Marchio complesso, look alike e risarcimento del danno

Trib. Torino con sent. 3930/2021 del 10.08.2021, RG 13800/2019, rel. La Manna, si sofferma su una contraffazione di marchio della nota azienda dolciaria CHOCOLADEFABRIKEN LINDT & SPRÙNGLI AG .
Si v. a p. 9 i marchi a confronto con fotografia a colori.

Giudizio sulla riprodiuzione dell’elemento figurativo principale (un drago) : <<Sulla base di tali criteri ritiene il Collegio che l’elemento figurativo utilizzato da Maja nelle proprie
confezioni relative ai prodotti per cui è causa sia contraffattivo del marchio attoreo attesa l’evidente
similitudine tra il drago contenuto nell’elemento circolare con la scritta facente riferimento alla casa
produttrice e alla data da cui la stessa sarebbe operativa. L’utilizzo del colore nero anzichè di quello oro
e la diversa configurazione del drago Maja rispetto a quello Lindt, nell’ottica di una valutazione
complessiva e globale, proprio in ragione della citata particolare capacità distintiva del marchio in
esame, non sono sufficienti, al fine di escludere che il consumatore medio della tipologia di prodotti per
cui è causa possa essere indotto in confusione nel raffronto tra i due elementi. La raffigurazione di un
drago, pur se disegnato diversamente da quello del marchio Lindt, inserito in un elemento circolare con
la scritta inserita è, di per sé solo, un elemento di significativo richiamo al marchio attoreo e di
conseguente possibilità di confusione tra i due elementi.
Per tali ragioni, quindi, la domanda di contraffazione deve essere ritenuta fondata con riferimento al
marchio complesso citato.
>>

Quanto al look alike, lo qualifica come imitazione servile e lo ravvisa nel caso de quo:

<<Ciò premesso in termini di principi generali si evidenzia che nella fattispecie in esame, come già
rilevato in sede cautelare, è ravvisabile un’ipotesi di
look alike. Risulta, infatti, evidente la forte
somiglianza tra le confezioni oggetto di causa, anche con riferimento alla confezione della variante
Pistacchio. Come chiaramente desumibile dalle immagini riportate, infatti, la somiglianza attiene tutti
gli elementi delle confezioni in esame, ovvero la forma della confezione a parallelepipedo con i lati
corti curvilinei, il cordino bianco posto come una maniglia nella parte superiore della scatola
trasversalmente tra il lato anteriore e quello posteriore della confezione, l’apertura a finestra con i
contorni curvilinei profilati in oro da cui si intravede l’uovo ricoperto di nocciole (nei prodotti
Nocciolato) protetto da una pellicola trasparente e avvolto in un nastro con un grande fiocco centrale, le
immagini sulle pareti laterali della scatola, la scritta Nocciolato di cui già si è detto, la figura del drago
inserita nell’elemento circolare con la scritta circostante. A proposito di tale ultimo elemento appare
chiaro, quindi, come la violazione del marchio complesso di cui sopra si è trattato si inserisce nel più
ampio contesto di imitazione dell’intera confezione relativa ai prodotti per cui è causa. E’, inoltre,
pacificamente emerso che le confezioni in esame venivano vendute in un mercato di Napoli a fianco a
quelle dell’attrice e che nello spaccio della convenuta Brusa venivano anche vendute le uova di Pasqua
a marchio Caffarel sempre prodotte dal Lindt, circostanze, queste, significative nella valutazione del
look alike in quanto costituiscono un’ulteriore circostanza da cui desumere la possibilità di
associazione tra i due prodotti da parte del consumatore.
Né vale affermare che tale rischio di associazione potrebbe essere scongiurato dalla differenza di
prezzo tra i due prodotti avendo la giurisprudenza già chiarito l’irrilevanza, ai fini della confondibilità
tra due prodotti, delle differenze di prezzo (in tal senso Tribunale Milano 14.7.2006, Tribunale Milano
17.7.2006)
>>

La retroversione degli utili: << Infine, ai sensi dell’art. 125 c.p.i., comma 3, il titolare danneggiato può chiedere il risarcimento del danno nella forma alternativa della restituzione degli utili del contraffattore. La retroversione degli utili può cumularsi al danno emergente e può essere chiesta o in via alternativa
al risarcimento del mancato guadagno o nella misura in cui gli utili del contraffattore superino il suddetto pregiudizio subito
>>. Errore: la restituzione degli utili non è una forma di risarcimento del danno: è pena privata.

Ma il g. lo  intuisce subito sotto: << La retroversione degli utili ha una causa petendi diversa, autonoma e alternativa rispetto alle fattispecie
risarcitorie di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 125. Ci si trova di fronte non ad una mera e tradizionale
funzione esclusivamente riparatoria o compensativa del risarcimento del danno, nei limiti del
pregiudizio subito dal soggetto danneggiato, ma ad una funzione, se non propriamente sanzionatoria,
diretta, quantomeno, ad impedire che il contraffattore possa arricchirsi mediante l’illecito consistito
nell’indebito sfruttamento del diritto di proprietà intellettuale altrui
>>

Il risarcimento del danno da violazione di disegno comunitario e non registrato (ovvero: sull’art. 125 cod. propr. ind.)

Nella lite Diesel v. Zara, si pronuncia con sentenza 5877/2022 del 5 luglio 2022, Rg 22303/2022 il Trib. Milano, rel. Marangoni, con interessanti considerazioni .

Si tratta di sentenza determinativa del danno, dopo la precedente condanna generica .

1) la rinuncia alla iniziale di domanda di risarcimento del  danno, a favore di quella di retroversione degli utili ex 125 c.3 cpi, deve essere espressa. E tale non è l’espressione << “La quantificazione di tale danno dovrà avvenire ex art. 125 CPI, ovvero in funzione: 1) degli utili indebitamente realizzati dal violatore del diritto (retroversione degli utili);…” (pag. 24 atto di citazione) >>  usata in citazione (segue distinguo tra il risarcimento del danno e il trasferimento degli utili).

