La Corte di Giustizia su domanda di marchio, indicante in modo impreciso i beni o servizi, e su domanda depositata in malafede

La Corte europea interviene su una importante questione in tema di marchi, relativa alla possibilità di qualificare come causa di invalidità la troppo generica o imprecisa descrizione dei prodotti o servizi per i quali si chiede la registrazione.

Si tratta di Corte di Giustizia 29.01.2020, C-371/18, Sky c. SkyKick .

La lite era nata tra Sky e SkyKick relativamente ad un marchio figurativo e denominativo (ma per lo più denominativo): lo si vede bene nella decisione del giudice inglese a quo, la High Court (Chancery Division) del 06.02.2018, [2018] EWHC 155 (Ch),  del giudice Arnold (§ 2).

La sentenza applica ratione temporis la disciplina di cui al regolamento 40 del 1994

Il primo punto importante era la cit. questione attinente al se l’indicazione dei beni o servizi non sia sufficientemente chiara e precisa.

La corte, dicendo che i motivi di nullità sono solo quelli espressamente indicati, risponde negativamente:  <<58   Ne consegue che, al pari dell’articolo 3 della prima direttiva 89/104, l’articolo 7, paragrafo 1, e l’articolo 51, paragrafo 1, del regolamento n. 40/94 devono essere interpretati nel senso che essi forniscono un elenco esaustivo delle cause di nullità assoluta di un marchio comunitario.   59 Orbene, né l’articolo 3 della prima direttiva 89/104 né le summenzionate disposizioni del regolamento n. 40/94 prevedono, tra i motivi ivi elencati, la mancanza di chiarezza e precisione dei termini utilizzati per designare i prodotti o i servizi coperti dalla registrazione di un marchio comunitario.  60 Dalle considerazioni che precedono risulta che la mancanza di chiarezza e precisione dei termini utilizzati per designare i prodotti o i servizi coperti dalla registrazione di un marchio nazionale o di un marchio comunitario non può essere considerata come un motivo o una causa di nullità del marchio nazionale o comunitario di cui trattasi, ai sensi dell’articolo 3 della prima direttiva 89/104 o degli articoli 7 e 51 del regolamento n. 40/94>>

Nè è possibile far rientrare la fattispecie in un’altra in una causa espressamente prevista (§§ 62 ss.) .

Da ultimo nemmeno è possibile ritenere la mancanza di chiarezza e precisione come domanda disegno contraria all’ordine pubblico (§ 65 ss).  Su questo punto era stato di opposto avviso l’avvocato generale Tanchev nelle sue conclusioni 16.10.2019, §§ 60-79 (v. poi al §§ 82-86 i criteri per stabilire se ricorra la chiarezza e precisione).

La Corte affronta poi un altro aspetto non meno importante, relativo al se una domanda di registrazione fatta senza intenzione di usare il marchio costituisca domande in malafede secondo l’articolo 51.1.b del reg. 40 del 1994

In caso positivo, chiede se sia possibile la nullità solo parziale qualora l’intenzione di non usare riguardi solo alcuni prodotti o servizi tra quelli richiesti.

Il concetto di domanda in malafede  è indicato nel § 75 e cioè ricorre quando : <<emerga da indizi rilevanti e concordanti che il titolare di un marchio ha presentato la domanda di registrazione di tale marchio non con l’obiettivo di partecipare in maniera leale alle vicende della concorrenza, ma con l’intenzione di pregiudicare, in modo non conforme alla correttezza professionale, gli interessi di terzi, o con l’intenzione di ottenere, senza neppur mirare ad un terzo in particolare, un diritto esclusivo per scopi diversi da quelli rientranti nelle funzioni di un marchio, in particolare la funzione essenziale di indicare l’origine, rammentata al punto precedente della presente sentenza (sentenza del 12 settembre 2019, Koton Mağazacilik Tekstil Sanayi ve Ticaret/EUIPO, C‑104/18 P, EU:C:2019:724, punto 46)>> (§ 75).

Pertanto il richiedente non è tenuto a indicare e nemmeno a sapere esattamente <<alla data di deposito della propria domanda di registrazione o dell’esame della stessa, l’uso che farà del marchio richiesto ed esso dispone di un termine di cinque anni per dare inizio ad un uso effettivo conforme alla funzione essenziale del suddetto marchio [v., in tal senso, sentenza del 12 settembre 2019, Deutsches Patent- und Markenamt (#darferdas?), C‑541/18, EU:C:2019:725, punto 22]>>, § 76.

La Corte ricorda che secondo l’avvocato generale <<la registrazione di un marchio senza che il richiedente abbia intenzione di utilizzarlo per i prodotti e servizi oggetto di tale registrazione può costituire malafede, una volta che la domanda di marchio è priva di giustificazione rispetto agli obiettivi previsti dal regolamento n. 40/94 e dalla prima direttiva 89/104. Una siffatta malafede può tuttavia essere ravvisata solo se sussistono indizi oggettivi, rilevanti e concordanti volti a dimostrare che, alla data di deposito della domanda di registrazione del marchio interessato, il richiedente quest’ultimo aveva l’intenzione o di pregiudicare gli interessi di terzi in modo non conforme alla correttezza professionale o di ottenere, senza neppure mirare ad un terzo in particolare, un diritto esclusivo per scopi diversi da quelli rientranti nelle funzioni di un marchio. >> , § 77.

Era stato in realtà  più lasco nel concedere la causa di nullità l’A. G., dicendo che << qualora non abbia intenzione di utilizzare il marchio, è irrilevante se il ricorrente ha intenzione di impedire l’utilizzo del marchio ad un determinato terzo o a tutti i terzi. Nelle circostanze in parola, il richiedente sta illegittimamente tentando di ottenere un monopolio per impedire a potenziali concorrenti di utilizzare il segno che egli non ha intenzione di utilizzare. Ciò equivale ad un abuso del sistema dei marchi>>, § 114 .   Non rileva dunque per lui lo scopo dell’intenzione di non uso: basta l’intenzione in sè (purchè provata -anche qui- da indizi).

Servono dunque <<indizi oggettivi, rilevanti e concordanti>> della predetta intenzione di non uso.  Pertanto la malafede <<non può … essere presunta sulla base della mera constatazione che, al momento del deposito della sua domanda di registrazione, tale richiedente non aveva un’attività economica corrispondente ai prodotti e servizi indicati nella suddetta domanda.>>, § 78

In fine, se l’intenzione di non usare esiste solo per alcuni beni o servizi La nullità sarà dichiarata solo per questi (§ 80).

Brevettazione di invenzioni create dall’intelligenza artificiale: chi va indicato come inventore? /2

Avevo dato notizia tempo fa (05.01.2020) del rigetto da parte dell’EPO (European Patent Office)  della domanda di un brevetto basata su A.I. :

Brevettazione di invenzioni create dall’intelligenza artificiale: chi va indicato come inventore?

Ora è stata depositata la motivazione del’Ufficio.

Dall’elenco generale del fascicolo brevettuale (domanda n. 18 275 163.6), si vedano i Grounds for the decision (Annex) del 27.01.2020 .

V. anche l’elenco generale documenti della parallela domanda n. 18 275 174.3 e anche qui i Grounds for the decision (Annex) del 27.01.2020 .

L’Ufficio ribadisce che solo una persona fisica può essere inventore, secondo la disciplina attuale (spt. § 23-29). Dunque a nulla vale indicare titolare una persona fisica quale employer del sistema DABUS di A.I. ovvero indicare una succession in title dalla A.I. (§ 30 ss).

L’indicazine di una persona fisica permette, infine,  di soddisfare l’interesse pubblico di sapere chi sia l’inventore (§§ 37-39).

Una a sintesi dei principali problemi posti dalla protezione tramite IP (brevetti e diritto di autore) delle creazioni tramite intelligenza artificiale è ora stata redatta da Iglesias-Shamuilia-Andereberg, Intellectual Property and Artificial Intelligence – A literature review, 2019,  per conto della Commissione Europea. Qui trovi bibliografia in tema e l’indicazione di altra concessione brevettuale (statunitense: John Koza’s “Invention machine”) nonchè di altre protezioni tramite diritto di autore  (v. tabella a p. 12-13).

Sull’accesso (europeo) al fascicolo del concorrente, che ha ottenuto autorizzazione all’immissione in commercio di farmaci

Interviene sulla questione Corte di Giustizia 22.01.2020, C-175/18, PTC Therapeutics International Ltd c. Agenzia europea per i medicinali (EMA)-European Confederation of Pharmaceutical Entrepreneurs (Eucope).

Parallela c’è un altra decisione in pari data sul medesimo tema: C.G. 22.01.2020, C-178/18, MSD Animal Health Innovation GmbH-Intervet International BV contro  Agenzia europea per i medicinali (EMA).

Qui però riferisco solo della prima e cioè di C-175/18.

La lite verte sulla correttezza della decisione dell’EMA, la quale aveva dato accesso al fascicolo di PTC Therapeutics International, accogliendo un’istanza in tal senso di un concorrente. Ciò, si badi, dopo aver rilasciato autorizzazione condizionata all’immissione in commercio del farmaco.

