Sulla protezione di un progetto di architettura d’interni con il diritto di autore (art. 2 n. 5, l. aut.): la vertenza Kiko c. Wjcon / 2: l’appello (con un cenno a inibitoria e alla proteggibilità come marchio)

Dando seguito al post sulla sentenza di primo grado, vediamo ora il ragionamento condotto dalla sentenza d’appello (Appello Milano sent. n. 1543/2018 del 26.03.2018, RG 3945/2015) per respingere l’impugnazione e confermare la decisione di primo grado praticamente per intero (l’unica differenza sta nel maggior termine concesso a Wjcon per darvi esecuzione, come dirò sotto).

Ecco i punti principali.

  1. Sull’eccezione di carenza in Kiko  di legittimazione attiva – secondo Wjcon il contratto per la progettazione dell’arredo non avrebbe fatto acquisire a Kiko  il diritto d’autore relativo. La Corte d’Appello rigetta la doglianza sotto due profili: i) dicendo che invece è nella logica economica di questo contratto che il diritto d’autore venga acquisito dal committente; ii) valorizzando alcune dichiarazioni, sostanzialmente ricognitive della titolarità di Kiko, pare, rilasciate dallo studio di architettura e/o dall’architetto personalmente (primo motivo di impugnazione).
  2. Sulla censura, secondo cui un’eventuale tutela avrebbe dovuto essere semmai concessa come opera di design (art. 2 n. 10 l. aut.; pur negandola per mancanza dei requisiti di legge) e non come opera dell’architettura ex art. 2 n. 5 – Secondo la Corte invece, poichè il concept-store è progettato come insieme complessivo del punto vendita, è più appropriata la tutela come opera dell’architettura. Il concetto di interior design si addice maggiormente (in base alle esperienze e alla giurisprudenza) ai singoli elementi che compongono l’arredamento dell’Interno (secondo motivo di impugnazione).
  3. Sull’eccezione secondo cui Kiko avrebbe modificato il progetto del concept store per negozi  successivi – Trattasi di circostanza irrilevante che non fa venir meno il diritto alla protezione del concept store anteriori (terza censura)
  4. Circa la presenza di alcune differenze tra l’arredo dei negozi di wycon e quello dei negozi Kiko  – La Corte ricorda che decisivo è l’aspetto complessivo: <<dato che la tutela autorale riconosciuta dal Tribunale riguarda la combinazione degli elementi sopra descritti, limitate differenze nella forma del singoli elementi che compongono l’arredamento di interno non sono rilevanti, se e nella misura in cui l’effetto di insieme, quale si coglie dalle foto in atti, sia il medesimo, vale a dire nella stragrande maggioranza dei punti di vendita Wycon ritratti nelle fotografie prodotte dall’attrice>> (sempre terza censura).
  5. Sulla presunta mancanza di originalità del progetto architettonico in quanto già noto nel settore per essere stato anticipato da terzi concorrenti  – Come già il Tribunale, anche la Corte d’Appello respinge la doglianza, rilevando la mancanza di prova e [addirittura] di allegazione dell’anteriorità degli arredamenti/allestimenti di detti terzi rispetto a quelli di Kiko (ancora terza censura).  Di ciò gli operatori faranno bene a tenere adeguato conto.
  6. Sulla concorrenza parassitaria – Anche qui viene confermato il giudizio del tribunale circa la sistematicità dell’imitazione e comunque la rilevanza dell’aspetto complessivo, anzichè dei singoli dettagli: <<a imitazione degli elementi come sopra considerati da parte di Wycon è talmente sistematica anche agli occhi di un osservatore superficiale della cospicua documentazione e delle fotografie prodotte dalle parti, da rendere assolutamente di giustizia l’affermazione al di là di ogni ragionevole dubbio che Wycon ha sfruttato le ricerche, l’attività produttiva e promozionale ed il lavoro di Kiko. Del resto anche qui vale la considerazione che lo agganciamento parassitario riguarda il complesso dell’attività commerciale dell’appellata e che, quindi, essa non è esclusa da singole e parziali differenze degli elementi considerati, i quali peraltro sono molto di frequente anche essi uguali o comunque pedissequamente imitati>> (quarta  censura).
  7. Sul mancato utilizzo del criterio risarcitorio degli utili persi  – Correttamente non è stato utilizzato, secondo la Corte d’Appello: <<il Tribunale ha giustamente escluso che il criterio della possibile determinazione degli utili persi da Kiko a causa del predetto fatto illecito potesse essere in qualche modo utilizzato e questo argomento logico giuridico va interamente condiviso, poiché, in sostanza, la Kiko vende prodotti cosmetici e non fa invece offerta di progetti di arredamento e quindi nessun senso avrebbe concepire nella specie il danno come correlato agli utili ipoteticamente perduti dall’attrice>>.  (Quinta censura)
