La violazione di un contratto di licenza di software rientra nell’ambito applicativo della direttiva 2004/48? Si, per la Corte di Giustizia

E’  capitato in Francia che un soggetto, dopo aver licenziato un software, abbia citato in giudizio il licenziatario per violazione del contratto di licenza (per modifica non autorizzata del programma).

Ivi vige il divieto di cumulo tra tutela aquiliana e tutela contrattuale: per il medesimo fatto non si può rispondere sia per l’uno che per l’altro titolo; inoltre, se il contratto è valido e il danno deriva dall’inadempimento, è esclusa la responsabilità aquiliana ( §  23 della sentenza cit. infra).

Processualmente era capitato -se ben intendo- che era stata chiesta la condanna al risarcimento per contraffazione (responsabilità aquiliana), pur emergendo dagli atti che il danno era conseguenza di una violazione contrattuale (§ 18).

la corte d’Appello di Parigi sollevava dunque la seguente questione:

«Se il fatto che un licenziatario di software non rispetti i termini di un contratto di licenza di software (per scadenza di un periodo di prova, superamento del numero di utenti autorizzati o di un’altra unità di misura, quali i processori utilizzabili per far eseguire le istruzioni del software, o per modifica del codice sorgente allorché la licenza riserva tale diritto al titolare originario):

–        costituisca una contraffazione (ai sensi della direttiva [2004/48]) subita dal titolare del diritto d’autore del software riservato dall’articolo 4 della direttiva [2009/24] relativa alla tutela giuridica dei programmi per elaboratore,

–        oppure possa essere soggetto a un regime giuridico distinto, come quello della responsabilità contrattuale di diritto comune».

In breve, si chiede se la violazione di un contratto di licenza di software sottosti alla disciplina posta dalla direttiva 2004/48 oppure se questa si riferisca solo alle violazioni commesse da terzi privi di rapporti contrattuali col titolare.

E’ allora intervenuta la Corte di Giustizia con sentenza 18.12.2019, C-666/18,  IT Development SAS c Free Mobile SAS.

La questione può essere risolta in termini semplici, anche se presenta spazi interessanti di approfondimento.

La soluzione è infatti senz’altro nel senso che pure le violazioni contrattuali della proprietà intellettuale sottostanno alla dir. 2004/48.

Come ricorda la Corte  (§ 35-36), la dir.,  parlando di “rispetto” e di “violazione” dei “diritti di proprietà intellettuale”, non c’è dubbio che si riferisca non solo ai diritti ex lege ma anche a quelli conformati o modulati da atto dispositivo (quindi da contratto).

Nè c’è dubbio che si riferisca anche ai diritti sul software ex dir. 2009/24

Dopo che l’atto contrattuale ha disposto della privativa, infatti, violarla nella modalità così conformata rimane una violazione. Cioè violare l’atto pattizio conformativo della privativa significa violare la privativa stessa, seppur nella conformazione emersa dall’atto dispositivo.

Lo spazio di approfondimento a cui accennavo riguarda il caso, in cui il titolare leso scelga la tutela contrattuale, anziché aquiliana. Poichè anche la prima, come appena visto, rientra nell’ambito della direttiva 2004/48, ci si può chiedere se la tutela offerta dalla disciplina del contratto (nazionale anzichè armonizzata; essendo difficile pensare all’incidenza della normativa consumeristica che eventualmente prevarrebbe come norma speciale) risponda alle prescrizioni della direttiva medesima. Profilo nuovo e meritevole di approfondimento.

Il concorso tra le due responsabilità,  in linea generale, è tema assai risalente e trova un’applicazione nazionale in materia di marchi: precisamente nel comma 3 dell’articolo 23 c.p.i. Tale disposizione viene interpretata  come regola che permette la scelta a favore dell’azione contrattuale, anziché di quella aquiliano/contraffattoria (quantomeno l’interpretazione preferibile) .

Violazione del diritto d’autore su banca dati: processo per la liquidazione del danno (altro episodio nella lite Business Competence c. Facebook)

Con sentenza 17.09.2019, n. 8244/2019, RG 68360/2013, il Tribunale di Milano sez. spec. impresa A, ha deciso la lite per la liquidazione del danno nella lite Business Competence (di seguito: BC) contro Facebook (di seguito : FB), relativa ad un’applicazione che offriva informazioni presenti in FB (su esercizi commerciali nei dintorni) in base ad un sistema di geolocalizzazione.

Con sentenza del 2016  non definitiva (da poco confermata in appello) il Tribunale di Milano  aveva accertato la violazione in capo a FB per aver riprodotto nella propria applicazione Nearby l’applicazione Faround di BC e aveva quindi condannato la prima al risarcimento del danno, disponendo la prosecuzione del processo per la determinazione del quantum (verosimilmente ex art. 278 cpc).

La sentenza (rel. Marangoni) è interessante per la motivazione inerente la stima del danno (profilo centrale nella pratica). Il Collegio:

  • stima come royalty persa quella conseguente ad un tasso lordo del 5 (cinque) %  , desunto dai CTU  dal settore computer software e internet (§§ 3-4);
  • ritiene non significativi i ragionamenti sulla stima condotti da BC, dato che il suo progetto commerciale all’epoca dei fatti di causa era ancora in fase di iniziale sviluppo ed inolre soggetto ai necessari adeguamenti, in un settore con elevata e costante innovazione (§ 2, p. 6)
  • non dà importanza al fatto che FB abbia disatteso l’ordine giudiziale di trasmettere ai CTU i dati sulla diffusione di Nearby. Ciò perchè il successo economico di Nearby non è comunque utilizzabile per calcolare le chanche di Faraound in sede di giudizio controfattuale, dato che (§ 2 e § 5) i due business sono incomparabili: Nearby era distribuito grauitamente  ed inserito automaticametne nella piattaforma principale FB, mentre Faraound era/sarebbe stato a pagamento sia per utenti che per inserzionisti;
  • limita il periodo su cui calcolare le royalties mancate a due anni. I CTU invece -se ben capisco- avevano calcolato un periodo  temporalmente illimitato, dato che -come app di FB- si doveva correlarla alla vita utile di FB stessa. Il Collegio ha deciso così in base al quadro di vivace concorrenzialità delle app inerenti a FB (§ 6/7).
  • pertanto la liquidazione del Tribunale,  a fronte di una liquidazione: -di € 18.805.000,00  chiesta da BC; -di € 1.614.000,00 come corretta dalle osservazioni di FB; -di € 3.831.000,00 suggerita in via intermedia ed equitativa dai CTU, si è assestata (pure equitativamente) su € 350.000,00 (§ 8): meno di 1/10 del suggerimento del CTU e quasi 1/5 della somma che tiene conto delle correzioni apportate dalla stessa  FB.
  • ha compensato per intero le spese dei due gradi cautelari sia per l’esito, sia “per la obiettiva impossibilità in tale fase di pervenire ad un effettivo giudizio di interferenza tecnica tra le contrapposte applicazioni” (§ 9)