tale conclusione è inoltre corroborata sia dal considerando 21 del regolamento n. 2015/2424, che ha modificato il regolamento n. 207/2009, sia dal considerando 21 del regolamento n. 2017/1001, che sottolineano espressamente la necessità di applicare tali regolamenti in modo tale da assicurare il pieno rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, in particolare della libertà di espressione>> (precisamente l’ultima parte dei citt. cons. 21 dice: <<Inoltre, il presente regolamento dovrebbe essere applicato in modo tale da assicurare il pieno rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, in particolare della libertà di espressione>>)
La CG annulla dunque la sentenza del Tribunale , § 58, e passa a decidere la lite nel merito , §§ 59-60. La CG lo fa applicando naturalmente i principi sopra esposti in linea astratta.
Afferma dunque che, sebbene il successo di un film non dimostri automaticamente l’accettazione sociale del suo titolo e di un segno denominativo omonimo, esso però <<rappresenta quantomeno un indizio di una siffatta accettazione, che si dovrà valutare alla luce di tutti gli elementi rilevanti del caso di specie, al fine di dimostrare in termini concreti la percezione di tale segno in caso di un suo utilizzo come marchio>>, § 66.
Ed allora scendendo nei fatti, la CG ricorda che << le commedie Fack ju Göhte e Fack ju Göhte 2, che peraltro hanno avuto un sequel nel 2017, hanno avuto, proprio presso il pubblico di riferimento, un successo tale che la commissione di ricorso ha addirittura ritenuto di poter presumere che i consumatori facenti parte di quel pubblico abbiano almeno già sentito parlare di quelle commedie, ma, oltretutto e nonostante la forte visibilità che ha accompagnato tale successo, il titolo delle stesse non sembra aver suscitato alcuna controversia in seno al pubblico medesimo. Peraltro, l’accesso del pubblico giovane a tali commedie, che si svolgono in ambiente scolastico, era stato autorizzato con il titolo citato e, come risulta dal punto 39 della decisione controversa, esse hanno ricevuto fondi da varie organizzazioni e sono state utilizzate dal Goethe Institut a fini pedagogici>>, § 67 (numeri in rosso da me aggiunti).
Il che significa che, <<nonostante l’assimilazione dei termini «Fack ju» all’espressione inglese «Fuck you», il titolo delle commedie citate non è stato percepito come moralmente inaccettabile dal grande pubblico germanofono. A questo proposito va inoltre rilevato che la percezione della citata espressione inglese da parte del pubblico germanofono, ancorché ben nota a quel pubblico, che ne conosce il significato, non è necessariamente identica alla percezione che ne ha il pubblico anglofono, poiché la sensibilità nella lingua madre è potenzialmente maggiore rispetto a quanto avviene in una lingua straniera. Per questo stesso motivo, il pubblico germanofono non percepisce neppure, necessariamente, la citata espressione inglese allo stesso modo in cui ne percepirebbe la traduzione in tedesco. Inoltre, il titolo delle commedie in questione e, quindi, il marchio richiesto non consistono in tale espressione inglese di per se stessa, bensì nella sua trascrizione fonetica in lingua tedesca, accompagnata dall’elemento «Göhte»>>, § 68.
In sintesi, visto che , nonostante i fatti non facciano presumere una percezione nel pubblico del segno contestato come contrario al buon costume, non è stata fornita prova contraria, bisogna dire che l’ufficio non ha adeguatamene motivato l’applicazione del divieto invocato.
Pertanto la sua decisione va annullata, § 71.