  8. Circa la doglianza sul  fatto che in realtà Kiko non ha subito alcun danno né come lucro cessante né come danno emergente a seguito della riproduzione  non autorizzata del concept store – La Corte replica osservando che il lucro cessante esiste ed è rappresentato proprio dalla somma, che Kiko  avrebbe percepito da wycon se quest’ultima avesse acquistato dalla attrice il diritto di utilizzare l’idea progettuale (“giusto prezzo del consenso”)  (sempre quinta censura
    1. Sul punto rinvio ad un mio precedente ampio studio Restituzione e trasferimento dei profitti nella tutela della proprietàindustriale (con un cenno al diritto di autore), Contratto e impresa, 2010, 1149 ss, leggibile in academia.edu.
  9. Sulla quantificazione del danno – La Corte d’Appello rileva (come già osservato nel mio post precedente) che in causa non si era accertato quanti negozi Wycon avesse clonato ne è accertabile quanto avrebbe dovuto corrispondere a controparte per l’allestimento di ogni punto vendita: per questo, dice,  è stato “prudentemente liquidato”  nel multiplo di 10 del costo progettuale (sempre quinta censura).
    1. Più che “prudentemente liquidato”, però, sarebbe stato più esatto dire “equitativamente determinato”,  visto che così si esprime l’articolo 1226 c.c., richiamato dall’articolo 2056 c..c (il cui comma 2, poi, aggiunge che <<il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso>>)
  10. Sull’inibitoria – L’appellante lamentava che erroneamente ed ingiustamente il tribunale avesse emesso inibitoria “della apertura di nuovi negozi con arredamento di interni copiato da quello dei quo” perché aveva agito in buona fede. La corte respinge la doglianza (tranne quello che si dirà al punto seguente), osservando:  – da un lato, che <<l’inibitoria è il provvedimento tipico, che consegue all’accertamento di una contraffazione di opera di ingegno. Esso è espressamente previsto dall’art. 156 LDA>>; – dall’altro, che Wjcon non può essere ritenuto in buona fede (sesta  doglianza).  Due osservazioni:
    1. Il punto è importante, ma la posizione del  collegio è poco comprensibile, dal momento che la risposta avrebbe potuto essere più radicale: l’elemento soggettivo non è richiesto per concedere l’inibitoria. Questa infatti è un rimedio reale e non personale, secondo la tradizionale partizione, che riflette la distizione tra illiceità mera e dannosità (potendoci essere l’una senza l’altra): per opinione diffusa, quindi, non richiede l’elemento soggettivo (dolo/colpa) nel trasgressore  nè la prova di un danno. In tale senso v. Libertini-Genovese, sub art. 2599, in Comm. del cod. civ. dir. da Gabrielli,  Artt. 2575-2642: Delle soc., dell’az., della concorr., a cura di Santosuosso, Utet, 2014, p. 626; Musso, sub art. 2577, Comm. cod. civ. Scialoja Branca, Art. 2575-2583, Zanichelli, 2008, § 19, p. 273; Spolidoro, Le misure di protezione nel diritto industriale, Giuffrè, 1982, p. 161 ss.. Tra i processualisti v. Nardo., Profili sistematici dell’azione civile inibitoria, ESI, 2017, 87 ss e 101 ss; Rapisarda, Profili civili della tutela civile inibitoria, Cedam, 1987, 88 ss.
    2. inoltre non è vero che il Tribunale  aveva emesso inibitoria “della apertura di nuovi negozi con arredamento di interni copiato da quello dei quo”. L’inibitoria riguardava il protrarsi dell’illecito e quindi, visto che questo consisteva nell’arredo già installato, obbligava a rimuoverlo: aveva cioè contenuto positivo/commissivo, non negativo/omissivo. Ciò risulta in modo sufficientemente chiaro dalla pronuncia di primo grado (dispositivo: “accertata la tutelabilità del progetto di arredamento d’interni applicato ai negozi di cosmetici della catena di KIKO s.r.l. ai sensi dell’art. 2, n. 5 L.A.  (…) nonché la contraffazione posta in essere dalla convenuta WJCON s.r.l. di tale progetto (…), ne inibisce a parte convenuta l’ulteriore utilizzazione nei negozi facenti parte della sua catena commerciale, fissando a titolo di penale la somma ..”) e in modo ancor più chiaro da quella di appello.
  11. La Corte d’Appello aumenta da 60 a 150 giorni il termine per dare esecuzione al gravoso provvedimento di inibitoria, con contenuto però positivo (rimozione degli arredi in violazione: v. punto precedente)
  12. E’ confermato il rigetto delle domande di concorrenza sleale confusoria e per appropriazione di pregi, avanzate da Kiko.
  13. La corte , infine, ha ritenuto di compensare per un quarto le spese legali d’appello a favore di wycon e di condannarla però a rifondere a Kiko i residui tre quarti

Circa la protezione dell’arredo interno del negozio , ricordo che in passato è stata tentata anche tramite l’istituto del marchio di forma. L’ha ammessa la sentenza della Corte di Giustizia UE 10.07.2014, C‑421/13, nel caso Apple c.Deutsches Patent- und Markenamt, purchè ricorra la distintività; l’ha invece respinta l’EUIPO proprio a Kiko (decisione 29.03.2016 della 1° Commissione di ricorso, proc. R 1135/2015-1), anche se non in linea di principio, bensì per carenza  di distintività nel caso specifico.