L’EMA aveva permesso si l’accesso, ma oscurando <<di propria iniziativa i riferimenti alle discussioni sull’elaborazione di protocolli con la US Food and Drug Administration (Agenzia per gli alimenti e i farmaci, Stati Uniti d’America) i numeri di lotto, i materiali e le attrezzature, le analisi esplorative, la descrizione quantitativa e qualitativa del metodo di misurazione della concentrazione del medicinale, nonché le date di inizio e di fine del trattamento e altre date che avrebbero potuto permettere l’identificazione dei pazienti>>, § 15.

La norma regolante la fattispecie è l’articolo 4 del reg. 1049/2001, che così dice:

<<Articolo 4  Eccezioni

  1. Le istituzioni rifiutano l’accesso a un documento la cui divulgazione arrechi pregiudizio alla tutela di quanto segue (…) 
  2. Le istituzioni rifiutano l’accesso a un documento la cui divulgazione arrechi pregiudizio alla tutela di quanto segue:

– gli interessi commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresa la proprietà intellettuale,

(…)

a meno che vi sia un interesse pubblico prevalente alla divulgazione.

  1. L’accesso a un documento elaborato per uso interno da un’istituzione o da essa ricevuto, relativo ad una questione su cui la stessa non abbia ancora adottato una decisione, viene rifiutato nel caso in cui la divulgazione del documento pregiudicherebbe gravemente il processo decisionale dell’istituzione, a meno che vi sia un interesse pubblico prevalente alla divulgazione>>,

Il Tribunale aveva rigetta il ricorso contro la decisione dell’EMA, sicchè la PTC Therapeutics ricorre alla Corte di Giustizia. Del resto la decisione dell’EMA era stata già adottata, per cui non poteva operare il § 3 dell’art. 4 cit. (§ 14).

La CG inizia con il ricordare che il diritto di accesso è la regola, mentre la sua restrizione è un’eccezione (§ 56)

Ricorda poi  che <<qualora un’istituzione, un organo o un organismo dell’Unione, investito di una domanda di accesso a un documento decida di respingere tale domanda sulla base di una delle eccezioni previste dall’articolo 4 del regolamento n. 1049/2001, spetta ad esso, in linea di principio, spiegare in che modo l’accesso a tale documento potrebbe pregiudicare concretamente ed effettivamente l’interesse tutelato dall’eccezione in questione e il rischio di un siffatto pregiudizio deve essere ragionevolmente prevedibile e non puramente ipotetico>> , § 57.

E’ bensì vero che in alcuni casi << 58 … la Corte ha riconosciuto che era … lecito per tale istituzione, organo o organismo fondarsi, a questo proposito, su presunzioni generali applicabili a determinate categorie di documenti, posto che considerazioni di ordine generale simili possono applicarsi a domande di divulgazione riguardanti documenti aventi uguale natura (…).   59 L’obiettivo di tali presunzioni risiede dunque nella possibilità, per l’istituzione, l’organo o l’organismo dell’Unione interessato, di ritenere che la divulgazione di alcune categorie di documenti pregiudichi, in linea di principio, l’interesse tutelato dall’eccezione che esso invoca, fondandosi su simili considerazioni generali, senza essere tenuto ad esaminare concretamente e individualmente ciascuno dei documenti richiesti (…).  60 Tuttavia, un’istituzione, un organo o un organismo dell’Unione non è tenuto a fondare la propria decisione su una siffatta presunzione generale, ma può sempre procedere a un esame concreto dei documenti menzionati nella domanda di accesso e fornire una motivazione al riguardo. 61 Ne consegue che il ricorso a una presunzione generale di riservatezza costituisce soltanto una mera facoltà per l’istituzione, l’organo o l’organismo dell’Unione interessato, il quale conserva sempre la possibilità di procedere a un esame concreto e individuale dei documenti di cui trattasi per determinare se, in tutto o in parte, questi siano tutelati da una o più eccezioni previste all’articolo 4 del regolamento n. 1049/2001.>>

Di conseguenza, sostenere, come fa la ricorrente, che il proprio fascicolo beneficiava necessariamente di una presunzione generale di riservatezza è erroneo : il tribunale ha facoltà di stabilirla ma anche di negarla (§ 62).

Questo è il primo motivo d’interesse della pronuncia.

Poi la CG passa ad esaminare l’eccezione, secondo cui Tribunale non avrebbe dato peso al fatto che l’istanza d’accesso era è stata avanzata da un concorrente: il che avrebbe potuto avere un negativo impatto commerciale sulla ricorrente (§ 80).

La CG però lo respinge, osservando che <<  82 (…) la ricorrente non espone le ragioni per le quali il Tribunale avrebbe commesso un errore di diritto nel considerare che i passaggi della relazione controversa che erano stati divulgati non costituivano dati che potevano rientrare nell’eccezione relativa alla tutela degli interessi commerciali, prevista all’articolo 4, paragrafo 2, primo trattino, del regolamento n. 1049/2001, non avendo concretamente e precisamente individuato, dinanzi all’EMA, nonché nell’atto di ricorso presentato dinanzi allo stesso Tribunale, quali di quei passaggi, se divulgati, potevano arrecare pregiudizio ai suoi interessi commerciali.   83 Del resto, l’argomento della ricorrente equivale a invocare una presunzione generale di riservatezza a favore della relazione controversa nel suo complesso nell’ambito di un motivo diretto contro la valutazione operata dal Tribunale dell’esito dell’esame concreto e individuale alla luce del quale l’EMA ha deciso di concedere un accesso parziale a tale relazione>>.

Interessante è anche il punto in cui la Corte ammette che il tribunale ha sbagliato nel ravvisare la necessità di una pregiudizio grave (serious), non previsto dall’art. 4/2 del reg. cit. Tuttavia questo errore non ha poi inciso sull’esito decisionale (§§ 90-92)

Infine arriva il punto più interessante della sentenza, circa il ricorrere dell’eccezione di tutela di interessi commerciali. La relativa trattazione è ai punti 94-97,  che vale la pena di riferire quasi integralmente:

<< 94 (…) qualora un’istituzione, un organo o un organismo dell’Unione, investito di una domanda di accesso a un documento decida di respingere tale domanda sulla base di una delle eccezioni previste dall’articolo 4 del regolamento n. 1049/2001 al principio fondamentale di trasparenza (…), spetta ad esso, in linea di principio, spiegare in che modo l’accesso a tale documento potrebbe pregiudicare concretamente ed effettivamente l’interesse tutelato dall’eccezione in questione. Inoltre, il rischio di un siffatto pregiudizio deve essere ragionevolmente prevedibile e non puramente ipotetico (…) .   95 Allo stesso modo, spetta a una persona che chiede l’applicazione di una di tali eccezioni, da parte di un’istituzione, un organo o un organismo al quale si applica detto regolamento, fornire, in tempo utile, spiegazioni equivalenti all’istituzione, all’organo o all’organismo dell’Unione di cui trattasi>>.

E’ vero che un uso improprio dei dati contenuti in un documento al quale è richiesto l’accesso può arrecare pregiudizio agli interessi commerciali di un’impresa.   Tuttavia << 96 … , in considerazione dell’obbligo di fornire spiegazioni come quelle di cui al punto 95 della presente sentenza, l’esistenza di un siffatto rischio deve essere dimostrata. A tale riguardo, una semplice affermazione non circostanziata relativa a un rischio generale di uso improprio non può condurre a ritenere che tali dati rientrino nell’eccezione prevista all’articolo 4, paragrafo 2, primo trattino, del regolamento n. 1049/2001, in assenza di qualsiasi altra precisazione, fornita dalla persona che chiede l’applicazione di tale eccezione dinanzi all’istituzione, all’organo o all’organismo di cui trattasi prima che quest’ultimo adotti una decisione a tale riguardo, circa la natura, l’oggetto e la portata di detti dati, che possa fornire lumi al giudice dell’Unione sul modo in cui la loro divulgazione sarebbe idonea ad arrecare concretamente pregiudizio in modo ragionevolmente prevedibile agli interessi commerciali delle persone interessate dai medesimi dati.  97 Orbene … la ricorrente non ha dimostrato, nell’atto di ricorso dinanzi al Tribunale, di aver fornito all’EMA prima dell’adozione della decisione controversa, e malgrado abbia avuto l’opportunità di prendere posizione sull’eventuale riservatezza di taluni elementi contenuti nella relazione controversa, spiegazioni circa la natura, l’oggetto e la portata dei dati di cui trattasi che consentano di concludere per la sussistenza del rischio invocato, alla luce, in particolare, delle considerazioni esposte ai punti da 89 a 92 della sentenza impugnata da cui emerge che la divulgazione di tali dati non poteva arrecare pregiudizio ai legittimi interessi della ricorrente. In particolare, l’argomento della ricorrente non può consentire di dimostrare che il Tribunale abbia commesso un errore di diritto nell’aver considerato, al punto 89 della sentenza impugnata, che la ricorrente non aveva dimostrato che completando e combinando i dati accessibili al pubblico con quelli che non lo sono si crea un dato commerciale sensibile la cui divulgazione arrecherebbe pregiudizio agli interessi commerciali della ricorrente>>.

