Violazione del diritto d’autore su banca dati: processo per la liquidazione del danno (altro episodio nella lite Business Competence c. Facebook)

Con sentenza 17.09.2019, n. 8244/2019, RG 68360/2013, il Tribunale di Milano sez. spec. impresa A, ha deciso la lite per la liquidazione del danno nella lite Business Competence (di seguito: BC) contro Facebook (di seguito : FB), relativa ad un’applicazione che offriva informazioni presenti in FB (su esercizi commerciali nei dintorni) in base ad un sistema di geolocalizzazione.

Con sentenza del 2016  non definitiva (da poco confermata in appello) il Tribunale di Milano  aveva accertato la violazione in capo a FB per aver riprodotto nella propria applicazione Nearby l’applicazione Faround di BC e aveva quindi condannato la prima al risarcimento del danno, disponendo la prosecuzione del processo per la determinazione del quantum (verosimilmente ex art. 278 cpc).

La sentenza (rel. Marangoni) è interessante per la motivazione inerente la stima del danno (profilo centrale nella pratica). Il Collegio:

  • stima come royalty persa quella conseguente ad un tasso lordo del 5 (cinque) %  , desunto dai CTU  dal settore computer software e internet (§§ 3-4);
  • ritiene non significativi i ragionamenti sulla stima condotti da BC, dato che il suo progetto commerciale all’epoca dei fatti di causa era ancora in fase di iniziale sviluppo ed inolre soggetto ai necessari adeguamenti, in un settore con elevata e costante innovazione (§ 2, p. 6)
  • non dà importanza al fatto che FB abbia disatteso l’ordine giudiziale di trasmettere ai CTU i dati sulla diffusione di Nearby. Ciò perchè il successo economico di Nearby non è comunque utilizzabile per calcolare le chanche di Faraound in sede di giudizio controfattuale, dato che (§ 2 e § 5) i due business sono incomparabili: Nearby era distribuito grauitamente  ed inserito automaticametne nella piattaforma principale FB, mentre Faraound era/sarebbe stato a pagamento sia per utenti che per inserzionisti;
  • limita il periodo su cui calcolare le royalties mancate a due anni. I CTU invece -se ben capisco- avevano calcolato un periodo  temporalmente illimitato, dato che -come app di FB- si doveva correlarla alla vita utile di FB stessa. Il Collegio ha deciso così in base al quadro di vivace concorrenzialità delle app inerenti a FB (§ 6/7).
  • pertanto la liquidazione del Tribunale,  a fronte di una liquidazione: -di € 18.805.000,00  chiesta da BC; -di € 1.614.000,00 come corretta dalle osservazioni di FB; -di € 3.831.000,00 suggerita in via intermedia ed equitativa dai CTU, si è assestata (pure equitativamente) su € 350.000,00 (§ 8): meno di 1/10 del suggerimento del CTU e quasi 1/5 della somma che tiene conto delle correzioni apportate dalla stessa  FB.
  • ha compensato per intero le spese dei due gradi cautelari sia per l’esito, sia “per la obiettiva impossibilità in tale fase di pervenire ad un effettivo giudizio di interferenza tecnica tra le contrapposte applicazioni” (§ 9)

La Corte di Giustizia sul cumulo di protezione per disegni e modelli (tutela specifica e tutela d’autore)

La Corte di Giustizia con sentenza 12.09.2019, C-683/17, Cofomel-Sociedade de Vestuário SA c. G‑Star Raw CV,  esamina una questione pregiudiziale sollevata dalla corte suprema portoghese.

Il diritto portoghese concede protezione d’autore anche a <<opere d’arte applicata, disegni e modelli industriali e opere di design che costituiscano una creazione artistica, indipendentemente dalla tutela della proprietà industriale>>, § 15

Pertanto il giudice portoghese chiede alla C.G. <<se l’interpretazione data dalla Corte all’articolo 2, lettera a), della direttiva 2001/29 osta ad una normativa nazionale – nel caso di specie, la norma di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettera i), del codice del diritto d’autore e diritti connessi – che garantisca protezione a titolo di diritti d’autore a opere d’arte applicata, disegni e modelli industriali e opere di design, che, al di là del loro fine utilitario, producono un effetto visivo loro proprio e rilevante da un punto di vista estetico, di tal guisa che la loro originalità è il criterio centrale per l’attribuzione della protezione nell’ambito dei diritti d’autore>>, § 25.

[ La formulazione del questito non è chiara: il dettato normativo non dice esattamente quello che chiede il giudice, ma forse questi si riferisce ad una prassi interpretativa nazionale.]

La Corte riformula  la questione così: <<il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 2, lettera a), della direttiva 2001/29 vada interpretato nel senso che osta al conferimento, da parte di una normativa nazionale, di tutela ai sensi del diritto d’autore a modelli come i modelli di capi di abbigliamento oggetto del procedimento principale in base al rilievo secondo il quale, al di là del loro fine utilitario, essi producono un effetto visivo loro proprio e rilevante da un punto di vista estetico>>, § 26

Il passo centrale dunque, su cui certe la risposta, è il concetto di “producono un effetto visivo loro proprio e rilevante da un punto di vista estetico”. Cioè la Corte , se ben intendo, deve giudicare sulla compatibilità della normativa posta della direttiva 29/2001 con la tutela portoghese basata su tale concetto .

 La Corte ribadisce concetti noti tra cui:

<<La nozione di «opera» (..) costituisce (..) una nozione autonoma del diritto dell’Unione che deve essere interpretata e applicata in modo uniforme, e che presuppone il ricorrere di due elementi cumulativi. Da una parte, tale nozione implica che esista un oggetto originale, nel senso che detto oggetto rappresenta una creazione intellettuale propria del suo autore. D’altra parte, la qualifica di opera è riservata agli elementi che sono espressione di tale creazione (..) >>, § 29

Quanto al primo elemento, l’originalità <<è necessario e sufficiente che rifletta la personalità del suo autore, manifestando le scelte libere e creative di quest’ultimo>>, § 30

Quanto al secondo elemento, <<la nozione di «opera» di cui alla direttiva 2001/29 implica necessariamente l’esistenza di un oggetto identificabile con sufficiente precisione e oggettività>>, § 32. Infatti <<da un lato, le autorità competenti a garantire la tutela dei diritti esclusivi inerenti al diritto d’autore devono poter conoscere con chiarezza e precisione gli oggetti in tal modo protetti. Lo stesso vale per i terzi nei confronti dei quali si può far valere la tutela rivendicata dall’autore di detto oggetto. Dall’altro lato, la necessità di evitare qualsiasi elemento di soggettività, pregiudizievole per la certezza del diritto, nel processo di identificazione di detto oggetto implica che quest’ultimo sia stato espresso in modo obiettivo>>, § 33

Quando un oggetto presenta queste due caratteristiche, deve beneficiare della tutela d’autore, <<ove la portata di tale tutela non dipende dal grado di libertà creativa di cui ha goduto il suo autore e non è pertanto inferiore a quella di cui gode ogni opera che ricade in detta direttiva>>, § 35

Svolte queste premesse generali,  la Corte esamina se i modelli sub judice costituiscano opere ai sensi della direttiva 29/2001.

Disegni e modelli non sono in linea di principio assimilabili alle opere protette (§ 40) , ma è possibile concedere una protezione d’autore speciale (§ 42) in aggiunta a quella loro propria (§ 43).

Pertanto è confermato che modelli e disegni, se rispettano i due requisit predetti,  costituiscano “opere” ex dir. 29 (§ 48).