Sulla protezione di un progetto di architettura d’interni con il diritto di autore (art. 2 n. 5, l. aut.): la vertenza Kiko c. Wjcon

Interessante vertenza milanese in tema di protezione col diritto di autore dei progetti di architettura di interni, riferita a negozi . Riferisco qui della sentenza di primo grado e in un prossimo post di quella d’appello, che ha respinto l’impugnazione di Wjcon, confermando il provvedimento del Tribunale quasi interamente .

Era successo, secondo le allegazioni di Kiko srl (attore), che il concept dei propri negozi fosse stato copiato dai negozi di Wycon srl (convenuto). Inoltre sarebbe stata posta in essere attività di concorrenza sleale, poiché erano stati copiati anche altri profili della comunicazione di impresa  (abbigliamento delle commesse, packaging dei prodotti , format dei siti web etc).

Nella sentenza di primo grado (Trib. Milano n. 11416/2015 – RG 80647/2013, pubblicata il 13.10.2015), questi sono alcuni dei punti più interessanti.

  1. il Tribunale non ha dato rilevanza al disconoscimento, da parte di Wjcon, di fotografie e riproduzioni grafiche prodotte da Kiko: ciò perchè il generico disconoscimento di  “conformità e provenienza” delle stesse non ha precisato quali riproduzioni grafiche risulterebbero non conformi alla realtà e non ha prodotto elementi a contrasto utili a potere in concreto individuare e evidenziare tali presunte difformità. Infatti la contestazione di difformità, pur non potendo essere governata dagli articoli 214 215 cpc, concernenti la scrittura privata, deve comunque essere “chiara, circostanziata ed esplicita”: in mancanza è generica e per questo irrilevante (§ 2).
  2. Secondo il collegio, “non sembra contestabile la possibilità di riconoscere la tutela ex articolo 2 n.5 legge d’autore a detto progetto di arredamento di interni” (di Kiko). La tutelabilità infatti di tali progetti è possibile quando la progettazione sia il risultato non imposto dal problema tecnico funzionale, che l’autore vuole risolvere:  in tale contesto “il carattere creativo, requisito necessario per la tutela, può essere valutato in base alla scelta, coordinamento e organizzazione degli elementi dell’opera, in rapporto al risultato complessivo conseguito. (…) La presenza in detto progetto degli elementi di creatività necessari per assicurare ad esso la tutela autorale, appare connessa alla combinazione e conformazione complessiva di tutti detti elementi in relazione tra loro” (§ 3).
  3. L’esistenza di uno specifico studio ed elaborazione progettuale [commissionato a terzi, nel caso specifico] costituisce una favorevole presunzione in tal senso (§ 3).
  4. La documentazione di Wycon, per provare che il progetto di Kiko non è originale perchè già utilizzata dai concorrenti nel settore, è irrilevante, in quanto non assistita da alcun elemento, che possa contribuire a fornire una effettiva datazione dell’epoca, in cui i singoli allestimenti ivi rappresentati sono stati effettivamente presentati sul mercato (§ 4).
  5. Gli altri aspetti di concorrenza sleale confusoria o per appropriazione di pregi (abbigliamento delle commesse, aspetto dei sacchetti e dei contenitori portaprodotti, aspetto dei prodotti medesimi, aspetti della comunicazione commerciale on-line, eccetera), invece, non sono stati ritenuti censurabili, in quanto iniziative da un lato consuete nel settore e dall’altro comportanti un rischio poco apprezzabile di confusione (§ 5) .
  6. Il tribunale ha invece affermato (ed è interessante, essendo poche le sentenze di accoglimento di questa domanda) l’esistenza di concorrenza parassitaria. Ha infatti  ravvisato una <<ripresa pressoché pedissequa di ulteriori elementi -di per se privi di attitudine confusoria- che hanno dato luogo ad un comportamento di pedissequa imitazione del complesso delle attività commerciali e promozionali poste in essere nel tempo da parte attrice di tale complessive entità e rilevanza da porre in essere quello sfruttamento sistematico del lavoro e della creatività altrui in tempi sostanzialmente coincidenti o comunque immediatamente successivi all’adozione da parte dell’attrice delle sue specifiche iniziative>> (§6)
  7. il risarcimento del danno non è stato  parametrato sugli utili del contraffattore (visto che <<difficilmente potrebbe essere individuato tra gli utili conseguiti dal contraffattore nell’ambito di una attività di impresa più complessiva ed articolata, risultando di fatto del tutto arbitraria ogni possibilità di assegnare direttamente sul piano causale una parte di tali utili all’illecito accertato>>), bensì con una iniziativa equitativa parametrata al costo sostenuto per il progetto d’arredo. In particolare la condanna è fondata su un <<criterio di natura equitativa che tragga fondamento sostanziale dalle somme che parte convenuta ha di fatto risparmiato sfruttando il progetto sviluppato da KIKO e commisurando tali importi Alla entità delle riproduzioni eseguite nei numerosi negozi di wycon sparsi sul territorio nazionale>>.  Pertanto avendo Kiko speso € 70.000,00 per il progetto del Concept presso uno studio esterno, <<tale importo appare di sicuro riferimento come base di per determinare il lucro cessante a cui kiko ha diritto, sulla base del quale cioè commisurare il prezzo che wjcon avrebbe dovuto sostenere per sfruttare lecitamente l’opera tutelata e che deve essere opportunamente aumentato in relazione al numero di negozi ai quali essa ha applicato detto concept. Stima equo dunque il collegio liquidare per tale voce di danno in via equitativa la complessiva somma di 700.000,00>>.
    1. Non è però chiarito come si sia passati da € 70.000,00 ad una somma pari al decuplo: in base a criterio puramente equitativo, par di capire, non essendoci alcun riferimento nè al numero di negozi di Wjcon interessati dai fatti di causa nè a canoni ipotetici di mercato per un licensing del genere.
  8. ll Tribunale, emettendo l’inibitoria assistita da penale [si badi: comportante la rimozione degli arredi dei propri negozi!], ha concesso il termine di 60 giorni dalla notifica prima di far scattare la penale medesima.