Altra sentenza inglese sulla legittimità in diritto di autore del linking (dell’hotlinking, per la precisione)

La Chancery Division inglese in data 15.01.2020 ha deciso una lite sulla liceità dell'<<hotlinking>>: In the High Court Of Justice-Business And Property Courts Of England And Wales- Chancery Appeals (Ch.D.), caso [2020] EWHC 27 (Ch)  Appeal Ref: CH-2018-000224, Christopher Wheat c. Google LLC.

Era capitato che immagini caricate dal titolare su un certo sito (chiamiamolo “sito 1”) venissero postposte dalle query generate da Google Search alle stesse immagini comparenti tramite la tecnica dell’hotlinkinkg. Questa tecnica permette, inserendo opportuni codici, di far apparire sul proprio sito (chiamiamolo “sito 2”) immagini presenti un sito altrui (appunto il sito 1). Sul web si parla di furto di immagini e  l’attore Mr Wheat parlava di “hijacking”/dirottamento delle immagini (§ 11).

Secondo l’attore, Google Search, quando fornisce links alle pagine munite di hotlinking, realizza “comunicazione al pubblico” (art. 3 dir. 29/2001; art. 16 della ns. legge d’autore).

Va notato che: i) le immagini erano caricate dall’attore senza restrizioni; ii) egli non si era opposto all’indicizzazione da parte di Google Search

All’inizio is leggono interessanti considerazioni sul funzionamento del web crawling da parte di Google Search e dell’hotlinking (§§ 9-10).

La lamentela di Mr. Wheat era basata sul fatto che: 1)  Google dava una (errata) attribuzione delle immagini agli hotlinking websites; e che 2) in tal modo i sogetti interessati alle foto non passavano per il suo sito (ma su quello altrui!), con conseguente sua perdita di traffico e profitti publicitari (§ 11) Aggiugeva anzi che Google lo faceva o almeno lo permetteva deliberatamente, perché in tal modo percepiva una parte dei profitti così realizzati da detti siti hotlinkers (ivi).

Il giudice ricorda poi i cinque punti su cui le parti concordavano in causa (§ 27):

<<The following relevant matters are common ground between the parties. First, hotlinking is done by third parties, not by Google, and is anyway lawful. Second, internet users who view the copyright images via the hotlinking websites are in fact directly viewing the content on the Website by means of the server that hosts it. Third, therefore, there has been no infringement of the copyright in the images by copying; those who view the images via the hotlinking websites are doing so lawfully. Fourth, Mr Wheat has consented to Google searching, indexing and caching the content of the Website. Fifth, the Website content was available without restriction to all internet users: there was no payment or subscription requirement and no control on access to the Website.>>

Il giudice quindi non capisce perchè faccia differenza vedere le immagini nel sito 1 o nel sito 2 (§ 28, in fine).

Delle tre ragioni addotte dall’attore a giustificazione della differenza, le prime due sono rigettate con poche righe  perché palesemente infondate (§§ 30-31)

Meno scontata è la terza così riassumibile: “did Mr Wheat’s consent to Google indexing his content include consent to Google redirecting those who clicked on the links to the content to third-party websites?” (§ 32). cioè: l’attore, caricando le foto sul suo sito, aveva forse permesso a Google di reindirizzare agli hotlinkers i navigatori che cliccavano sui links? Certamente no, disse il difensor di mr Wheat (ivi).

A questo punto il giudice si riporta alla ben più approfondita sentenza -di poco precedente- del collega Birss nel caso Warner Music UK Ltd v TuneIn Inc [2019] EWHC 2923 (Ch) oggetto di post in questo blog , riportandone i principali passaggi di esame della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE.

Poi, quasi all’improvviso, abbandona il resoconto dei precedenti inglese ed europei, per motivare in otto righe perchè Google Search non effettua una comunicazione al pubblico: <<In my judgment, the reasoning in Svensson, BestWater and GS Media is determinative of this appeal. The acts complained of against Google cannot be unlicensed communications, because they are not communications to a new public (all potential users of the unrestricted Website constituting one public, so far as concerns a case involving communication via hotlinking) and are not communications by a new technical means (the internet constituting a single technical means). This was in substance the reasoning of the Chief Master on the point that arises on this appeal. Therefore the appeal fails>> (§ 48).

In breve, Google non effettua una comunicazione al pubblico perchè nè si tratta di mezzo tecnico diverso da quello della  prima diffusione (upload nell’ web), né è offerta ad un pubblico nuovo (l’immagine caricata lecitamente è diretta a tutti i potenziali web-naviganti).

Registrazione di marchio SUSSEX ROYAL e successiva perdita del titolo reale

La vicenda di Harry e Maghan d’Inghilterra ha anche interessante risvolto  di proprietà industriale (o intellettuale che dir si voglia).

La giovane coppia aveva Infatti chiesto la registrazione nel Regno Unito  del marchio denominativo SUSSEX ROYAL (n° UK00003408516) nonchè SUSSEX ROYAL THE FOUNDATION OF THE DUKE AND DUCHESS OF SUSSEX (n° UK00003408521), domande depositate il 21.06.2019. Le domande erano state presentate a nome di <<Sussex Royal The Foundation Of The Duke And Duchess Of Sussex>>

Notizia appresa da Nedim Malovic su IPKat del 3 gennaio 2020.

I due hanno anche aperto <<the official website of the Duke   § Duchess of Sussex>> sotto il dominio https://sussexroyal.com/  : risulta creato il 15 marzo 2019 nel database Whois di register.it .  Hanno aperto pure un account Instagram.

I media (v. ad es. CNN del 20.01.2020) hanno dato notizia dell’accordo raggiunto tra i due e i rimanenti familiari, a seguito della scelta di vivere in modo indipendnete.

Qualche blog di proprietà itntellttuale ha ricordato che son già fiorite iniziative commerciali che hanno cercato di registrare segni distintivi uguali o analoghi: v. Bonadio-De Cristofaro su Kluwer Trademark blog del 20.01.2020.

Una delle conseguenze (dei patti?) dell’accordo tra la giovane coppia e gli altri familari prevede la perdita del titolo reale, evidentemente secondo l’ordinamento nobiliare a cui appartengono (ora si legge che la Regina starebbe per vietare l’uso del ‘Sussex Royal’ label: così il Telegraph dl 19.02.2020). Il che genera qualche riflessione di proprietà intellettuale.

Avendo i due inserito nella domanda di marchio il titolo nobiliare , ci si può chiedere se la perdita del (rinuncia al) diritto al titolo abbia conseguenze sulla concedibilità del marchio stesso. Non si può rispondere con precisione, non conoscendosi l’esatta ampiezza di tale perdita : tuttavia ragiono come se fosse totale.

Se fosse applicabile il diritto italiano, si potrebbe ipotizzare un motivo di decettività oppure una mancanza di diritto su un segno che ha una notorietà extracommerciale ex art. 8/3 C.P.I..

Se poi fosse comunque concesso, si potrebbe ipotizzare una rivendica ex art. 118 c.p.i.

Non parrebbe invece ipotizzabile una domanda in malafede ex art. 19 comma 2: a meno -forse- che il soggetto interessato (e legittimato: chi sarà nell’ordinamento nobiliare?) provi che la registrazione era stata chiesta, quando già la questione della perdita del titolo era stata discussa o comunque era già emersa.

La decettività sarebbe da escludere, dal momento che dell’accordo citato e della perdita del titolo reale hanno dato ampia notizia i mass media di tutto il mondo. Tuttavia potrebbe sempre sostenersi che servisse la dichiarazione di decadenza per fare ulteriore totale chiarezza

Circa la rivendica,  si presuppone che il diritto di registrare spetti a qualcun altro: anche qui evidentemente secondo l’ordinamento nobiliare. Se questo avviene, il legittimato può ottenere i provvedimenti indicati dal comma 2 oppure dal comma 3. A meno che -ad esempio- l’ordinamento nobiliare escluda in radice l’utilizzo commerciale del titolo reale. E sempre che lo Stato dia riconoscimento a questo ordinamento particolare (nobiliare), che in tal modo influirebbe sull’ordinamento statale (il che sarà probabile, trattandosi di monarchia).

Il motivo principale di opposizione  parrebbe l’art. 8 c.3 cod. propr. ind. (o norma corrispondente). Sebbene il titolo reale, stando al dettato della disposizione, non vi rientri, un’intepretazione estensiva potrebbe riuscire a farlo rientrare nella sua area applicativa.

Per il diritto d’autore costituisce “comunicazione al pubblico” noleggiare veicoli con radio preinstallate?

La Corte di Giustizia è chiamata a rispondere alla domanda del giudice svedese concernente il se noleggiare autoveicoli con sistemi radio preinstallati costituisca comunicazione al pubblico per il diritto di autore (e quindi se via vietata, tranne consenso dei titolari).

Sono state pubblicate le conclusioni dell’Avvocato Generale (A.G.) Szpunar 15 gennaio 2020 in causa C-753/18 Stim-SAMI c. Fleetmanager Sweden-Nordisk Biluthyrning.

