Su originalità, libertà artistica e parodia nel diritto d’autore (un caso francese tra fotografia e scultura)

Il prezioso sito IPKat a firma Eleonora Rosati il 23.12.2019 dà notizia della sentenza francese Corte di appello di Parigi 17.12.2019, n° 152/201.

Il fotografo francese Jean Francois Bauret, morto nel 2014, realizzò nel 1970 una fotografia chiamata <<Enfants>>, mai venduta come stampa ma riprodotta in cartolina

Gli eredi si accorgono che l’artista statunitense Jeff Koons l’ha riprodotta con modeste varianti in una sua scultura, chiamata <<Naked>>.

Ecco le fotografie (presenti in  sentenza e in IPKat, prese da quest’ultimo).  A sinistra quella di Bauret e a destra quella riproducente la scultura di Koons:

La corte parigina respinge l’eccezione di Koons di mancanza di originalità e pure quella di eventuale riproduzione di elementi non originali. E’ del resto intuibile anche al profano che i bimbi nella fotografia non hanno una posizione spontanea,  come vorrebbe Koons, bensì guidata dal fotografo.

La Corte respinge l’eccezione di necessità per libertà artistica e di comunicazione (p. 19-21) : afferma che <<Il revient au juge de rechercher un juste équilibre entre les droits en présence, soit la liberté  d’expression artistique et le droit d’auteur, et d’expliquer, en cas de condamnation, en quoi la recherche de ce juste équilibre commandait cette condamnation.>>.

La Corte non si riferisce purtroppo -almeno in via esplicita (ma implicita si, probabilmente)- alle tre recenti sentenze della Corte di Giustizia 29 luglio 2019, A.G. Szpunar,  che l’hanno esaminata approfonditamente: i) Pelham-Hass c. Hutter-Schneider-Esleben, C-476/17, § 56-65 (§ 66 segg. sull’eccezione di citazione); ii) Funke Medien c. Repubblica Federale di Germania, C-469/17, terza e seconda questione (§§ 55 ss e, rispettivamene, 65 ss.); iii)  Spiegel Online c. Volker Beck, C-516/17, terza e seconda questione (§§ 40 ss e rispettivametne 50 ss., nonchè § 75 ss sull’eccezione di citazione). Le quali tutte -in breve- escludono l’invocabilità di un fair use o comunque di un diritto fondamentale non previsto nel catalogo dei rimedi propri del diritto armonizzato ad oggi vigente.

Respinge pure l’eccezione di parodia (p. 21-22) , secondo la quale <<l’oeuvre seconde, pour bénéficier de l’exception de parodie, doit présenter un caractère humoristique, éviter tout risque de confusion avec l’oeuvre première, et permettre l’identification de celle-ci. (…)  La parodie doit aussi présenter un caractère humoristique, faire oeuvre de raillerie ou provoquer le rire, condition que ne caractérise ni ne revendique Jeff KOONS et la société Jeff KOONS LLC, la différence entre les messages transmis par les deux oeuvres ne répondant pas à cette condition de l’exception de parodie.>>.

Insommma la parodia deve avere un carattere umoristico, prendere in giro o provocare risate, oltre che non creare confusione: requisiti ritenuti assenti nell’opera di Koons. Probabilmente il Collegio parigino aveva in mente la sentenza Deckmyn +1 c. Vandersteen ed altri, Corte di Giustizia, 03.09.2014, C‑201/13, secondo cui <<la parodia ha come caratteristiche essenziali, da un lato, quella di evocare un’opera esistente, pur presentando percettibili differenze rispetto a quest’ultima, e, dall’altro, quella di costituire un atto umoristico o canzonatorio>> (§ 33 ma anche § 20). Ma anche qui non ne ha fatto menzione espressa.

Su marchi collettivi e “uso effettivo” ai fini del giudizio di decadenza (un caso un pò particolare: l’uso per imballaggi vale pure come uso per i prodotti imballati?)

Laa Corte di Giustizia UE (sentenza 12.12.2019, C-143/19 P, Der Grüne Punkt – Duales System Deutschland GmbH c. EUIPO ), affronta un caso un pò particolare di decadenza di marchio collettivo.

Le norme rilevanti soni l’art. 15 e l’art. 66 del reg. 207/2009.

Il noto marchio Grune Punkt, riferito ad imballaggi ecologici, era stato registrato anche per quasi tutte le altre classi merceologiche. A seguito di istanza di parte, però, era stato dichiarato decaduto per non uso per tutte le classi tranne che per i prodotti consistenti in imballaggi (§ 16).

I successivi tentativi del titolare di invalidare la decisione in via amministrativa e poi avanti il Trib. Ue sono andati male. La perseveranza però è stata premiata dato che la Corte ne ha accolto le ragioni.

La questione centrale è sottile e non semplice: si tratta di capire se l’uso del segno sugli imballaggi costituisca uso solo per il prodotto “imballaggio” oppure anche per gli svariati tipi di prodotti che sono presenti dentro l’imballaggio stesso. Nelle prime istanze era stato risposto nel primo modo; la Corte risponde invece nel secondo modo (o meglio non esclude il secondo modo e obbliga a valutare tale possibilità).

Vediamo i passi centrali del ragionamento del Tribunale, secondo il resoconto dela Corte .

<<Il pubblico di riferimento è perfettamente in grado di distinguere tra un marchio che indica l’origine commerciale del prodotto e un marchio che indica il recupero dei rifiuti di imballaggio. Inoltre, occorre tener conto del fatto che «i prodotti stessi sono di regola designati dai marchi che appartengono a società differenti»>> (§ 31).  Ne segue che <<«l’uso del marchio [in questione] in quanto marchio collettivo che designa i prodotti dei membri dell’associazione distinguendoli dai prodotti che provengono da imprese che non fanno parte di tale associazione sarà percepito dal pubblico di riferimento come un uso relativo agli imballaggi. (…) ]l comportamento ecologico dell’impresa, grazie alla sua affiliazione al sistema di accordo di licenza della [DGP], sarà attribuito dal pubblico di riferimento alla possibilità del trattamento ecologico dell’imballaggio e non ad un simile trattamento del prodotto imballato medesimo, che può rivelarsi inadeguato ad un trattamento ecologico»>> (§ 32).

Infine, <<l’uso del marchio in questione non aveva per obiettivo neppure di creare o di conservare uno sbocco per i prodotti. Detto marchio sarebbe conosciuto dal consumatore solo come l’indicazione che l’imballaggio, grazie al contributo del fabbricante o del distributore del prodotto, sarà smaltito e recuperato ove il consumatore porti l’imballaggio in un punto di raccolta locale. Pertanto, l’apposizione del suddetto marchio sull’imballaggio esprimerebbe semplicemente il fatto che il fabbricante o il distributore di questo prodotto opera nel rispetto del requisito fissato dalla normativa dell’Unione, secondo la quale l’obbligo di recupero dei rifiuti di imballaggio spetta a tutte le imprese. Secondo il Tribunale, nel caso, poco probabile, in cui il consumatore optasse per l’acquisto di un prodotto basandosi unicamente sulla qualità dell’imballaggio, resterebbe sempre il fatto che detto marchio crea o conserva uno sbocco non già rispetto a tale prodotto, ma esclusivamente per quanto riguarda l’imballaggio di quest’ultimo>> (§ 33).

Secondo il Tribunale infatti il presupposto è che <<«un marchio forma oggetto di un uso effettivo allorché assolve alla sua funzione essenziale, che è di garantire l’identità di origine dei prodotti o dei servizi per i quali è stato registrato, al fine di trovare o mantenere per essi uno sbocco>> (§ 26). Si tratta dell’affermazione centrale, perno di tutto il ragionamento, ratio decidendi anche delle Corte (pur se con esito opposto). Questa infatti lo estende ai marchi collettivi laddove dice che: <<questi marchi fanno parte, come i marchi individuali, dell’ambito del commercio. Per poter essere qualificato come «effettivo» ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 207/2009, il loro uso deve pertanto perseguire concretamente l’obiettivo delle imprese interessate di creare o di conservare uno sbocco per i loro prodotti e servizi. Ne consegue che un marchio collettivo dell’Unione europea è oggetto di un uso effettivo quando viene utilizzato conformemente alla sua funzione essenziale, che è quella di distinguere i prodotti o i servizi dei membri dell’associazione che ne è titolare da quelli di altre imprese, al fine di creare o di conservare uno sbocco per detti prodotti e servizi>> (§§ 56-57).

Peraltro <<ai fini della valutazione dell’esistenza di tale requisito, era necessario, secondo la costante giurisprudenza della Corte, esaminare se il marchio in questione fosse effettivamente utilizzato «sul mercato» dei prodotti o dei servizi interessati. Detto esame doveva essere realizzato valutando, in particolare, gli usi considerati giustificati, nel settore economico interessato, per conservare o creare quote di mercato per i prodotti o servizi contrassegnati dal marchio, la natura di tali prodotti o servizi, le caratteristiche del mercato, nonché l’ampiezza e la frequenza dell’uso del marchio>> (§ 62).

Il Tribunale doveva << –prima di pervenire a tale conclusione e di pronunciarsi quindi sulla decadenza del titolare dai diritti dal medesimo detenuti sul marchio in questione per la quasi totalità dei prodotti per i quali esso è registrato – (…)  esaminare se l’uso debitamente dimostrato nel caso di specie, vale a dire l’apposizione del marchio in questione sulle confezioni dei prodotti delle imprese affiliate al sistema della DGP, fosse considerato, nei settori economici interessati, giustificato per conservare o creare quote di mercato per taluni prodotti. Un siffatto esame, che doveva anche riguardare la natura dei prodotti interessati e delle caratteristiche dei mercati sui quali essi sono immessi in commercio, è assente nella sentenza impugnata. Il Tribunale ha sì ritenuto che il consumatore comprende che il sistema della DGP riguarda la raccolta locale e il recupero degli imballaggi dei prodotti e non la raccolta o il recupero dei prodotti in sé, però non ha debitamente considerato se l’indicazione al consumatore, al momento dell’immissione in commercio dei prodotti, della messa a disposizione di un simile sistema di raccolta locale e di smaltimento ecologico dei rifiuti di imballaggio apparisse giustificata, nei settori economici interessati o in alcuni di essi, per conservare o creare quote di mercato per taluni prodotti>> (§§ 67-68).