Decadenza dal marchio farmaceutico per non uso e suo utilizzo nelle sperimentazioni cliniche (per l’autorizzazione alla immissione in commercio)

Secondo gli articolo 15 co. 1-58 co.1 lett. a) reg. 207/2009 (poi artt.18 co.1-58 co.1 lett. a reg. 2017/1001), il mancato <<uso effettivo>> del marchio per cinque anni comporta la decadenza dal diritto, “salvo motivo legittimo per il mancato uso” (o, nel reg. 2017/1001, “se non vi sono ragioni legittime per la mancata utilizzazione”).

Ebbene, le domande arrivate alla giustizia UE nella causa C‑668/17 P, Viridis Pharmaceutical Ltd c. EUIPO, sono le seguenti:

1°) L’uso di un marchio per prodotti farmaceutici, limitato alla fase delle sperimentazioni cliniche (clinical trials) per ottenere l’autorizzazione alla immissione in commercio (AIC),  vale “uso effettivo” ai sensi della predetta normativa?

2° ) [In subordine,] può dirsi che il divieto di commercializzazione, prima dell’ottenimento dell’AIC, costituisca “motivo legittimo” del mancato uso?

Ad entrambe le domande hanno risposto negativamente sia l’EUIPO che il Tribunale UE. Ora il soccombente ricorre alla Corte di Giustizia.

Pure l’avvocato generale Szpunar , però, risponde negativamente: v. le sue Conclusioni del 09.01.2019.

Aspettiamo ora la decisione della Corte

Il marchio “BIG MAC” di McDonald’s è stato annullato per mancato uso quinquennale

Su istanza della irlandese Supermac’s di Galway,  titolare -sembra- di una catena di fast food dislocati per l’intera Irlanda, l’ufficio europeo EUIPO ha annullato (rectius: ha dichiarato decaduto: v. dopo; in inglese revoked) per mancato uso quinquennale il marchio denominativo << BIG MAC >> , di cui era titolare il gigante statunitense McDonald’s.

La norma applicata è stata quella di cui all’art. 58 del reg. (UE) 2017/1001 del 14 giugno 2017 sul marchio dell’Unione europea (la nostra norma nazionale corrispondente è l’art. 24 co. 1  cod. propr. ind. , d. lgs. 30 / 2005).

Il marchio era stato inizialmente registrato il 22 dicembre 1998 e l’istanza di annullamento era stata depositata l’11 aprile 2017: quindi McDonald’s avrebbe dovuto il provare l’uso effettivo (genuine, in inglese) nei 5 anni anteriori e cioè dall’ 11 aprile 2012 fino al 10 aprile 2017.

L’istanza dell’impresa irlandese ha riguiardato tutti i prodotti e servizi coperti dalla registrazione:

<< Class 29: Foods prepared from meat, pork, fish and poultry products, meat sandwiches, fish sandwiches, pork sandwiches, chicken sandwiches, preserved and cooked fruits and vegetables, eggs, cheese, milk, milk preparations, pickles, desserts.

Class 30: Edible sandwiches, meat sandwiches, pork sandwiches, fish sandwiches, chicken sandwiches, biscuits, bread, cakes, cookies, chocolate, coffee, coffee substitutes, tea, mustard, oatmeal, pastries, sauces, seasonings, sugar.