2) il mancato calo di fatturato dell’aggredito non esclude il danno: esso infatti può consistere nel suo mancato incremento: <<Nel caso di specie la commercializzazione dei prodotti ritenuti in contraffazione dei titoli di privativa
di pertinenza delle società attrici risulta essere stata eseguita dalle convenute su larghissima scala
internazionale, come dimostrano i dati innanzi riportati con particolare riguardo per il modello di
jeans
ritenuto in contraffazione.
Tali dati pongono dunque in diretta evidenza la sussistenza di un danno a carico delle parti attrici, che
hanno quantomeno sofferto una effettiva diminuzione del potenziale delle loro vendite dei prodotti
originali per effetto della larga diffusività dell’attività delle società convenute oltre che un effetto di
diluizione delle caratteristiche peculiari dei modelli (registrati e non) ritenuti contraffatti.
Seppure sia evidente che non si possa presumere che ogni vendita realizzata dal contraffattore sia una
vendita non realizzata dal titolare del diritto, in ogni caso la valutazione dei dati di vendita conseguiti
dalle convenute appare elemento importante ai fini di valutare l’entità del danno risarcibile
>>.

Non è però chiaro dove stia la <diretta evidenza>

3) Non è pertinente estendere la ctu al bilancio consolidato, perchè qui ci son dati troppo generici in quanto non riferiti ai prodotti contraffatti e inoltre largamente riferiti a vendite extra UE : <<Invero l’utilizzazione a tali fini del bilancio consolidato di gruppo – secondo il CTU – non sarebbe
possibile in quanto il livello di approssimazione cui la sua analisi condurrebbe risulterebbe troppo
elevato, posto che nel bilancio consolidato non sono riportate informazioni atte a determinare la
marginalità di ciascuna linea di prodotto o addirittura – come per il caso di specie – relative ad un
singolo prodotto. Il bilancio consolidato mostra infatti la migliore rappresentazione economicopatrimoniale e finanziaria dell’andamento di un gruppo ma sono solo i bilanci separati di ciascun
soggetto ad esso appartenente – che mantiene comunque la sua autonomia giuridica e contabile –
rappresentano l’attività della società stessa.
Inoltre, senza disporre delle informazioni di dettaglio utilizzate per la formazione del bilancio
consolidato non sarebbe possibile identificare e quindi isolare anche significativi effetti dovuti alle
interessenze di terze economie, oltre ai rapporti infragruppo, con il rischio dunque di utilizzare elementi
informativi non congruenti con lo scopo dell’analisi proposta dalle parti attrici, posto che tale
strumento appare predisposto e finalizzato ad altri fini informativi e rappresentativi del gruppo stesso.
A tali considerazioni possono aggiungersi ulteriori elementi critici rispetto alla possibilità di
determinare un MOL consolidato riferibile ai soli due prodotti in contestazione (di cui il sandalo appare
peraltro avere avuto una diffusione del tutto minima).
Va infatti rilevato che il gruppo Zara ha una vastissima diffusione mondiale attraverso le sue numerose
società controllate, dislocate nei vari Paesi europei ed extraeuropei. Esso opera in decine e decine di
mercati diversi ed anche
online.
Ciò comporta logicamente che per una grandissima parte dei mercati ove essa opera tramite le sue
controllate – e cioè per i Paesi extraeuropei – la vendita dei prodotti contestati si sarebbe svolta in
assenza di diritti delle società attrici validamente opponibili, tenuto conto del perimetro di territorialità
proprio dei titoli europei ritenuti violati che è necessariamente limitato agli Stati membri dell’Unione
Europea. Di conseguenza gli utili conseguiti dalle società controllate aventi sede ed operatività al di
fuori dell’Unione Europea non potrebbero essere inclusi nei benefici (illeciti) conseguenti all’attività di
contraffazione
>>.

4) vanno addebitate alla capogruppo (operava come centrale di acquisto)  non solo le sue vendite alle comntrollate, ma anche quelle operate dalle controllate nelle successive fasi di commercializzazione. Va infatti ravvisata una compartecipazine agli illeciti commessi dalle controllate (ex art. 2055 cc, direi: ma il Trib. non lo menziona): << Tale orientamento appare nel caso di specie fondato sulla considerazione che la società capogruppo
INDUSTRIA DE DISENO TEXIL SA ha materialmente posto in essere la fase iniziale dell’illecito –
acquisendo in maniera centralizzata i prodotti contraffatti e provvedendo alla loro distribuzione in sede
locale tramite le società controllate – e che pertanto il suo contributo ha posto in essere una causa
immediata e diretta anche degli ulteriori danni derivanti dalla distribuzione dei prodotti al consumatore.
Pare particolarmente evidente nel caso di specie l’esistenza di un’unità di comportamento sul mercato
tra società madre e società controllate, posto che – oltre al rapporto di controllo azionario – sussiste un
centro unitario decisionale (la centrale d’acquisto costituita da INDUSTRIA DE DISENO TEXIL SA)
cui corrisponde una correlativa unità di imputazione delle scelte strategiche e dei comportamenti attuati
dai vari appartenenti al gruppo al di là della forma giuridica autonoma che comunque la giurisprudenza
comunitaria non ritiene ostativa all’applicazione delle norme sulla concorrenza (si veda in particolare
Corte di Giustizia CE, causa C-724/17, sentenza 14 marzo 2019, Skanska Industrial Solutions, che
seppure emessa in un contesto relativo a pratica anticoncorrenziale ha affermato che la responsabilità
civile conseguente appare comunque riconducibile a tutte le società che costituiscono una “
unità
economica”
, secondo una teoria dell’unità economica che risulta ormai consolidata in ambito europeo).
La parzialità dei dati a disposizione del Tribunale – che non possono obbiettivamente essere oggetto di
ulteriori integrazioni ed approfondimenti che risulterebbero per il numero delle società coinvolte di
estrema complessità e di esito sostanzialmente incerto – consente tuttavia di provvedere alla
liquidazione del danno “…
in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle
presunzioni che ne derivano”
(art. 125, comma 2 c.p.i.
>>

Sui rimedi offerti dall’art. 125 c.p.i. in caso di violazione di brevetto, a seguito di sua limitazione ex art. 79 c.p.i.