Poi la CG esamina il punto specifico e cioè <<se siano qualificabili come «opere», alla luce di queste esigenze, modelli come i modelli di capi di abbigliamento oggetto del procedimento principale che, al di là del loro fine utilitario, producono, secondo il giudice del rinvio, un effetto visivo loro proprio e rilevante da un punto di vista estetico, ove le questioni di detto giudice vertono sulla questione se un tale elemento di originalità estetica costituisca il criterio centrale di attribuzione della protezione prevista dalla direttiva 2001/29>>, § 49 . L’inciso finale (“ove le questioni di detto giudice..”) pare da interpretare nel senso che la CG valuta sul presupposto che il requisito costituisca l’unico (quello “centrale”) cui è subordinata la concessione della tutela d’autore a disegni e modelli.

La risposta è negativa, soprattutto alla luce del secondo requisito sopra ricordato.

Infatti l’effetto estetico prodotto da un modello è il risultato della sensazione soggettiva della bellezza percepita dall’osservatore. Quindi <<questo effetto di natura soggettiva non consente, di per sé, di caratterizzare l’esistenza di un oggetto identificabile con sufficiente precisione e oggettività ai sensi della giurisprudenza menzionata ai punti da 32 a 34 della presente sentenza>>, § 53.

È bensì vero, ricorda la Corte, che le considerazioni estetiche fanno parte dell’attività creativa. Tuttavia la produzione di un effetto estetico non permette di determinare se il modello sia o meno creazione intellettuale, che rifletta la libertà di scelta e la personalità del suo autore e cioè se sia o meno originale (§ 54): che, come detto, è l’unico criterio rilevante.

Di conseguenza il requisito dell’ <<effetto visivo loro proprio e rilevante da un punto di vista estetico>>, menzionato dal giudice di rinvio, non permette di concedere la tutela per le opere (§ 55), per cui la Corte concludeche la direttiva 29  osta a conferire tutela d’autore in base a questo requisito (§ 56).

La decisione può avere grande impatto, in quanto non ammette per alcun settore requisiti ulteriori, a parte l’orignalità, per la protezione d’autore.   Tuttavia lascia un po’ perplessi.

La normativa europea ed internazionale permette ai singoli Stati di fissare le condizioni a cui concedere la protezione d’autore a modelli e disegni: v. i §§ 3-14 e poi §§ 42-47 e soprattutto dir. 98/71 e reg. 6/2002, fatti salvi dall’art. 9 della dir. 29:

  • cons. 8 dir. 98/71: <<«[C]onsiderando che, in mancanza di un’armonizzazione della normativa sul diritto d’autore, è importante stabilire il principio della cumulabilità della protezione offerta dalla normativa specifica sui disegni e modelli registrati con quella offerta dal diritto d’autore, pur lasciando gli Stati membri liberi di determinare la portata e le condizioni della protezione del diritto d’autore>>;
  • art. 17 dir. 98/71: <<«I disegni e modelli protetti come disegni o modelli registrati in uno Stato membro o con effetti in uno Stato membro a norma della presente direttiva sono ammessi a beneficiare altresì della protezione della legge sul diritto d’autore vigente in tale Stato fin dal momento in cui il disegno o modello è stato creato o stabilito in una qualsiasi forma. Ciascuno Stato membro determina l’estensione della protezione e le condizioni alle quali essa è concessa, compreso il grado di originalità che il disegno o modello deve possedere>>;
  • cons. 32 REg. 6/2002: <<In assenza di una completa armonizzazione delle normative nazionali in tema di diritto d’autore è importante stabilire il principio della cumulabilità della protezione conferita dal disegno o modello comunitario con quella conferita dal diritto d’autore, pur lasciando agli Stati membri piena facoltà di determinare la portata e le condizioni della protezione conferita dal diritto d’autore>>;
  • art. 96 § 2 reg. 6/2002: <<Disegni e modelli protetti in quanto tali da un disegno o modello comunitario sono altresì ammessi a beneficiare della protezione della legge sul diritto d’autore vigente negli Stati membri fin dal momento in cui il disegno o modello è stato ideato o stabilito in una qualsiasi forma. Ciascuno Stato membro determina l’estensione della protezione e le condizioni alle quali essa è concessa, compreso il grado di originalità che il disegno o modello deve possedere>>.
  • art. 9 della dir. 29 /2001: <<La presente direttiva non osta all’applicazione delle disposizioni concernenti segnatamente brevetti, marchi, disegni o modelli, modelli di utilità, topografie di prodotti a semiconduttori, caratteri tipografici, accesso condizionato, accesso ai servizi di diffusione via cavo, la protezione dei beni appartenenti al patrimonio nazionale, gli obblighi di deposito legale, le norme sulle pratiche restrittive e sulla concorrenza sleale, il segreto industriale, la sicurezza, la riservatezza, la tutela dei dati e il rispetto della vita privata, l’accesso ai documenti pubblici, il diritto contrattuale.>>

La Corte avrebbe dovuto spiegare – alla luce di tali norme- come possa imporre alla disciplina nazionale di disegni e modelli lo stesso concetto di “opera proteggibile”, previsto per le altre opere secondo la dir. 29.

Pare infatti  difficile ritenere che la previsione di requisiti ulteriori specifici (da noi il valore artistico: art.  2 n. 10 l.a.; in Germania, la soglia particolarmente elevata di originalità, secondo la teoria giurisprudenziale dei tre livelli della stessa, c.d. Stufentheorie, su cui v. Donle-Held-Nordemann-Schiffel-Nordemann, The interplay between design and copyright protection for industrial products, 31.05.2012, per AIPPI, §§ 4-5) possa essere incompatibile con la disciplina europea ex dir. 29. Come appena visto, infatti, la  normativa europea ed internazionale permette ai singoli Stati di determinare le condizioni della protezione.

Questa tesi è stata sostenuta pure da alcuni Stati intervenuti, tra cui l’Italia, ma contrastata dalle conclusioni dell’A.G. Szpunar, che nega l’esistenza di una lex specialis per disegni e modelli (v. sue conclusioni  2 maggio 2019, §§ 33-48). Egli contrasta il pur chiaro dettato normativo cit., affermando -con rif. al reg. 6/2002- che era anteriore alla dir. 29 e dunque volutamente provvisorio in attesa di un aromnizzazione del diritto di autore europea (§ 37).

Secondo l’AG, la ragione consisterebbe soprattutto nel fatto che: i) l’elaborazione dei due atti normativi (reg. 6/2002 e dir. 29) è proceduta in contemporanea; ii)  che la regola sul punto del reg. 6/2002 era presente anche nella sue versioni iniziali; iii)  che, pur essendo la dir. 29 stata approvata prima del reg., è però entrata in vigore dopo. In conclusione, le disposizioni, che lasciano agli Stati la determinazione della tutela di autore a disegni e mdoelli, andrebbero soggette ad una sorta di interpretatio abrogans.

Questa posizione mi pare alquanto debole.

I punti i) e ii) vanno valorizzato in senso opposto: il fatto che sia stata mantenuta la disciplina iniziale anche quanto la dir. 29 era in avanzato stato di elaborazione ,-anzi, era stata già approvata formalmente, significa che il tenore letterale è stato consapevolmente voluto e dunque è stata voluta la disciplina speciale per disegni e modelli. Il punto iii) è irrilevante: quello che conta è se esisteva o meno una disciplina generale  d’autore (basterebbero lavori avanzati, non essendo necessaria la approvazione definitiva), quando è stato varato il reg. 6 : e la risposta è positiva. Il momento di entrata in vigore non ha alcun rilievo interpretativo.

Ancora , l’AG contrasta l’art. 9 della dir. 29 dicendo che <<la direttiva 2001/29, la quale è relativa al diritto d’autore, non debba pregiudicare le disposizioni di altri settori, come il diritto dei disegni e dei modelli. Tuttavia, l’articolo 17 della direttiva 98/71, al pari dell’articolo 96, paragrafo 2, del regolamento n. 6/2002, [1° argomento] non sono disposizioni afferenti al settore del diritto dei disegni e dei modelli, bensì a quello del diritto d’autore. [2° argomento] Una diversa interpretazione implicherebbe che la protezione delle opere delle arti applicate attraverso il diritto d’autore dipenda dal diritto dei disegni e dei modelli, mentre questi due settori sono tra loro autonomi. L’articolo 9 della direttiva 2001/29 non può, pertanto, essere interpretato come determinante l’esclusione dei disegni e dei modelli dall’armonizzazione operata con la direttiva 2001/29>> (§ 39).