Class 42: Services rendered or associated with operating and franchising restaurants and other establishments or facilities engaged in providing food and drink prepared for consumption and for drive- through facilities; preparation of carry-out foods; the designing of such restaurants, establishments and facilities for others; construction planning and construction consulting for restaurants for others.>>

La parte più interessante della decisione è quella inerente la qualità del materiale istruttorio offerto da McDonald’s: è opportuno che imprese e  loro  consulenti la tengano ben presente.

A dispetto della grandissima notorietà del segno distintivo, l’Ufficio (Cancellation Division) ha ritenuto il materiale probatorio/documentale insufficiente a provare l’uso effettivo in quanto o di provenienza interna a McDonald’s, e quindi poco persuasivo, oppure non comprovante l’uso effettivo in termini di dimensioni dell’uso stesso (quante vendite, a chi, dove …). 

Altro aspetto interessante è stato il cenno alla presenza su Wikipedia. Le  voci ivi presenti non sono state considerata fonte affidabile di informazione, poiché, potendo essere corrette dagli utenti di Wikipedia,  vanno considerate rilevanti solo se sostenute da altre prove indipendenti .

La decadenza ha effetto a partire dalla data dell’istanza e cioè dal 11 aprile 2017 e concerne il marchio per intero (in its entirety).

Il provvedimento di decadenza, titolato Cancellation No 14 788 C, è stato emesso dalla Sezione di Annullamento (Cancellation Division) in data 11.01.2019  e riguarda il marchio n° 62638; è leggibile quiqui oppure può essere cercato nel database dei cases dell’EUIPO, che porta alla seguente scheda.

McDonalds ha ora due mesi di tempo per ricorrere, ai sensi dell’art. 68 del reg. medesimo (sempre in via amministrativa) , per poi eventualmente adire il Tribunale della Corte di Giustizia UE (art. 72)

Infine, può essere di interesse vedere, da un lato, quanti marchi esistono contenenti  le parole Big Mac (o solo Mac, che non è detto abbia il medesimo valore distintivo) e, dall’altro, di quanti ne sia titolare McDonald’s: basta una ricerca in altro data base dell’EUIPO.  

sampling e protezione dei fonogrammi: notizie dalla UE

Nella causa C-476/17, Pelham ed altri c. Hutter e Schneider-Esleben, pendente avanti la Corte di Giustizia, si discute sulla liceità della riproduzione in un’opera musicale di un estratto (“sample”) della durata di due secondi, tratto da altra opera musicale come fissata in un fonogramma.  L’opera “riproducente” è Nur Mir (autori : Pelham e Hass; cantante: Setlur ), mentre l’opera riprodotta è  Metall auf Metall dei Kraftwerk. 

Ebbene l’avvocato generale Szpunar (conclusioni del 12.12.2018) dice che: 

i) tale riproduzione viola il dir. di riproduzione, perché il fonogramma è protetto per intero inscindibilmente. Non  si applica alcuna soglia minima o della minima unità espressiva, come per il diritto di autore: qui non si protegge la creatività, ma l’investimento finanziario e organzzartivo (il disco può contenere anche suoni non costituenti opere dell’ingegno);

ii) tale riproduzione non costituisce copia ai sensi dell’art. 9/1 lett. b della dir. 115/2006;

iii) il dir. UE osta ad una norma come quella tedesca che pare permettere l’elaborazione (indipendente)  quasi illimitata delle opere altrui , se qualora ciò superi l’ambito consensito dalla eccezioni previste nell’art. 5/1-2 della dir. 29;

iv) l’eccezione di citazione, di cui all’art. 5 dir. 29,  non si applica al sampling; v) gli Stati non possono introdurre eccezioni maggiori di quelle poste dall’art. 5 dir. 29.

vi) il diritto esclusivo del produttore di fonogrammi non contrasta necessariamente col diritto alla libertà di esrpressione posto dall’art. 13 carta dir. fondam. UE, essendo diritti di pari grado e dovendo quindi venir bilanciati.

NB: l’AG al § 76 ricorda che le nozioni utilizzate nella dir. 29 sono autonome e non rinviano alla normativa degli Stati membri

Inoltre circa le eccezioni, di cui all’art. 5/1-3 dir. 29 , l’A.G. osserva al § 77: <<Atteso che tali eccezioni, all’infuori di una, sono facoltative, gli Stati membri dispongono di un margine di discrezionalità per quanto attiene alla scelta e alla formulazione delle eccezioni che ritengono opportuno recepire nel proprio diritto interno. Essi non possono invece introdurre eccezioni non previste né ampliare la portata di quelle esistenti. Va tuttavia osservato che tale margine di discrezionalità è anch’esso limitato, in quanto alcune di tali eccezioni rispecchiano il bilanciamento effettuato dal legislatore dell’Unione tra il diritto d’autore e vari diritti fondamentali, in particolare la libertà di espressione. Pertanto, la mancata previsione di talune eccezioni nel diritto interno potrebbe risultare incompatibile con la Carta >>

Vedremo cosa dirà la Corte


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Self-driving vehicles e brevetti

L’ufficio brevettuale europeo (EPO) dà notizia di un recente studio sullo stato delle brevettazioni inerenti le driverless cars (  “Patents and self-driving vehicles”, portato a termine con l’European Council for Automotive R&D (EUCAR), novembre 2018).