La lite era nata dalla pretesa delle collecting society svedesi di ottenere il pagamento dei diritti per il loro repertorio a carico delle società che noleggiavano veicoli con sistemi radio preinstallati

Viene naturalmente alla mente il noto caso Sgae c. Rafael Hoteles SA del 2006, in cui la stessa domanda era stata avanzata nei confronti di un albergo che aveva installato apparecchi radiotelevisivi nelle stanze dei clienti

L’A.G. fa presente la ricchezza notevole di giurisprudenza in tema di comunicazione al pubblico  nel diritto di autore (§ 1).

Dopo un veloce sunto delle principali decisioni (§§ 24/30), egli ricorda che per la comunicazione al pubblico è necessario il ruolo dell’utente, che <<intervenga con piena cognizione di causa>> (§ 31).

In particolare il punto in comune alle varie fattispecie, in cui la comunicazione al pubblico è stata ravvisata, è <<il nesso diretto tra l’intervento dell’utente e il materiale protetto in tal modo comunicato. Tale punto in comune rappresenta l’elemento centrale in assenza del quale non si può parlare di un atto di comunicazione>> (§ 35)

In questo senso, dice l’AG, nel caso più vicino (che -come detto- è il caso Sgae c. Rafael Hoteles SA) , quello che contò non fu l’installazione di apparecchi televisivi nelle camere d’albergo ma la distribuzione del segnale (§ 37). Precisamente il punto richiamato (§ 46) di questa sentenza del 2006  dice così…<<Orbene, anche se la mera fornitura di attrezzature fisiche, che coinvolge, oltre all’albergo, abitualmente imprese specializzate nella vendita o nella locazione di apparecchi televisivi, non costituisce, in quanto tale, una comunicazione ai sensi della direttiva 2001/29, tuttavia tale istallazione può rendere tecnicamente possibile l’accesso del pubblico alle opere radiodiffuse. Pertanto, se, mediante apparecchi televisivi in tal modo installati, l’albergo distribuisce il segnale ai suoi clienti alloggiati nelle camere dello stesso, si tratta di una comunicazione al pubblico, senza che occorra accertare quale sia la tecnica di trasmissione del segnale utilizzata.>>.

Mi pare dubbia l’esattezza dell’affermazione dell’AG, dato che non è preminente la sola distribuzione del segnale, ma la combinazione <<apparecchi+segnale>>: i primi senza il secondo non svolgono la loro funzione e sono economicamente un non senso.

Ne segue che <<le imprese di autonoleggio non effettuano alcun intervento direttamente concernente le opere o i fonogrammi che vengono radiodiffusi e che possono essere eventualmente ascoltati dai loro clienti tramite gli apparecchi radio in dotazione degli autoveicoli noleggiati. Tali società si limitano a fornire ai loro clienti veicoli equipaggiati dai produttori con impianti radio. Sono i clienti delle società medesime a decidere se ascoltare o meno le trasmissioni radiofoniche>> ( § 38).  Tali apparecchi radio <<sono concepiti per poter captare, senza alcun ulteriore intervento, la radiodiffusione terrestre accessibile nelle zone in cui si trovano. L’unica comunicazione al pubblico che si verifica è, quindi, la comunicazione effettuata dagli organismi di radiodiffusione. Non sussiste, invece, alcuna comunicazione al pubblico successiva, segnatamente da parte delle società di autonoleggio>> (§ 39).

Il ruolo delle società di autonoleggio  <<si limita quindi alla mera fornitura di attrezzature atte a rendere possibile una comunicazione al pubblico, il che, in forza del considerando 27 della direttiva 2001/29, non costituisce una comunicazione di tal genere si limita La mera fornitura di attrezzatura>> (§ 40).

Al § 42 dice però che non è rilevante il fatto che gli apparecchi radio siano installati dai fabbricanti.

L’affermazione è discutibile, poichè è invece proprio questo a differenziare il caso odierno dal caso SGAE cit. Mentre nel secondo era stato l’albergatore a creare la possibilità recettiva del segnale, installando apparecchi e posando cavi in hotel, nel caso odierno l’impresa di autonoleggio si è limitata a comperare i veicoli così come già erano; né si può ragionevolmente pretendere che, dopo l’acquisto, esse rimuovano gli apparecchi radio che trovano preinstallati.

Si potrebbe allora pretendere che li acquistassero senza radio (scelta un tempo possibile al momento dell’acquisto: da vedere se ancora oggi). Tale pretesa sarebbe però economicamente irrazionale e quindi assurda (“inesigibile”). A quesrto punto , tuttavia, anche per gli albergatori varrebbe la stessa considerazione: il fatto che la prassi sia tale da prevedere sempre le televisioni nelle stanze, fa sì che nessun albergatore possa ragionevolmente offrire stanze senza TV, se vuole stare nel mercato. Per cui anche la scelta dell’albergatore, sul se offrire o meno l’apparecchio radio televisivo, praticamente è necessitata e quindi non libera: per cui non c’è intrervento sufficiente per ravvisare una comunicazione al pubblico.

Da ultimo (§ 43-44), secondo  l’AG, è errato sostenere che induca a ravvisare comunicazione al pubblico il fatto che l’offerta dell’apparecchio radiotelevisivo renda più attrattiva e quindi più redditizia l’attività di autonoleggio. Evidentemente le collecting societies, sollevando questo punto, si riferivano alla nutrita giurisprudenza europea, secondo cui il fine di lucro è rilevante per la <<valutazione individualizzata>> da condurre per ravvisare la comunicazione al pubblico. Questa opinione è stato resa nota ai più soprattutto con il caso sulla liceità dei links GS Media 08.09.2016 C‑160/15  (ivi v. § 47), anche se le sue radici affondano in sentenze più risalenti (ad es. già in  Società Consortile Fonografici (SCF) c. Del Corso, 15.03.2012 C‑135/10, §§ 76 e 78).

Questa valutazione non è condivisibile, dato che immotivatamente inserisce nella fattispecie l’elemento dell’intento lucrativo (soggettivamente o oggettivamente determinato, è indifferente), che però la legge non prevede. Nemmeno è ammissibile considerandolo indice di consapevolezza dell’illiceità, come spesso pure soi è affermato: la necessità dell’elemento soggettivo infatti oblitera immotivatamente la distinzione tra lesione del diritto (che non lo richiede) e sua dannosità (che invece lo richiede), distinzione cui fanno capo rimedi diversi (restitutorio-ripristinatori nel primo caso, risarcitori e penali nel secondo).

Tuttavia , se si accetta tale diffusa opinione , l’allegazione delle collecting svedesi era pertinente.

La risposta dell’AG  non è soddisfacente perché non chiara. Sembra di capire che egli escluda la rilevanza dell’elemento lucrativo , dal momento che in ogni caso l’attività delle imprese di autonoleggio non costituisce nulla più che una mera fornitura di infrastrutture fisiche (§ 44). In senso contrario va osservato che la valutazione individualizzata  e quindi anche il giudizio sulla lucrosità, se è necessaria per giudicare se ricorra o meno <<comunicazione al pubblico>>, non può essere esclusa a priori dicendo che si tratta di mera fornitura di infrastruttura. Questo potrà essere l’esito del giudizio, non il punto di partenza per escludere il requisito della lucrosità-.

La violazione di un contratto di licenza di software rientra nell’ambito applicativo della direttiva 2004/48? Si, per la Corte di Giustizia

E’  capitato in Francia che un soggetto, dopo aver licenziato un software, abbia citato in giudizio il licenziatario per violazione del contratto di licenza (per modifica non autorizzata del programma).

Ivi vige il divieto di cumulo tra tutela aquiliana e tutela contrattuale: per il medesimo fatto non si può rispondere sia per l’uno che per l’altro titolo; inoltre, se il contratto è valido e il danno deriva dall’inadempimento, è esclusa la responsabilità aquiliana ( §  23 della sentenza cit. infra).

Processualmente era capitato -se ben intendo- che era stata chiesta la condanna al risarcimento per contraffazione (responsabilità aquiliana), pur emergendo dagli atti che il danno era conseguenza di una violazione contrattuale (§ 18).

la corte d’Appello di Parigi sollevava dunque la seguente questione:

«Se il fatto che un licenziatario di software non rispetti i termini di un contratto di licenza di software (per scadenza di un periodo di prova, superamento del numero di utenti autorizzati o di un’altra unità di misura, quali i processori utilizzabili per far eseguire le istruzioni del software, o per modifica del codice sorgente allorché la licenza riserva tale diritto al titolare originario):

–        costituisca una contraffazione (ai sensi della direttiva [2004/48]) subita dal titolare del diritto d’autore del software riservato dall’articolo 4 della direttiva [2009/24] relativa alla tutela giuridica dei programmi per elaboratore,

–        oppure possa essere soggetto a un regime giuridico distinto, come quello della responsabilità contrattuale di diritto comune».

In breve, si chiede se la violazione di un contratto di licenza di software sottosti alla disciplina posta dalla direttiva 2004/48 oppure se questa si riferisca solo alle violazioni commesse da terzi privi di rapporti contrattuali col titolare.