Si potrebbe pensare che tale valutazione, per ciascun tipo di prodotto domandato in registrazione, fosse eccessiva. Se anche fosse così, <<era tuttavia opportuno, stante la diversità dei prodotti interessati da un simile marchio, fornire un esame che distinguesse diverse categorie di prodotti in funzione della loro natura e delle caratteristiche dei mercati e che valutasse, per ciascuna di tali categorie di prodotti, se l’uso del marchio in questione perseguisse effettivamente l’obiettivo di conservare o di creare quote di mercato>> (§ 69). Infatti <<alcuni dei settori economici interessati riguardano prodotti di consumo quotidiano, come alimenti, bevande, prodotti per l’igiene personale e per la pulizia della casa, idonei a generare quotidianamente rifiuti di imballaggio che i consumatori devono gettare via. Non si può pertanto escludere che l’indicazione sull’imballaggio di prodotti di questo tipo, da parte del fabbricante o del distributore, dell’affiliazione a un sistema di raccolta locale e di trattamento ecologico dei rifiuti di imballaggio possa influenzare le decisioni di acquisto dei consumatori e, in tal modo, contribuire alla conservazione o alla creazione di quote di mercato relative a tali prodotti>> (§ 70).

Il Tribunale si era ben chiesto se il marchio servisse a creare/conservare uno sbocco commerciale: ma aveva concluso che ciò avveniva solo per il prodotto <<imballaggio>> e mai per i prodotti presenti dentro l’imballaggio: con ciò però violando il tipo di analisi richiesto e che la Corte aveva prima indicato al § 62 (§ 71).

Questa è dunque la ratio decidendi. Il marchio apposto sull’imballaggio può valere come uso anche del marchio sui prodotti in esso contenuti, quando l’imballaggio costituisca (in tutto o in parte, direi: la Corte genericamente dice “possa influenzare le decisioni di acquisto”) motivo di acquisto dei prodotti stessi: cioè quando conferisca loro appeal e ne incrementi l’apprezzamento del pubblico.

Il punto è complesso e servirebbe un’indagine specifica, toccando profili apicali del diritto dei marchi. Ad una primissima riflessione la posizione della Corte non persuade: il che invece accade per quella del Tribunale. L’uso nel commercio di un componente di un prodotto finale (tale è l’imballaggio) è distinta dall’uso del prodotto stesso: quindi l’uso dei rispettivi segni resta pure distinto. Altrimenti si avrebbe che il prodotto recherebbe due marchi, i quali indicherebbero due provenienze aziendali diverse. Invece il segno proprio dell’imballaggio (come di qualunque componente) indica solo la provenienza del componente medesimo.

Infine seguono un paio di considerazioni giustificative a posteriori o comunque generiche, di scarso ausilio per le scelte pratiche.

La necessità di questa analisi (id est l’applicazione del concetto “contributo a creare o conservare uno sbocco commerciale”, in cui si sostanzia l’uso effettivo ai fini del giudzio di decadenza),  <<che tenga debitamente conto della natura dei prodotti o dei servizi interessati nonché delle caratteristiche dei rispettivi mercati e che distingua, di conseguenza, fra vari tipi di prodotti o servizi, laddove questi ultimi siano molto diversificati, riflette adeguatamente la delicatezza della posta in gioco di tale valutazione. Tale valutazione stabilisce, infatti, se il titolare di un marchio sia decaduto dai diritti su quest’ultimo e, in caso affermativo, per quali prodotti o servizi viene dichiarata la decadenza>> (§ 72). E’ infatti certamente importante <<assicurare il rispetto del requisito di un uso che concretamente persegua l’obiettivo di creare o di conservare uno sbocco per i prodotti e i servizi per i quali il marchio è stato registrato, affinché il titolare di quest’ultimo non resti indebitamente protetto con riferimento a prodotti o servizi la cui commercializzazione non sia veramente promossa da tale marchio. Ciò nondimeno, è altrettanto importante che i titolari dei marchi e, nel caso di un marchio collettivo, i loro membri possano, in modo debitamente protetto, sfruttare il proprio segno nell’ambito del commercio>>, § 73. E’ una sorte di hysteron proteron dato che, se si tratti di sfruttamento del segno rientrante nella privativa di legge, è proprio il quid demonstrandum.

Avendo uil Tribunale omesso di effettuare tale esame, la sua sentenza va annullata.

contrarietà all’ordine pubblico nel diritto europeo dei marchi

il Tribunale UE con sentenza 12.12.2019, T-683/18, Santa Conte c. EUIPO,  si pronuncia sulla contrarietà all’ordine pubblico (poi anche <<O.P.>>) di un marchio figurtivo/denominativo. La norma applicata è l’art. 7.1.f del reg. 2017/2001 in combinato disposto con l’art. 7.2 del medesimo reg.

Visto l’esito negativo in sede amminsitrativa, la ricorrente chiede al Tribunale di annullare le decisioni ivi prese. Trascuro qui il primo motivo, di natura procesurale, e riferisco del secondo, di dirito sostanziale.

Il marchio è così descritto: <<contiene un elemento denominativo composto dai termini «cannabis», «store» e «amsterdam», nonché un elemento figurativo, ossia tre file di foglie verdi stilizzate, corrispondente alla comune rappresentazione della foglia di cannabis, su uno sfondo nero delimitato da due bordi di colore verde fosforescente, al di sopra e al di sotto del motivo. Le tre parole anzidette partecipano anche alla dimensione figurativa del segno controverso in quanto appaiono in lettere maiuscole, ove la parola «cannabis» è in esso rappresentata con caratteri di colore bianco, molto più grandi delle altre due parole, che essa sovrasta al centro del segno>>, § 36 (v. l’immagine in  sentenza).

il Tribunale ricorda alcuni principi in tema di ordine pubblico ai §§ 31-35.

V. ad es. il § 33: <<il pubblico di riferimento non può essere circoscritto, ai fini dell’esame dell’impedimento alla registrazione di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 2017/1001, al pubblico al quale sono direttamente destinati i prodotti e i servizi per i quali la registrazione è richiesta. Occorre, infatti, tener conto del fatto che i segni oggetto di tale impedimento alla registrazione scioccheranno non solo il pubblico al quale i prodotti e i servizi designati dal segno sono rivolti, ma parimenti altre persone che, senza essere interessate a tali prodotti e servizi, si troveranno accidentalmente di fronte a tale segno nella loro vita quotidiana>> e i  §§ 34-35: <<i segni percepibili come contrari all’ordine pubblico o al buon costume non sono gli stessi in tutti gli Stati membri, in particolare per ragioni linguistiche, storiche, sociali o culturali (…) Ne consegue che, per l’applicazione dell’impedimento assoluto alla registrazione di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento 2017/1001, occorre prendere in considerazione tanto le circostanze comuni a tutti gli Stati membri dell’Unione quanto le circostanze proprie di taluni Stati membri singolarmente considerati, che possono influenzare la percezione del pubblico di riferimento situato nel territorio di tali Stati>>.

Inoltre, visto che due parole sono comprensibili anche al di fuori del mondo anglofono, il pubblico di riferimeno non è solo quello anlogofono ma tutto quello dell’UE , § 42.

Ancora: <<poiché la ricorrente, nella domanda di marchio, fa riferimento a prodotti e servizi di consumo corrente, destinati al grande pubblico senza distinzione di età, non vi è alcuna ragione valida per circoscrivere, come sostenuto dalla ricorrente in udienza, il pubblico di riferimento al solo pubblico giovane, di età compresa tra i 20 e i 30 anni. Analogamente, occorre aggiungere che (…) il pubblico di riferimento non è solo il pubblico cui sono direttamente rivolti i prodotti e i servizi per i quali è chiesta la registrazione, ma anche quello composto da altre persone che, senza essere interessate a tali prodotti e servizi, si troveranno accidentalmente di fronte a tale segno nella loro vita quotidiana (v. punto 33 supra), il che porta a respingere, anche per tale motivo, l’affermazione della ricorrente, formulata in udienza, secondo la quale detto pubblico sarebbe per la maggior parte un pubblico giovane, composto da persone di età compresa tra i 20 e i 30 anni>> , § 45.

La ricorente allega norme che proverebbero l’accettazine sociale della cannabis. Ma il Trib. risponde che << «in numerosi paesi dell’Unione [e]uropea (a titolo esemplificativo ma non esaustivo, Bulgaria, Finlandia, Francia, Ungheria, Irlanda, Polonia, Slovacchia, Svezia e Regno Unito)», i prodotti derivati dalla cannabis aventi tenore di THC superiore allo 0,2% sono considerati sostanze stupefacenti illegali>>, § 49.

Ne segue che <<attualmente, non si osserva nell’Unione alcuna tendenza unanimemente accettata, e neppure predominante, in merito alla liceità dell’uso o del consumo di prodotti derivati dalla cannabis con un tenore di THC superiore allo 0,2%.>>, § 51.

Di conseguenza <<giustamente la commissione di ricorso ha ritenuto che il segno controverso verrebbe percepito, nel suo complesso, dal pubblico di riferimento come riferito ad una sostanza stupefacente vietata in un elevato numero di Stati membri.>>, § 69.

Quanto al passaggio successivo e cioè al se il segno de quo sia contrario all’O.P. (il merito della lite), il giudice eureo risponde in modo positivo, confermando il rigetto amministrativo della domanda.

Premette che  <<il diritto dell’Unione non impone una scala di valori uniforme e riconosce che le esigenze di ordine pubblico possono variare da un paese all’altro e da un’epoca all’altra, mentre gli Stati membri restano essenzialmente liberi di determinare il contenuto di tali esigenze in funzione delle loro necessità nazionali. Pertanto, le esigenze di ordine pubblico, che pure non coincidono con gli interessi economici né con la mera prevenzione delle perturbazioni dell’ordine sociale insite in qualsiasi infrazione della legge, possono comprendere la protezione di diversi interessi considerati fondamentali dallo Stato membro di cui trattasi secondo il proprio sistema di valori>>, § 71.

l’O.P. <<esprime le intenzioni dell’ente normativo pubblico quanto alle norme che devono essere rispettate nel contesto sociale>>, § 72;  ed è esatto in sostanza <<che ogni contrarietà alla legge non costituisce necessariamente una contrarietà all’ordine pubblico (..) E’ ancora necessario, infatti, che tale contrarietà leda un interesse considerato fondamentale dallo Stato membro o dagli Stati membri di cui trattasi in base al loro sistema di valori >>, §  73.