La Corte di Giustizia Europea sul giudizio confusorio in tema di marchi (Labell vs. Black Label)

La Corte di Giustizia (poi solo CG) 4 marzo 2020, C-328/18 P, EUIPO c. Equivalenza Manufactory SL di Barcellona, impartisce alcuni insegnamenti su come va condotto il giudizio di assenza/presenza di novità in relazione ad un marchio precedente.
La norma rilevante ratione temporis è quella di cui all’articolo 8 paragrafo 1 lettera B del regolamento 207/2009 : <<In seguito all’opposizione del titolare di un marchio anteriore, il marchio richiesto è escluso dalla registrazione se: …; b) a causa dell’identità o della somiglianza di detto marchio col marchio anteriore e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi per i quali i due marchi sono stati richiesti, sussiste un rischio di confusione per il pubblico del territorio nel quale il marchio anteriore è tutelato; il rischio di confusione comprende il rischio di associazione con il marchio anteriore.>>
Si vedano i due marchi in conflitto (§§ 5 e 9):

segno anteriore (dell’opponente)

e

segno posteriore (opposto in fase amministrativa)

In pratica l’unico elemento comune è quello denominativo (Label/Labell).

I prodotti di riferimento erano identici (profumi). Il marchio anteriore era oggetto di registrazione internazionale, mentre quello posteriore era un marchio depositato all’EUIPO come marchio dell’UE (§§ 5 e 9).

L’opponente (titolare del marchio anteriore) ottiene ragione in entrambe le fasi amministrative, ma soccombe nella successiva impugnazione davanti al Tribunale UE, paragrafi 12- 16.
Il motivo di ricorso alla CG è unico ma concerne quattro profili (non chiara la distizione tra motivo unico in quattro profili e quattro motivi).
Circa il primo, la CG ribadisce che il vizio di motivazione contraddittoria/insufficiente è una questione di diritto in fase impugnatoria, paragrafo 25; ed allora accoglie il motivo per motivazione contraddittoria, paragrafo 30
Nulla dico sul secondo profilo, poco significativo.
Sul terzo e sul quarto, invece, si concentrano gli insegnamenti più importanti.
La censura dell’EUIPO consiste nell’addebitare <<al Tribunale di aver violato l’articolo 8, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 207/2009 in ragione di un errore metodologico, in quanto ha esaminato le condizioni di commercializzazione dei prodotti in causa e le abitudini di acquisto del pubblico di riferimento nella fase della valutazione della somiglianza dei segni confliggenti.>>, paragrafo 42.
Inoltre l’ufficio muove un’altra censura: <<il Tribunale ha commesso un errore di metodo in quanto ha neutralizzato la somiglianza fonetica media dei segni in conflitto nella fase di valutazione della somiglianza di tali segni e ha abbandonato prematuramente qualsiasi valutazione globale del rischio di confusione.>>, par. 47.
Cioè:   –   le condizioni di commercializzazione non possono incidere nel giudizio di somiglianza tra segni;   –    la compensazione tra la distanza concettuale e la vicinanza visivo-fonetica non può avvenire solo nella fase di giudizio di somiglianza tra segni ed essere ad abbandonata nella fase del giudizio complessivo di confondibilità, come invece successo nel caso specifico, ove è stata prematuramente abbandonata, paragrafo 47 ss.

Ebbene, la CG inizia ribadendo:
– che per costante propria giurisprudenza <<l’esistenza di un rischio di confusione per il pubblico deve essere oggetto di valutazione globale, in considerazione di tutti i fattori pertinenti del caso di specie […], tra i quali figurano in particolare il grado di somiglianza tra i segni in conflitto e tra i prodotti o i servizi designati in causa, nonché l’intensità della notorietà e il grado del carattere distintivo, intrinseco o acquisito mediante l’uso, del marchio anteriore […]>>Paragrafo 57;
– che <<la valutazione globale del rischio di confusione deve fondarsi, per quanto riguarda la somiglianza visiva, fonetica o concettuale dei segni in conflitto, sull’impressione complessiva da essi prodotta. La percezione dei segni da parte del consumatore medio dei prodotti o dei servizi di cui trattasi svolge un ruolo determinante nella valutazione globale di tale rischio. A questo proposito, il consumatore medio percepisce di norma un marchio come un tutt’uno e non effettua un esame dei suoi singoli elementi >>,  paragrafo 58;
– che <<questa valutazione globale del rischio di confusione implica una certa interdipendenza tra i fattori che entrano in considerazione e, in particolare, la somiglianza dei segni confliggenti e quella dei prodotti o dei servizi in oggetto. Così, un tenue grado di somiglianza tra i prodotti o i servizi in causa può essere compensato da un elevato grado di somiglianza tra i segni in conflitto e viceversa>> , paragrafo 59.
Ribadite queste tre regole, comunemente accettate, arriva la parte più interessante.