E’ allora intervenuta la Corte di Giustizia con sentenza 18.12.2019, C-666/18,  IT Development SAS c Free Mobile SAS.

La questione può essere risolta in termini semplici, anche se presenta spazi interessanti di approfondimento.

La soluzione è infatti senz’altro nel senso che pure le violazioni contrattuali della proprietà intellettuale sottostanno alla dir. 2004/48.

Come ricorda la Corte  (§ 35-36), la dir.,  parlando di “rispetto” e di “violazione” dei “diritti di proprietà intellettuale”, non c’è dubbio che si riferisca non solo ai diritti ex lege ma anche a quelli conformati o modulati da atto dispositivo (quindi da contratto).

Nè c’è dubbio che si riferisca anche ai diritti sul software ex dir. 2009/24

Dopo che l’atto contrattuale ha disposto della privativa, infatti, violarla nella modalità così conformata rimane una violazione. Cioè violare l’atto pattizio conformativo della privativa significa violare la privativa stessa, seppur nella conformazione emersa dall’atto dispositivo.

Lo spazio di approfondimento a cui accennavo riguarda il caso, in cui il titolare leso scelga la tutela contrattuale, anziché aquiliana. Poichè anche la prima, come appena visto, rientra nell’ambito della direttiva 2004/48, ci si può chiedere se la tutela offerta dalla disciplina del contratto (nazionale anzichè armonizzata; essendo difficile pensare all’incidenza della normativa consumeristica che eventualmente prevarrebbe come norma speciale) risponda alle prescrizioni della direttiva medesima. Profilo nuovo e meritevole di approfondimento.

Il concorso tra le due responsabilità,  in linea generale, è tema assai risalente e trova un’applicazione nazionale in materia di marchi: precisamente nel comma 3 dell’articolo 23 c.p.i. Tale disposizione viene interpretata  come regola che permette la scelta a favore dell’azione contrattuale, anziché di quella aquiliano/contraffattoria (quantomeno l’interpretazione preferibile) .

Un’importante sentenza inglese sulla comunicazione al pubblico effettuata da aggregatore di radio internet (Warner e Sony v. TuneIn)

Con l’importante sentenza del 1 novembre 2019, [2019] EWHC 2923 (Ch) Case No: IL-2017-000025, la High Court of Justice-Business & Property Courts of England and Wales. Intellectual Property List, a firma del giudice Birss , interviene sul dibattito inerente la comunicazione al pubblico di opere già rese pubbliche in precedenza (esiste poi una seconda sentenza parallela nella medesima lite,  [2019] EWHC 3374 (Ch) – claim No. IL-2017-000025, relativa solo ad inibitoria e costi, qui non esaminata). Ne dà notizia

Nella fattispecie Warner Music e Sony Music Entertainment sostenevano che la TuneIn Incorporated, quale aggregatore di internet radio stations, dovesse ottenere da loro licenza (§ 11), come avviene quando le radio si rivolgono a collecting societies per diffondere musica dei loro repertori (§§ 3-4). TuneIn lo contestava, affermando di limitarsi a fornire hyperlinks ad opere già rese pubbliche.

La Corte (EWHC) affronta la questione con pregevole approfondimento, tutto concentrato sui fatti e sulla giurisprudenza, come nella prassi anglosassone.

Prima compare un’introduzione sui fatti (§§ 1-10: v. spt. quelli che descrivono l’attività di TuneIn) e l’esame della (fondamentale, per gli operatori) questione di giurisdizione, c.d. audience targeting test (§§ 12-34), usato in common  law (v. ad es. Belfield, Establishing personal jurisdiction in an internet context: reconciling the fourth circuit “targeting” test with Calder v. Jones using awareness, in UNIVERSITY OF PITTSBURGH LAW REVIEW vol. 80, winter 2018).

Poi il giudice Birss affronta la questione relativa alla comunicazione al pubblico. Inizia ricordando la normativa rilevante (§§ 35 ss) e poi -con un apprezzabile dettaglio- la giurisprudenza europea (§§ 48 ss)

In particolare come ovvio si riferisce essenzialmente ai casi Svensson del 2014 e GS Media del 2016: si v. ad es. § 66 dove coglie la novità costituita dalla rilevanza dello stato soggettivo di conoscenza in capo alla persona che crea il link per capire se o meno ha commesso comunicazione al pubblico , rilevanza propria della accessory tort liability (corresponsabilità aquiliana), che non è armonizzata in UE.

Al § 90 esamina la sentenza Renckhoff del 2018, che potrebbe essere ritenuta confliggente con GS Media . La  conciliazione da parte del giudice è trovata nei §§ 101-102. Il punto è molto importante: quando taluno acconsente alla pubblicazione su un sito, è vero che prende in considerazione tutti i potenziali utenti del web, ma solo come destinatari di link al sito stesso, non dei file ivi presenti (si v. al § 109 la sintesi di altra sentenza inglese del 2013 sull’acquis europeo in tema di comunicazione al pubblico ).

Questo passo centrale della motivazione è però di dubbia esattezza: si v. in senso contrario le conclusioni dell’Avvocato Generale Sanchez-Bordona nella causa  Renckhoff , andate disattese dalla Corte europea.

Il giudice Birss ricorda che la differenza tra Renckhoff e Soulier del 2016, da una parte, e Svensson, dall’altra, sta nel fatto che la divulgazione tramite link permette al titolare di rimuovere da internet il materiale, quando lo voglia; il che invece non è possibile se la divulgazione è avvenuta riproducendo il file su un nuovo sito (§ 104).

Questo però -preciso io- non toglie che i pubblici considerati siano i medesimi: allora la differenza non è tra i pubblici considerati in assoluto , ma tra pubblici considerati a seconda del possibile successivo mezzo di diffusione del materiale e o della notizia. Si tratta di fictio iuris. Il punto -centrale, lo ripeto- richiederebbe approfondimento.

Al § 113 il giudice categorizza le internet radio stations in quattro tipi, per poi analizzarli partitamente:

i) music radio stations which are licensed in the UK (Category 1);

ii) music radio stations which are not licensed in the UK or elsewhere (Category 2);

iii) music radio stations which are licensed for a territory other than the UK (Category 3); and

iv) Premium music radio stations (Category 4).

Ssuccessivamente valuta l’applicabilità della comunicazione al pubblico al servizio di TuneIn ( § 120 ss.).

Al § 121 esamina i normali motori di ricerca e quindi afferma che Tunein non  è equiparabile ad un ordinario search engine ( § 121) :

<<In argument neither party put it this way but it seems to me that when making a comparison with internet search engines it is necessary to identify the appropriate comparator. The relevance of the comparison is to illuminate where the balance lies between the functioning of the internet and the freedoms associated with that on the one hand, and the high protection to be afforded to intellectual property rights on the other. The issue is whether TuneIn does something different from the kind of search engine service which is a necessary part of the normal functioning of the internet. I call that a conventional search engine. A conventional search engine provides a service which the functioning of the internet depends on. It has a database with a search facility. It will no doubt have a prominent box for search on its home page. It will (internally) have structured indices of what is on the database. It may use fuzzy logic and automatic completion of text strings. When a search term is entered, the engine simply provides links to other websites in response to search terms. If a user selects the link then, at least from their point of view, the user is taken to that other website and the involvement of the search engine ceases. The search function is optimised in all sorts of ways to try and offer users what the search engine provider thinks the user really wants, nevertheless the search results provided are essentially neutral. Sponsored links (i.e. advertisements) may also be provided, reflecting a direct relationship between the search engine and particular websites or advertisers, but that sort of material is provided alongside the search results, not instead of them>>

Al § 123 elenca le caratteristiche del servizio Tunein: aggregation, categorization, curation of stations Lists, personalisation of content, search functionality, Station information, Artist information:

i) Aggregation: TuneIn collates and provides access to a vast array of international radio station streams. It essentially acts as a ‘one-stop shop’ for users, who are easily able to browse, search for and listen to stations in one place. The alternative for users is to use a standard internet search engine to locate a webcast / simulcast station by using tailored search terms, and then click-through to their websites to listen to the specific stream. One aspect of the difference there is that in the latter case the advertising targeted to the user once they access the stream will be entirely distinct in the two cases.

ii) Categorisation: TuneIn Radio enables users to browse by categories of music, such as location, genre and language, including sub-categories within those categories. This is the most commonly used method for users to find audio content. Music stations are placed in categories based on information provided by the stations and factors such as geographical location.

iii) Curation of station lists: In addition to categorising stations, TuneIn curates lists of radio stations and programmes to present them to users as part of the browsing experience on its website and via the apps. These stations are collated by factors such as location and language or themed around current events. For example, TuneIn promotes lists of stations to users, such as “Spin the Globe” (comprising international music stations) and “Editor’s Choice – Music” (a hand-curated list of music stations). Certain stations are also listed in a “Featured” section, which is frequently updated by TuneIn to keep content relevant and non-repetitive.

iv) Personalisation of content: TuneIn Radio provides a personalised service to users, which facilitates their ability to find and listen to radio stations. TuneIn recommends stations to users based on their location, the reliability of audio streams and (in respect of registered users) the user’s listening history. Registered users are also able to view their listening history and tag their ‘favourite’ stations and/or artists, which enables them to quickly access radio stations they have previously listened to via TuneIn Radio or their favourite stations and artists.

v) Search functionality: Users are able to search TuneIn Radio for specific radio stations and artists by name. The search functionality prioritises inter alia reliable station streams and stations which are popular at that time.

vi) Station information: TuneIn collates information about music stations, which is presented on individual station pages. This includes the genre of the station and, where available, the artist and track currently playing, the station’s show timetable and related podcasts or featured shows.

vii) Artist information: TuneIn also collates information about artists on dedicated artist pages, which can be accessed by searching for the particular artist. The artist pages include a list of stations which play the particular artist (based on metadata provided by the stations) and a list of the artist’s albums. Users are also able to click-through to each album page, which displays the individual tracks on each album.