Secondo il Tribunale allora <<negli Stati membri in cui il consumo e l’uso della sostanza stupefacente derivata dalla cannabis restano vietati, la lotta alla diffusione di quest’ultima riveste carattere particolarmente delicato, che risponde ad un obiettivo di salute pubblica volto a combattere gli effetti nocivi di tale sostanza. Tale divieto mira quindi a tutelare un interesse che detti Stati membri considerano fondamentale secondo il proprio sistema di valori, cosicché il regime applicabile al consumo e all’uso di detta sostanza rientra nella nozione di «ordine pubblico»>>, § 74. Inoltre <<l’importanza di tutelare tale interesse fondamentale è ulteriormente sottolineata dall’articolo 83 TFUE, secondo il quale il traffico illecito di stupefacenti è una delle sfere di criminalità particolarmente gravi che presentano una dimensione transnazionale, nelle quali è previsto l’intervento del legislatore dell’Unione, nonché dall’articolo 168, paragrafo 1, terzo comma, TFUE, secondo il quale l’Unione completa l’azione degli Stati membri volta a ridurre gli effetti nocivi per la salute umana derivanti dall’uso di stupefacenti, comprese l’informazione e la prevenzione>>, § 75.

Allora giustamente la commissione di ricorso ha sostenuto che <<sarebbe percepito dal pubblico di riferimento come un’indicazione del fatto che gli alimenti e le bevande menzionati dalla ricorrente nella domanda di marchio, nonché i relativi servizi, contenevano sostanze stupefacenti illegali in diversi Stati membri, fosse contrario all’ordine pubblico>>, § 76.

La ricorrente ha tentato di sminuire questo ragionamento, dicendo che il segno non incitava, banalizzava o approvava l’uso di stupefanti illegali. Però il Trib. replica che <<il fatto che tale segno sarà percepito dal pubblico di riferimento come un’indicazione del fatto che gli alimenti e le bevande menzionati dalla ricorrente nella domanda di marchio, nonché i relativi servizi, contengono sostanze stupefacenti illegali in diversi Stati membri è sufficiente per concludere che detto marchio è contrario all’ordine pubblico>>, § 77.

In ogni caso,  <<dal momento che una delle funzioni di un marchio consiste nell’identificare l’origine commerciale del prodotto o servizio, al fine di consentire così al consumatore che acquista il prodotto o il servizio contrassegnato dal marchio di fare, al momento di un successivo acquisto, la stessa scelta, qualora l’esperienza si riveli positiva, o di fare un’altra scelta, qualora essa risulti negativa (…),  detto segno, nella misura in cui sarà percepito nel modo sopra descritto, incita, implicitamente, ma necessariamente, all’acquisto di tali prodotti e servizi o, quantomeno, ne banalizza il consumo>>, § 77.

In altre e più brevi parole, il fatto, che il marchio miri ad incrementare le vendite,  perciò solo costituisce incitamento o quantomeno banalizzazione del consumo di sostanza illegale. Si tratta forse del passaggio più interessante a livello teorico.

C’è un altra sentenza recente che affronta in dettaglio la questione della contrarietà del marchio all’ordine pubblico: Trib. UE 15 marzo 2018, T-1/17, La Mafia Franchises c. EUIPO – Italia (caso La Mafia SE SIENTA A LA MESA), ampiamnte ricordata nella sentenza de qua.

Lo sfruttamento della notorietà altrui: il caso napoletano Maradona contro Dolce § Gabbana

Il tribunale di Napoli  con sentenza n. 11374/2019  del 9 dicembre 2019, RG 41088/2017, decide la lite tra Diego Armando Maradona eDolce§Gabbana. I fatti risultano i seguenti (testo della sentenza preso da Elenora Rosati su IPKat che ringrazio).

Dolce§Gabbana in un evento mondano del luglio del 2009  (citazione notificata nel luglio 2017!) per clienti illustri o istituzionali, consistente in una sfilata di presentazione di simboli della città partenopea, aveva fatto sfilare una modella con una maglia del numero dieci, storica posizione calcistica di Maradona (sembra di capire: modella indossante la maglia del Napoli Calcio recante sul retro il n. 10, probabilmente quella a strisce bianche e azzurre verticali).

Sembra di capire -anche se non è detto in modo esplicito- che si trattasse di una maglia col numero 10 creata o ricreata dagli stilisti: altrimenti non si spiega la successiva affermazione per cui, dopo la diffida, D§G hanno omesso di mettere in produzione il capo di abbigliamento..

Maradona lamentava l’indebita utilizzazione e sfruttamento commerciale del proprio  nome e/o marchio.

il Tribunale accoglie la domanda affermando la violazione del diritto sul nome.

In realtà l’affermazione non è chiarissima, dal momento che il segno riprodotto abusivametne pare fosse un segno distintivo diverso dal nome: precisamente pare si fosse trattato della divisa ufficiale usata in partita e che l’ha reso famoso in tutto il mondo durante la sua esperienza italiana. La fattispecie ricorda la violazione -sempre di un segno distintivo personale  diverso dal nome che riguardò il cantante Lucio Dalla, del quale vennero abusivamente riprodotte le caratteristiche -anche qui assai note-  degli occhialetti tondi e del berrettino a zucchetto. A meno di pensare (allora il riferimento al diritto sul nome sarebbe esatto, anche se avrebbe dovuto essere esplicitato) che sul retro della maglia, oltre al numero, comparisse il nome “Maradona”, come spesso avveniva.

La domanda è accolta sotto il profilo dell’ articolo 8 codice di proprietà industriale: Dolce e Gabbana avrebbero mirato “ad appropriarsi delle componenti attrattive insite nel richiamo alla prestigiosa storia sportiva del mitico calciatore”.

La quantificazione del danno viene operata tramite il riferimento al criterio del cosiddetto prezzo del consenso.

l’attore aveva chiesto l’importo di € 1.000.000,00 e prodotto a sostegno , oltre a altri materiali irrilevanti, quattro contratti precedenti. Il tribunale, valutata  la modestia di uso del segno altrui (limitata ad una sfilata) ha invece liquidato € 70.000,00  più accessori

Il caso è interessante per l’anomalia consistente nel fatto che lo sfruttamento non autorizzato del segno distintivo altrui avviene da parte di due imprenditori della moda i quali pure sono provvisti di notorietà mondiale. Ci si può dunque chiedere se non fosse stato opportuno per il giudice accertare se veramente c’era stato uno sfruttamento della notorietà altrui: ma forse tale accettamento sarebbe stato superfluo ai fini del’art. 8 cpi.

Anzi a monte sarebbe stato necessario accertare che la maglia del Napoli col numero 10 fosse veramente qualificabile come segno distintivo di Maradona su cui questi avesse un diritto esclusivo: ad esempio potendo rilevare la regolazione pattizia di Maradona con la società del Napoli (a meno che contenesse il suo nome, come sopra ipotizzato)

Marchio di forma (o di colore) violato da (calzatura indossata da) personaggio di un film?

Le note suole rosse delle calzature Louboutin, sulla  cui esclusiva lo stilista francese ha ingaggiato liti giudiziarie in diversi Stati e su cui ha pure ottenuto ragione presso la Corte di Giustizia UE (C‑163/16 del 12.06.2018), sono ora forse riprodotte da una protagonista del recente film di Disney titolato Frozen 2.

Ne riferisce worldtrademarkreview.com  del 10. 12.2019 a firma di T. Lince.

Si considerino le due calzature (foto presa dall’articolo appena cit.):

(a sinistra quella di Frozen 2  e a destra quella di Louoboutin).

Qui sotto il marchio registrato (dalla sentenza C.G. cit.):

Il segno, usato nel film, costituisce riproduzione vietata del marchio di Louboutin? Direi che Louboutin avrebbe buone frecce nel suo arco, vista la norma europea armonizzata che da noi è stata recepita nel  novellato art. 21.1.c)  del cod. propr. ind.

Probabilmente lo stilista francese ci sta già pensando, visto l’impegno che mette nel tutelare il suo marchio.

Falcone, Borsellino e la protezione giuridica della fotografia

La fotografia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sorridenti è una delle più note tra quelle che li riguardano: fu scattata dal fotografo palermitano Antonio Gentile nel 1992 (due mesi prima della morte del primo).

La foto è presente in numerosi siti internet; ad es qui in ilfotografo.it.

Il fotografo nel 2017 citò la RAI in giudizio in risarcimento danni, lamentando l’illecita riproduzione della stessa, come si legge in sentenza:  <<a dire dell’attore la fotografia era stata mandata in onda più volte e pubblicata da  RAI sul propriosito  web,  a  corredo  di  una  campagna  di  sensibilizzazione  denominata “La ricerca della Legalità”, senza che all’autore venissero corri-sposti i diritti, che quantificava in oltre un milione di euro. L’attore  chiedeva anche  il  risarcimento  dei  danni  non  patrimoniali  per  euro 300.000 e la pubblicazione della sentenza>> (p. 4).

Il Trib. Roma però, con sentenza 12.09.2019 n° 14758 RG n. 75066/2017, ha escluso la creatività sufficiente per ravvisare opera dell’ingegno.

Secondo il giudice infatti <<La  fotografia  (….)  non  si  caratterizza  (…)  per  una  particolare  creatività, non  sembra  vi  sia  stata  da  parte  dell’autore  della  fotografia  una  particolare scelta di posta, di luci, di inquadramento, di sfondo. Si tratta invero di una testimonianza, a mo’ di cronaca, di una situazione di fatto, il momento di sorri-so e di rilassamento di due colleghi magistratidurante un congresso. Ciò  che  rende  particolare  questa  fotografia è  l’eccezionalità  del  soggetto:  si tratta di due magistrati eroi e martiri della lotta della Repubblica contro il fenomeno  mafioso  ed  il  loro  atteggiamento  sorridente,  l’immagine  della  loro amicizia, la stima reciproca che emerge da questa foto sono altamente simbo-lici  di  un  periodo  repubblicano  nel  quale,a  duro  prezzo,finalmente  questo Stato preseconsapevolezza della grandezza del fenomeno mafioso e lo seppe e vollecombattere, mediante queste persone ed a prezzo del loro personale sacrificio, con forza, decisione e per mezzo della loro integritàpersonale. La bellezza nella foto quindi è tanto più grande quanto, a posteriori, si riconosca e si ricordi la storia dei soggetti che lì sono effigiati. Dubita  questo  collegio  che  tutte  queste  considerazioni  fossero  nell’animo  ovvero nell’intenzione  del  fotografo a  priori,  cioè mentre  riprendeva  la  scena amicale rappresentata nella fotografia; né d’altronde, presumibilmente, questa fotografia avrebbe assunto il valore simbolico odierno se i soggetti ivi rappresentati non fossero tragicamente morti per mano mafiosa. Si tratta quindi sicuramente di una bella fotografia, simbolica, toccante ma che non può configurarsi quale opera d’arte>>.

