Superamento della presunzione di concorso di colpa nell’art. 2054 cc

Cass. Sez. III, Ord.  20/11/2024, n. 29-927, rel. Rossetti:_

<<Per escludere la responsabilità della vittima, la Corte nissena ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui per superare la presunzione di corresponsabilità di cui all’art. 2054, comma secondo, c.c., è sufficiente dimostrare che uno dei conducenti abbia tenuto una condotta colposa “assorbente”.
8.2. Il principio per cui l’accertamento della condotta dell’un conducente può bastare a superare la  presunzione di pari responsabilità di cui all’art. 2054, secondo comma, c.c., anche quando non sia esattamente nota la condotta del conducente antagonista è stato tuttavia falsamente applicato dalla sentenza impugnata.
Quel principio non va affatto inteso nel senso che, accertata la colpa grave di uno dei due conducenti coinvolti nel sinistro, l’altro possa ritenersi per ciò solo liberato dalla presunzione di pari colpa di cui al secondo comma dell’art. 2054 c.c.
Quel principio va inteso nel senso che l’accertamento della condotta colposa di uno dei conducenti coinvolti è idoneo a superare la suddetta presunzione in un solo caso quando quella condotta avrebbe comunque provocato il sinistro, quale che fosse stata la condotta dell’antagonista (ad es., l’ invasione improvvisa dell’opposta corsia, da parte di un veicolo di larghezza pari alla corsia percorsa dall’antagonista)>>.

Così riformulata nel principioo di diritto:

“L’accertamento in concreto d’una condotta di guida gravemente colposa da parte di uno dei conducenti coinvolti in un sinistro stradale solleva l’altro dall’onere di vincere la presunzione di pari responsabilità, di cui all’art. 2054, comma secondo, c.c., solo in un caso quando la colpa concreta dell’uno sia stata tale, da rendere teoricamente impossibile qualunque manovra salvifica da parte dell’altro. È pertanto falsamente applicato l’art. 2054, comma secondo, c.c., se il giudice attribuisca l’ intera responsabilità ad uno solo dei conducenti, nonostante non possa stabilire in concreto se l’altro conducente abbia avuto la possibilità almeno teorica di evitare la collisione”.

Il danno aquiliano va risarcito al netto del valore capitalizzato dell’assegno di invalidità (ed altri insegnamenti in tema di responsabilità aquiliana da sinistro stradale)

Cass. Civ., Sez. III, Ord., 17 maggio 2023, n. 13540; Pres. Travaglino, Rel. Rubino:

<<Come già affermato da questa Corte, in tema di danno patrimoniale patito dalla vittima di un illecito, dall’ammontare del risarcimento a tale titolo liquidato dal giudice deve essere detratto il valore capitale dell’assegno di invalidità erogato dall’INPS, attese la funzione indennitaria assolta da tale emolumento e la possibilità per l’ente previdenziale di agire in surrogazione nei confronti del terzo responsabile o del suo assicuratore.

Il principio è stato già affermato, in relazione all’assegno ordinario di invalidità corrisposto, ex art. 1 della l. n. 222 del 1984, dall’INPS alla vittima di un incidente stradale, da Cass. n. 4734 del 2019, nella cui motivazione si dà conto delle ragioni per estendere a questa ipotesi, non ricompresa originariamente tra quelle oggetto a suo tempo del giudizio, i principi in tema di compensatio dettati dalle Sezioni Unite del 2018, in particolare da Cass. S.U. n. 12566 del 2018. L’ipotesi era, come nella specie, quella della erogazione di una prestazione previdenziale da parte dell’INPS in conseguenza del sinistro. In quella sede si è precisato, con osservazione puntualmente riferibile anche al caso in esame, che non rileva se l’INPS sia o meno parte in causa nel giudizio odierno; ciò che conta è, invece, che esso abbia il diritto di agire in surroga nei confronti del danneggiante. L’ente previdenziale, infatti, se ha riconosciuto al A.A. il diritto ad un assegno di invalidità in conseguenza del medesimo fatto dannoso, ha comunque diritto ad agire in surroga nei confronti del terzo responsabile o del suo assicuratore (nella specie, la UCI). Tanto basta, dando continuità all’insegnamento delle Sezioni Unite, per riconoscere il diritto della compagnia di assicurazioni ad ottenere che dall’entità globale del danno risarcibile al A.A. venga detratta la somma capitalizzata corrispondente all’introito pensionistico a lui erogato dall’INPS. Che l’INPS, poi, abbia esercitato o meno la surroga non assume rilievo, perchè il diritto si è comunque trasferito; ed è evidente che consentire al danneggiato di cumulare l’assegno di invalidità con l’intero risarcimento significa, di fatto, esporre l’assicuratore del responsabile civile all’obbligo di un doppio pagamento per la medesima parte di danno. Il motivo è pertanto accolto; al giudice di rinvio spetterà il compito di accertare, sulla base della documentazione prodotta, se la prestazione sia stata effettivamente riconosciuta ed erogata dall’INPS e in quale misura e in caso positivo di compiere la relativa operazione di calcolo, erogando al danneggiato il solo danno differenziale>>.