Si legge che c’è stata un’impennata di domande brevettuali dal 2011 al 2017, pari al 330 %  : assai significativa se paragonata al  16 %  negli settori complessivamente considerati (cioè 20 volte tanto).

Lo studio distingue due tipi di settori tecnologici in questo settore: quello relativo al funzionamenot interno del veicolo (automated vehicle platform) e quello relativo alla relazione con le altre vetture e con l’ambiente esterno in generale (Smart environment) (v. p. 25 del Full Study e tabella 2.1 per i sottosettori)

(notizia appresa da Frantzeska Papadopoulou  tramite IPKat’s email readers’ group)

concorrenza sleale e competenza delle sezioni specializzate

secondo il tribunale di Torino 12.02.2018 (sent. 718/2018 – RG 32364/2015) <<<appartiene al Tribunale ordinario e non alle Sezioni Specializzate in materia di impresa, la competenza a decidere sulla domanda di accertamento di un’ipotesi di concorrenza sleale cosiddetta pura in cui la prospettata lesione degli interessi della società danneggiata riguardi l’appropriazione, mediante storno di dirigenti, di informazioni aziendali, di processi produttivi e di esperienze tecnico-industriali e commerciali (cd. know how aziendale, in senso ampio), ma non sia ipotizzata la sussistenza di privative o altri diritti di proprietà intellettuale, direttamente o indirettamente risultanti quali elementi costitutivi, o relativi all’accertamento, dell’illecito concorrenziale>> (m. di V. Capasso, sottol. agg., in www.giurisprudenzadelleimprese.it)

SIAE commette abuso di posizione dominante

l’AGCM accerta un abuso di posizione dominante di SIAE. Il comunicato (A508 del 26.10.2018, disponibile qui  , ove anche il testo del provvedimento, di 130 pagg. ):

“Con provvedimento del 25 settembre 2018, l’Autorità ha accertato che la SIAE, almeno dal 1° gennaio 2012, ha posto in essere un abuso di posizione dominante in violazione dell’art. 102 TFUE, articolato in una pluralità di condotte complessivamente finalizzate a escludere i concorrenti dai mercati relativi ai servizi di gestione dei diritti d’autore non inclusi nella riserva originariamente prevista dall’art. 180 LDA [sottolienato aggiunto], nonché a impedire il ricorso all’autoproduzione da parte dei titolari dei diritti, garantita dall’articolo 180, comma 4, LDA.

Secondo l’Autorità le condotte contestate nel provvedimento costituiscono una complessa strategia escludente che ha determinato, attraverso la pervicace affermazione di un monopolio non supportato dalla normativa, la compromissione del diritto di scelta dell’autore e la preclusione all’offerta dei servizi di gestione dei diritti d’autore da parte dei concorrenti.

In particolare, le condotte attraverso le quali SIAE ha attuato la propria strategia escludente riguardano:

a) l’imposizione di vincoli nell’offerta di servizi diversi tali da ricomprendere nel mandato relativo allo svolgimento dei servizi rientranti nella riserva legale esclusiva vigente fino al 15 ottobre 2017 anche servizi suscettibili di essere erogati in concorrenza, ostacolando la libertà dei titolari del diritto d’autore di gestire i propri diritti al momento dell’attribuzione, della limitazione o della revoca del mandato;

b) l’imposizione di vincoli volti ad assicurare alla SIAE la gestione dei diritti d’autore dei titolari non iscritti alla SIAE, anche persino là dove questi ultimi avevano espressamente manifestato la volontà di non avvalersi dei servizi da essa erogati;

c) l’imposizione di ostacoli nella stipulazione da parte degli utilizzatori – in particolare, emittenti TV nazionali e organizzatori di concerti live – di altri contratti di licenza d’uso delle opere con i concorrenti della SIAE;

d) l’esclusione dei concorrenti dai mercati relativi alla gestione dei diritti d’autore di repertori esteri.”

Ha però irrogato una sanzione pecuniaria simbolica di euro 1.000,00 per il seguetne motivo: ” Nel caso in esame, deve essere considerato il contesto entro cui si è verificata la complessa strategia escludente accertata, e in particolare il fatto che le condotte abusive sono state realizzate dalla SIAE in mercati caratterizzati da una stretta contiguità con gli ambiti coperti dalla riserva vigente fino al 15 ottobre 2017. Tale circostanza, sebbene non incida sull’esistenza e sulla gravità dell’abuso, considerata unitamente alla specificità e complessità della fattispecie e alla novità dell’abuso contestato, costituisce motivo sufficiente per irrogare alla SIAE una sanzione pecuniaria simbolica, pari a 1.000 euro”.