L’opera dell’ingegno fotografica, infatti, <<presuppone (…) una lunga accurata sceltada parte del fotografo del luogo, del soggetto, dei colori, dell’angolazione, dell’illuminazionee si concretizza in uno scatto unico, irripetibile nel quale l’autore sintetizza la sua visione del soggetto. Il fotografo deve quindi avere in mente un obiettivo pittorico e creativo di valore artistico ed innovativo che tende a realizzare in una rappresentazione che non è grafico-pittorica bensì fotografica. In  sostanza  i  presupposti  per  riconoscere  ad  una  fotografia  valore  di  opera d’arte sono i medesimi chedevono essere ascritti  ad un quadro. La fotografia deve essere l’espressione di un progetto artistico, di uno stile, di un momento creativo>>

Si tratta dunque di fotografia semplice ex art. 87 l. a.

Solo che nemmeno questa tutela è stata riconosciuta, essendo già decorso il termine ventannale di durata del diritto (art. 92 l.a.).

Copyright e intelligenza artificiale (AI): novità da AIPPI (e da WIPO)

E’ stata diffusa la notizia che AIPPI (Association Internationale pour la Protection de la Propriété Intellectuelle) ha concluso l’indagine sulla proteggibilità dei lavori creati con l’AI pubblicando la Risoluzione adottata al congresso di Londra del 18 settembre 2019, Copyright in artificially generated works.

L’ Encyclopaedia Britannica (richiamata nella Risoluzione) dà questa definizione introduttiva nella sua voce omonima:

<<Artificial Intelligence (AI) , the ability of a digital computer or computer-controlled robot to perform tasks commonly associated with intelligent beings. The term is frequently applied to the project of developing systems endowed with the intellectual processes characteristic of humans, such as the ability to reason, discover meaning, generalize, or learn from past experience. Since the development of the digital computer in the 1940s, it has been demonstrated that computers can be programmed to carry out very complex tasks—as, for example, discovering proofs for mathematical theorems or playing chess—with great proficiency. Still, despite continuing advances in computer processing speed and memory capacity, there are as yet no programs that can match human flexibility over wider domains or in tasks requiring much everyday knowledge. On the other hand, some programs have attained the performance levels of human experts and professionals in performing certain specific tasks, so that artificial intelligence in this limited sense is found in applications as diverse as medical diagnosis, computer search engines, and voice or handwriting recognition.>>

E’ interessante e chiaro il documento prepatorio Study Guidelines. Nelle pagine dedicate si possono consultare anche i vari report nazionali e quello riassuntivo (Summary Report).

Dei cinque casi (Working Example) prospettati per dare concretezza (ottima idea metodologica) al ragionamento, la Risoluzione afferma la proteggibilità solo per il case 2.a) e cioè:

<< Step 2: Data is selected to be input to the one or more AI entities. The data may be prior works such as artwork, music or literature. The data also may be inputs from sensors or video cameras or input from other sources, such as the internet, based on certain selection criteria.
[Case 2a]. The data or data selection criteria are selected by a human.
[Case 2b]. The data or data selection criteria are not selected by a human. >>

E’ invece negata la proteggibilità quando l’azione  umana consiste (solo) nella scelta degli obiettivi:

<< Step 1: One or more AI entities are created that are able to receive inputs from the environment, interpret and learn from such inputs, and exhibit related and flexible behaviours and actions that help the entity achieve a particular goal or objective over a period of time1. The particular goal or objective to be achieved is selected by a human and, for purposes of this Study Question, involves generation of works of a type that would normally be afforded copyright protection >>.

In sintesi, i risultati ottenuti senza intevento umano non son proteggibili come opera dell’ingegno, ma potrebbe esserlo come diritti connessi.

Quest’ultima affermazione andrà precisata, dato che per certi di questi si pongono esigenze simili al diritto di autore: per artisti interpreti esecutori.  Se una macchina di AI esegue una partitura musicale, può essere tutelata anche l’esecuzione frutto solo di AI? Ci sono esigenze di policy così diverse da quelle che negano la protezione maggiore come opera dell’ingegno?

Per rispondere in maniera non troppo approssimativa bisognerebbe capire meglio il lato tecnico e cioè dove può situarsi e come può caratterizzarsi l’intervento umano in sede di progettazione e funzionamento della macchina.

C’è poi da capire come si possa verificare che vi sia stata reale attività umana e che sia consistita proprio in quella dichiarata (seppur a posteriori,  in caso di lite, dato che il diritto sorge senza formalità costitutive)

Inoltre W.I.P.O. il 13.12.2019 ha lanciato un Call for Comments ad una bozza di temi relativi all’impatto di AI sulla proprietà intellettuale . Riporto la parte sul copyright che correttamente imposta la questione (§ 12): <<The policy positions adopted in relation to the attribution of copyright to AI-generated works will go to the heart of the social purpose for which the copyright system exists. [1] If AI-generated works were excluded from eligibility for copyright protection, the copyright system would be seen as an instrument for encouraging and favoring the dignity of human creativity over machine creativity. [2] If copyright protection were accorded to AI-generated works, the copyright system would tend to be seen as an instrument favoring the availability for the consumer of the largest number of creative works and of placing an equal value on human and machine creativity>> (grassetti e numeri 1 e 2 in rosso da me aggiunti)

Nel frattempo la Cina taglia corto e riconosce il diritto di autore ai lavori prodotti dall’A.I.: v. la notizia 10.01.2020 in Venturebeat su una sentenza del tribunale di Shenzen.

Una a sintesi dei principali problemi, posti dalla protezione IP (brevetti e diritto di autore) delle creazioni ottenute tramite intelligenza artificiale, è stata redatta da Iglesias-Shamuilia-Andereberg, Intellectual Property and Artificial Intelligence – A literature review, 2019,  per conto della Commissione Europea. Qui trovi bibliografia in tema e l’indicazione  di protezioni tramite diritto di autore (nonchè di due tramite brevetto) (v. tabella a p. 12-13).

Segreti commerciali e art. 98 c.1 n. 3 cod. propr. int.

L’art. 98 cpi regola i segreti commerciali o meglio il diritto titolato sugli stessi. La norma è importante perchè , rispettati i requisiti, si può fruire dell’apparato rimediale del c.p.i.

Un recente provvedimento milanese (29.01.2019, RG 51863/2015, sent. n. 872/2019) ha analizzato un caso in materia.

Qui mi soffermo solo sul punto in oggetto e cioè sull’applicazine del concetto di <<misure ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete>> di cui al c. 1 lett. c), art .98.

Il Tribunale ha detto (numerazione in rosso degli elemetni di segretezza  individuati dal Trib., da me aggiunta) : <<Le parti convenute hanno contestato che parte attrice abbia dato effettiva prova dell’apprestamento di misure di riservatezza effettivamente pertinenti ad un livello di ragionevolezza, sostanzialmente invocando a tal fine che, ad esempio, i disegni tecnici in questione fossero stati posti a suo tempo nella disponibilità dei soggetti fornitori di Tekna anche mediante la possibilità di prelevarli all’interno di un sito web della stessa.

Ritiene invece il Collegio che le risultanze di causa consentano di ritenere che tali documenti tecnici fossero effettivamente soggetti a misure di riservatezza ragionevoli e pertinenti alle modalità di svolgimento dell’attività produttiva di Tekna ed ai rapporti con i suoi fornitori.  Non risulta per un verso contestato che, oltre alla [1] previsione di sistemi antiintrusione, l’accesso a tale documentazione fosse soggetto al rilascio di specifiche [2] password che – oltre a quella che consentiva l’accesso generale al sistema informatico – prevedeva [3] l’ulteriore rilascio di autorizzazioni per l’accesso  a specifici applicativi del sistema stesso, modalità organizzative che determinavano dunque una selezione  nell’accesso  a  parti  determinate  di  esso (v.  doc.  37  Emmegi).  Inoltre,  sotto  altro  profilo maggiormente rilevante per i soggetti esterni a Tekna, la documentazione tecnica in questione era con tutta evidenza [4] soggetta a vincoli di riservatezza a carico dei soggetti ai quali era stata fornita la disponibilità. Ciò appare rilevabile dall’esame di tutti i disegni tecnici acquisiti in sede di descrizione, [4.1] ove compare    in ciascuno di essi l’espressa riserva di proprietà dei disegni stessi in capo a Tekna ed il divieto di riprodurre i medesimi o di renderli noti a terzi. D’altra parte la [4.2] sussistenza di uno specifico rapporto di fornitura tra le imprese convenute riconduce l’oggetto di essi ad un alveo di normale e fisiologica riservatezza rispetto alle informazioni e documenti scambiati tra le parti per ciò che attiene allo svolgimento di tale rapporto contrattuale, risultando di per se stessa contraria alla buona fede ed alla correttezza contrattuale ogni attività di diffusione a terzi di tali informazioni. Ciò risulta peraltro direttamente confermato dalla produzione in atti di contratto di fornitura intercorso tra parte attrice e la convenuta M.G. Costruzioni Meccaniche s.a.s. del novembre 2014 in cui era [4.3] espressamente inserito il divieto per l’impresa fornitrice di utilizzare ogni informazione ricevuta per finalità estranee al rapporto stesso e di divulgarle a terzi (v. doc. 4 MG).

Il fatto dunque che i documenti tecnici in questione fossero scaricabili dal sito web di Tekna dai (soli) fornitori ad essa legati da vincoli contrattuali non comporta alcun significativo pregiudizio rispetto alla sussistenza ed efficacia di tali misure, tenuto conto che l’accesso a detti documenti era evidentemente conseguente al rapporto  contrattuale esistente con la titolare di tali disegni e  della consapevolezza di  tali fornitori dell’esistenza di tali vincoli e dei limiti connessi alla ricevuta disponibilità dei documenti stessi.

Il quadro complessivo delle misure di sicurezza approntate presso EMMEGI s.p.a. risulta rappresentato nel documento generale prodotto in atti (doc. 46 fasc. Emmegi). Ritiene pertanto il Collegio che il quadro fornito in ordine alla predisposizione delle misure di sicurezza debba ritenersi congruo e sufficiente per l’attività svolta dall’attrice e dalle sue danti causa.>>

In sintesi dunque per il Tribunale le misure, tali da ritenere sodisfatto il requisito in oggetto, sono: 1) la previsione di sistemi antiintrusione (nei locali aziendali, presumibilmente), 2) necessità di password di accesso generale al sistema informatico; 3) necessità di password di accesso ai singoli software applicativi, 4) dovere di riservatezza dei consegnatari delle credenziali/passwordo, dato da: 4.1) espressa dichiarazione di riserva di proprietà e di divieto di riproduzione apposto sui disegni, 4.2) dovere di segretezza generato dalla buona fede in executivis propria del rapporto contrattuale in essere, 4.3) dovere di segretezza specificamente inserito in una clausola del testo contrattuale.