Il ragionamento non è corretto. Circa il primo argomento, l’art. 9 non fa salve solo le regole ad hoc di disegni e modelli, ma tutte le <<disposizioni concernenti segnatamente brevetti, marchi, disegni o modelli>>: quindi pure quelle che si occupano della tutela di autore. Circa il secondo , che i due settori siano autonomi è una petizione di principio: le riscostruzioni in sede interpretativa dipendono infatti dalle norme e queste sul punto specifico dicono l’opposto.

Il Tribunale UE sul giudizio di confondibilità tra marchi denominativi

Il Tribunale UE 27.06.2019, T-268/18 (leggibile in italiano solo per estratti), Luciano Sandrone c. EUIPO, affina alcune regole sul giudizio di confondibilità tra marchi denominativi (quello posteriore patronimico , impregiudicata la questione su quello anteriore).

Il conflitto riguardava il marchio anteriore “don Luciano” e il marchio posteriore “Luciano Sandrone” (chiesto dal titolare del’omonima ditta individuale di Barolo, Italia). Entrambi erano stato chiesti per prodotti alcolici ed entrambe paiono essere imprese vitivinicole.

Rovesciando la decisione della Commissione di Ricorso, il Tribunale afferma alcuni principi sul giudizio di confusione tra marchi denominativi:

  • nel marchio “don Luciano” prevale “Luciano”, anche se non al punto da rendere “don” trascurabile (§§ 66- 67);
  • il marchio “Luciano Sandrone” è percepito come combinazione di nome e cognome da parte del pubblico dell’intera unione. inoltre “Luciano” è meno distintivo di “Sandrone”: quest’ultimo è cognome raro, sicchè ha un <<valore intrinseco superiore>> (§ 68, riportando la decisione della commissione).
  • invece il nome “Luciano” non è da considerare raro, nonostante che in alcuni paesi  non sia molto comune (Germania e Finlandia).Quest’ultima circostanza infatti non fa venir meno la circostanza che in questi stessi paesi si sappia (o meglio che il pubblico di riferimento di tali paesi sappia) che il nome è molto diffuso in altri paesi (Italia Spagna Portogallo Francia) , i quali costituiscono “parte sostanziale”  dell’UE ( §§ 73-74).
  • Pertanto si può dire che nel suo insieme il pubblico dell’Unione considera elemento più distintivo l’elemento <<Sandrone>> rispetto al nome, essendo meno comune, anche anche se <<Luciano>> non è trascurabile (§ 75).
  • Questo per il confronto fonetico e visivo. Circa il confronto concettuale (ove si valuta la concordanza semantica: CG caso SAbel, 11.11.1997, C-251-95, ricordata al § 84), nel caso specifico non lo si può fare: ciò perché i nomi di persona -a meno che siano riferiti ad esempio persone famose- non hanno un concetto corrispondente (§§ 85-86). Quindi censura la decisione della Commissione di Ricorso sul punto (§ 91).

Infine, sulla valutazione globale del rischio di confusione, ribadisce alcune regole note tra cui:

  • è sufficiente che l’impedimento alla registrazione esista anche solamente per una parte dell’unione (§  92).
  • la interdipendenza tra i fattori (cioè somiglianza tra segni e affinità tra prodotti/servizi) comporta che si compensano reciprocamente, sicchè <<un tenue grado di somiglianza tra i prodotti o i servizi designati può essere compensato da un elevato grado di somiglianza tra i marchi e viceversa>>  (§ 93)
  • <<nel settore vitivinicolo i nomi sono molto importanti, sia che si tratti di cognomi o di nomi di tenute, in quanto essi servono a contraddistinguere e a designare i vini. In generale, occorre ricordare che i consumatori sono abituati a designare e a riconoscere il vino in funzione dell’elemento denominativo che serve a identificarlo e che tale elemento designa in particolare il viticoltore o la proprietà su cui il vino è prodotto (…)>>. Ne segue che è l’elemento distintivo “sandrone” che <<servirà a identificare i vini del ricorrente, ovvero la denominazione nel suo insieme, vale a dire “luciano sandrone”, ma non unicamente l’elemento “luciano”>> (§ 99).
  • <<nel settore dei vini, in cui è molto frequente l’uso di segni costituiti da nomi o cognomi, è inverosimile che il consumatore medio possa credere nell’esistenza di un collegamento economico tra i titolari dei segni in conflitto per il solo fatto che essi condividono il nome italiano Luciano, percepito come molto diffuso, secondo il punto 47 della decisione impugnata, in Spagna, in Francia, in Italia e in Portogallo, e per il quale non è stato dimostrato che potrebbe essere percepito come raro in altri paesi dell’Unione. Questo semplice fatto non consente quindi di concludere, per quanto riguarda i marchi relativi a vini, nel senso della sussistenza di un rischio di confusione, poiché il pubblico di riferimento non si aspetta che detto nome, di comune diffusione, sia utilizzato da un solo produttore quale elemento di un marchio>> (§ 101).
  • Soprattutto (dico io), <<la commissione di ricorso non ha neppure preso in considerazione il debole grado di carattere distintivo dell’elemento comune ai due marchi, ossia «luciano», derivante dal fatto che tale nome può designare un numero potenzialmente indeterminato di persone e che, pertanto, l’insieme del pubblico di riferimento sarà in grado di distinguere il marchio anteriore dal marchio di cui si chiede la registrazione, poiché quest’ultimo contiene, inoltre, l’elemento «sandrone», un cognome dotato di un valore intrinseco superiore>> (§ 102);
  • il punto precedente è corroborato <<dalla giurisprudenza della Corte, secondo la quale non si può ammettere che qualsiasi cognome che costituisce un marchio anteriore possa essere opposto con successo alla registrazione di un marchio composto da un nome e dal cognome in questione (v., in tal senso, sentenza del 24 giugno 2010, Becker/Harman International Industries, C‑51/09 P, EU:C:2010:368, punto 39). Non esiste quindi alcun automatismo che consenta di concludere nel senso dell’esistenza di un rischio di confusione quando un marchio anteriore consistente in un cognome è ripreso in un altro marchio, aggiungendovi un nome. Tale considerazione vale altresì quando il marchio anteriore consiste, in particolare, in un nome proprio e il segno di cui si chiede la registrazione è una combinazione di tale nome e di un cognome>> (§ 103) [non “vale altresì”, direi, ma “a maggior ragione”, quando il primo è un nome e il secondo un cognome+nome]

Autore della musica di opera cinematografica, cessione dei diritti e termination right nel diritto statunitense (una recente decisione della Court of Appeals del 2° Circuito)

Il compositore Ennio Morricone (in causa si presenta il suo avente causa, Ennio Morricone Music Inc.)  si impegnò a creare sei colonne sonore per sei film verso una società del gruppo Edizioni Musicali Bixio (in causa: Bixio Music Group Ltd.) a fronte di un pagamento anticipato (3.000.000 di lire) e di future royalties, oltre ad altri compensi secondari. In aggiunta egli cedette all’editore Bixio i diritti d’autore su dette sue creazioni .

I film sono della fine anni 70 e inizio 80.

Successivamente (2012) Morricone notificò a Bixio l’intenzione di avvalersi del diritto di termination (recesso oppure risoluzione: qui non approfondisco) del rapporto  (si badi: era stata stipulata una cessione, non una licenza) secondo il § 203 della legge copyright statunitense (Tit. 17 Copyrights  dello US Code, chap. 2).