Per la CG , <<in assenza di qualsiasi somiglianza tra il marchio anteriore e il segno di cui è richiesta la registrazione, la notorietà o la rinomanza del marchio anteriore, l’identità o la somiglianza dei prodotti o servizi considerati non sono sufficienti per constatare un rischio di confusione […]. Di conseguenza, tale disposizione è manifestamente inapplicabile quando il Tribunale esclude qualsiasi somiglianza tra i segni in conflitto. È soltanto nell’ipotesi in cui tali segni presentino una certa somiglianza, ancorché tenue, che spetta al suddetto giudice procedere a una valutazione globale al fine di stabilire se, nonostante il tenue grado di somiglianza esistente tra di essi, la presenza di altri fattori pertinenti, quali la notorietà o la rinomanza del marchio anteriore, possa dar adito a un rischio di confusione per il pubblico di riferimento (v., in tal senso, sentenza del 24 marzo 2011, Ferrero/UAMI, C‑552/09 P, EU:C:2011:177, punti 65 e 66, nonché la giurisprudenza citata).>>, § 60.

Cioè, stando alla disposizione citata, il giudizio complessivo di …….
E’ in base a questa giurisprudenza che  per il tribunale i segni non erano simili secondo un’impressione generale, mancando una delle due condizioni previste dall’articolo 8 comma 1 lettera B del regolamento 207: con conseguente errore dell’ufficio nell’affermare il rischio di confusione., paragrafo 61.
Il tribunale era giunto a questa conclusione con un ragionamento in due fasi: dopo aver detto che i segni presentavano un grado medio di somiglianza fonetica pur essendo visivamente e concettualmente dissimili (paragrafo 63), aveva però <aggiunto chje <<tenuto conto delle condizioni di commercializzazione dei prodotti di cui trattasi, l’aspetto visivo dei segni in conflitto, riguardo al quale tali segni erano diversi, era più importante per valutare l’impressione complessiva da essi prodotta rispetto agli aspetti fonetico e concettuale di tali segni. Inoltre, al punto 54 di tale sentenza il Tribunale ha rilevato che i segni in conflitto erano concettualmente diversi in virtù della presenza, nel segno per il quale si chiede la registrazione, degli elementi «black» e «by equivalenza»>>., § 65.

In breve l’aspetto visivo prevaleva su quello concettual-fonetico, tenuto conto delle condizioni di commercializzazione: e il profilo visvivo portava ad una differenziazione tra i segni (incrementata da una differenziazione anche concettuale paragrafo 65 seconda parte chiuso la parentesi). per questo Il tribunale ha rinunciato ad effettuare la valutazione complessiva del rischio di confusione richieta dalla norma (<<ll marchio richiesto è escluso dalla registrazione se: …b) a causa dell’identità o della somiglianza … sussiste un rischio di confusione per il pubblico del territorio nel quale il marchio anteriore è tutelato>>) dal momento che i marchi non erano similia prevalenza dell’elemento visivo -preonerante alal luce delle circoszante in c ui è commercialzizato- e concettuale paragrafo 66-.

La censura su questo modo di ragionare è duplice.

La Corte ricorda che <<al fine di valutare il grado di somiglianza esistente tra i segni confliggenti, occorra determinare il loro grado di somiglianza visiva, fonetica e concettuale e, eventualmente, vagliare la rilevanza che occorre attribuire a questi diversi elementi, tenendo conto della categoria di prodotti o di servizi di cui trattasi o delle condizioni in cui essi sono messi in commercio (sentenze del 22 giugno 1999, Lloyd Schuhfabrik Meyer, C‑342/97, EU:C:1999:323, punto 27, e del 12 giugno 2007, UAMI/Shaker, C‑334/05 P, EU:C:2007:333, punto 36).>>, Paragrafo 68.