L’accertamento ha riguardato la violazione della regola non nazionale bensì europea (art. 102 TFUE, per il quale l’AGCM è competente in base al reg. 1/2003, art. 5)

caso Bastei Lubbe, CG 18.10.2018, C-149/17 (diritto di comunicazione al pubblico vs. protezione della vita familiare)

1) La regola , per cui il titolare di una connessione internet, attraverso cui siano state commesse violazioni del diritto d’autore e di diritti connessi  su fonogramma contenente audiolibro (un perito ha attribuito con esattezza al convenuto l’indirizzo IP interessato) mediante una condivisione di file (peer-to-peer), possa non essere considerato responsabile (pur in presenza di presunzione giurisprudenziale -BGH- di essere l’autore) , qualora indichi almeno un suo familiare che avesse la possibilità di accedere alla suddetta connessione, senza fornire ulteriori precisazioni quanto al momento in cui la medesima connessione è stata utilizzata da tale familiare e alla natura dell’utilizzo che quest’ultimo ne abbia fatto, confligge col combinato disposto degli artt. 8/1-2 (sanzioni e mezzi di ricorso) e 3/1 (comunicazine al pubblico) dir. 2001/29  e art. 3/2 dir. 2004/48 (<< Le misure, le procedure e i mezzi di ricorso sono effettivi, proporzionati e dissuasivi e sono applicati in modo da evitare la creazione di ostacoli al commercio legittimo e da prevedere salvaguardie contro gli abusi»).

2) Però la conclusione sarebbe diversa se, per evitare un’ingerenza ritenuta inammissibile nella vita familiare, i titolari di diritti potessero disporre di un’altra forma di ricorso effettivo, che in un simile caso consentisse loro, in particolare, di far riconoscere la responsabilità civile del titolare della connessione internet di cui trattasi” (§ 53)

Queste le parole della CG, più o meno. Il rimedio di cui al punto 2 potrebbe da noi essere costituito dalla compartecipazione all’illecito da parte del titolare della connessione internet ex art. 2043 (magari come titolare di attività pericolosa ex art. 2050)? E’ un’ <<attività>> gestire una connessione internet? E’ possibile costruire una presunzione per il cui il titolare della connesione è considerato resposnabile della violazione, similmente a quella del BGH tedesco (§ 20)?

Chi è l’autore delle opere create tramite la “artificial intelligence”? (con un cenno ai brevetti per invenzione)

Chi è l’autore delle opere (interamente) generate dal computer? Si deve dare soggettività giuridica al robot? Si , parrebbe, secondo Franzosi M., Riv. dir. ind., 2018/2, 173/4. 

Ma, a monte, è proteggibile tale opera, tenuto conto che la creatività è tradizionalmente riconosciuta solo a persone fisiche? La risposta ad oggi è negativa, secondo Lavagnini S., Intelligenza artificiale e proprietà intellettuale: proteggibilità delle opere e titolarità dei diritti, Il dir. d’aut., 2018/3, 360 ss., a p. 370 ss.. Questa a. però ipotizza: i) alternativamente, la proteggibilità DE JURE CONDITO “nella misura in cui i risultati dell’attività dell’intelligenza artificiale (ossia la soluzione, il trovato, l’opera) dipendano in qualche modo dalle scelte e dagli input di un essere umano” (input non casuali, naturalmente, ma finalizzati, e tenendo conto che la creatività sarebbe da intendere in modo diverso da quello attuale: p. 372); ii) solo DE JURE CONDENDO, invece, la proteggibilità tramite un nuovo diritto connesso degli investimenti economico-finanziari eseguiti allo scopo (anzichè la creatività).

E se l’opera è non interamente ma  solo parzialmente realizzata con l’artificial intelligence (A.I.)? Ci riflette Christian F. Chessman   in ISpeak: Automated Authorship and Accountability in the Digital Age , 2018 (https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3118035; solo abstract).

Sintesi delle soluzioni possibili in Alessio Chiabotto  , Intellectual Property Rights Over Non-Human Generated Creations, 2017 (https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3053772),.

Ora un’articolata opinione contraria alla proteggibilità col diritto d’autore è fornita da Gervais, Daniel J., The Machine As Author (March 25, 2019). Iowa Law Review, Vol. 105, 2019. Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=3359524 (sintesi nel post http://copyrightblog.kluweriplaw.com/2019/05/21/can-machines-be-authors/) . La ragione sarebbe duplice. 1° mettere in esecuzione gli algoritmi non richiede gli incentivi per cui è (o: si dice essere) nata la protezione d’autore (crearli si, però: ma qui la protezione è quella autorale per il software) . Anzi, l’AI potrebbe minacciare la creatività umana. 2° le macchine non sono responsabili delle violazioni che le loro produzioni potrebbero determinare (diffamazioni, contraffazioni di altre opere dell’ingegno -come derivative works- o violazioni di altri diritti). Su questo secondo aspetto, però, la legge può intervenire, gravando qualcuno tra  i possibili candidati (programmatori, proprietari -iniziali o attuali-, utilizzatori a vario titolo)  