Questa norma lo permette dopo trentacinque anni, tranne che si tratti di  work made for hire.  Work made for hire (di seguito: w.m.f.h.) all’incirca significa “opera realizzata in esecuzione di contratto di lavoro dipendente o autonomo”: il concetto è definito dal § 101 del  cit. Tit. 17 Copyrights  dello US Code.

Le parti concordano in causa che il rapporto è governato dalla legge italiana e il giudice prende per buona questa posizione.

La difesa Bixio eccepisce che la nostra legge qualifica il rapporto sub iudice in modo tale da poterlo riternere sostanzialmente corrispondente al concetto statunitense di w.m.f.h. e dunque che Morricone non poteva esercitare il suo diritto di termination.

Il giudice però rileva diverse differenze tra i due istituti, che elenca in modo minuzioso. La prima ad es. consiste nel fatto che il  diritto statunitense rende titolare ab initio il datore/committente, mentre da noi l’autore delle  musiche è coautore (art. 44 l.aut.): ed il § 203 presuppone un trasferimento/cessione (assignment) da parte dell’autore per invocarne la relativa termination. Quindi -direi così, ma non lo dice il giudice- questa , se non può operare nel caso di w.m.f.h., ove non c’è alcun trasferimento, può invece operare secondo il diritto italiano, che prevede invece un acquisto derivativo in caso di trasferimetno dal compositore (Morricone) a soggetto terzo (Bixio).

Quello che è strano è il motivo per cui si applica un istituto autorale statunitense pur in presenza di legge applicabile italiana.

Secondo la teoria del diritto internazionale privato, l’ordinamento richiamato potrebbe non applicarsi, a favore invece di una norma della lex fori, se si tratta di norma c.d. unilateriale oppure di norma di diritto internazionale privato materiale oppure di  norma di applicazione necessaria o infine di norma di ordine pubblico.

Nessuna di queste ipotesi è richiamata però dal giudice.

In conclusione il giudice , ribaltando il primo verdetto, dà ragione a Morricone riconoscendogli il diritto di termination.

La decisione è del 21 agosto 2019 ed è stata emessa dalla United States Court of Appeals for the Second Circuit, KEARSE, JACOBS, HALL, Circuit Judges, caso No. 17‐3595‐cv, August Term 2018, parti: ENNIO MORRICONE MUSIC INC., Plaintiff‐Appellant, v. BIXIO MUSIC GROUP LTD., Defendant‐Appellee.

E’ leggibile nel database Decisions del Second Circuit.

La distruzione dell’opera dell’ingegno da parte dell’attuale proprietario costituisce violazione del diritto morale dell’autore?

La Suprema Corte tedesca affronta la questione in tre sentenze e dà risposta articolata. Il riferimento normativo è l’art. 14 della legge d’autore tedesca (qui la traduzione inglese: Distortion of the work), corrispondente al nostro art. 20 l. aut. In due delle tre sentenze si trattava di ristrutturazione di immobile con conseguente distruzione della stanza multimediale e multidimensionale “HHole (for Mannheim) 2006” and the light installation “PHaradise”, create nel 2006 per il Kunsthalle Mannheim, una art gallery in Mannheim (Germany).

Secondo il BGH, teoricamente l’attività distruttrice rientra nel concetto di distortion/Entstellung.

Solo che ciò va bilanciato con il diritto del proprietario di esercitare il dominio sul corpus mechanicum. Pertanto l’esito di questo conflitto di interessi dipenderà dalle circostanze, quali ad es.: -se è l’unica copia, -se è stata data previa possibilità all’autore di farne delle copie, -tipo di uso che il proprietario vuol farne.

Il BGH precisa che per lo più prevarranno i diritti del proprietario su quelli dell’autore.

Va ricordato che il diritto morale non è stato armonizzato a livello UE

Si potrebbe ragionare se si può distinguere tra tutela reale e tutela risarcitoria a favore dell’autore, sempre che l’illiceità sia accertata: infatti se è invece accertata la liceità dell’atto distruttivo, non spetta nemmeno la seconda tutela (a meno di ravvisare un caso di c.d. indennizzo da atto lecito). Soluzione però problematica in assenza di norma ad hoc.

V. il resoconto 19.08.2019 di su Kluwer Copyright Blog. dove si precisa che si tratta di sentenze del 21 febbraio 2019 numerate  I ZR 98/17, I ZR 99/17 and I ZR 15/18.

la tutela da design può riguardare le scatole contenenti polvere per makeup?

La HIGH COURT OF JUSTICE BUSINESS AND PROPERTY COURTS OF ENGLAND & WALES INTERLLECTUAL PROPERTY LIST (Ch D) ha risposto positivamente alla domanda in oggetto: la tutela da design può concernere anche le scatole (la loro goffratura) contenenti la polvere per makeup.

Precisamente può riguadare: i) sia il particolare disegno impresso alla polvere pressata, nonostante che con l’uso questa si esaurisca e il disegno scompaia; ii) sia il disegno impresso sulla scatola-contenitore .

Così riferisce

Questioni in tema di decadenza di marchio per non uso quinquennale (art. 24 C.p.i.): la guerra commerciale tra Mediaset-RTI e ITV

Il Tribunale di Torino con sentenza n. 19/2019 del 04.01.2019, RG 4851/2017, affronta il caso di decadenza dei marchi dennominativi/figurativi “Passaparola” per non uso quinquennale, relativamente a servizi media e televisivi principalmente, ma anche a beni e servizi di altro tipo.

i fatti in breve.

La società ITV GLOBAL ENTERTAINMENT LTD (di seguito solo “ITV”) cita RETI TELEVISIVE ITALIANE – R.T.I. – S.p.A.,(di seguito solo “RTI” davanti al Tribunale di Torino per sentire dichiarare la decadenza dei marchi <<Passaparola>>, in titolarità alla convenuta, per non uso quinquennale, registrati non solo per telecomunicazioni ma anche per settori molto diversi, evidentemente allo scopo di valorizzarli tramite merchandising.

ITV , appartenente ad uno dei pricipali gruppi di produttori e emittenti televisive del Regno Unito, aveva creato un format, chiamato <<The Alphabet Game>>,  che aveva concesso in licenza per l’Italia alla società Einstein Multimedia SRL , la quale lo aveva sublicenziato a RTI ( realizzando per questa anche la produzione esecutiva di varie edizioni del relativo programma). La versione italiana di <<The Alphabet Game>> era stata trasmessa su Canale 5 a partire dall’ 11 gennaio 1999 col titolo “Passaparola”. Il medesimo format era stato concesso in licenza da ITV anche in altri paesi, tra cui ad esempio in quelli di lingua spagnola col titolo “Pasapalabra”.  Successivamente Einstein Multimedia non aveva rinnovato la licenza a RTI e lo show “Passaparola” venne interrotto, dopo la realizzazione di un’edizione speciale tra il 2007 e l’inizio del 2008 (l’ultima delle quali esattamente il 27 gennaio 2008 sempre su Canale 5).

Il 20 maggio 2009 ITV deposita domanda di marchio UE <<Pasapalabra>> per servizi  televisivi e di intrattenimento (classi 38 e 41), domanda accolta dall’EUIPO il 28 gennaio 2016.

Il 26 ottobre 2016 però RTI propone all’EUIPO stesso domanda di nullità di tale  marchio di ITV , perché richiesto in malafede (secondo ITV, come reazione ad un’azione giudiziaria promossa in Spagna da ITV c. Mediaset Espana che avrebbe usato il marchio <<Pasalabra>>: p. 9).