Il rapporto tra 3) e 4) è peculiare: è pensabile il dovere di riservatezza a carico di chi viene a contatto con le informazioni segrete anche senza password (impregiudicato se ciò basti ai fini dell’art. 98 cpi), mentre non è pensabile l’opposto. Infatti l’assegnazione di credenziali/password, senza la creazione di previ doveri di riservatezza a carico degli assegnatari, certamente non costituirà  <<misura ragionevolmente adeguata a mantenerle segrete>>: anzi ne costituirà una palese violazione.

Un interessante caso di utilizzo di banca dati altrui e quindi di applicazione del diritto sui generis sulla medesima

Il tribunale delle imprese di Roma (sez. Trib. Imprese 4-5/09/2019, RG 34006/2019;  ne dà notizia Maraffino sul Sole 24 ore di oggi 21.10.2019, p. 22, ove il testo in allegato) interviene con un interessante provvedimento cautelare in materia di diritto sui generis su banca dati (art. 102 bis-ter l. aut.)

La banca dati per cui era causa era quella relativa ad orari e prezzi ferroviari  di Trenitalia.

Era capitato che la società di diritto inglese Go Bright avesse proceduto a estrazione e reimpiego dei dati di questa bancadati di Trenitalia. Trenitalia se n’era lamentata e aveva ottenuto in via cautelare inaudita altera parte l’inibitoria di cessazione e la comminazione di penale per successive eventuali violazioni a carico di Go Bright  Instauratosi il contraddittorio, però il tribunale di Roma col provvedimetno de quo ha revocato quello anteriore  inaudita altera parte e rigettato la domanda cautelare di Trenitalia

il Tribunale ricorda che la disciplina sulle banche dati prevede che <<il costitutore di una banca di dati ha il diritto, per la durata e alle condizioni stabilite dal presente Capo, di vietare le operazioni di estrazione ovvero reimpiego della totalita’ o di una parte sostanziale della stessa.>> (art. 102 bis c. 2 l. aut.)

“Costitutore” e quindi titolare di tale diritto è colui che <<effettua investimenti rilevanti per la costituzione di una banca di dati o per la sua verifica o la sua presentazione, impegnando, a tal fine, mezzi finanziari, tempo o lavoro;>> (art. 102 bis c. 1 lett. a) lt.). Il Tribunale dà atto che sul punto non c’erano contestazioni e quindi tale qualifica viene riconosciuta a Trenitalia.

Ad integrazione del c. 3. cit., il seguente comma 9 dell’art. 102 bis prevede però che <<non sono consentiti l’estrazione o il reimpiego ripetuti e sistematici di parti non sostanziali del contenuto della banca di dati, qualora presuppongano operazioni contrarie alla normale gestione della banca di dati o arrechino un pregiudizio ingiustificato al costitutore della banca di dati.>>

La ragione di quest’ultima norma è abbastanza chiara.  E’ vero che l’estrazione o il reimpiego di una banca dati altrui è sempre ammesso, purchè limitato ad una parte non sostanziale: ma è facile eludere tale limite procedendo con accessi ripetuti nel tempo, ciascuno rispettante il limite della “non sostanzialità” della parte utilizzata.

E’ un po’ come la regola sul divieto di uso del contante che superi una certa soglia, la quale può essere elusa tramite il frazionamento ripetuto nel tempo  di prelievi che, individualmente considerati, rispettano la soglia stessa: è per questo che la legge ha provveduto ad inserire una norma relativa al caso di cumulo di prelievi in un certo periodo di tempo. Ha infatti disposto che <<Il trasferimento superiore al predetto limite, quale che ne sia la causa o il titolo, e’ vietato anche quando e’ effettuato con piu’ pagamenti, inferiori alla soglia, che appaiono artificiosamente frazionati>>, dovendosi intendere per <<operazione frazionata>>, l’<<operazione unitaria sotto il profilo del valore economico, di importo pari o superiore ai limiti stabiliti dal presente decreto, posta in essere attraverso piu’ operazioni, singolarmente inferiori ai predetti limiti, effettuate in momenti diversi ed in un circoscritto periodo di tempo fissato in sette giorni, ferma restando la sussistenza dell’operazione frazionata quando ricorrano elementi per ritenerla tale>> (art. 49 e rispett. art. 1 lett. v) del D. lgs. 231 21.11.2007; c’è una disarmonia lessicale però, dato che prima parla di operazioni e poi di trasferimenti e di pagamenti).

Ebbene anche nel nostro caso è ammesso l’utilizzo di porzioni di banca dati altrui in misura non sostanziale ma  con dei limiti, quando si ha ripeta frequentemente.

Il legislatore fiscale ha ritenuto di porre una soglia quantitativa e temporale; la legge sul Diritto d’autore ha invece stabilito il concetto di operazioni “ripetute e sistematiche” , accompagnandolo poi con un’ulteriore duplice condizione negativa: i) che non devono presupporre operazioni contrarie alla normale gestione della banca dati; e ii) che non arrechino un pregiudizio ingiustificato al costitutore. Queste ultime due ipotesi sono parzialmente coincidenti dato che l’operazione contraria alla normale gestione probabilmente sarà anche pregiudizievole, ma letteralmente una differenza c’è: per quella sub i) rileva solo la contrarietà alla normale gestione, essendo invece irrilevante la dannosità.

Il Tribunale ricorda poi che esiste un’altra norma, trascurata dal giudice cautelare di prime cure, costituita dal c. 3 dell’articolo 102 ter. Secondo questa, <<non sono soggette all’autorizzazione del costitutore della banca di dati messa per qualsiasi motivo a disposizione del pubblico le attivita’ di estrazione o reimpiego di parti non sostanziali, valutate in termini qualitativi e quantitativi, del contenuto della banca di dati per qualsivoglia fine effettuate dall’utente legittimo. Se l’utente legittimo e’ autorizzato ad effettuare l’estrazione o il reimpiego solo di una parte della banca di dati, il presente comma si applica unicamente a tale parte>>.

La complessiva disciplina dunque pare sintetizzabile così:

A)  se la banca dati non è stata messa a disposizione del pubblico, è ammesso il reimpiego/estrazione solamente se A1) non sostanziale, nonchè  A2) non ci siano utilizzi ripetuti e sistematici contrari alla normale gestione -oppure, in alternativa ad A2- ; A3) non ci siano utilizzi ripetuti e sistematici arrecanti pregiudizievole ingiustificata al titolare.

B) quando invece la banca dati è stata messa a disposizione del pubblico, i paletti sono quelli B1) del reimpiego/estrazione “non sostanziali” (valutate in termini qualitativi e quantitativi), B2) da parte dell’utente legittimo.  Altri limiti non ci sono ed anzi è esporessamente detto che è ammesso per qualsiasi fine effettuato dall’utente legittimo (c. 3 art. 102 ter)

Semmai c’è da chiedersi chi sia l'<<utente legittimo>>, dato che per ipotesi si tratta di banca dati messa a disposizione del pubblico e quindi per chiunque. Tale concetto allora andrà probabilmente inteso con riferimento ad eventuali limitazioni che il costitutore apponga all’utilizzo pubblico: sarebbe logico,  perché in tali casi è utente legittimo solo chi rispetta i limiti entro cui il costitutore ha messo a disposizione del pubblico la banca dati. Se supera quei limiti, l’utente non è più legittimo.

Tornando al caso sub iudice l’estrazione consistette nell’estrazione da parte di Go Bright con picchi fino a 800.000 accessi al giorno, che rappresentavano il 30% di tutti gli accessi sui siti Trentilaia e rallentamenti della funzionalità dei server. Il giudice romano ha ritenuto che tali dati, forniti da Trenitalia, <<non appaiono sufficientemente convincenti per poter dare una risposta alla questione precedentemente sottolineata, in quanto il numero, per la verità non impressionante (30% degli accessi sulla totalità degli accessi giornalieri di TRENITALIA peraltro suddivisi nelle ventiquattr’ore) dello scraping effettuato sulla piattaforma della società ricorrente potrebbe essere interpretato come una periodica e selettiva acquisizione di dati da parte del server di GoBright. Non vi è quindi evidenza di una manifesta e di inequivoca sottrazione della banca dati da parte della società resistente>>( p. 8).

Inoltre ha precisato che l’apertura della banca dati al pubblico <<comporta la possibilità per qualsiasi utente di estrarre legittimamente tali dati in misura non sostanziale e di utilizzarli nelle forme che ritiene più opportune, anche in forma commerciale.>> (p. 6),  precisando subito dopo così: <<in  sintesi, una volta che la banca dati sia stata resa pubblica nel suo complesso, sono consentite ad avviso di questo giudice tutte le attività di estrazione, riproduzione e rielaborazione dei dati contenuti nella banca da parte di tutti gli utenti legittimi, siano essi soggetti fisici o soggetti imprenditoriali a condizione che la riutilizzazione e reimpiego dei dati non avvenga in maniera massiccia origuardi “ la totalità della banca dati, una parte sostanziale della stessa” (art. 102 bis) ovvero “il reimpiego di parti sostanziali valutati in termini qualitativi e quantitativi (art. 102 ter LDA)”.>> (p. 6/7)

Un elemento fattuale importante è che -secondo Go Bright- l’acquisizione dei dati non avveniva una volta per tutte e in via definitiva, bensì <<volta per volta sui propri server mediante il sistema dello “scraping” e che vi è un’acquisizione continuativa nel tempo e selettiva da parte del proprio applicativo dei dati utili al singolo utente che ne fa contestuale richiesta. In termini semplificati i server della società resistente acquisiscono i soli dati utili alla configurazione della richiesta del singolo utente.>> (p. 7).  In altre parole <<l’acquisizione parcellizzata e non massiva dei dati, considerate anche le prestazioni svolte dalla società, è piuttosto sintomatica di un uso contingente (ogniqualvolta l’utente ne faccia richiesta), circostanza questa che affievolisce significativamente il fumus cautelare evidenziato dal giudice della tutela interinale>> (p. 8)

La decisione esaminata non appare però particolarmente coerente, in quanto sembra mescolare i requisiti per fruire della banca dati altrui non resa pubblica con quelli necessari per fruire della banca dati altrui resa pubblica. Si tratta invece di due fattispecie normativamente distinte e quindi bisogna scegliere in base a quale  di esse si giudica la fattispecie concreta. Se la fattispecie astratta è quella dell’utilizzo di parti non sostanziali di banca dati non resa pubblica, allora ci si deve riferire all’articolo 102.  Se invece la fattispecie astratta è quella dell’utilizzo di banca dati resa pubblica, allora la norma di riferimento è solamente il comma 3 dell’articolo 102. I due gruppi di norme quindi non paiono potersi reciprocamente cumulare o in qualche modo integrare .