Trib. Torino 18.05.2021, sent. n. 2464/2021 –  RG 4520/2016, rel. Vitrò, offre interessanti consideraizoni sull’oggetto.

E’ curioso innanzitutto quanto il giudice entri nei dettagli tecnici dell’invenzione.

Poi, è di interesse la limitazione brevettuale operata in corso di causa e la sua efficacia ex tunc, che permette di considerare valido il brevetto, di accertarne dunque la violazione e di impartire i comandi conseguenti , p. 26 (l’istituto della limitazione è esaminato con buon dettaglio).

Quanto all’art. 125 cpi, il Trib. fa presente che il c. 2 (royalty ragionevole) è determinazione minima del danno, p. 28. La formulazione della disposizione non è perspicua ma probabilmente il T. ha ragione.

Il tasso medio di royalty è del 4% , secondo il ctu Ranalli, pp. 30-31. Stranamente non è specificato su cosa si applichi la percentuale: di solito è sul fatturato.

La parte più interessante, infine, è quella sulla retroversione degli utili ex art. 125 c.3 cpi (sub § 3.4).

Due sono i punti più significativi: 1) questione del prodotto multicomponente o complesso e 2) determinazione degli utili  (sul fatturato), oggetto di assegnazione alla vittima.

1) Qui si pone il problema della loro determinazione in caso di prodotto complesso, quando la violazione riguardi solo una componente e non il tutto. Problema poco esaminato da noi ma oggetto di ampio esame nella letteratura statunitense.

Il T. approva l’idea del ctu di scorporare il corrispettivo riferito alla componente in violazione dal resto, p. 34. Il criterio per lo scorporo è mobile , essendo dato dal rapporto tra costo industriale del complessivo e quello della componente in violazione: <<(ii) determinazione per ciascuna fattura di vendita del rapporto tra costo industriale complessivo del compressore e costo industriale complessivo del prodotto complesso, sul presupposto che il coefficiente risultante dal rapporto di tali grandezze sia in grado di esprimere l’incidenza del fatturato riferibile al singolo compressore rispetto a quello del prodotto complesso; >>, p. 34 (non viene però indicata questa percentuale in termini  numerici, con qualche problema sulla sufficienza motivatoria della sentenza).

2) Su fatturato del prodotto in violazione così determinato, bisogna togliere i costi per determinare l’utile: <<Identificato il fatturato, l’utile ricavato dal contraffattore va individuato nella differenza tra il valore del fatturato generato dal prodotto in contraffazione e il totale dei costi incrementali (ossia dei costi variabili direttamente imputabili alla produzione e commercializzazione dei prodotti in contraffazione, con esclusione in linea di principio dei costi generali e commerciali). Generalmente i costi variabili sono quelli che dipendono dall’aumento del produzione (sia diretti: materie prime, lavoro, imballi, trasporto, ecc.; sia indiretti: energia e altri materiai di consumo), senza dunque considerare i costi fissi, le svalutazioni, gli ammortamenti, gli accantonamenti, le componenti finanziarie e straordinarie >>, p. 34-5 (si v. i passi riportati dalla ctu per maggior dettaglio).

Risarcimento da mancarto guadagno in caso di violazione di marchio (oltre che danno non patrimoniale per le società commerciali)

Trib. Milano  n. 1989/2021 del 09.03.2021, RG 49780/2016, rel. Barbieri, BTicino spa c. ABS sas e altri, accerta la contraffazione di marchi BTicino e determina il danno così:  << Ai fini della determinazione del lucro cessante subito dalla società attrice si è considerata  la  differenza  dei  flussi  di  vendita  che  il  titolare  della  privativa avrebbe avuto in assenza della contraffazione e quello che ha effettivamente avuto, intendendo il mancato guadagno quale utile netto determinato sottraendo  ai  ricavi  netti  di  vendita  i soli costi di produzione “incrementali” che,  nel  caso  di  specie,  sono  stati  identificati  nei  costi  di  acquisto  della materia  prima,  nei  costi  di  acquisto  dei  semilavorati,  nei  costi  energetici  di produzione  (forza  motrice)  e  nei  costi  dei  materiali  di  consumo  diretti.    Nessun  altro  costo  diretto  è  stato  preso  in  considerazione,  tenuto  conto  che, per  Bticino,  non  sarebbe  stato  necessario  incrementare la propria “capacità produttiva” al fine di produrre le quantità di beni di cui è stata accertata  la contraffazione (cfr. pag. 5 della relazione peritale).

Il margine non realizzato da Bticino è stato determinato confrontando i ricavi medi  di  vendita  che  Bticino  non  ha  realizzato,  con  riferimento  ai  codici prodotto di cui alle fatture di Nuova Quadrimpianti, negli anni 2013, 2014 e 2015  ed  i  costi  industriali  (incrementali)  non  sostenuti  riferiti  ai  medesimi prodotti. Il margine non realizzato da Bticino riferibile ai prodotti venduti da Nuova Quadrimpianti negli anni 2013, 2014 e 2015 somma Euro 210.655,49, a fronte di un numero di vendite di prodotti contrassegnati da codici prodotti Bticino  e  contraffatti  poste  in  essere,  negli  anni  2013,  2014  e  2015  dalla predetta convenuta di 147.389 (cfr. pag. 9 della CTU). Con  riferimento  alle  vendite  di  Gruppo  Elektra,  a  seguito  delle  elaborazioni eseguite  dal  CTU,  sono  state  individuate  le  seguenti  quantità  di  vendite  di prodotti  contraffatti  contrassegnati  con  i  codici  prodotti  Bticino:  696.488 nell’anno 2015 e 200.723 nel 2016.

L’utile netto  non  realizzato  da  Bticino  è  stato  determinato  confrontando  i ricavi medi di vendita che Bticino non ha realizzato, con riferimento ai codici prodotto  di  cui  alle  fatture  di  Gruppo  Elektra,  negli  anni  2015  e  2016  ed  i costi industriali (incrementali) non sostenuti riferiti ai medesimi prodotti. Il  margine  non  realizzato  da  Bticino riferibile  ai  prodotti  venduti da  Gruppo Elektra negli anni 2015 e 2016 somma Euro 1.068.937,74.