In diritto

Alla luce di tali fatti, segnalo quattro passaggi della sentenza (il secondo di diritto processuale generale):

1)   Sull’interesse ad agire per proporre la domanda di decadenza –

Tra le altre difese, RTI eccepisce la mancanza di interesse di ITV (art. 122 .c.2 c.p.i.) per le classi merceologiche relative al merchandising e cioè per quelle diverse dai servizi televisivi. RTI basa l’eccezione sul fatto che: <<1…. il marchio UE di controparte copre unicamente le classi mediatiche 38 e 41; 2. in relazione a tale marchio, quest’ultima è attiva unicamente nel settore televisivo e mediatico; 3. la giurisprudenza (costante) è preclara nell’interpretare l’art. 122 CPI2, affermando che esso interesse consta unicamente in presenza di un ostacolo (anche solo potenziale) alla propria attività dall’esistenza del titolo altrui, cosa che, nella specie, è evidentemente da escludere in relazione ai prodotti e servizi non mediatici (prodotti e servizi che non siano nelle classi 38 e 41), visto che non sono oggetto delle attività imprenditoriali riferibili a parte attrice, né sono in alcun modo rivendicati dalla medesima>>.

In breve, la mancanza di interesse deriverebbe dal fatto che ITV non è presente attualmente in quei settori merceologici.

[RTI per vero afferma la mancanza di tale interesse anche per i servizi televisivi, affermando che la “caduta” dei marchi di RTI non era necessaria a ITV per difendersi presso ‘EUIPO: RTI aveva infatti ivi chiesto la nullità del marchio <<Pasapalabra>> di ITV perchè domandato in mala fede, non  per carenza di novità (p. 11-12)]

La Corte Torinese respinge l’eccezione, dicendo che <<che la legittimazione e l’interesse ad agire competono a tutti gli operatori economici del settore cui si riferisce la privativa e, in particolare, a qualsiasi imprenditore concorrente, anche in via potenziale e futura, del titolare sulla sola base dell’affermazione che egli trova nella presenza della stessa un ostacolo all’esercizio della propria attività e senza che debba essere richiesta anche la dimostrazione di un interesse di tipo più specifico. In particolare, l’interesse ad agire della parte attrice deve ritenersi sussistente anche con riferimento alle classi di registrazione dei Marchi RTI n. 9, n. 14, n. 16, n. 18, n. 35, n. 39 e n. 42. Invero, la parte attrice, essendo concorrente di RTI, è ovviamente interessata a operare nei medesimi settori di attività, anche collaterali a quello televisivo.>> (p. 12-13, § 3.3).

Il principio è importante: la decadenza può essere chiesta da qualunque imprenditore concorrente, anche se attualmente non operante in questi settori merceologici: non si chiede altro. Quindi si potrebbe anche riformulare affermando che, per aversi interesse ad agire ex art,. 122 c. 2 cpi, basta che l’istante sia concorrente del titolare del marchio impugnato in qualunque settore merceologico, anche se diverso da quelli per il quale chiede la decadenza.

2) Sull’onere di contestazione ex art. 115 c. 1 c.p.c.

Secondo la Corte, l’allegazione di ITV sulla data finale di uso del segno distintivo “passaparola” da parte di RTI, contenuta nell’atto di citazione, non è stata specificamente contestata da RTI in comparsa di costituzione e risposta: ne segue che deve considerarsi pacifica in causa in base alla’rt. 115 c. 1 cpc.

L’affermazione della Corte lascia perplessi. E’ vero che secondo l’articolo 167 CPC il convenuto deve propore le sue difese <<prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda>>.

E’ però anche vero che ciò non è previsto a pena di decadenza, a differenza di quanto previsto nel seg. c. 2 per riconvenzionali ed eccezioni non rilevabili di ufficio.

Secondo la dottrina, infatti, la contestazione ex art. 115 c. 1 cpc può  avvenire fino alle memorie ex art. 183 c. 6 cpc.

3) Sulla ripresa dell’uso del segno, secondo l’articolo 24 c. 3 c.p.i.

Secondo RTI, la domanda di decadenza va respinta poichè , a prescindere dal non uso quinquennale, essa aveva comunque ripreso l’uso effettivo dei marchi contestati (sia pure solo per le classi 38 e 41) tramite repliche del programma sul canale Mediaset Extra dal 9 dicembre 2013 ai primi mesi del 2014.

La Corte accoglie l’eccezione, poichè tali repliche configurano infatti l’ “uso effettivo” richiesto dalla citata norma. I fatti valorizzati per giungere a questa conclusione sono: << – Mediaset Extra è un importante canale tematico specificamente dedicato alle repliche dei programmi Mediaset nella fascia assegnata nel palinsesto e, dunque, è uno dei canali tramite il quale RTI esercita la propria consistente attività imprenditoriale; – gli ascolti totalizzati da Passaparola su Mediaset Extra, risultano comparabili a molti dei principali canali tematici italiani; – in particolare, nel mese di dicembre 2013, Passaparola ha avuto un’audience comparabile ai risultati di canali come Boing, Italia 2, Sky Cinema 1, Focus, Giallo, Frisbee, TV2000 e superiori a canali notissimi come TG24, La7d, Rai 5, Rai News, Rai Sport, MTV Music, Alice, Arturo, Leonardo e Marco Polo; – inoltre, nel gennaio 2014, Passaparola ha avuto un’audience comparabile ai risultati di canali come Rai News e TV 2000 e superiori a canali come Italia 2, TG 24, Rai Storia, 7Gold; – infine, nel febbraio 2014, Passaparola ha avuto un’audience comparabile ai risultati di canali come Rai News, L2 e TV 2000 e superiore a canali come 7 Gold, Rai 5, Rai Sport, Rai Storia, Italia 2, TG Com 24 e La7D>>.

La Corte conclude sul punto osservando: <<del resto, come chiarito da autorevole dottrina, non è possibile pretendere di predefinire delle soglie quantitative minime di uso del segno, dovendosi invece stabilire di volta in volta, in relazione alle variabili del caso concreto, se l’uso possa ritenersi sufficiente ed essendo sufficiente l’uso, quando (come nel caso di specie) il marchio conserva, in relazione alla natura del prodotto che ne è contraddistinto e al consumo che di questo si vuole fare, la sua individualità e testimonia la persistente presenza dell’impresa sul mercato>> (p. 15-16, § 3.6)

La Corte però salva il segno solo per le classi 38 e 41, le sole per le quali è stato documentata la rispresa dell’uso; per le altre la decadenza non è evitata.

4) Sulla salvezza per il caso di “diritti acquisiti sul marchio da terzi col deposito o con l’uso” (incipit dell’art. 24 c. 3 c.p.i.)

ITV fa presente che la sanatoria della decadenza (il non uso è stato accertato tra il 27 gennaio 2008 e il 9 dicembre 2013: v. sub 3.5, p. 15) non può operare, dato che il 20 maggio 2009 essa ha depositato domanda di marchio europeo <<Pasapalabra>>, del tutto confondibile con <<Passaparola>> (di cui è anzi la traduzuione in lingua spagnola). Diverrebbe quindi invocabile la clausola di salvezza, posta all’inizio dell’articolo 24 comma 3 cpi, ostativa alla sanatoria del marchio.

La Corte rigetta la controeccezione di ITV: e ciò a prescindere dalla sovrapponibilità di “Pasapalabra” a “Passaparola” e quindi dalla astratta idoneità  del primo a dar luogo a diritti sul secondo.

Il marchio “Pasapalabra” di ITV, infatti,  pur depositato nel 2009, è stato però registrato solo nel 2016: dunque successivamente agli utilizzi del marchio <<Passaparola>> in Italia, che lo hanno  sanato, evitandone la decadenza.

Per stabilire detto rapporto cronologico di anteriorità/posteriorità per i marchi UE, infatti, ciò che conta è la data di registrazione e non quella di deposito. Infatti, da un lato, secondo l’art. 9 c. 1 del reg. UE 2017/1001, è la registrazione a conferire il diritto esclusivo; dall’altro, secondo l’art. 11 c. 1 del medesimo Reg., tale  diritto <<è opponibile ai terzi solo a decorrere dalla data della pubblicazione della registrazione del marchio>>.

Pertanto l’acquisto del diritto sul marchio UE da parte di ITV ex art. 24 c. 3 cpi  ha avuto luogo solo con l’avvenuta registrazione (cioè nel 2016).