Se  sì esamina dunque il requisito del pregiudizio ex c. 9 art. 102 bis (banca dati non resa pubblica) , non si può poi anche ragionare sulla “non sostanzialità in termini qualitativi e quantitativi” di cui al c. dell’art. 102 ter (banca dati resa pubblica)

E interessante anche il riferimento finale alla recente direttiva (UE) 2019/1024 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all’apertura dei dati e al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico, volta a facilitare l’utilizzo (commerciale e non) dei dati in possesso delle pubbliche amministraizoni.

Alla luce di tale novità , il  giudice ritiene che ciò porti ad un’interpretazione restrittiva del concetto di “parte sostanziale”, al punto da farla quasi coincidere col concetto di “totalità”, sì da facilitare reimpiego/estrazione dei dati propri presenti nelle banche dati. Dice infatti <<quando si parla quindi di estrazione, reimpiego ovvero rielaborazione di un quantitativo di dati provenienti da soggetto a cui la disciplina comunitaria impone la massima divulgazione dei dati in proprio possesso, il concetto di “parte sostanziale” del prelievo deve essere interpretato ed applicato in conformità alla volontà del legislatore comunitario in un’ottica di sostanziale sovrapposizione fra il concetto di “totalità” e quello di “parte sostanziale”. Quindi solo la prova stringente di una sottrazione di una banca dati complessiva può fondare il rilascio di un provvedimento interdittivo>> (p. 10)

Il punto è interessante anche se delicato da risolvere. Si potrebbe dire che la normativa sulla proprietà intellettuale vada interpretata a prescindere da questa direttiva, essendo norma speciale rispetto ad essa.

Tuttavia potrebbe far inclinare per la conclusione opposta (e quindi nel senso del Tribunale romano) il  fatto che la direttiva non si applica <<ai documenti su cui terzi detengono diritti di proprietà intellettuale;>> (art. 1 § 2 lett. c, dir.). Si badi che per <<documento>> si intende <<qualsiasi contenuto, a prescindere dal suo supporto>> (art. 2 n. 6 dir.; curioso uso sinonimico di documento e contenuto).

Con la conseguenza allora che, quando invece il diritto di IP spetti all’Ente stesso, la normativa di trasparenza e accessibilità va pienamente applicata.

La Corte di Giustizia sull’ambito del giudicato di accertamento sottostante l’inibitoria: quando ricorre “la medesima violazione” accertata illecita, che può ritenersi contenuta nell’inibitoria e che dunque la viola?

La Corte con sentenza 03.10.2019, C-18/18, Eva Glawischnig‑Piesczek c. Facebook Ireland Limited, interviene con un’attesa sentenza sull’ampiezza del giudicato coperto dall’accertamento di illiceità, sottostante all’inibitoria di comportamenti futuri.

Userò indifferentemente i termini inibitoria e ingiunzione come pure inibire/ingiungere. Injunction in common law corrisponde grosso modo alla nostra inibitoria: solo che ha un contenuto molto più ampio (Mattei U., Tutela inibitoria e tutela risarcitoria, Giuffrè, 1987, 157/8)  e in particolare può avere anche contenuto positivo (si parla infatti oltre che di prohibitory injunction , pure di mandatory injunction: voce Injunction, in A Dictionary of Law Enforcement (2 ed.) a cura di Graham Gooch and Michael Williams, Oxf. Univ. Press, 2015). Da noi invece l’inibitoria è un ordine di cessazione (inibire=vietare), anche se teoricamente si potrebbe vietare una condotta omissiva, nel caso fosse dovuta una condotta positiva (in tema di responsabilità contrattuale, dunque; da vedere in quella aquiliana): difficilmente però, in tal caso ne seguirebbe la conseguenza logica di dover tenere una condotta positiva precisamente individuata (l’intercambiabilità tra ottica positiva e negativa è però affermata da Frignani A., voce Inibitoria (azione), Enc. dir., 1971, § 7 Contenuto: <<La contraddizione è soltanto apparente, in quanto ciò che si vuole impedire per il futuro (o inibire) è l’illecito in se stesso; e non c’è dubbio che l’illecito visto sotto il profilo della condotta, possa essere sia commissivo sia omissivo secondo il tipo di obbligo violato. Di conseguenza, di fronte ad un illecito commissivo si avrà una condanna ad un non facere, mentre, invece, in presenza di un illecito omissivo si avrà una condanna ad un facere. Bisogna tuttavia rilevare che si tratta di due aspetti dello stesso fenomeno, talvolta inscindibilmente legati l’uno all’altro, talvolta addirittura intercambiabili. Infatti, da un punto di vista teorico, anche l’inibitoria positiva potrebbe sempre essere rovesciata in una inibitoria negativa. Il che è quanto dire che il giudice invece di ordinare un determinato comportamento atto a far cessare l’illecito, potrebbe ordinare la cessazione dell’illecito tout court. In altri termini, sempre in linea puramente teorica, si potrebbe affermare che tutte le inibitorie positive potrebbero risolversi in altrettante inibitorie negative>>. In breve, da noi l’inibitoria in linea di massima ha contenuto solo negativo cioè ordina un’astensione (solamente un contenuto negativo per Basilico, La tutela civile preventiva, Giuffrè, 2013, 205-216, secondo cui quando ha un contenuto positivo si tratta di tutela contro l’inadempimento contrattuale). La traduzione italiana della sentenza usa il termine ingiunzione.

A dire il vero non è chiarissimo se riguardi pure la rimozione di materiale già caricato o solo l’inibizione o blocco di caricamenti futuri . Le cose potrebbero combinarsi, dal momento che qualche caricamento potrebbe sfuggire ai filtri: quindi  potrebbe succedere di dovere rimuovere ciò che oggi non c’è sul server del provider ma che in futuro ci sarà.

I fatti storici contemplano un post diffamatorio su Facebook inerente una politica austriaca: consisteva in un link ad altro sito (del quale il post offre un’anteprima) e un commento diffamante.

La questione giuridica sorta riguarda il se eventuali futuri comportamenti identici da altra fonte, oppure anche solo equivalenti, rientrino tra quelli oggetto dell’inibitoria. Anzi più precisamente la questione è affrontata dal punto di vista del contenuto dell’inibitoria e cioè nell’ottica del giudice che deve emetterla. Ma il problema si pone anche se il giudice nulla dice in proposito (non è scontato che il dictum giudiziale in tale caso vada interpretato in modo formalistico e rigoroso).

In sostanza il giudice a quo chiede  se il diritto europeo e in particolare l’articolo 15 paragrafo 1 direttiva 31/2000 (divieto di porre obblighi di sorveglianza o di ricerca generalizzati) osti ad un’inibitoria (anzi letteralmente: ad un obbligo di rimuovere, ma come detto poi il giudice lo interpreta anche come riferito ad un ordine di bloccare l’accesso futuro) di caricamenti di informazioni future “identiche” a quelle accertati illeciti e prescindere dall’uploader (cioè da chi metta on line le informazioni stesse). Cioè identiche nel contenuto ma non nel soggetto che le metta on line.

Chiede poi se osti ad inibitoria riferite a contenuti non identici a quelli accertati illeciti ma solo “equivalenti” ad essi. Qui però la Corte stranamente non menziona più il profilo soggettivo e cioè la questione della rilevanza dell’identità o diversità dell’uploader (cioè se faccia una qualche differenza, ai fini dell’inibitoria di informazioni equivalenti, che siano caricate dall’uploader originario oppure da un soggetto terzo)

Nell’ambito di tale questione si chiede poi  se gli effetti di tale ingiunzione possono essere estesi a livello mondiale

la terza questione pregiudiziale non è ben chiara e sembra riferita al dovere di trattamento di informazioni illecite non identiche bensì equivalenti , appena il gestore ne sia venuto a conoscenza: e cioè a prescindere, sembrerebbe, dal soggetto che glielo notifica. Di questa domanda , data la sua scarsa comprensibilità, non mi occupo (l’intero set delle questioni pregiudiziali non è però scritto o tradotto in modo molto chiaro).

Circa la prima domanda pregiudiziale la Corte afferma che il giudice può legittimamente esigere il blocco dell’accesso alle informazioni identiche a quelle già accertati illecite, a prescindere da chi sia l’uploader (<< qualunque sia l’autore della richiesta di memorizzazione>> par. 37).

E’ abbastanza semplice  arrivare a questa conclusione, dal momento che è certo che non ricorre il concetto di sorveglianza/ricerca generale ex art. 15 dir., unico aspetto rilevante presso la Corte .

Più complesso è il secondo quesito, relativo alla possibilità di inibire anche permanenza o caricamenti  di materiali o informazioni dal contenuto equivalente anziché identico a quello già accertato illecito

(si dovrebbe distinguere, dato che si può ordinare di : i) evitare caricametni futuri; ii) far permanere caricamenti passati già effettuati; iii) far permanere caricamenti futuri che venissero effettettuati nonostante i filtri perchè in violazione o comunque in superamento degli stessi)

Il giudice europeo ritiene che l’ingiunzione, per essere effettiva e cioè per far effettivamente cessa l’illecito/impedirne il reiterarsi, deve  potersi estendere alle informazioni equivalenti: cioè a quelle che recano sostanzialmente il medesimo messaggio, anche se formulato in modo leggermente diverso. Precisamente dice <<deve potersi estendere alle informazioni il cui contenuto, pur veicolando sostanzialmente lo stesso messaggio, sia formulato in modo leggermente diverso, a causa delle parole utilizzate o della loro combinazione, rispetto all’informazione il cui contenuto sia stato dichiarato illecito. Diversamente infatti, e come sottolineato dal giudice del rinvio, gli effetti inerenti a un’ingiunzione del genere potrebbero facilmente essere elusi tramite la memorizzazione di messaggi appena diversi da quelli dichiarati illeciti in precedenza, il che potrebbe condurre l’interessato a dover moltiplicare le procedure al fine di ottenere la cessazione dei comportamenti illeciti di cui è vittima>> (par.  41).