Ne consegue che, stante la riconosciuta responsabilità solidale dei convenuti, componenti una “rete commerciale alternativa” di prodotti contraffatti recanti i  marchi  di  titolarità  della  Bticino,  le  stesse  devono  essere  condannate  a corrispondere a parte attrice, a titolo di lucro cessante, la complessiva somma  di  denaro  euro  1.279.593,23,  corrispondenti  all’utile  netto  che  la  Bticino avrebbe  complessivamente ricavato  in  assenza  della complessa condotta contraffattiva.>>

Sul danno non patrimoniale: <<In  favore  di  parte  attrice  deve  poi  essere  liquidato  –  considerato  che  la condotta illecita posta in essere ai suoi danni integra il reato di cui all’art. 473 c.p.  e  tenuto  conto  della  portata  svilente  dei  prezzi  praticati  e,  soprattutto, dell’elevata pericolosità della merce illecitamente commercializzata dai convenuti, tali da ledere l’immagine commerciale del titolare delle privative – anche il danno non patrimoniale, equitativamente liquidato nella misura di un quarto  del  danno  patrimoniale,  dunque  nella  complessiva  somma  di  euro 320.000.>>.

Il collegio sorvola sulla questione del se sia realmente <danno non patriminale>, dato che l’otggetto sociale è la produzine d iutili tramite attività d iimpresa.

Infine non troppo chiaro è l’ultimo  comando , legato alla irrreperibilità di due convenuti: <<Dal momento che, come rilevato, i convenuti diversi da Nuova Quadrimpianti e da Gruppo Elektra si sono posti in condizione di irreperibilità, ovvero hanno adottato condotte di mancato adempimento dell’ordine  giudiziale  di  esibizione  al CTU delle scritture contabili, funzionale a permettere i disposti accertamenti peritali, la somma liquidata a titolo di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale deve essere incrementata,  per  via  equitativa,  nella  misura  di  euro  200.000,  al  fine  di tenere  conto  dei  minori  flussi  di  vendita  che  il  titolare  ha  prodotto  a  causa delle  condotte  di  contraffazione,  accertate,  poste  in  essere  dai  convenuti  in parola>>.

Il prezzo del consenso ex art. 125/2 cod. propr. ind. spetta non automaticamente ma solo se c’è prova del danno subito

Cass. sez. 1 n. 24.635 del 13.09.2021, rel. Caiazzo, offre utili precisazioni sul prezzo del consenso ex art. 125 c.2 cpod. propr. ind.

In breve, non spetta automaticamente al soggetto violato ma solo se dà una qualche prova -anche indiziaria, pare- di aver subito un danno.

Secondo il collegio , tale norma <<non costituisce una deroga in senso stretto alla regola ordinaria sul risarcimento dei danni e al relativo onere probatorio, ma rappresenti una semplificazione probatoria che pur presuppone un indizio della sussistenza dei danni arrecati, attuali o potenziali, dalla condotta di contraffazione del marchio. Ne’ va trascurata la ratio dei criteri risarcitori in caso di illeciti concorrenziali i quali sono configurati come un aspetto del ripristino di corrette condizioni di svolgimento della concorrenza in un mercato che ammette l’esistenza di esclusive.

Al riguardo, se è vero che la norma di cui all’art. 125 c.p.c., comma 2, può configurare una fattispecie di danno liquidabile equitativamente, mediante il criterio del “prezzo del giusto consenso”, inteso quale parametro agevolatore dell’onere probatorio gravante sull’attore, è altresì vero che tale liquidazione non possa essere effettuata, come invoca la ricorrente, sulla base di un’astratta presunzione, ovvero attraverso un’automatica applicazione del predetto criterio.>>

Ne segue che determinazione e liquidazione del danno ex art. 125 c.2  presuppone <<l’applicazione degli artt. 1223 c.c. e segg.>> e che <<non può prescindere dalla prova di un adeguato rapporto di causalità tra l’atto illecito e i danni sofferti ed allegati, secondo i criteri ordinari probatori.

Depongono in tal senso, in conformità della suddetta giurisprudenza, sia ragioni sistematiche, afferenti alla coerenza della norma in questione con i principi generali dell’ordinamento civilistico, sia motivi ermeneutici desunti dall’esegesi letterale e logica dell’art. 125, comma 2, c.p.i..

Invero, tale comma dispone che “..”. . Tale norma segue significativamente quella dettata nel comma 1, a tenore del quale “…” . La successione letterale e logica tra le norme dei primi due commi esprime l’intento del legislatore di non sganciare il criterio risarcitorio del “giusto prezzo del consenso” dalla norma generale di cui al comma 1, che richiama, appunto, i principi generali dettati dagli artt. 1223 c.c. e segg..

Pertanto, dal combinato disposto delle due norme in esame può ragionevolmente desumersi che l’introduzione del criterio contemplato dal comma 2, risponda a finalità indubbiamente agevolatorie dell’onere probatorio gravante sull’attore che può equivalere ad un’attenuazione del medesimo onere, ma non può certo tradursi in un’assoluta esenzione dal rispetto dello stesso, in quanto tale interpretazione “atomistica” del comma 2, svuoterebbe di significato la ratio e la stessa lettera del comma 1.>>

La precisazione è utile. Che non vi sia automatismo di prezzo del consenso, una volta accertata la violazione, parrebbe in effetti discendere dalla disposizione. In cosa consista però l’attenuiazione, diversa sia dalla prova piena che dall’esclusione della prova, resta al momento poco chiaro

Violazione di marchio, determinazione del danno e rifiuto di ostensione delle scritture contabili da parte dei convenuti

Il Trib. Milano (poi: T.)  con sentenza 29.03.2021 n. 2622/2021-RG 47381/2015, Alfredo Salvatori srl c. fall. Stone Project srl e altri, ha deciso una lite su violazione di marchio.