Ai §§ 127-128 indica perché TuneIn non è paragonabile al motore di ricerca che fornisce link. Si tratta del punto centrale della sentenza (§ 128):

i) The fact that TuneIn aggregates links to audio streams as opposed to links to some other form(s) of content is relevant. The audio streams carry music and as a result they engage various intellectual property rights, as TuneIn is well aware.

ii) The data collected and curated by TuneIn allows for searches of stations to be carried out by artist. Such a search returns internet radio stations which are playing music by the artist at that moment. As I understand it this is only possible as a result of TuneIn’s own monitoring stream metadata and the AIR APIs. There was evidence about what a search for internet radio stations would produce on the commonly used Google search engine but, as far as I am aware, there is no evidence that a similar search on that search engine would produce results of the same kind as TuneIn.

iii) The fact that when a station is selected, although a hyperlink to the stream is provided at a technical level, from the user’s point of view content is provided to them at the TuneIn site. In effect this is a kind of framing. The fact that framing was not relevant to answer the questions posed in Svensson (para 29) does not mean it is irrelevant to considering the nature of TuneIn’s activity.

iv) The persistent nature of the content to which the user wishes to link. This is connected to (iii) but is a different point. One of the consequences of providing streams is that they persist over time as the user listens to them. In a conventional search engine, once a user has clicked on a link, they go to the new website and the involvement of the search engine is over. That is not how TuneIn’s service works and if it was then TuneIn would not be able to provide its own visual advertisements while the user was listening.

Date queste differenze il giudice Birss conclude che << For all these reasons I find that TuneIn intervenes directly in the provision of the links to the streams in a manner which neither conventional search engines nor hyperlinks on conventional websites do. TuneIn’s service is not the same as either a conventional search engine or the conventional hyperlinks considered in Svensson and GS Media.                 Before getting to individual categories, I find therefore that the activity of TuneIn does amount to an act of communication of the relevant works; and also that that act of communication is to a “public”, in the sense of being to an indeterminate and fairly large number of persons (see Arnold J’s summary at paragraph >> (§§ 130/131)

La, pur pregevole ed accurata, disamina non riesce però persuasiva. TuneIn non appare nulla più che un fornitore di link, per quanto tailorizzato e customizzato in base ad algoritmi magari autoapprendenti, non sostanzialmente diverso -sotto il profilo della comunicazione al pubblico- da un normale motore di ricerca

Il giudice deve quindi esaminare se l’atto sub iudice, accertato come di comunicazione al pubblico,  era rivolta ad un pubblico nuovo (§ 132 seguenti, soprattutto §§ 135/136), secondo l’elaborazione giurispruedneziale europea della comunicazione al pubblico di opere già pubblicate in precedenza (quando si tratti di uso del medesimo mezzo diffusivo).

La risposta è positiva: << Therefore it is appropriate to analyse the facts on the footing that the whole internet public, insofar as they encounter a link to a Category 3 station which is provided either by a conventional search engine or some other conventional sort of website, has been taken into account. It is an inherent aspect of making this material available on the internet that that sort of linking is likely to happen.       On the other hand, absent evidence to the contrary, there is no reason why the kind of public to whom TuneIn’s system is addressed should have been taken into account. TuneIn’s activity is a different kind of act of communication and is targeted at a particular public, i.e. users in the UK>> ( §§ 139-140)

Questo per la categoria di Radio Station numero 3. Le altre categorie non le esamino ma comunque seguono subito dopo: v. §§ 143 160 per la categoria 2, §§ 161 163 per la categoria 4, §§ 164 171 per la categoria 1.

Successivamente esamina la qualificazione giuridica del servizio Premium cioè senza pubblicità (§§ 172 e seguenti)

Interessante anche la disamina sulla responsabilità di coloro che forniscono i servizi radio cioè delle singole radio (§§ 192 e seguenti) : circa la categoria 3 (condivisibilemtne) afferma che c’è comunicazione al pubblico (§ 193).

Infine ai §§  205 ss nega l’applicazione della direttiva e-commerce n. 31 del 2000 nella parte in cui concede il safe harbour agli internet providers (artt. 12-15).

La conclusioni sono al paragrafo 213:

i) TuneIn’s service (web based or via the apps), insofar as it includes or included the sample stations in Categories 2, 3, and 4, infringes the claimants’ copyright under s20 of the 1988 Act.

ii) TuneIn’s service (web based or via the apps), insofar as it includes the sample stations in Category 1, does not infringe the claimants’ copyright under s20 of the 1988 Act.

iii) TuneIn’s service via the Pro app when the recording function was enabled infringed the claimants’ copyright under s20 of the 1988 Act insofar as it included the sample stations in Categories 1, 2, 3, and 4.

iv) Individual users of the Pro app who made recordings of sound recordings in claimants’ repertoire will themselves have committed an act of infringement under s17 of the 1988 Act. Some but not all will have fallen within the defence in s70.

v) The providers of sample stations in Categories 2, 3, and 4 will (or did) infringe when their station was targeted at the UK by TuneIn.

vi) TuneIn is liable for infringement by authorisation and as a joint tortfeasor.

vii) TuneIn cannot rely on the safe harbour defences under Arts 12, 13 and 14 of the E-Commerce Directive.

Sull’evocazione di una D.O.P. tramite segno figurativo anziché denominazione

Nello scorso maggio la Corte di Giustizia si è pronunciata su interessanti questioni teoriche in materia di DOP , di sicura rilevanza pratica: sentenza 2 maggio 2019, C-614/17, Fundación Consejo Regulador de la Denominación de Origen Protegida Queso Manchego c. Industrial Quesera Cuquerella SL-Juan Ramón Cuquerella Montagud.

Nel caso specifico si trattava della DOP <<queso manchego>> relativa a formaggi provenienti dalla regione spagnola de La Mancia

Era capitato che un produttore della zona (IQC), commercializzante formaggi non conformi al disciplinare della DOP,  con le sue etichette richiamava non direttamente la DOP bensì la regione spagnola appunto de La Mancia: ciò faceva soprattutto tramite richiami al personaggio letterario di Don Chisciotte della Mancia.

La sentenza (§ 7) menziona i tre tipi sotto ricordati (che potrebbero essere quelli rappresentati nelle fotografie linkate, tratte dalla Rete):

<<Adarga de Oro>>;

<<Super Rocinante>>;

<<Rocinante>>;

La Fondazione riteneva che ciò costituisse evocazione illegittima della DOP sulla base dell’art. 13 lett. b) del reg. 510/2006 (§ 7 sentenza CG). Il testo dell’art. 13 il cui testo è:

<< 1.   Le denominazioni registrate sono tutelate contro:

a)  qualsiasi impiego commerciale diretto o indiretto di una denominazione registrata per prodotti che non sono oggetto di registrazione, nella misura in cui questi ultimi siano comparabili ai prodotti registrati con questa denominazione o nella misura in cui l’uso di tale denominazione consenta di sfruttare la reputazione della denominazione protetta;

b) qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali «genere», «tipo», «metodo», «alla maniera», «imitazione» o simili;

c) qualsiasi altra indicazione falsa o ingannevole relativa alla provenienza, all’origine, alla natura o alle qualità essenziali dei prodotti usata sulla confezione o sull’imballaggio, nella pubblicità o sui documenti relativi ai prodotti considerati nonché l’impiego, per il condizionamento, di recipienti che possono indurre in errore sull’origine;

d) qualsiasi altra prassi che possa indurre in errore il consumatore sulla vera origine dei prodotti.

Se una denominazione registrata contiene il nome di un prodotto agricolo o alimentare che è considerato generico, l’uso di questo nome generico sui corrispondenti prodotti agricoli o alimentari non è considerato contrario al primo comma, lettera a) o b).>>.

La Fondazione agiva quindi verso IQC ma vedeva respinta la domanda in primo e secondo grado. Successivamente il Tribunal Supremo formulava tre importanti questioni pregiudiziali (§ 14):

<<1 – Se l’evocazione della [DOP], evocazione che è vietata dall’articolo 13, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 510/2006, debba necessariamente derivare dall’uso di denominazioni che presentano una somiglianza visiva, fonetica o concettuale con la [DOP] o se possa derivare dall’uso di segni figurativi che evocano la [DOP].

