Dando seguito al post sulla sentenza di primo grado, vediamo ora il ragionamento condotto dalla sentenza d’appello (Appello Milano sent. n. 1543/2018 del 26.03.2018, RG 3945/2015) per respingere l’impugnazione e confermare la decisione di primo grado praticamente per intero (l’unica differenza sta nel maggior termine concesso a Wjcon per darvi esecuzione, come dirò sotto).
Ecco i punti principali.
- Sull’eccezione di carenza in Kiko di legittimazione attiva – secondo Wjcon il contratto per la progettazione dell’arredo non avrebbe fatto acquisire a Kiko il diritto d’autore relativo. La Corte d’Appello rigetta la doglianza sotto due profili: i) dicendo che invece è nella logica economica di questo contratto che il diritto d’autore venga acquisito dal committente; ii) valorizzando alcune dichiarazioni, sostanzialmente ricognitive della titolarità di Kiko, pare, rilasciate dallo studio di architettura e/o dall’architetto personalmente (primo motivo di impugnazione).
- Sulla censura, secondo cui un’eventuale tutela avrebbe dovuto essere semmai concessa come opera di design (art. 2 n. 10 l. aut.; pur negandola per mancanza dei requisiti di legge) e non come opera dell’architettura ex art. 2 n. 5 – Secondo la Corte invece, poichè il concept-store è progettato come insieme complessivo del punto vendita, è più appropriata la tutela come opera dell’architettura. Il concetto di interior design si addice maggiormente (in base alle esperienze e alla giurisprudenza) ai singoli elementi che compongono l’arredamento dell’Interno (secondo motivo di impugnazione).
- Sull’eccezione secondo cui Kiko avrebbe modificato il progetto del concept store per negozi successivi – Trattasi di circostanza irrilevante che non fa venir meno il diritto alla protezione del concept store anteriori (terza censura)
- Circa la presenza di alcune differenze tra l’arredo dei negozi di wycon e quello dei negozi Kiko – La Corte ricorda che decisivo è l’aspetto complessivo: <<dato che la tutela autorale riconosciuta dal Tribunale riguarda la combinazione degli elementi sopra descritti, limitate differenze nella forma del singoli elementi che compongono l’arredamento di interno non sono rilevanti, se e nella misura in cui l’effetto di insieme, quale si coglie dalle foto in atti, sia il medesimo, vale a dire nella stragrande maggioranza dei punti di vendita Wycon ritratti nelle fotografie prodotte dall’attrice>> (sempre terza censura).
- Sulla presunta mancanza di originalità del progetto architettonico in quanto già noto nel settore per essere stato anticipato da terzi concorrenti – Come già il Tribunale, anche la Corte d’Appello respinge la doglianza, rilevando la mancanza di prova e [addirittura] di allegazione dell’anteriorità degli arredamenti/allestimenti di detti terzi rispetto a quelli di Kiko (ancora terza censura). Di ciò gli operatori faranno bene a tenere adeguato conto.
- Sulla concorrenza parassitaria – Anche qui viene confermato il giudizio del tribunale circa la sistematicità dell’imitazione e comunque la rilevanza dell’aspetto complessivo, anzichè dei singoli dettagli: <<a imitazione degli elementi come sopra considerati da parte di Wycon è talmente sistematica anche agli occhi di un osservatore superficiale della cospicua documentazione e delle fotografie prodotte dalle parti, da rendere assolutamente di giustizia l’affermazione al di là di ogni ragionevole dubbio che Wycon ha sfruttato le ricerche, l’attività produttiva e promozionale ed il lavoro di Kiko. Del resto anche qui vale la considerazione che lo agganciamento parassitario riguarda il complesso dell’attività commerciale dell’appellata e che, quindi, essa non è esclusa da singole e parziali differenze degli elementi considerati, i quali peraltro sono molto di frequente anche essi uguali o comunque pedissequamente imitati>> (quarta censura).
- Sul mancato utilizzo del criterio risarcitorio degli utili persi – Correttamente non è stato utilizzato, secondo la Corte d’Appello: <<il Tribunale ha giustamente escluso che il criterio della possibile determinazione degli utili persi da Kiko a causa del predetto fatto illecito potesse essere in qualche modo utilizzato e questo argomento logico giuridico va interamente condiviso, poiché, in sostanza, la Kiko vende prodotti cosmetici e non fa invece offerta di progetti di arredamento e quindi nessun senso avrebbe concepire nella specie il danno come correlato agli utili ipoteticamente perduti dall’attrice>>. (Quinta censura)
- Circa la doglianza sul fatto che in realtà Kiko non ha subito alcun danno né come lucro cessante né come danno emergente a seguito della riproduzione non autorizzata del concept store – La Corte replica osservando che il lucro cessante esiste ed è rappresentato proprio dalla somma, che Kiko avrebbe percepito da wycon se quest’ultima avesse acquistato dalla attrice il diritto di utilizzare l’idea progettuale (“giusto prezzo del consenso”) (sempre quinta censura
- Sul punto rinvio ad un mio precedente ampio studio Restituzione e trasferimento dei profitti nella tutela della proprietàindustriale (con un cenno al diritto di autore), Contratto e impresa, 2010, 1149 ss, leggibile in academia.edu.