Qui interessa riferire della questione della determinazione del danno (da lucro cessante), resa complicata dal fatto che i covnenuti si erano rifiutati di produre le scritture contabili: pertanto di forte interesse pratico.

Il T. non si ferma per questo e adotta il criterio equitativo ex art. 1226 cc (e 125 cpi) nei seguent itermini, p. 10 ss.

Non potendo adottare quello consueto del margine opertivo lordfo  MOL (il quale si ottiene moltiplicando il prezzo praticato dal titolare del diritto leso per il numero di pezzi venduti dal contraffattore, al netto dei costi variabili che il titolare avrebbe sostenuto per la produzione dei prodotti interessati), ha usato i dati desumibili dai bilancio depositati in CCIAA.

Ha inoltre tratto altre informazioni (numero di prodotti venduti) dal sito delle stesse convenute.

Ha quindi individuato quali siano stati i ricavi dei prodotti recanti il marchio contraffatto (ricavo unitario)

Fatto ciò, il tribunale ha ritenuto condivisibile <<quanto indicato da parte attrice circa l’utilizzo del criterio del giusto prezzo, il quale consente di determinare il lucro cessante in un importo non inferiore a quello dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso. Nel caso in esame, tale royalty deve essere determinata equitativamente, in considerazione del vantaggio che altrimenti ne deriverebbe per il contraffattore nel vedersi assicurata una licenza “obbligatoria” senza sostenere i relativi costi e oneri>>.

Passando all’ammontare, il T. ha ritenuto <<congrua applicare una royaltydeterminata nella misura pari al 15% del fatturato, tenuto conto sia della rilevanza del marchio silk georgette, comprovato dal fatto che diversi operatori del settore avevano scelto di utilizzare tale segno per contraddistinguere i medesimi prodotti, sia di una maggiorazione dovuta alla illiceità della condotta delle convenute, con la conseguenza che il valore della licenza di uso deve essere determinato per Granitasia Srl in € 24.941,748 (15% di € 166.278,32) e per Abitare Marmo Srl in € 13.090,968 (15% di € 87.273,12). Le somme così determinate sono onnicomprensive di interessi e di rivalutaizone>>

Si tratta di ammontare frequente nelle licenze volontarie.

Ha poi liquidato euro 8.000,00 a titolo di danno morale (in solido tra i convenuti), espressamente ammesso dall’art. 125/1 cpi.

L’elemento soggettivo per il “recupero” dei profitti in caso di violazione di marchi: si pronuncia la Corte Suprema USA

Si è pronunciata la Corte Suprema statunitense nel caso Romag Fasteners v. Fossil Group con sentenza 23 aprile 2020.

Romag e Fossil avevano stipulato un accordo, in base al quale Fossil avrebbe utilizzato nei suoi prodotti in cuoio le cerniere di Romag. Questa però scopri che le aziende, fornitrici la compoensitica a Fossil, usavano cinture contraffatte.

Pertanto Romag citò in giudizio Fossil ed altri suoi venditori per violazione di marchio, secondo il § 1125.a del 15 US Code.

La Corte a quo aveva respinto la domanda di riconoscimento di profitti, perché la giuria, pur accettando che Fossil avesse agito duramente (callously), aveva però negato che avesse agito dolosamente (willfully).

La S.C. respinge il ragionamento, dato che <a plaintiff in a trademark infringement suit is not required to show that a defendant willfully infringed the plaintiff’s trademark as a precondition to a profits award>, p. 1.

L’opinione è  scritta da giudice Gorsuch. La norma centrale è il § 1117(a) del cit. 15 US Code :

<When a violation of any right of the registrant of a mark registered in the Patent and Trademark Office, a violation under section 1125(a) or (d) of this title, or a willful violation under section 1125(c) of this title, shall have been established in any civil action arising under this chapter, the plaintiff shall be entitled, subject to the provisions of sections 1111 and 1114 of this title, and subject to the principles of equity, to recover (1) defendant’s profits, (2) any damages sustained by the plaintiff, and (3) the costs of the action>.

Ne segue, visto che l’attore aveva agito in base al § 1125.a, che nel caso specifico non è richiesta la willfulf violation, la quale invece è richiesta solo per l’azione in corte secondo la lettera c) del § 1125.

La Corte prosegue dicendo che in molti altri punti il Lanham Act richiede specificamente l’elemento soggettivo: per cui la mancanza della menzione di esso nella disposizione invocata e significativo, pagg. 3/4.

Ancora, il soggetto leso invoca i principi di equity, menzionati nella norma sopra citata.

Secondo la Corte, però, è implausibile che ciò possa modificare la scelta normativa del Congresso, che altrove -come detto- richiede espressamente l’elemento soggettivo, p. 4.

Inoltre dice la Corte è dubbio che i principi di equity possono riferirsi all’elemento soggettivo negli illeciti di marchio: ciò perchè di solito essi <contain transsubstantive guidance on broad and fundamental questions about matters like parties, modes of proof, defenses, and remedies….Given all this, it seems a little unlikely Congress meant “principles of equity” to direct us to a narrow rule about a profits remedy within trademark law>, p. 5.

E’ però strano che nel concetto di <principles of equity> non possa rientrare la disciplina dell’elemento soggettivo negli illeciti, che non è certo di secondaria importanza: dalle menzioni fatte, forse, per la Corte l’equity comprende prevalentemente regole processuali..

Secondo la Corte, poi, è tutt’altro che chiaro che la tradizione del diritto dei marchi richieda la dolosità, prima di concedere il rimedio dei profitti; ammette però che in dottrina il dolo da taluno è richiesto e che altre sentenze non sono chiare sul punto, pp. 5/6.

Alla fine dunque il massimo che si può dire con certezza è che <Mens rea figured as an important consideration in awarding profits in pre-Lanham Act cases. This reflects the ordinary, transsubstantive principle that a defendant’s mental state is relevant to assigning an appropriate remedy>,  pp. 6/7.