2  –   Nel caso di una [DOP] di natura geografica [articolo 2, paragrafo 1, lettera a), del regolamento n. 510/2006] e in presenza degli stessi prodotti o di prodotti simili, se l’uso di segni che evocano la regione cui è associata la [DOP] possa essere considerato un’evocazione della stessa [DOP], ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 510/2006, che è inaccettabile anche nel caso in cui colui che utilizzi tali segni sia un produttore stabilito nella regione cui è associata la [DOP], ma i cui prodotti non sono protetti da tale [DOP], perché non soddisfano i requisiti, diversi dall’origine geografica, richiesti dal disciplinare.

3 – Se la nozione di consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, alla cui percezione deve fare riferimento il giudice nazionale per determinare se esista un’“evocazione” ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 510/2006, debba intendersi riferita a un consumatore europeo o possa essere riferita solo al consumatore dello Stato membro in cui si fabbrica il prodotto che dà origine all’evocazione dell’indicazione geografica protetta o cui è associata geograficamente la DOP, e in cui esso si consuma maggiormente>>.

Sulla prima,  la CG risponde che l’evocazione può derivare anche da un’immagine e non solo da un segno denominativo. La risposta è condivisibile, non essendoci alcun limite nella norma in tal senso, né essendo desumibile dalla successiva lettera c) nel senso che solo in questa fattispecie rileverebbe l’evocazione tramite immagine (§§ 23-28).

La seconda questione è meno semplice sotto il profilo teorico. Secondo la CG anche l’evocazione della Regione può costituire evocazione della dop e ciò anche se il produttore risieda nella regione stessa, purchè in tal modo il consumatore sia portato a pensare alla DOP.  Precisamente così dice (§§ 38-40):

<< 38  In tal modo, il giudice nazionale deve sostanzialmente fondarsi sulla presunta reazione del consumatore, essendo essenziale che il consumatore effettui un collegamento tra gli elementi controversi, nel caso di specie segni figurativi che evocano l’area geografica il cui nome fa parte di una denominazione d’origine, e la denominazione registrata (v., in tal senso, sentenza del 21 gennaio 2016, Viiniverla, C‑75/15, EU:C:2016:35, punto 22). 

39      A tale riguardo, spetta a tale giudice valutare se il nesso tra tali elementi controversi e la denominazione registrata sia sufficientemente diretto e univoco, di modo che il consumatore, in loro presenza, è indotto ad avere in mente soprattutto tale denominazione (v., in tal senso, sentenza del 7 giugno 2018, Scotch Whisky Association, C‑44/17, EU:C:2018:415, punti 53 e 54). 

40      Pertanto, spetterà al giudice del rinvio stabilire se esista una vicinanza concettuale, sufficientemente diretta e univoca, tra i segni figurativi di cui al procedimento principale e la DOP «queso manchego», che, conformemente all’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), del regolamento n. 510/2006, rinvia all’area geografica alla quale essa è collegata, vale a dire la regione La Mancia.>>

La risposta della Corte è un pò frettolosa a fronte della complessità della questione. Infatti il monopolio comunicativo concerne solo il nome della DOP e non il termine amministrativo di un’articolazione statale o substatale , che deve rimanere nella libera disponibilità di tutti. Impedirlo significherebbe impedire di comunicare il pregio della propria regione, che non è detto sia costituito necessariamente e per sempre solo dalla DOP sub iudice. Inibire il richiamo alla regione a terzi , allora, ostacolerebbe altre iniziative imrpenditoriali locali, concorrenziali o meno con la DOP-.  Su questa ragione riposano norme come l’art. 11 c. 4 c.p.i. sul marchio collettivo: dopo aver precisato che <<Qualsiasi soggetto i cui prodotti o servizi provengano dalla zona geografica in questione ha diritto sia a fare uso del marchio, sia a diventare membro della associazione di categoria titolare del marchio, purche’ siano soddisfatti tutti i requisiti di cui al regolamento>>, ammette che ciònonostante <<l’Ufficio italiano brevetti e marchi puo’ rifiutare, con provvedimento motivato, la registrazione quando i marchi richiesti possano creare situazioni di ingiustificato privilegio o comunque recare pregiudizio allo sviluppo di altre analoghe iniziative nella regione. L’Ufficio italiano brevetti e marchi ha facolta’ di chiedere al riguardo l’avviso delle amministrazioni pubbliche, categorie e organi interessati o competenti>>. Che significa <<analoghe>>? in rapporto di concorrenzialità? Del resto l’art. 13 reg. 510/2006 parla di <<prodotti … comparabili>> per cui pare esclusa una tutela extramerceolgica del tipo di quella offerta ai segni rinomati (conf. Grisanti, L’ “evocazione” di elementi figurativi e l’interpretazione della CGUE in relazione alla tutela delle DOP/IGP dei prodotti agricoli ed alimentari: il caso “Queso Manchego”, Il dir. ind., 2019, 5, 439-440, in nota alla sentenza qui esaminata, che ricorda il dibattito sul punto).

Eventualmente si può dire forse che l’evocazione della regione è vietata, se porta ad evocare direttamente, inevitabilmente ed esclusivamente la DOP. Cosa che però sarà difficile da verificarsi e dipenderà dal parametro soggettivo di riferimento, oggetto della terza questione pregiudiziale.

Sulla terza questione pregiudiziale La Corte risponde che il parametro soggettivo di riferimento è il consumatore europeo medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto . Con riferimento poi al modo in cui si deve considerare il consumatore del paese della DOP (certamente più attento di quello  degli altri paesi), la risposta della Corte -non chiarissima- è la seguente

<< Ne risulta che occorre rispondere alla terza questione dichiarando che la nozione di consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, alla cui percezione deve fare riferimento il giudice nazionale per determinare se esista un’«evocazione» ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 510/2006, deve intendersi riferita a un consumatore europeo, compreso un consumatore dello Stato membro in cui si fabbrica e si consuma maggiormente il prodotto che dà luogo all’evocazione della denominazione protetta o a cui tale denominazione è associata geograficamente>>.

Non è chiarissima poichè dire che va riferita <<al consumatore europeo compreso quello dello stato di produzione e consumo>> (ipotizzando che questi ultimi due aspetti coincidono nel medesimo stato)  non chiarisce se debbano considerarsi i più informati (i quali magari proprio per questo non faranno l’associazione mentale unica ed esclusiva alla DOP) o i meno informati

L’I.G.P. protegge la denominazione complessivamente presa o anche le singole componenti?

La Corte di Giustizia si è pronunciata sulla controversia tra il consorzio tutela Aceto Balsamico di Modena e la Balena GmBH (C.G. 04.12.2019, C-432/18, Consorzio Tutela Aceto Balsamico di Modena c. Balema GmbH).

V. mio post 19.08.2019 sulle conclusioni dell’A.G. Hogan.

il Consorzio aveva registratato l’IGP <<Aceto Balsamico di Modena (IGP)>> ma Balema GmBH utilizzava nelle sue etichette il termine <<balsamico>> su prodotti a base di aceto che non rispondono al disciplinare dell’IGP (gli usi della Balema sono indicati al § 11).

La normativa pertinente è il reg. 1151/2012, che aveva abrogato e sostituito il 510/2006 il quale a sua volta aveva sostituito  reg. 2081/92. La norma invocata dal Consorzio, che dispone l’ambito dell’esclusiva, è l’articolo 13 paragrafo 1 e 2, il quale così dispone:

<<1.   I nomi registrati sono protetti contro:    a)     qualsiasi impiego commerciale diretto o indiretto di un nome registrato per prodotti che non sono oggetto di registrazione, qualora questi ultimi siano comparabili ai prodotti registrati con tale nome o l’uso di tale nome consenta di sfruttare la notorietà del nome protetto, anche nel caso in cui tali prodotti siano utilizzati come ingrediente;     b)   qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera dei prodotti o servizi è indicata o se il nome protetto è una traduzione o è accompagnato da espressioni quali «stile», «tipo», «metodo», «alla maniera», «imitazione» o simili, anche nel caso in cui tali prodotti siano utilizzati come ingrediente;      c)   qualsiasi altra indicazione falsa o ingannevole relativa alla provenienza, all’origine, alla natura o alle qualità essenziali del prodotto usata sulla confezione o sull’imballaggio, nel materiale pubblicitario o sui documenti relativi al prodotto considerato nonché l’impiego, per il confezionamento, di recipienti che possano indurre in errore sulla sua origine;   d)   qualsiasi altra pratica che possa indurre in errore il consumatore sulla vera origine del prodotto.

Se una denominazione di origine protetta o un’indicazione geografica protetta contiene il nome di un prodotto considerato generico, l’uso di tale nome generico non è considerato contrario al primo comma, lettera a) o b).