L’unica legislazione –almeno europea- in proposito (così Ryan Abbott, Artificial Intelligence, Big Data and Intellectual Property: Protecting Computer-Generated Works in the United Kingdom, in abbott in ssrn) è quella inglese: “In the case of a literary, dramatic, musical or artistic work which is computer-generated, the author shall be taken to be the person by whom the arrangements necessary for the creation of the work are undertaken” (art. 9/3 UK Copyright, Designs and Patents Act 1988)

 Viene segnalata la speciale regola UK circa la durata (“If the work is computer-generated the above provisions do not apply and copyright expires at the end of the period of 50 years from the end of the calendar year in which the work was made.”) da Maggiore M., ARTIFICIAL INTELLIGENCE, COMPUTER GENERATED WORKS AND DISPERSED AUTHORSHIP: SPECTRES THAT ARE HAUNTING COPYRIGHT, http://www.mmlex.it/artificial-intelligence-computer-generated-works-and-dispersed-authorship-spectres-that-are-haunting-copyright.

Sulla normativa inglese, introdotta nel 1988 come parte del Copyright, Designs and Patents Act, v.  T. Bond-S. Blair, Artificial Intelligence & copyright: Section 9(3) or authorship without an author, in Journal of Intellectual Property Law & Practice, Volume 14, Issue 6, June 2019, Page 423.

Ci sono già state delle aste di opere create tramite l’intelligenza artificiale, come riferice un articolo del 4 marzo 2019 del Guardian.   

Questo per il lato per così dire attivo di ipotetiche situazioni giuridiche coinvolgenti i computer. Ma il tema può essere allargato al lato passivo (cioè quando cagionino danno a terzi) e più in generale può considerarsi la disciplina civilistica concernente l’attività di computer e robot. Sul punto v.si la  Risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2017 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica (2015/2103(INL)) e, tra  i molti saggi dottrinali, L. Coppini, Robotica e intelligenza artificiale: questioni di responsabilità civile, in Politica del diritto, 2018/4, 713-740.

Altri ha così osservato: << Cio` che conta e`, quindi, considerare la responsabilita per danno provocato da robot nell’ambito della disciplina della sicurezza dei prodotti e della responsabilita`del produttore proprio perche´ si tratta di aree normative fortemente connesse, in quanto la mancanza di sicurezza di un prodotto puo` determinare un danno all’utilizzatore e, conseguentemente, la responsabilita`del produttore. Si tratta di normative che operano in modo differente perche´ quella sulla sicurezza dei prodotti mira ad una tutela in via preventiva, in quanto prevede che sul mercato siano immessi solo prodotti sicuri ed eliminatiquelli insicuri; mentre la normativa sulla responsabilita`del produttore, come noto, offre una tutela ex post di tipo risarcitorio nel caso di danni causati da prodotti difettosi/insicuri. Il quadro di coloro i quali sono soggetti all’obbligogenerale di sicurezza dei prodotti e` molto ampio tantoche, secondo quanto stabilito dall’art. 103, lett. d),sono il produttore, il distributore, l’importatore echiunque si presenti come produttore apponendo sulprodotto il proprio nome, marchio o altro segno distintivo, e la normativa in materia di sicurezza opta peruna migliore ripartizione delle responsabilita` in quanto coinvolge l’intera catena distributiva (sul punto la normativa dovrebbe essere integrata ricomprendendo anche altri soggetti quali: l’ideatore, il progettista, etc.), consentendo all’utente di avere maggiori garanzie rispetto allo schema di tutela proprio della responsabilita`da prodotto difettoso. L’approccio precauzionale rimane, quindi, quello da privilegiare in quanto fa sı` che in condizioni di incertezza scientifica – che nel caso dei robot intelligenti e`evidentemente determinata dalla loro possibilita` di evolversi attraverso l’esperienza fatta – il comportamento del produttore (inteso nel senso piu` ampio del termine) debba essere ispirato a prudenza al fine di privilegiare la sicurezza rispetto al rischio in correlazione con il tipo di prodotto/robot immesso sul mercato>> (Responsabilita` e robot, di G. Capilli, Nuova giur. civ. comm., 2019/3, 629-630).

SUI BREVETTI PER INVENZIONE – Infine, abbondano già i brevetti (o le domande degli stessi) sull’A.I. e in particolare sulla tecnologia c.d. machine learning  . Si veda il post 24.01.2019  di R. Hughes in Ipkitten sulla società londinese Deep Blue (ora nella galassia  Google), che pare essere leader del settore, e ivi il link all’elenco delle sue domande brevettuali, estratto dal database dell’Ufficio Brevetti Europeo e quello 15.08.2019 sempre di R. Hughes su  Stephen Thaler ,  titolare del primo brevetto relativo a software in grado di inventare