Alla luce di ciò, conclude la Corte, l’elemento soggettivo è sì importante per decidere se il rimedio dei profitti  sia appropriato: ma questo è molto diverso dal dire che  è una precondizione necessaria per il rimedio medesimo. Precisamente: <we do not doubt that a trademark defendant’smental state is a highly important consideration in determining whether an award of profits is appropriate. But acknowledging that much is a far cry from insisting on the inflexible precondition to recovery Fossil advances>, p.7.

Sembra dire, in altre parole, che non è un  requisito necessario, ma che va comunque tenuto in conto. Il che sembrerebbe confermato dalla brevissima opinione concorrente del giudice Alito: <The decision below held that willfulness is such a prerequisite. App. to Pet. for Cert. 32a. That is incorrect. The relevant authorities, particularly pre-Lanham Act caselaw, show that willfulness is a highly important consideration in awarding profits under §1117(a), but not an absolute precondition. I would so hold and concur on that ground>.

Affermazione , comunque, che a me risulta poco chiara (l’elemento soggettivo serve per decidere o l’an o il quantum del rimedio) e forse riposante sulla natura di judge-made law del diritto statunitense.

Nella sentenza si dice che anche il giudice Sotomayor abbia dato una concurring opinion e nelle conclusioni lo è. Però inserisce qualche considerazione dissonante dal ragionamento di J. Gorsuch, ad esempio: <The majority suggests that courts of equity were just as likely to award profits for such “willful” infringement as they were for “innocent” infringement. Ante, at 5–6. But that does not reflect the weight of authority, which indicates that profits were hardly, if ever, awarded for innocent infringement>.

Da noi il rimedio del recupero dei profitti (anzi meglio del trasferimento dei profitti, dal momento che non è affatto detto che si tratti di un recupero dell’indebito) è previsto dal Codice di proprietà industriale all’articolo 125 u. c. .

Questa disposizione però non menziona l’elemento soggettivo: c’è allora da chiedersi se dolo/colpa siano o meno necessari. La risposta è negativa, se si riconosce al rimedio de quo natura restitutoria o di arricchimento senza causa; positiva, se invece gli si riconosce natura punitiva.

Non è chiaro nemmeno il rapporto con il rimedio risarcitorio. Una soluzione potrebbe essere la cumulabilità con il risarcimento del danno subìto, ma solo per il supero, non in toto.  Se ad es. il danno subito è 150 e i profitti sono 80, nessun trasferimenti di profitti ma solo risarcimento del danno. Se invece quest’ultimo è di 150 e i profitti 210, allora sarà riconosciuti sia il danno di 150 sia profitti per 60 (la differenza). Oppure i due rimedi potrebbero essere cumulabili solo in sede processuale tramite domande alternative , chiedendo l’accoglimento di quella che porti ad un importo più elevato.

Da ultimo, la disposizione nazionale non spiega come si calcolino i profitti e cioè quali costi siano deducibili dai ricavi: aspetto tremendamente importante nella pratica.

Sull’argomento v. il mio saggio Restituzione e trasferimento dei profitti nella tutela della proprietà industriale.

Il concorso in contraffazione di chi tiene in deposito (ed eventualmente spedisce) merci contraffatte per conto terzi (sulla posizione di Amazon Logistics)

Pende presso la Corte di Giustizia una causa relativa alla posizione di Amazon per lo stoccaggio e l’eventuale invio di merci per conto di un venditore, qualora si tratti di merci contraffatte: Coty Germany GmbH contro Amazon Services Europe Sàrl, Amazon FC Graben GmbH, Amazon Europe Core Sàrl, Amazon EU Sàrl, C-567/18.

Sono state pubblicate le conclusioni 28.11.2019 dell’avvocato generale M. CAMPOS SÁNCHEZ-BORDONA  (di seguito solo : AG) , delle quali mi occupo in questo post.    Si tratta di causa importante, quanto alle questioni trattate.

Coty, già protagonista di un’altra vertenza in tema di divieto di avvalersi di piattaforme elettroniche (amazon.de) nella distribuzione selettiva (Coty Germany GmbH c. Parfümerie Akzente GmbH, Corte di Giustizia 6 dicembre 2017, C-230/16), ha poi iniziato una lite in Germania, chiedendo ad Amazon il nome del venditore da cui provenivano i prodotti contraffatti. Amazon ha risposto che non sarebbe stato possibile risalire a tale impresa, § 12 (non è chiaro se per scelta o per impossibilità di recupero dei dati: verosimilmente si trattava della prima alternativa)

Coty allora ha proposto domanda di inibitoria contro Amazon, ritenendo che violasse il diritto di marchio : in particolare proponendo domanda di inibitoria dello stoccaggio o spedizione dei profumi marcati Davidoff hot water, § 13.

Il processo è arrivato al Bundesgerichtshof, il quale, pur ritenendo che non vi fosse contraffazione addebitabile ad Amazon (§ 18), ha ugualmente proposto la seguente domanda pregiudiziale: «Se una persona che immagazzina prodotti lesivi dei diritti di un marchio per conto di un terzo, senza aver conoscenza della violazione, effettui lo stoccaggio di tali prodotti ai fini dell’offerta o dell’immissione in commercio, nel caso in cui solo il terzo, e non anche la persona stessa, intenda offrire o immettere in commercio detti prodotti».

La normativa applicabile è quella del regolamento 207 del 2009, poi sostituito dal reg. 2017 n° 1001. Il giudice del rinvio ragiona su entrambi , ma sottolinea che deve applicarsi quello ora in vigore (2017/1001), forse perché la misura richiesta è processuale (riporta infatti l’AG: <<, data la natura dell’azione proposta>>: § 4): affermazione però di dubbia esattezza, poiché è dubbio che sia processuale l’inibitoria, essendo una delle misure a tutela del diritto.  Tuttavia si dice ivi che non ci sono state modifiche significative tra le due normative.