Però ci sono state applicazioni giurisprudenziali divergenti nei vari stati. Pertanto La Corte ribadisce o insegna: <<sebbene le condizioni di commercializzazione costituiscano un fattore rilevante ai fini dell’applicazione dell’articolo 8, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 207/2009, la loro considerazione rientra nella fase della valutazione globale del rischio di confusione e non in quella della valutazione della somiglianza dei segni in conflitto.>>, paragrafo 70.

Infatti <<la valutazione della somiglianza dei segni in conflitto, che costituisce solo una delle fasi d’esame del rischio di confusione ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 207/2009, comporta il confronto dei segni in conflitto onde determinare se tali segni presentino un grado di somiglianza su uno tra i piani visivo, fonetico e concettuale. Per quanto tale confronto debba fondarsi sull’impressione complessiva che detti segni lasciano nella memoria del pubblico di riferimento, esso deve cionondimeno essere operato alla luce delle qualità intrinseche dei segni in conflitto (v., per analogia, sentenza del 2 settembre 2010, Calvin Klein Trademark Trust/UAMI, C‑254/09 P, EU:C:2010:488, punto46).>>, paragrafo 71.
A sostegno di questa affermazione la CG ricorda che <<tenere conto delle condizioni di commercializzazione dei prodotti o servizi coperti da due segni confliggenti ai fini del confronto di tali segni potrebbe sfociare nell’assurdo risultato che i medesimi segni potrebbero essere qualificati come simili o diversi in funzione dei prodotti e servizi che riguardano e delle condizioni in cui questi ultimi sono commercializzati.>>, paragrafo 72.
Ne segue quindi che Il tribunale ha sbagliato laddove ha preso <<in considerazione, ai punti da 48 a 53 e 55 della sentenza impugnata, le condizioni di commercializzazione dei prodotti in causa nella fase di valutazione della somiglianza dei segni in conflitto nel loro insieme e facendo prevalere, in ragione di tali condizioni, le differenze visive tra tali segni rispetto alla loro somiglianza fonetica.>>, paragrafo 73
In secondo luogo il tribunale ha sbagliato nell’effettuare la compensazione tra l’elemento concettuale da una parte e quello fonetico-visivo dall’altra.
Secondo la giurisprudenza addotta dalla Corte infatti <<la valutazione globale del rischio di confusione implica che le differenze concettuali tra i segni confliggenti possano neutralizzare determinate somiglianze fonetiche e visive tra tali due segni, purché almeno uno di questi segni, per il pubblico di riferimento, rivesta un significato chiaro e determinato, tale che questo pubblico possa coglierlo direttamente (sentenze del 18 dicembre 2008, Les Éditions Albert René/UAMI, C‑16/06 P, EU:C:2008:739, punto punto 98; v. altresì, in tal senso, sentenze del 12 gennaio 2006, Ruiz-Picasso e a./UAMI, C‑361/04 P, EU:C:2006:25, punto 20, e del 23 marzo 2006, Mülhens/UAMI, C‑206/04 P, EU:C:2006:194, punto 35)>>, § 74.