Quindi non può trovare applicazione il riferimento al deposito, presente nell’incipit dell’art. 24 c. 3 c.p.i., che sarà semmai riferibile ai depositi nazionali: per questi infatti l’art. 15 c. 2 CPI fa retroagire gli effetti della registrazione alla data della domanda.

In sintesi, dunque, la registrazione retroagisce alla data della domanda solo per i marchi nazionali, non per quelli UE (pag. 17-18, sub 3.8).

Può un video costituire plagio di un dipinto?

Questo è il quesito posto ai giudici del Nevada (USA) dall’artista russo-americano Vladimir Kush.

Secondo costui, la cantante Ariana Grande nel suo video God is a Woman riprodurrebbe il proprio dipinto The Candle.

La risposta alla domanda in oggetto, astrattamente, è positiva: non c’è motivo per pensare l’opposto, visto che la tutela copre pure le trasformazioni dell’opera in altra forma artistica  (art. 4 e 18 l. aut.) .

Bisognerà poi vedere se il plagio ricorra o meno nel caso concreto.

Ne riferisce il sito   www.theartnewspaper.com , ove sono riprodotti sia il dipinto che un fotogramma del video.

Segnalazione da Eleonora Rosati in IP Law at University of Southampton – School of Law

Su risarcimento del danno e reversione degli utili del contraffattore in caso di violazione brevettuale

Trib. MI n. 7717/2018 del 10/07/2018, RG n. 31690/2014 (in www.giurisprudenzadelleimprese.it) costituisce un interessante caso di quantificazione del danno da violazione brevettuale (relativa a cartucce contenenti gas per camping).  Tre regole sono desumibili dalla sentenza; riporto i passi relativi, necessari per capire il ragionamento condotto dal giudice.

1) il risarcimento del danno da lucro cessante non è parametrabile al prezzo di vendita della cartuccia nel suo complesso, dato che il trovato da proteggere non era stato comunicato al pubblico e quindi non ha potuto costituirne motivo di acquisto:  << Ritiene tuttavia il Collegio che la particolarità della concreta fattispecie impedisca di ritenere quale parametro di riferimento per la determinazione del danno risarcibile (lucro cessante) l’importo relativo alla vendita della cartuccia nel suo complesso. Invero deve precisarsi che l’oggetto dell’invenzione di cui al brevetto n° …….. consiste nel solo dispositivo di sicurezza reso necessario dall’intervento normativo introdotto nel 2014 e che la presenza di tale dispositivo – obbligatoria per tutte le cartucce poste in vendita dall’aprile 2014 – non era in alcun modo resa palese all’acquirente finale del prodotto, il quale dunque procedeva all’acquisto sulla base di criteri di scelta che non potevano comprendere un eventuale maggiore o minore affidamento del (nuovo) sistema di sicurezza. Sul mercato erano presenti sistemi di sicurezza alternativi implementati dagli imprenditori concorrenti su cartucce del tutto simili. Deve dunque escludersi che le pretese risarcitorie delle titolari del brevetto possano comprendere a titolo di lucro cessante la vendita della cartuccia contestata nel suo insieme, posto che nessuna concreta influenza sull’acquisto appare possibile attribuire alla presenza all’interno di essa del dispositivo in contraffazione>> (§ 5).

2) qui possiamo scindere in due l’insegnamento: i) parametrare la riduzione delle vendite della vittima alle vendite del prodotto contraffatto non è possibile, se non ci sono elementi che permettano di giustificare tale correlazione; ii) ne segue che, non potendo applicare il comma 1 dell’art. 125 cod. propr. ind. , il giudice calcolerà il danno secondo la regola della reversione degli utili ex comma 3 del medesimo articolo (oggetto di specifica domanda):  << Le analisi svolte in sede di CTU contabile non hanno fornito elementi rilevanti al fine di poter procedere alla determinazione del danno risarcibile sulla base dei criteri indicati dal comma 1 dell’art. 125 c.p.i. In effetti non vi sono elementi sufficienti – anche richiamando le osservazioni innanzi svolte circa le determinazione dei consumatori all’acquisto del prodotto originale o di quello contenente il dispositivo in contraffazione – per verificare se vi sia stata un’effettiva relazione tra le vendite delle cartucce in contraffazione da parte di P. s.r.l. ed una eventuale riduzione delle vendite dei prodotti originali da parte delle titolari del brevetto. Lo stesso CTU contabile ha affermato l’inesistenza di elementi documentali atti a confermare che le vendite conseguite da P. s.r.l. siano state o meno in tutto o in parte sottratte a P.A.I. s.r.l. (unica parte convenuta che ha partecipato alla CTU contabile). Deve dunque il Collegio provvedere alla determinazione del danno risarcibile in relazione alla previsione dell’ultimo comma dell’art. 125 c.p.i. e cioè procedendo alla reversione degli utili conseguiti dal contraffattore in favore del titolare del brevetto, consentendo così a quest’ultimo di recuperare tutte le utilità derivanti dallo sfruttamento della privativa indebitamente sottratte e fatte indebitamente proprie dal contraffattore. Entrambe le parti convenute e attrici in via riconvenzionale, cointestatarie del brevetto n° ……, hanno espressamente formulato la domanda di retroversione degli utili nelle loro rispettive comparse di costituzione nel presente giudizio e dunque – contrariamente all’infondata contestazione sul punto svolta da P. s.r.l. – il lucro cessante connesso all’illecito contraffattorio deve essere accertato sulla base di tale criterio.>> (§ 6).

3) gli utili da trasferire alla vittima sono determinati col criterio aziendalistico del margine operativo lordo (MOL), oggetto di stima da parte del CTU. Centrale, allora, è capire quali sono i costi da dedurre:  <<La determinazione del margine operativo lordo (MOL) realizzato da P.  s.r.l. sul numero di cartucce complessivamente commercializzate come innanzi riportato (n. 7.078.678 cartucce) ma limitatamente al dispositivo ritenuto in contraffazione è stata eseguita dal CTU contabile ed è stata valutata in complessivi € 818.449,00. Come è noto l’individuazione del margine di contribuzione al lordo delle imposte prevede di sottrarre dai ricavi incrementali esclusivamente i costi variabili incrementali specificamente sostenuti per produrre e commercializzare i beni contraffatti.  Da tale calcolo risultano pertanto estranei sia i costi fissi di produzione che i costi variabili che non abbiano natura incrementale e che l’impresa avrebbe sostenuto anche in assenza della condotta illecita. Il CTU contabile, in coerenza con tali criteri, ha escluso dalla determinazione del costo incrementale i costi commerciali, amministrativi e generali nonché i costi di produzione per mano d’opera, ammortamenti, manutenzioni e servizi produttivi interni. I costi ritenuti effettivamente rilevanti sono stati elencati dal CTU contabile nella tabella n. 3, alla quale ha aggiunto in via equitativa un’ulteriore 5% per i costi di trasporto. In particolare ha escluso da tale calcolo anche i servizi interni di litografia, imbutitura e riempimento, taglio, trasporto interno, collaudo ed assemblaggio in quanto riconducibili in percentuale a costi fissi di manodopera, ammortamenti, manutenzioni e servizi produttivi interni. P. s.r.l. ha contestato la metodologia seguita dal CTU contabile sia in relazione all’esclusione dai costi variabili della mano d’opera – che a suo dire avrebbe dovuto essere invece inclusa per il 100% del suo valore – che per l’esclusione dei costi relativi al taglio litografia, imbutitura, riempimento, trasporto interno, in quanto necessari per la produzione delle cartucce. Tali rilievi non possono essere accolti. Quanto al costo del lavoro impiegato per la produzione (del dispositivo in contraffazione) è corretto identificare nei costi fissi dell’azienda lo stipendio e gli oneri finanziari del lavoratori fissi, dunque tra quei costi che l’azienda avrebbe comunque subito anche in assenza dell’attività contraffattoria accertata. Nel caso di specie le richieste di inclusione di tali costi – sia in termini percentuali rispetto all’utilizzazione che sarebbe stata fatta sulle specifiche linee di produzione che addirittura per il 100% di esso – evidentemente confermano la natura di costo non incrementale della mano d’opera anche nella stessa prospettazione di P. s.r.l. In effetti nessun elemento di effettivo rilievo probatorio consente di poter attribuire – anche solo in parte – il costo della mano d’opera come esclusivamente dedicato alla produzione del dispositivo in questione, tenuto altresì conto – come osservato dal CTU contabile (pag. 54 relazione) – che la produzione in questione rivestiva un ruolo del tutto minoritario nelle complessive vendite della società e che pertanto anche in assenza di attività contraffattoria il personale sarebbe stato utilizzato in altre attività produttive dell’impresa. Nemmeno le ulteriori contestazioni relative all’esclusione di costi particolari (taglio litografia, imbutitura, riempimento, trasporto interno) possono essere ritenute rilevanti, tenuto conto del fatto che essi risultano comunque riconducibili a servizi interni dell’azienda utilizzati per tutte le sue attività produttive. Le valutazioni del CTU in ordine alla misura del MOL conseguito da P.  s.r.l. devono dunque essere confermate>>.