Ragionerò quindi sul regolamento del 2017 n. 1001-

Le  norme rilevanti sono:

– l’articolo 9 comma 2, che indica quando c’è contraffazione : <<Fatti salvi i diritti dei titolari acquisiti prima della data di deposito o della data di priorità del marchio UE, il titolare del marchio UE ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio, in relazione a prodotti o servizi, qualsiasi segno quando: ...>>;

– l’articolo 9 comma 3, che precisa alcune fattispecie rientranti nel comma 2, e in particolare la lettera B : <<Possono essere in particolare vietati, a norma del paragrafo 2: …b) l’offerta, l’immissione in commercio o lo stoccaggio dei prodotti a tali fini oppure l’offerta o la fornitura di servizi sotto la copertura del segno;>>

L’AG nei §§ 33-43 esamina precedenti sentenze in tema di uso del segno di terzi da parte dell’intermediario e soprattutto la sentenza L’Oréal ed altri c. eBay 12.07.2011,  C‑324/09.

Ai §§ 41 e 42 propone una duplice alternative interpretativa, a seconda che si dia un’accezione ristretta o lata ai servizi offerti da Amazon (impostazione già presente i paragrafi 22 e 27) (impostazione importante visto che percorre tutte le sue Conclusioni)

Passa poi ad indicare i requisiti per aversi la fattispecie di “stoccaggio ai fini dell’immissione in commercio”, di cui all’articolo 9 c. 3 lettera b) (§ 44 ss); anche lo stoccaggio, del resto, rileva solo se finalizzato alla  immissione in commercio, come si ricava pianamente dal dettato della norma (§ 47).

L’ AG  conclude dunque che sono due le condizioni per  per ravvisare la ricorrenza di tale fattispecie: 1) un elemento materiale e 2) un elemento intenzionale (cioè la volontà di possesso ai fini dell’immissione in commercio) (§ 48).

POSSESSO – circa il possesso l’AG dice che, se si intende in senso stretto il servizio di Amazon Logistics, probabilmente non ricorre

Tuttavia  la valutazione potrebbe essere diversa, <<se si adottasse l’approccio alternativo ai fatti al quale ho fatto riferimento in precedenza. In tale ottica, la Amazon Services e la Amazon FC, che partecipano entrambe a un modello integrato di negozio, tengono un comportamento attivo nel processo di vendita, che è per l’appunto ciò che la norma esemplifica là dove elenca atti quali «l’offerta», «l’immissione in commercio» e «lo stoccaggio dei prodotti a tali fini». Corollario di siffatto comportamento attivo sarebbe l’apparente controllo assoluto del processo di vendita>> § 51.

In particolare l’AG ricorda la complessità del servizio offerto da Amazon Logistics:  <<con il programma «Logistica di Amazon» le imprese di tale gruppo, che agiscono in modo coordinato, non si occupano soltanto dello stoccaggio e del trasporto «neutri» dei prodotti, bensì di una gamma di attività molto più ampia.  Infatti, optando per detto programma, il venditore consegna ad Amazon i prodotti selezionati dal cliente e le imprese del gruppo Amazon li ricevono, li stoccano nei loro centri di distribuzione, li preparano (possono anche etichettarli, imballarli adeguatamente o confezionarli come regali) e li spediscono all’acquirente. Amazon può occuparsi anche della pubblicità (37) e della diffusione delle offerte sul proprio sito Internet. Inoltre, Amazon offre il servizio clienti per le richieste di informazioni e i resi e gestisce i rimborsi dei prodotti difettosi (38). Sempre Amazon riceve dal cliente il pagamento delle merci, trasferendolo poi al venditore sul suo conto bancario (39).      Tale coinvolgimento attivo e coordinato delle imprese del gruppo Amazon nella commercializzazione dei prodotti comporta l’assunzione di buona parte dei compiti del venditore, del quale Amazon svolge il «lavoro pesante», come evidenziato sul suo sito Internet. Su tale pagina si può leggere, quale incentivo al venditore per aderire al programma «Logistica di Amazon», la seguente frase: «Inviaci i tuoi prodotti e lascia che ci occupiamo del resto». In tali circostanze, le imprese del gruppo Amazon tengono «un comportamento attivo [ed esercitano] un controllo, diretto o indiretto, sull’atto che costituisce l’uso [del marchio]»>> (§§ 55-57).

Se dunque nel caso di specie fosse confermato che le imprese del gruppo Amazon hanno prestato tali servizi (o quanto meno i più importanti) nell’ambito del programma «Logistica di Amazon», <<si potrebbe ritenere che, in qualità vuoi di gestori del mercato elettronico vuoi di depositari, esse svolgano funzioni nell’immissione in commercio del prodotto che vanno oltre la mera creazione delle condizioni tecniche per l’uso del segno. Di conseguenza, dinanzi a un prodotto lesivo dei diritti del titolare di un marchio, la reazione di quest’ultimo potrebbe legittimamente consistere nel vietare loro l’uso del segno>> § 58.

Nè del resto sono applicabili le esenzioni alla responsabilità previste dalla direttiva 2000/31  articolo 14 paragrafo 1, stante la non neutralità di Amazon (paragrafo 62).

Quest’ultima affermazione lascia perplessi per due motivi:

motivo 1 :  perché è assai dubbio che il servizio di stoccaggio fisico rientri nel concetto di <<servizi della società dell’informazione>>. Tale nozione secondo  l’art. 2 dir. 2000/31 è costituita dai <<servizi ai sensi dell’articolo 1, punto 2, della direttiva 98/34/CE, come modificata dalla direttiva 98/48/CE>>, la quale così recita:

<< “servizio”: qualsiasi servizio della società dell’informazione, vale a dire qualsiasi servizio prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi.

Ai fini della presente definizione si intende:

– “a distanza”: un servizio fornito senza la presenza simultanea delle parti;

– “per via elettronica”: un servizio inviato all’origine e ricevuto a destinazione mediante attrezzature elettroniche di trattamento (compresa la compressione digitale) e di memorizzazione di dati, e che è interamente trasmesso, inoltrato e ricevuto mediante fili, radio, mezzi ottici od altri mezzi elettromagnetici;

– “a richiesta individuale di un destinatario di servizi”: un servizio fornito mediante trasmissione di dati su richiesta individuale.