La Corte però ricorda che la tutela del soggetto le Ieso non è assoluta e deve conciliarsi con le esigenze di non imporre obblighi eccessivi al provider: è questa la ragione dell’articolo 15 comma 1 dir. 31 (§ 44). In applicazione di questo criterio, allora, afferma che le informazioni “equivalenti” sono quelle che <<contengono elementi specifici debitamente individuati dall’autore dell’ingiunzione>> (cioè dal giudice),  <<quali il nome della persona interessata dalla violazione precedentemente accertata, le circostanze in cui è stata accertata tale violazione nonché un contenuto equivalente a quello dichiarato illecito>> (§ 45). Si precisa pure che <<differenze nella formulazione di tale contenuto equivalente rispetto al contenuto dichiarato illecito non devono, ad ogni modo, essere tali da costringere il prestatore di servizi di hosting interessato ad effettuare una valutazione autonoma di tale contenuto>> (§ 45).

Ora, che debba esserci equivalenza anzi identità circa il nome della persona interessata (l’aggredito) e  equivalenza circa le circostanze relative alla violazione (nel caso: opinioni sulla politica di accoglimetno dei migranti) è condibvisibile e potrebbe essere non difficile da accertare in concreto. Potrebbe invece essere difficile accertare  l’equivalenza circa il resto del contenuto e cioè il giudizio negativo e diffamante sulla persona.

La Corte lodevolmente cerca di ridurre il margine di opinabilità e tutelare quindi la libertà imprenditoriale del provider, in mancanza di uno specifico Safe Harbor per la fase esecutiva delle inibitorie (non menziona la libertà di espressione e di inoformazine dell’uploader: probabilmente dato che in thesi si tratta di caricamente di materiali illeciti). Precisa che << la sorveglianza e la ricerca che richiede sono limitate alle informazioni contenenti gli elementi specificati nell’ingiunzione>> e che la ricerca dell’equivalenza non può <<il prestatore di servizi di hosting ad effettuare una valutazione autonoma, e quest’ultimo può quindi ricorrere a tecniche e mezzi di ricerca automatizzati>>: cioè par di capire deve essere palese, ictu oculi rilevabile (non dal soggetto medio di un certo paese ma dal livello medio di professionalità di un operatore del medesimo settore professionale) e deve essere verificabile invia automatica.

Inoltre il dovere è limitato , si badi, alle informaizoni <<contenenti gli elementi specificati nell’ingiunzione>>.

Il passaggio è importante: ad es in relazione alla norma italiana (assente nella direttiva) del 17 comma 3, D. LGS. 70/2003, che afferma la responsabilità civile per chi, richiesto dall’autorità, non abbia prontamente impedito l’accesso oppure, avendo comunque avuto conoscenza dell’illiceità, non ha informato l’autorità stessa. In particolare il riferimento è al primo caso: la violazione di una inibitoria inftti può avvenire anche quando il provider sbagli nella valutazione e ritenga non rientrare nel concetto di equivalenza ciò che invece ex post si accerta rientrarvi. In tal caso infatti  si avrebbe una mancanza di blocco dell’accesso, pur se richiesto dall’autorità: quindi integrandosi la fattispecie posta dal 17 comma 3 punto

In tal modo dice la CG l’ingiunzione non contrasta col divieto di sorvegnlianza rierca generale (§ 47).

La Corte però e sorprendentemente non dedica alcuna riga -salvo errore ad una prima lettura- a specificare se il dictum sull’inbitoria di conteuti equivalenti valga solo verso il medeismo soggetto già ritenuto autore dell’illecito o anche verso terzi. Dico sorprendentemente perchè la distinzione era stata fatta in modo netto dal’AG. Nè lo si capisce dal concetto di equivalenza: questo contiene anche il profilo soggettivo e, se si, lo ritiene discriminante o no? Il che è probabilmente una conseguenza dell’aver sin dall’inizio impostato le questioni pregiudiziali senza dare attenzione a questo punto, come si è segnlato sopra.

L’impressione traibile dal ragionamento svolto, però, è che la Corte ritenga compatibile col diritto UE  l’inibitoria riferita a condotte equivalenti a prescindere da chi possa caricare i materiali illeciti :  cioè non solo se caricati dall’autore del caricamento già accertato illecito, ma da chiunque

Circa la possibilità di inibitorie a livello mondiale il giudice dice che la Direttiva 31 non osta alla stessa. Saggiamente però fa presente -anche se in maniera non chiarissima (più chiaro è il relativo passaggio dell’AG) che  va tenuta in considerazione la coerenza della normativa dell’UE con le norme internazionali: in particolare aggiungerei -sulla scia di quanto detto dall’avvocato generale- il rapporto con la sovranità che gli altri stati esercitano sui loro territori e popolazioni. Pretendere infatti di bloccare caricamenti, che possono avvenire da qualunque parte del mondo, potrebbe essere ritenuto incompatibile con le sovranità nazionali sugli altri territori e con le rispettive legislazioni,le quali possono essere diverse (§ 100). E’ il problema delle cross-borders injuntions e cioè della possibilità di effetti extraterritoriali di un provvedimento giudiziale (analogamente, direi, al caso di esecizio della sovranità tramite non  l’organo giudiziario ma tramite quello legislativo e cioè tramite  una norma di legge che pretendesse di applicarsi anche all’estero): non nuovo nel dibattito giuridico.

La struttura del ragionamemento sul punto è analoga a quella della recente sentenza nel caso Google c. Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), del 24.09.2019, C-507/17 sul c.d. delisting nazionale, europeo o mondiale (l’analogia è negata da Andrej Savin  nel suo  EU Internet Law & Policy Blog , The CJEU Facebook Judgment on Filtering with Global Effect: Clarifying Some Misunderstandings 4 ottobre 2019). In entrambi i casi la Corte dice che il delisting mondiale non è contrario a specifiche norme di diritto UE, ma non è nemmeno imposto. dalle stesse (anche qui assai più utili sono le  Conclusioni dell’AG  10.01.2019, che guarda caso è il medesimo)

Passiamo alle conclusioni dell’avvocato generale (poi: AG) 04.06.2019, un po’ più articolate.

Dopo aver chiarito che il provider è soggetto ad ingiunzioni anche se non è responsabile delle informazioni e che la disciplina delle ingiunzioni spetta e diritti nazionali (§§  32-33), affronta il divieto di obbligo generale in materia di sorveglianza.

Ricorda che questo va inteso come sorveglianza sulla totalità o quasi totalità dei dati di tutti gli utenti del suo servizio ti richiama con ciò le sentenze L’Oreal e Scarlett x-tended (§ 35 ).

Qui introduce un’osservazione sulla cui esattezza bisognerebbe ragionare. Dice che se uno Stato potesse imporre una sorveglianza generale, il provider perderebbe il suo carattere tecnico, automatico e passivo e cioè non sarebbe più neutro (§ 36). il punto è discutibile, dal momento che, se la sorveglianza avviene tramite sistemi di filtraggio automatico, la passività del’ISP rimane. Mi  pare tuttavia una questione poco importante, dal momento che il divieto di sorveglianza/ricerca generale è posto dalla legge.

Inoltre l’AG dice che, anche non concordando con ciò, un provider che esercitasse sorveglianza generale potrebbe  essere ritenuto responsabile di qualsiasi informazione illecita, senza rispettare quindi le lettere a e b nel paragrafo 1 articolo 14 punto (§ 37). L’affermazione appare poco lineare e poco pertinente. Da un lato egli sarebbe responsabile non tanto delle informazioni ilecite, quanto del divieto della violazione di questo divieto di sorveglianza, cosa diversa. Dall’altro e soprattutto, ha poco senso ipotizzare uno scenario fattuale di sorveglianza/ricerca generale  che cozzerebbe con lo safe harbour dell’art. 14: lo avrebbe se mancasse un divieto di dovere di sorveglianza/ricerca generale, il quale invece c’è ed è espresso.

Il punto importante è la conclusione di questo passaggio (§ 40), secondo cui dal 14 paragrafo 3 dell’articolo 15 un obbligo imposto da uno Stato nazionale al provider tramite in ingiunzione non può avere la conseguenza di renderlo non più neutro rispetto alla totalità o quasi totalità delle informazioni memorizzate.

L’affermazione non mi pare esattissima perché confonde il fatto col giudizio, che vanno invece tenuti ben distinti. Il fatto è che il dovere di vigilanza riguarda tutte o quasi le informazioni e di tutti gli utenti: il che è condivisibile. Costituisce invece un giudizio il “rendere il provider  non più neutro”. Prima viene il fatto da valutare e poi viene la valutazione del fatto .

Al paragrafo 41 ricorda che si può senz’altro inibire una violazione futura e che ciò non contrasta con  il divieto di sorveglianza generale (§ 41).

Su questo non ci sono dubbi: il dato normativo non è equivoco.

Ricorda poi ai paragrafi 43 e 44 la sentenza L’Oréal che ha legittimato le inibitorie di “nuove violazioni della stessa natura da parte dello stesso commerciante nei confronti degli stessi marchi” (C. G. 12.07.2011,  C‑324/09, L’Oreal ed altri c. eBay, § 141.

Quindi un provider può essere costretto a rimuovere informazioni illecite non ancora diffuse, senza che la diffusione venga portata nuovamente a sua conoscenza tramite comunicazione ad hoc e in maniera separata rispetto alla domanda iniziale (AG § 44). il che sembra voler dire che non serve una nuova contestazione ed eventualmente un nuovo processo.

Deve trattarsi però di violazioni della stessa natura, dello stesso destinatario e nei confronti degli stessi diritti: § 45. Qui c’è forse una ripetizione poiché violazioni della stessa natura e nei confronti degli stessi diritti dicono forse la stessa cosa: una violazione del medesimo diritto costituirà spesso una violazione della stessa natura e così forse pure per il reciproco. Tuttavia dato il tasso di genericità dei concetti di “stessa natura” e “stessi diritti”, è inopportuno soffermarvisi, anche se nella pratica il profilo sarà assai importante.

In ogni caso l’AG ricorda e richiama le sue conclusioni nella causa McFadden C-484/14, § 132, in cui si dice che l’obbligo inibitorio “in casi specifici” (cons. 47 dir. 31) deve essere delimitato per l’oggetto e per la durata. Questi requisiti generali sono adattabili al caso specifico, prosegue l’AG, relativo ad un post su Facebook. dato che un host provider -quale FB- è in condizioni migliori per adottare misure di ricerca ed eliminazione informazioni illecite rispetto al fornitore di accesso (§  48).