OSSERVAZIONI  – Genera qualche perplessità il passaggio sub 2, dove il giudice osserva che, non potendo liquidare il danno secondo il comma 1 dell’art. 125 cod. propr. ind., lo fa  secondo il criterio della reversione degli utili, prevista dal successivo comma 3. La perplessità sta nel fatto che il comma 3 non offre un diverso criterio per risarcire il danno, bensì un  rimedio diverso: non risarcitorio ma semmai restitutorio, che nulla ha a che fare con la finalità del compensare i pregiudizi altrui. Anzi ha natura punitiva, più che restitutoria, dato che: i) in generale, oltre a fattori generanti l’utile propri della vittima (e “usurpati”), ce ne saranno anche altri propri esclusivamente del contraffattore (per i quali dunque non si può parlare di “restituzione”); ii) a maggior ragione nel caso de quo, in cui il giudice esclude che la contraffazione abbia rivestito una qualsiasi  rilevanza nella motivazione d’acquisto dei clienti del contraffattore.

Sul punto v. il mio saggio “Restituzione e trasferimento dei profitti nella tutela della proprietà industriale (con un cenno al diritto di autore) per Contratto e impresa , 2010, 1149 segg., presente in www.academia.edu .

Sulla responsabilità del provider per illecita diffusione di audiovisivi (il caso RTI c. Vimeo)

Il tribunale di Roma si è da poco pronunciato sulla vertenza RTI / Vimeo, affrontando in dettaglio le questioni tipiche delle liti sulla responsabilità dei provider (sentenza 639/2019 del 10.01.2019, RG 23732/2012). RTI è società del gruppo Mediaset,  concessionaria per l’esercizio di alcune emittenti televisive del gruppo nonché titolare esclusiva in proprio (come produttore) di diritti su alcuni programmi televisivi e di segni distintivi. RTI ha citato la società statunitense Vimeo perché venisse accertata la sua responsabilità tramite il portale Internet www.vimeo.com per la condivisione di contenuti audiovideo e per la diffusione di filmati in titolarità RTI (e chiedendo pure i consueti ordini di inibitoria e rimozione con fissazione di penale).

La piattaforma Vimeo opera come sito di condivisione video e consente ai suoi utenti di caricare, condividere e guardare varie categorie di video, dove è presente un forum dedicato al mondo dell’audiovisivo. E’ una rete sociale per la condivisione di video: il servizio offerto è assimilabile ad un servizio di video On Demand, dove i contenuti sono precisamente catalogati, indicizzati e messi in correlazione tra loro (p. 16).

Inoltre fornisce agli utenti un motore di ricerca interno alla stessa piattaforma di video sharing, che consente di ricercare i video semplicemente inserendo il titolo di interesse. Vimeo non ha contestato ciò, ma ha detto -eccezione insidiosa, su cui v. sotto la risposta del Tribunale- che l’indicizzazione dei contenuti avviene con procedura automatica gestita da software, che non permette una conoscenza effettiva dei contenuti caricati sul portale (p. 16).

il tribunale ha accolto la domanda di RTI con un provvedimento analitico e interessante. I punti più significativi sono i seguenti:

  1. Sulla giurisdizione  – Vimeo ha sollevato l’eccezione di carenza di giurisdizione (come di solito fanno i convenuti stranieri), ma il Tribunale l’ha respinta. Ha applicato l’articolo 5 della convenzione di Bruxelles 27 settembre 68, secondo cui c’è giurisdizione presso il giudice del luogo in cui è avvenuto l’evento dannoso. Ha infatti interpretato quest’ultimo concetto, nel senso che deve darsi rilievo non all’attività di uploading, cioè al luogo di caricamento sui server di Vimeo, bensì <<all’area di mercato dove la danneggiata esercita la sua attività di produttrice e o di titolare di sfruttamento dei programmi>> (pag.  7 / 8).
  2. Sulla legittimazione attiva di RTI  – Anche se non contestata da Vimeo, sono però interessanti i passi sul punto offerti dal Tribunale d’ufficio. Su essi non mi soffermo, ma saranno da tenere in considerazione da parte di dovesse in futuro occuparsene.
  3. Sulla  responsabilità degli Internet Service Provider  ISP , v.si la definizione di Internet Service Provider (ISP) offerta a pagina 10;
  4. Sui principali provvedimenti europei in materia di responsabilità dei provider e sulla  consueta distinzione tra hosting attivo e hosting passivo – Dice il tribunale che ”in relazione al regime di esenzione , tema centrale è quello della individuazione dei criteri interpretativi in base ai quali valutare quando il servizio di hosting possa definirsi “passivo” [sottol. aggiunto] e quando invece il provider perde il carattere di neutralità è opera forme di intervento volte a sfruttare i contenuti dei singoli materiali caricati dagli utenti e memorizzati sui propri server”. In quest’ultimo caso il provider qualifica  la propria posizione come “attiva” e ne segue la non applicabilità dell’esenzione da responsabilità ex articolo 16 del decreto legislativo 70 (e ex art. 14 dir. UE 31/2000) .  Si dovrà allora valutare la sua condotta secondo le comuni regole di responsabilità civile ex articolo 2043 cc (p. 12). Secondo il tribunale, la Corte di Giustizia ha detto che non viene meno l’esonero per la presenza di “indici di attività meccanica e non manipolativa nel trattamento dei dati, mentre la responsabilità per servizi di hosting sorge ogni qualvolta c’è un attività di gestione, di qualsiasi natura, anche se limitata alla ottimizzazione o promozione delle informazioni di tali contenuti” richiamandone alcune note sentenze (p. 12/3). Cioè secondo il diritto UE , continua il Collegio romano, per “godere dell’esonero da responsabilità , è necessario che il provider sia un “prestatore intermediario” che si limiti ad una fornitura neutra del servizio mediante trattamento puramente tecnico, automatico e passivo dei dati forniti dai suoi clienti, senza svolgere un ruolo attivo atto a conferirgli conoscenza o un controllo dei medesimi dati, e quindi a condizione che non abbia dato un minimo contributo all’editing  del materiale memorizzato lesivo di diritti tutelati” (p. 12/13, richiamando  le pronunce UE nei casi Google c. Louis Vuitton e L’Oreal).
    1. Pur tuttavia -ricorda però il Tribunale- l’hosting attivo non può essere assoggettato ad un obbligo generalizzato di sorveglianza e controllo preventivo, come ricorda la Corte di Giustizia in alcune sentenze (Scarlet Extended e Sabam c. Netlog) (p. 13/14)
  5. Sull’orientamento dei giudici italiani  – Due sono gli orientamenti in Italia. Uno minoritario, per cui il punto di discrimine tra fornitore neutrale (“passivo”) e fornitore non neutrale (“attivo”) deve essere indidviduato  “nella manipolazione o trasformazione delle informazioni o dei contenuti trasmessi o memorizzati”  : quindi qualora  vengono attuate delle mere operazioni, volte alla migliore fruibilità della piattaforma e dei contenuti in essa versati, attraverso indicizzazioni o suggerimenti , le predette clausole di esenzione possono operare (almeno così intuisco,  essendo qui il testo coperto e non leggibile). Secondo invece l’altro orientamento, maggioritario e che il tribunale dichiara di seguire, il provider perde il carattere passivo quando i servizi offerti vanno oltre la predisposizione del solo processo tecnico ed egli “interviene nella organizzazione e selezione del materiale trasmesso, finendo per acquisire una diversa natura di prestatore di servizi -”quella di hosting attivo” – non completamente passivo e neutro rispetto alla organizzazione della gestione dei contenuti immessi dagli utenti, dalle quali trae anche sostegno finanziario in ragione dello sfruttamento pubblicitario connesso alla presentazione organizzata di tali contenuti. (…) Non appare infatti condivisibile quella giurisprudenza che limita il ruolo attivo dell’hosting provider al solo caso in cui il gestore operi sul contenuto sostanziale del video caricato sulla piattaforma” (p. 14-15)
  6. Prima conclusione sulla qualificazione del servizio offerto da Vimeo – Tenuto conto delle caratteristiche del servizio offerto da Vimeo, “deve affermarsi che Vimeo non si è limitata ad attivare il processo tecnico che consente l’accesso alla piattaforma di comunciazione su cui sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi,. al solo fine di rendere più efficiente la trasmissione, ma ha svolto una complessa e sofisticata organizzazione di sfruttamento di contenuti immessi in rete che vengono selezionati, indirizzati, correlati, associati ad altri, arrivando a fornire all’utente un prodotto audiovisivo di alta qualità e complessità, dotato di una sua precisa e specifica autonomia” (p. 17; anche qui problemi di leggibilità del testo, come già sopra)
  7. Sulla necessità o meno di conoscenza diretta del contenuto illecito – Altro punto interessante. Il tribunale, rigetta l’eccezione di Vimeo e dice che “non è necessaria una conoscenza personale diretta del contenuto illecito ma è sufficiente che i mezzi tecnologici utilizzati siano comunque idonei a conferirgli la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati. (…) Pertanto anche se il prestatore di servizi si avvale di un software per indicizzare organizzare catalogare associare ad altri o alla pubblicità i video caricati dagli utenti, egli viene comunque a svolgere un ruolo attivo di ingerenza nei contenuti memorizzati, tale da permettergli di conoscere o controllare e di fornire un importante contributo all’editing del materiale memorizzato” (p. 18)
  8. Seconda conclusione sulla qualificazione del servizio offerto da Vimeo: non può essere ritenuto hosting provider passivo, ma piuttosto attivo. Ne segue che non può giovarsi delle esimente prevista dalla legislazione e risponde secondo le regole comuni ex articolo 2043. Ciò detto, bisogna però dimostrare che fosse a conoscenza o potesse essere a conoscenza dell’illecito  commesso dall’utente (p. 18)
  9. Sulla idoneità della diffida stragiudiziale e delle ulteriori segnalazioni inviate dal titolare a Vimeo –  Altro punto assai rilevante nella pratica è quello del tasso di analiticità della diffida nell’indicare le opere illecitamente riprodotte, perchè possa venir meno l’invocabilità dell’esimente – Sostanzialmente il dubbio interpretativo è riconducibile ad un’alternativa, ricorda il Tribunale:  se sia sufficiente indicare quantomeno i titoli dei programmi televisivi, su cui il titolare vanti diritti di sfruttamento; oppure se serva anche indicare gli indirizzi specifici compendiati in singole URL per ciascuna riproduzione illecita. Il Tribunale , precisato che non è certo sufficiente la generica indicazione di <<tutti i programmi di una certa emittente televisiva>>, segue l’opinione più restrittiva per il provider e più favorevole al titolare dei diritti:  stima cioè sufficiente che quest’ultimo indichi i titoli dei programmi televisivi, senza l’URL (p. 19-21).
  10. Sulla diligenza che ci si poteva aspettare da Vimeo, una volta informata delle riproduzioni illecite – Qui il tribunale si appoggia alla CTU secondo cui esistevano già all’epoca dei fatti delle tecniche per  controllare sia preventivamente (ex-ante), sia successivamente (ex post) i contenuti da pubblicare o già pubblicati e alle cui risultanze subordinare la stessa pubblicazione o permanenza on-line del contenuto audiovisivo considerato (c.d. watermarking e videofingerprinting: p. 22/4, ove esposizione della  ctu in proposito). Pertanto sarebbe stato ragionevole attendersi da Vimeo un comportamento diligente per sollecitare questa attività di verifica e controllo a seguito della segnalazione da parte di RTI. Invece Vimeo si è limitata a rimuovere i contenuti per le quali RTI ha individuato gli URL , senza ulteriori sforzi.
    1. Inoltre Vimeo non ha allegato nè provato quale pregiudizio avrebbe subito la propria attività di hosting provider qualora avesse adottato le tecnologie disponibili riferite dal CTU per la necessaria attività di verifica e controllo ex post. (p. 24) . In effetti quest’ultimo elemento avrebbe potuto contrastare la conclusione del giudice: una elevata onerosità di questi filtri, allegata e provata, avrebbe infatti forse portato ad un esito diverso circa le misure che per diligenza Vimeo avrebbe potuto e quindi dovuto adottare.
  11. In conclusione, c’è stata una cooperazione colposa mediante omissione nella violazione dei diritti di cui agli articoli 78 e 79 legge sul diritto d’autore, che porta al dovere di risarcire il danno patrimoniale aquiliano (non è stato chiesto il danno non patrimoniale, possibile anche per gli enti, secondo una recente tendenza).
  12. Sul risarcimento del danno patrimoniale – RTI ha portato documentazione contrattuale sulle licenze concordati con altre piattaforme  o emittenti televisive e su queste il tribunale si è appoggiato per la liquidazione del danno. Ha escluso la utilizzabilità di un contratto tra RTI e Rai , ma ha invece sorprendentemetne affermato di potere utilizzare gli importi concordati con altra emittente in sede transattiva di una precedente lite: ha dichiarato che “deve escludersi che i prezzi stabiliti a seguito di un accordo transattivo siano meno congrui rispetto a quelli che si formano in una libera contrattazione commerciale” (p. 30). La sorpresa sta nel fatto che in sede transattiva, visto che ciascuna parte cede qualcosa (art. 1965 cc: “reciproche concessioni”), è probabile che il titolare accetti un corrispettivo inferiore a quello che avrebbe accettato in una contrattazione ex ante .
  13. Sul parametro per determinare la royalty ipotetica – E’ stato individuato nel corrispettivo medio a minuto di durata dei video in contestazione per un tempo di permanenza di un anno, stimato in euro 563,00, moltiplicato per i 2.109 video abusivamente pubblicati. L’importo complessivo ha superato i 10 milioni di euro, poi equitativamente abbassati ad euro 8.500.000,00 (p. 31-33).
  14. il tribunale ha escluso invece sia la concorrenza sleale, per carenza del rapporto di concorrenza, sia la violazione di marchi registrati, non essendoci stato uso degli stessi (non essendosene appropriata), “non assumendo rilievo, quale uso del marchio,  la circostanza che i contenuti audiovisivi in contestazione riportassero i loghi dei canali di cui è titolare RTI” (p. 34). Anche quest’ultima affermazione è di un certo interesse.
  15. Ha accolto la domanda di inibitoria e di rimozione , facendole assistere da penali.