Secondo i propri precedenti infatti <<la valutazione delle condizioni per tale neutralizzazione si integra nella valutazione della somiglianza dei segni in conflitto dopo la valutazione dei gradi di somiglianza sui piani visivo, fonetico e concettuale. Va tuttavia precisato che questa considerazione è intrinsecamente connessa all’ipotesi, eccezionale, in cui almeno uno dei segni in conflitto possieda, dal punto di vista del pubblico di riferimento, un significato chiaro e definito che possa essere direttamente colto da quel pubblico. Ne consegue che è solo se ricorrono tali condizioni che, conformemente alla giurisprudenza citata al punto precedente della presente sentenza, il Tribunale può risparmiarsi la valutazione globale del rischio di confusione per il fatto che, a causa delle marcate differenze concettuali tra i segni in conflitto e del significato chiaro, definito e direttamente intellegibile per il pubblico di riferimento di almeno uno di tali segni, questi ultimi producono un’impressione complessiva diversa, nonostante l’esistenza, tra di essi, di taluni elementi di somiglianza sui piani visivo o fonetico.>> § 75.
Di conseguenza , quando entrambi i segni confliggenti mancano di questo significato chiaro, <<definito e direttamente intellegibile per il pubblico di riferimento, il Tribunale non può procedere a una neutralizzazione omettendo un’analisi globale del rischio di confusione. In tal caso, invece, detto giudice è tenuto a effettuare un’analisi globale di tale rischio, tenendo conto di tutti gli elementi di somiglianza e di differenza individuati allo stesso titolo di tutti gli altri elementi rilevanti, come il grado di attenzione del pubblico di riferimento (v., in tal senso, sentenza del 12 gennaio 2006, Ruiz-Picasso e a./UAMI, C‑361/04 P, EU:C:2006:25, punti 21 e 23) o il grado di carattere distintivo del marchio anteriore.>>, paragrafo 76
In conclusione il tribunale ha sbagliato, <<quando ha inteso neutralizzare la somiglianza dei segni in conflitto sul piano fonetico alla luce della loro dissomiglianza concettuale e ha rinunciato all’analisi globale del rischio di confusione, pur non avendo affatto constatato, e neppure verificato, che nel caso di specie almeno uno dei segni in questione avesse un significato chiaro e definito per il pubblico di riferimento tale che quest’ultimo potesse coglierlo direttamente.>> para 77
Pertanto alla luce di questo vizio e di quello di motivazione contraddittoria, la sentenza del Tribunale va annullata, § 79.
Nell’ultima parte della sentenza La Corte procede al giudizio di merito: è infatti ammesso dal suo Statuto (articolo 61 comma 1) quando lo stato degli atti lo permetta
Qui la CG applica al caso specifico gli insegnamenti contenuti nella prima parte della sentenza, per cui su questa parte non mi trattengo: anche se non è priva di intresse, come sempre quando i principi astratti vengono applicati al caso concreto.