Nell’allegato V figura un elenco indicativo di servizi non contemplati da tale definizione.

La presente direttiva non si applica:

– ai servizi di radiodiffusione sonora,

– ai servizi di radiodiffusione televisiva di cui all’articolo 1, lettera a) della direttiva 89/552/CEE (*).>>

Ebbene, il servizio di stoccaggio e spedizione non è <<prestato (…) a distanza, per via elettronica>>!

Può essere invocata a conferma in tale senso Corte Giustizia 20.12.2017, C-434/15, Asociación Profesional Elite Taxi c. Uber Systems SpainSL. La C.G. ha detto che la mera intermediazione tra domanda ed offerta di servizi di trasporto rientra bensì nel concetto di «servizio della società dell’informazione» (§ 35). Però il servizio di Uber non è solo questo o meglio la sua intermediazione è così ampia che è essa stessa ad offrire sul mercato il servizio di trasporto (§§ 37-40): per cui complessivamente è questo il servizio offerto da Uber. Analoghe considerazioni valgono nel nostro caso: in Amazon Logistics lo stoccaggio e il deposito hanno importanza non minore della presenza sul marketplace digitale, come il software di Uber è la premessa per l’esecuzione poi del trasporto.

La Corte di Giustizia invece ha ragionato in modo opposto nel recente caso Airbnb (sentenza 19.12.2019, C-390/18). Qui ha ravvisato un «servizio della società dell’informazione» , dato che <<la raccolta delle offerte presentate in modo coordinato con l’aggiunta di strumenti per la ricerca, la localizzazione e il confronto di tali offerte costituisce, per la sua importanza, un servizio che non può essere considerato come un semplice accessorio di un servizio globale al quale vada applicata una qualifica giuridica diversa, ossia una prestazione di alloggio>> (§ 54 e in generale §§ 52-57)

motivo 2: perché la domanda azionata da Coty era di inibitoria e le inibitorie verso gli intermediari prescindono per opinione comunemente ricevuta dalle necessità di una loro corresponsabilità civile.

L’ELEMENTO INTENZIONALE  (il fine di offrire o immettere in commercio i prodotti stoccati o posseduti) – Nei §§§ 64 ss. , l’AG ricorda che già l’impostazione del giudice a quo escludeva la presenza dell’elemento del possesso o detenzione, dal momento che elemento soggettivo veniva ravvisato solamente in capo al terzo e non ad Amazon (§ 67). Anche qui però la l’AG dice che , aderendo ad un concetto più ampio di servizio offerto da Amazon, la conclusione potrebbe essere diversa:  <<anche in tal caso, però, la risposta potrebbe essere diversa qualora si adottasse un’interpretazione dei fatti che ponga l’accento sulla situazione specifica delle imprese di Amazon in quanto ampiamente implicate nella commercializzazione dei prodotti in questione, nell’ambito del programma «Logistica di Amazon» . In tale prospettiva, che supera ampiamente quella di un mero assistente neutro del venditore, è difficile negare che dette imprese intendano anch’esse, insieme al venditore, offrire o immettere in commercio i prodotti controversi.>> (§ 68-69).

LA RESPONSABILITà (RISARCITORIA, PARREBBE) – Circa la responsabilità infine, da intendere parrebbe come soggezione al rimedio del risarcimento del danno, l’AG offre alcune considerazioni alla lettera C), §§ 70 ss. Se tale mia interpretazione (riferimento al risarcimento del danno) è corretta, la pertinenza di quest’ultima parte delle conclusioni è dubbia: il rinvio pregiudiziale infatti si concentrava solo sul se ricorresse o meno il concetto normativo di stoccaggio, senza menzionare il rimedio risarcitorio (v. quesito al paragrafo 19). La violazione del diritto e la risarcibilità dell’eventuale , però, costituiscono due profili diversi.

L’AG ai §§ 71-75 ricorda alcune norme europee, che danno rilevanza all’elemento soggettivo. Egli ancora distingue le due configurazioni possibili del servizio di Amazon Logistics, distinguendo infatti in base al ruolo concretamente svolto dall’intermediario. L’AG concede che i meri depositari vadano esenti da responsabilità (§§ 79-80). Il panorama è invece diverso <<quando si tratta di imprese come le resistenti, che, fornendo i loro servizi nell’ambito del programma «Logistica di Amazon», partecipano all’immissione in commercio dei prodotti con le modalità precedentemente illustrate. Il giudice del rinvio afferma che tali imprese non erano a conoscenza del fatto che i prodotti violassero il diritto di marchio di cui era licenziataria la Coty Germany, ma ritengo che tale mancata conoscenza non le esima necessariamente da responsabilità. Il fatto che tali imprese siano fortemente coinvolte nella commercializzazione dei prodotti attraverso il suddetto programma implica che si possa richiedere loro una cura (diligenza) particolare quanto al controllo della liceità dei beni che immettono in commercio. Proprio perché sono consapevoli che, senza un tale controllo (52), potrebbero facilmente servire da tramite per la vendita di «prodotti illeciti, contraffatti, piratati, rubati o comunque illeciti o contrari all’etica, che ledono i diritti di proprietà di terzi» (53), esse non possono sottrarsi alla propria responsabilità semplicemente attribuendola in via esclusiva al venditore>>. ( § 81-82).

L’intera causa lascia perplessi dal momento che le condizioni per l’emissione delle  inibitorie (ciò che aveva chiesto Coty inizialmente in Germania) sono notoriamente lasciate ai diritti nazionali, come si ricava senza particolari difficoltà dall’articolo 11 dir. 48/2004, ultima parte. Per cui la ricerca di un elemento soggettivo per la sottoposizione ad inibitoria è probabilmente non pertinente. Del resto il giudice a quo aveva semplicemente chiesto se, secondo la normativa europea, la fattispecie integrasse o meno il concetto di <<stoccaggio>> dei prodotti contraffatti, senza alludere minimamente il profilo soggettivo (v. quesito al § 19).

Staremo a vedere la risposta della Corte su questi importanti -anzi apicali- aspetti  del diritto europeo della proprietà intellettuale