Affronta poi (§ 49) il requisito della limitazione temporale, richiamando le sentenze L’Oréal, § 140, e Netlog, § 45 (dove però si legge <<implica una sorveglianza, nell’interesse di tali titolari, sulla totalità o sulla maggior parte delle informazioni memorizzate presso il prestatore di servizi di hosting coinvolto>>, mentre in L’Oreal l’ingiunzione era riferita solo ai marchi in causa). Dice che un obbligo di sorveglianza permanente è difficilmente conciliabile con il concetto di obbligo “applicabile a casi specifici” ai sensi del cons. 47 dir. 31.

L’affermazione non persuadegranchè , dal momento che l’inibitoria concernente un solo cliente, se non addirittura una singola opera o opere determinate, anche se illimitato nel tempo, non  può rientrare nel concetto di “sorveglianza/ricerca  generale”.

Potrebbe semmai confliggere con la necessità che le misure siano proporzionate e soggette a termini ragionevoli (art. 3 § 2 e § 1 della dir. 48/2004).

La sintesi è al § 50: <<Di conseguenza, il carattere mirato di un obbligo in materia di sorveglianza dovrebbe essere previsto prendendo in considerazione la durata di tale sorveglianza, nonché le precisazioni relative alla natura delle violazioni considerate, al loro autore e al loro oggetto. Tutti siffatti elementi sono interdipendenti e connessi gli uni agli altri. Essi devono essere pertanto valutati in maniera globale al fine di rispondere alla questione se un’ingiunzione rispetti o meno il divieto previsto all’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31>> Rimarco il cenno al limite temporale della misura, poco trattato nei discorsi giuridici in tema: le inibitorie dovranno contenerlo  e sarà interessante vedere in concreto come verrà quantificato.

Ai §§  51-53 ripropone una sintesi del percorso svolto fino a quel momento.

Successivamente va al cuore del quesito sottoposto alla corte. Affronta il primo, il più semplice, cioè quello delle informazioni identiche dallo stesso utente o anche da altri utenti. Tenendo conto che si tratta di un’ordinanza cautelare [il che però appare irrilevante]  e che esistono strumenti informatici tali per cui l’attività del provider non consiste in un filtro attivo e non automatico, l’AG ammette la compatibilità col divieto di sorveglianza generale dell’inibitoria per violazioni identiche a carico e provenienti da qualunque utente (§§ 57 61). Sul punto  èstato quindi seguito dalla CG.

Poi affronta l’inibitoria su contenuti equivalenti. Ancora una volta, è questo il passaggio più importante e delicato

Ricorda che dalla domanda di pronuncia pregiudiziale il concetto di informazione equivalente <<riguarda le informazioni che divergono a malapena dall’informazione iniziale o le situazioni in cui il messaggio resta, in sostanza, immutato. Intendo tali indicazioni nel senso che una riproduzione dell’informazione qualificata come illecita, la quale contenga un errore di battitura, nonché quella che presenti una sintassi o una punteggiatura diverse, costituisce un’«informazione equivalente»>> (§ 67)

Poi ricorda che le violazioni in materia di proprietà intellettuale sotto questo profilo sono diverse delle violazioni dell’onore (diffamazioni). Infatti è più frequente nelle violazioni del primo tipo che ci sia la ripetizione della condotta accertata illecita,  mentre questo è insolito per le diffamazioni. In questa ultime dunque il riferimento ad atti della stessa natura non può svolgere lo stesso ruolo che svolge in materia di violazione della proprietà intellettuale : §§ 69-70. Altro punto non secondario: trovare il nucleo del fatto lesivo in una violazione di autore sarebbe più semplice che in una di diffamzione.

Sembra puoi dire che il riferimento a informazioni “equivalenti” incide sulla ampiezza dell’obbligo di sorveglianza e dunque che -se opportunamente modulato- rispetta il divieto di sorveglianza generale. Un giudice quindi in via inibitoria può statuire sulla rimozione di informazioni equivalenti ma <<deve (…) rispettare il principio della certezza del diritto e garantire che gli effetti di tale ingiunzione siano chiari, precisi e prevedibili.Nel farlo, tale giudice deve ponderare i diritti fondamentali coinvolti e tenere conto del principio di proporzionalità.>> (§ 72) .  Il suggerimento è astrattamente giusto ma generico e non aiuta ad applicarlo in concreto.

Pertanto, alla luce di  questa considerazione, al provider può essere  ordinato di individuare informazioni equivalenti a quella illecita, se provenienti dallo stesso utente: §  73

L’avvocato generale nega invece la possibilità di inibire caricamenti o permanenza di informazioni illecite equivalenti a carico di utenti diversi (qui non seguito dalla CG la quale -salvo errore- non fa la distinzione tra stesso utente/diverso utente). Questo perché <<73. (…) richiederebbe la sorveglianza della totalità delle informazioni diffuse attraverso una piattaforma di rete sociale. Orbene, a differenza delle informazioni identiche a quella qualificata come illecita, le informazioni equivalenti a quest’ultima non possono essere individuate senza che un host provider ricorra a soluzioni sofisticate. Di conseguenza, non soltanto il ruolo di un prestatore che esercita una sorveglianza generale non sarebbe più neutro, nel senso che non sarebbe soltanto tecnico, automatico e passivo, ma tale prestatore, esercitando una forma di censura, diverrebbe un contributore attivo di tale piattaforma. 74.      Inoltre, un obbligo di individuare informazioni equivalenti a quella qualificata come illecita provenienti da qualsiasi utente non assicurerebbe un giusto equilibrio fra la protezione della vita privata e dei diritti della personalità, quella della libertà d’impresa, nonché quella della libertà di espressione e di informazione. Da un lato, la ricerca e l’individuazione di siffatte informazioni richiederebbero soluzioni costose, le quali dovrebbero essere elaborate e introdotte da un host provider. Dall’altro, l’attuazione di siffatte soluzioni darebbe luogo ad una censura, con la conseguenza che la libertà di espressione e di informazione potrebbe essere sistematicamente limitata>>.

L’affermazione lascia un pò perplessi. Inibire contenuti equivalenti a quelli specificamente accertati illeciti non significa imporre un dovere di sorveglianza/ricerca generale, come era invece ad es. nel caso Sabam Netlog. E’ vero che nel caso qui sub iudice riguarda tutti gli utenti, ma solo circa i contenuti equivalenti a quelli accertati illeciti: quindi inibisce in modo molto specifico.

Secondo l’AG la ricerca delle informazioni equivalenti impone soluzioni sofisticate e quindi richiedenti investimenti finanziari.  Dal che seguirebbe che il suo ruolo non solo non sarebbe più neutro ma, esercitando una forma di censura, diventerebbe un contributore attivo della piattaforma.

Affermazione però poco condivisibile, poiché lo stesso avviene anche quando il controllo sulle informazioni equivalente riguarda un solo utente (quello autore del illecito o altro non conta). L’aumentare il numero delle persone sorvegliate, se il meccanismo è automatico, non rende il ruolo del provider attivo anziché passivo. Il filtraggio è automatico o per tutti o per nessuno: non può esserlo solo per uno o pochi e non per la genralità. Diverso sarebbe se avvenisse in via umana e manuale: allora sì farebbe la differenza il numero dei soggetti da sorvegliare. Così pure la necessità di adottare soluzioni tecnicamente sofisticate non ha nulla a che fare con la generalità della sorveglianza. questa concerne l’ambito oggetivo del controllo, non l’entità dei mezzi finanziari per realizzarlo. I mezzi finanziari per conseguire gli strumenti tecnici hanno a che fare con il livello di diligenza che è cosa diversa dal dato oggettivo della delimitazione dell’ambito da sottoporre a controllo.

Poi passa ad esaminare la possibilità di estendere l’inibitoria anche a livello mondiale. l’AG affronta quindi la questione della extraterritorialità del provvedimento di rimozione. La soluzione è negativa nel senso che -par di capire- è meglio che il giudice si autolimiti alla sfera dello Stato a cui appartiene, anche se astrattamente e formalmente la normative UE non vi osterebbe.

Ciò sulla base soprattutto dei seguenti argomenti, se ben capisco (ma il punto è complesso, richiedendosi un approfondimento internazionalprocessualistico): i) sarebbe di difficilissima attuazione pratica, se si segue l’insegnamento di C.G. 17.10.2017, C-194/16, Bolagsupplysningen OÜ-Ilsjan c. Svensk Handel AB, secondo cui la domanda di rimozione va posta al giudice competente a decidere sul risarcimento totale del danno (anzichè frazionato per Stato), il  quale giudicherebbe in base a una o più leggi applicabil (§§ 96): ed un giudice con competenza “totale” sarebbe difficile da trovare.

ii) Inoltre toccherebbe al soggetto leso dimostrare che l’informazione illecita secondo la legge applicabile delle norme di conflitto dello Stato europeo è tale pure secondo tutte le leggi potenzialmente applicabili (§97)? Onere improbo!

iii) Infine un ulteriore ostacolo consiste nel fatto che la tutela dei diritti fondamentali, antagonisti di quello azionato in giudizio può essere diversa nei vari Stati (§ 98-99): col rischio che in questi si rischierebbe di proibire l’accesso ad informazioni e quindi conculcare il diritto di informazione che è invece ammesso in base a quel medesimo Stato (§ 98/99).

In conclusione <<il giudice di uno Stato membro può, in teoria, statuire sulla rimozione di informazioni diffuse a mezzo Internet a livello mondiale. Tuttavia, a causa delle differenze esistenti fra le leggi nazionali, da un lato, e la tutela della vita privata e dei diritti della personalità da esse prevista, dall’altro [per inciso: distinzione superflua, dato che la tutela è prevista nelle leggi degli Stati] , e al fine di rispettare i diritti fondamentali ampiamente diffusi, un siffatto giudice deve adottare piuttosto un atteggiamento di autolimitazione. Di conseguenza, nel rispetto della cortesia internazionale, menzionata dal governo portoghese, tale giudice dovrebbe limitare, per quanto possibile, gli effetti extraterritoriali delle sue ingiunzioni in materia di pregiudizio alla vita privata e ai diritti della personalità (52). L’attuazione di un obbligo di rimozione non dovrebbe eccedere quanto necessario ad assicurare la protezione della persona lesa. Pertanto, invece di cancellare il contenuto, detto giudice potrebbe, se del caso, ordinare la disabilitazione dell’accesso a tali informazioni con l’ausilio del blocco geografico>> (§ 100).

Sull’ultima affermazione, mi  chiedo -ai fini della tutela del diritto all’informazione degli utenti- che differenza ci sia tra il dovere di rimuovere e il dovere di bloccare gli accessi: in entrambi infatti gli utenti interessati non possono accedere a quelle informazioni,.