- Sulla quantificazione del danno – La Corte d’Appello rileva (come già osservato nel mio post precedente) che in causa non si era accertato quanti negozi Wycon avesse clonato ne è accertabile quanto avrebbe dovuto corrispondere a controparte per l’allestimento di ogni punto vendita: per questo, dice, è stato “prudentemente liquidato” nel multiplo di 10 del costo progettuale (sempre quinta censura).
- Più che “prudentemente liquidato”, però, sarebbe stato più esatto dire “equitativamente determinato”, visto che così si esprime l’articolo 1226 c.c., richiamato dall’articolo 2056 c..c (il cui comma 2, poi, aggiunge che <<il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso>>)
- Sull’inibitoria – L’appellante lamentava che erroneamente ed ingiustamente il tribunale avesse emesso inibitoria “della apertura di nuovi negozi con arredamento di interni copiato da quello dei quo” perché aveva agito in buona fede. La corte respinge la doglianza (tranne quello che si dirà al punto seguente), osservando: – da un lato, che <<l’inibitoria è il provvedimento tipico, che consegue all’accertamento di una contraffazione di opera di ingegno. Esso è espressamente previsto dall’art. 156 LDA>>; – dall’altro, che Wjcon non può essere ritenuto in buona fede (sesta doglianza). Due osservazioni:
- Il punto è importante, ma la posizione del collegio è poco comprensibile, dal momento che la risposta avrebbe potuto essere più radicale: l’elemento soggettivo non è richiesto per concedere l’inibitoria. Questa infatti è un rimedio reale e non personale, secondo la tradizionale partizione, che riflette la distizione tra illiceità mera e dannosità (potendoci essere l’una senza l’altra): per opinione diffusa, quindi, non richiede l’elemento soggettivo (dolo/colpa) nel trasgressore nè la prova di un danno. In tale senso v. Libertini-Genovese, sub art. 2599, in Comm. del cod. civ. dir. da Gabrielli, Artt. 2575-2642: Delle soc., dell’az., della concorr., a cura di Santosuosso, Utet, 2014, p. 626; Musso, sub art. 2577, Comm. cod. civ. Scialoja Branca, Art. 2575-2583, Zanichelli, 2008, § 19, p. 273; Spolidoro, Le misure di protezione nel diritto industriale, Giuffrè, 1982, p. 161 ss.. Tra i processualisti v. Nardo., Profili sistematici dell’azione civile inibitoria, ESI, 2017, 87 ss e 101 ss; Rapisarda, Profili civili della tutela civile inibitoria, Cedam, 1987, 88 ss.
- inoltre non è vero che il Tribunale aveva emesso inibitoria “della apertura di nuovi negozi con arredamento di interni copiato da quello dei quo”. L’inibitoria riguardava il protrarsi dell’illecito e quindi, visto che questo consisteva nell’arredo già installato, obbligava a rimuoverlo: aveva cioè contenuto positivo/commissivo, non negativo/omissivo. Ciò risulta in modo sufficientemente chiaro dalla pronuncia di primo grado (dispositivo: “accertata la tutelabilità del progetto di arredamento d’interni applicato ai negozi di cosmetici della catena di KIKO s.r.l. ai sensi dell’art. 2, n. 5 L.A. (…) nonché la contraffazione posta in essere dalla convenuta WJCON s.r.l. di tale progetto (…), ne inibisce a parte convenuta l’ulteriore utilizzazione nei negozi facenti parte della sua catena commerciale, fissando a titolo di penale la somma ..”) e in modo ancor più chiaro da quella di appello.
- La Corte d’Appello aumenta da 60 a 150 giorni il termine per dare esecuzione al gravoso provvedimento di inibitoria, con contenuto però positivo (rimozione degli arredi in violazione: v. punto precedente)
- E’ confermato il rigetto delle domande di concorrenza sleale confusoria e per appropriazione di pregi, avanzate da Kiko.
- La corte , infine, ha ritenuto di compensare per un quarto le spese legali d’appello a favore di wycon e di condannarla però a rifondere a Kiko i residui tre quarti
Circa la protezione dell’arredo interno del negozio , ricordo che in passato è stata tentata anche tramite l’istituto del marchio di forma. L’ha ammessa la sentenza della Corte di Giustizia UE 10.07.2014, C‑421/13, nel caso Apple c.Deutsches Patent- und Markenamt, purchè ricorra la distintività; l’ha invece respinta l’EUIPO proprio a Kiko (decisione 29.03.2016 della 1° Commissione di ricorso, proc. R 1135/2015-1), anche se non in linea di principio, bensì per carenza di distintività nel caso specifico.