Mi limito a ricordare che l’esito dello ius dicere sostitutivo operato dalla CG è stato quello di confermare il giudizio di confondibilità dell’EUIPO, quindi rigettando l’impugnazione proposta di Equivalenza Manufactory, del §§ 101-103.

Il Tribunale di Milano sulle invenzioni dei dipendenti (art. 64 cpi) e tutela dei segreti commerciali (art. 98 cpi)

Il Tribunale di Mliano è intervenuto sulle invenzioni dei dipendenti con una sentenza portante qualche interessante riflessione.  Si tratta di Trib. MI 282/2019 del 14.01.2019, Rg 49376/2041, da poco pubblicata su giurisprudenzadelleimprese.it.

L’ex dipendente aveva depositato domanda brevettuale , per cui l’azienda aveva agito in giudizio per far valre la natura di invenzione di servizio, con applicazione della disciplina relativa (art. 64 c.1 cpi). Il convenuto aveva invocato, tra le altre, la natura di invenzione occasionale ex art. 64 c. 3 cpi.

Al § 3 il giudice riepiloga la distinzione tra le tre tipoliguie di invenzione, enucleabili dall’art. 64 cpi.

Poi ravvisa nel caso specifico una invenzione d’azienda, visto che:

<<– non si tratta di un’invenzione di servizio, non prevedendo il contratto di assunzione né direttamente né indirettamente quale oggetto dell’incarico alcuna attività inventiva né essendo prevista una specifica remunerazione a tale fine a titolo di compenso (cfr. doc. 3 di parte attrice). In proposito giova rammentare che, secondo gli indirizzi di legittimità, è onere del datore di lavoro provare la specifica retribuzione per l’attività inventiva svolta (cfr. Cass. 1285/2006), non essendo sufficiente allo scopo neppure la prova di avere corrisposto una somma superiore ai minimi, onere qui non assolto;

– non si tratta di un’invenzione occasionale, estranea all’attività cui il Fischetto era adibito, non sussistendo qui una mera coincidenza temporale tra il deposito del trovato ed il rapporto di lavoro che legava le parti. Il trovato rientrava nello specifico campo di ricerca e sperimentazione a cui era dedita l’attrice>> (p. 10).

Osssrva poi che <<Non colgono nel segno le eccezioni svolte dal convenuto:
-in merito alla mancata menzione nel contratto di lavoro di compiti di ricerca. Come accennato, sono le reali attività e mansioni espletate dal dipendente che vengono in rilievo al fine dell’applicazione delle diverse ipotesi di cui all’art. 64 c.p.i.;>> (p. 12)

Ricorda <<Per completezza: non risulta in questa sede formulata domanda di equo compenso che spetterebbe all’ex lavoratore: tale pretesa non può dunque essere esaminata>>, p. 13. E’ ben strano che il difensore non abbia avanzato questa pretesa, magari in via subordinata.

Circa la protezione dei segreti ex art. 98 cpi, ha ravvisato l”esistenza dei requisiti di legge e quindi ha accolto la domanda.

Sono di interesse soprattutto le osservazioni sulle misure di protezione: <<parte attrice ha allegato e provato la protezione attraverso password e credenziali personali (cfr. le testimonianza resa in proposito da Tiziano Baroni: “anche Fischetto aveva un computer portatile con password personale non conosciuta dall’azienda. Le informazione salvate sul pc personale sono accessibili solo al singolo utente, quelle salvate sul server sono accessibili ad alcuni gruppi di persone autorizzate, poi c’è un ulteriore porzione di server accessibile al singolo utente. Tutte le informazioni strategiche sono salvate sul server per evitare che nell’ipotesi un cui un pc si rompa le stesse vadano perse. Tali informazioni sono accessibili con autorizzazione o con password”).Tali misure adottate da Bettini erano ragionevolmente adeguate a mantenere segrete le informazioni di cui discute. Inoltre, il contratto di assunzione sottoscritto con Ivan Fischetto prevedeva all’art. 10 l’obbligo di segretezza,imponendo al lavoratore di non rivelare alcuna informazione acquisita in costanza del rapporto di lavoro (cfr. doc. 3 di parte attrice);>>

Vediamo infine la statuizione sulla domanda  brevettuale.

L’attrice aveva domandato: <<..; 2) accertare e dichiarare che il diritto al brevetto e al relativo deposito e registrazione della domanda di brevetto italiano n. MI2013A1265 (“Brevetto”), meglio descritto in narrativa, spetta alla Bettini Spa (in sede di conclusioni attrice) ai sensi dell’art. 118 secondo comma CPI; 3) trasferire a nome dell’attrice il Brevetto, nel caso in cui nelle more del giudizio il Brevetto venga concesso ai sensi dell’art. 118 terzo comma lett. a CPI;…; 7) inibire l’uso del processo e prodotto oggetto dell’invenzione tutelata dal Brevetto;>> (p. 2).

Il Giudice così ha provveduto: <<1. accerta e dichiarare che il diritto alla brevettazione e al relativo deposito e registrazione della domanda di brevetto italiano n. MI2013A1265 depositato in data 29.7.2013 presso U.I.B.M. spetta alla Bettini s.p.a. ai sensi dell’art. 118 secondo comma CPI; 2. dispone il trasferimento a favore dell’attrice del brevetto indicato al punto n. 1, incaricando UIBM dei relativi adempimenti; 3. inibisce al convenuto l’uso del procedimento oggetto di invenzione di cui al punto sub. 1;>>