  1.  Le denominazioni di origine protette e le indicazioni geografiche protette non diventano generiche>>.

L’ IGP era stata registrata con regolamento della Comm. 503 del 2009

La questione pregiudiziale sollevata dal giudice tedesco al suo massimo livello (BGH) è la seguente: <<«Se la tutela di cui beneficia la denominazione “Aceto Balsamico di Modena” nel suo insieme si estenda anche all’utilizzazione dei singoli termini non geografici che compongono tale denominazione (“Aceto”, “Balsamico”, “Aceto Balsamico”)».>>, §16

La questione dunque era se la protezione riguarda anche le sue singole componenti oppure solo la denominazione complessivamente e unitariamente considerata

La risposta della Corte è stata negativa.

la Corte, dopo aver detto che spetta al giudice nazionale stabilirlo (§ 25), pare ammettere che in certi casi la protezione può riguardare le sue singole componenti quando il regolamento che registra l’IGO così disponga (l’espressione è un pò contorta e lo dice in negativo) : <<Tuttavia, la Corte ha altresì dichiarato che, nel caso di una denominazione «composta» registrata conformemente al regolamento n. 2081/92, il fatto che per quest’ultima non esistano indicazioni sotto forma di note a piè di pagina nel regolamento recante registrazione della stessa, le quali precisino che la registrazione non è stata richiesta per una delle parti di questa denominazione, non implica necessariamente che ogni sua singola parte è protetta.>> (paragrafo 26, primo per.)

Questo però nulla dice per il caso in cui il regolamento di registrazione sia muto sul punto. In tal caso secondo la Corte la protezione potrà riguardare una singola componente denominativa solo <<se tale componente non è né un termine generico né un termine comune (v., in tal senso, sentenza del 9 giugno 1998, Chiciak e Fol, C‑129/97 e C‑130/97, EU:C:1998:274, punti 37 e 39>> (paragrafo 26 in fine)

Pertanto, andando al reg. 583/2009, secondo la Corte <<la protezione conferita a tale denominazione non può estendersi ai singoli termini non geografici della stessa.>>, § 28.

La Corte motiva ciò appoggiandosi al reg. di registrazione, il cit. 583/2009: il quale non solo non esplicita una protezione parziale della denominazione ma anzi offrirebbe argomenti in senso opposto. In particolare la Corte si basa sul suo cons. 10: <<sembra che la Germania e la Grecia, nelle obiezioni sollevate relativamente al carattere generico del nome proposto per la denominazione, non abbiano tenuto conto della suddetta denominazione nel suo complesso, ovvero «Aceto Balsamico di Modena», ma soltanto di alcuni suoi elementi, ossia i termini «aceto», «balsamico» e «aceto balsamico» o le rispettive traduzioni. Ora, la protezione è conferita alla denominazione composta «Aceto Balsamico di Modena». I singoli termini non geografici della denominazione composta, anche utilizzati congiuntamente, nonché la loro traduzione, possono essere adoperati sul territorio comunitario nel rispetto dei principi e delle norme applicabili nell’ordinamento giuridico comunitario.>> (§ 31)

Conseguirebbe <<inequivocabilmente dai considerando del regolamento n. 583/2009 che i termini non geografici dell’IGP di cui trattasi, vale a dire «aceto» e «balsamico», la loro combinazione e le loro traduzioni non possono beneficiare della protezione conferita dal regolamento n. 510/2006 e che è ormai assicurata dal regolamento n. 1151/2012 all’IGP «Aceto Balsamico di Modena»>> (§ 33).

Inoltre il termine <<balsamico>> è descrittivo e privo di connotazione geografica: <<è pacifico che il termine «aceto» è un termine comune, come già constatato dalla Corte (v., in tal senso, sentenza del 9 dicembre 1981, Commissione/Italia, 193/80, EU:C:1981:298, punti 25 e 26). Dall’altro lato, il termine «balsamico» è la traduzione, in lingua italiana, dell’aggettivo «balsamique», che non ha alcuna connotazione geografica e che, per quanto riguarda l’aceto, è comunemente usato per designare un aceto che si caratterizza per un gusto agrodolce. Si tratta quindi, anche in questo caso, di un termine comune ai sensi della giurisprudenza ricordata al punto 26 della presente sentenza.>>, § 34.

Da ultimo,  spinge per la protezione limitata al complesso della denominazione e non alle singole componenti anche la concessione di due  DOP: <<Infine, come parimenti rilevato, in sostanza, dall’avvocato generale ai paragrafi 57 e 58 delle sue conclusioni, tale interpretazione della portata della protezione conferita all’IGP in questione si impone alla luce delle registrazioni delle DOP «Aceto balsamico tradizionale di Modena» e «Aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia», le quali, come indicano i considerando del regolamento n. 583/2009, sono state peraltro prese in considerazione dalla Commissione al momento dell’adozione del medesimo regolamento. Infatti, non si può ritenere che l’uso nel testo di tali DOP dei termini «aceto» e «balsamico» nonché l’uso delle loro combinazioni e traduzioni possano pregiudicare la protezione conferita all’IGP di cui trattasi.>> (§ 35).  Cioè nel senso, se ben capisco, che, se venisse nel casode quo concessa la protezione anche al solo termine <<Balsamico>>, diverrebbe illecito paradossalmente l’utilizzo delle due DOP citate: il che non sarebbe possibile (i §§ 57-58 delle conclusioni dell’AG, richiamate dalla CG, non confortano in tal senso,  essendo oscure).

Pertanto la risposta è che <<l’articolo 1 del regolamento n. 583/2009 deve essere interpretato nel senso che la protezione della denominazione «Aceto Balsamico di Modena» non si estende all’utilizzo dei termini individuali non geografici della stessa.>> (§ 36).

Tre osservazioni finali sulla scarsa precisione concettuale (o motivazione) della CG.

1 – la protezione non è offerta dal reg. 583/2009, che si limita a registrare la IGP richeista, bensì dal reg. 510/2006 (o da quello applicabile ratione temporis);

2 – lascia sconcertati interpretare la norma di legge (art. 13 del reg. 510/2006 o 1151 del 2012) in base al reg. 583/2009 e cioè tramite regole presenti nel suo atto applicativo: cioè interpretare l’atto normativo in base al suo regolamento esecutivo (tra l’altro , emanato da altra autorità). Ciò in mancanza di norma ad hoc nella legge che sarebbe però del tutto incostituzionale o contraria ai Trattati UE.

A meno di intendere che sia il richiedente stesso a limitare la protezione ad una parte solo della denomunazione che indica. Ipotesi che non pare ricorrere nel caso sub iudice e comunque assai diversa dal se -in assenza di tale limitazione chiesta dall’istante- vada concessa protezione anche su singole componenti di una denomnuiazione complessa.

3 – lascia sconcertati pure determinare l’estensione della protezione in base alla presenza di due precedenti DOP che verrebbero pregiudicate dalla intepretazione respinta: come se la protezione dipendensse non dalla legge ma dall’affollameno del settore.

Parrebbe aver deciso in senso opposto alla C.G. la Corte di Appello di Colonia, 18.01.2019, pubblicata in italiano in Il dir. ind., 2019/5, 457 ss con nota critica di F. Buenger (secondo la traduzione ivi presente): << 72 Inoltre, la Corte di giustizia ritiene che la protezione diuna denominazione d’origine composta non si riferisce necessariamente a tutti i suoi elementi se nel regolamento di registrazione non vi è una nota a piè di pagina in cui si afferma che la protezione non è richiesta per una parte della denominazione (cfr. BGH, GRUR2018, 848 – Deutscher Balsamico, mwN).73 Da quanto precede risulta chiaramente, anche alla luce della giurisprudenza della Corte federale tedesca e della Corte di giustizia sopra citata, che la tutela della denominazione composta può comprendere anche la tutela di singoli elementi di tale denominazione. Ne risulta inoltre che la protezione copre in ogni caso quegli elementi che indicano l’origine geografica, il che è evidente anche dall’eccezione relativa alla denominazione generica. Questi principi sono stati confermati dalla Corte di giustizia nella decisione “Glen Buchenbach” (C-44-17, GRUR2018, 843), riassumendo i presupposti per poter ritenere sussistente un’evocazione nell’ambito dell’interpretazione dell’articolo 16 del regolamento (CE) n. 110/2008 (regolamentosulle bevande spiritose), che è identico nei punti essenziali con il regolamento oggetto della presente decisione (…) 74 Nel complesso, la giurisprudenza della Corte di giustiziae, successivamente, della Corte federale tedesca chiarisceche singoli elementi, in particolare quelli che indicanol’origine geografica, possono essere protetti. Inoltre, lacitata decisione della Corte di giustizia stabilisce anchele norme e le condizioni alle quali un’evocazione ai sensidei regolamenti deve essere assunta a livello europeo.>>

Questa decisione tedesca si segnala, oltre che per alcune interessanti considerazioni sulla giurisdizione, anche perchè ha ritenuto che <<la denominazione “Culatello di Parma” per un prosciutto crudo affettato in confezioni trasparenti è  un’evocazione alla denominazione di origine protetta “Prosciutto di Parma”>> (massima ivi presente). In pratica negando specificità al Culatello, cosa forse ammissibile in Germania ma non in Italia: ma allora bisogna indagare quale sia il parametro soggettivo di riferimento (sul che si sofferma la terza massima)