(segnalazione e testo da Ondif)

Ci sono però altre interessanti considerazioni :

– sull’art. 2054 /2 cc: <<In caso di scontro tra veicoli, l’applicazione della presunzione di pari responsabilità di cui all’art. 2054, comma 2 c.c. è una regola sussidiaria, legittimamente applicabile per ripartire le responsabilità non solo nei casi in cui sia certo l’atto che ha causato il sinistro ma sia incerto il grado di colpa attribuibile ai diversi conducenti, ma anche quando non sia possibile accertare il comportamento specifico che ha causato il danno, con la conseguenza che, in tutti i casi in cui sia ignoto l’atto generatore del sinistro, causa presunta dell’evento devono ritenersi in eguale misura i comportamenti di entrambi i conducenti coinvolti nello scontro, anche se solo uno di essi abbia riportato danni (Cass. n. 15376 del 2022). La prova liberatoria per il superamento di detta presunzione può essere acquisita anche indirettamente tramite l’accertamento del collegamento eziologico esclusivo o assorbente dell’evento dannoso col comportamento dell’altro conducente (Cass. 13672 del 2019).

Al contrario, l’accertamento della colpa esclusiva di uno dei conducenti e della regolare condotta di guida dell’altro, libera quest’ultimo dalla presunzione di concorrente responsabilità fissata in via sussidiaria dall’art. 2054, comma 2 c.c.

Nel caso in cui, come nella specie, sia stata accertata in capo ad uno dei due conducenti la precisa violazione di una o più regole di condotta (e’ stata accertata, in capo alla conducente dell’autovettura, la violazione dell’obbligo di dare la precedenza ai veicoli provenienti dall’opposto senso di marcia, ed anche dell’obbligo di usare la massima prudenza), e l’accertamento di responsabilità si fondi, nella decisione di primo grado, su una valutazione ricostruttiva ancorata a precisi elementi istruttori entrati a far parte del materiale probatorio da valutare, l’affermazione della corte d’appello, secondo la quale non era certo che lo svolgimento dei fatti fosse stato in effetti quello ricostruito dal primo giudice, ed era astrattamente possibile che la dinamica dell’incidente fosse stata completamente diversa, esplicita un mero convincimento interiore che ipotizza, senza alcun riferimento ai fatti di causa, una alternativa ed ipotetica ricostruzione della dinamica di carattere meramente declamatorio, senza confrontarsi con la motivazione della sentenza di primo grado né con le risultanze istruttorie acquisite agli atti. In presenza di una serie di elementi obiettivi entrati a far parte del giudizio, non è consentito applicare la presunzione di pari responsabilità se non a mezzo di una motivata ricostruzione della dinamica ancorata alle risultanze istruttorie, delle quali ben può essere fornita una diversa lettura e riconosciuta una diversa rilevanza all’interno della formazione del convincimento, ma dalle quali non si può completamente prescindere per formulare una diversa ricostruzione meramente ipotetica e, sulla base di quella, applicare la presunzione di corresponsabilità a carico dei due soggetti coinvolti nello scontro>>.

– danno non patriminuale alle vittime c.d. riflesse, in generale:

<<12.1. Va tenuto in considerazione, quanto ai criteri da adottare per il riconoscimento e per la quantificazione del danno non patrimoniale alle vittime riflesse, che nel caso di specie oggetto della quantificazione non è il danno da morte del prossimo congiunto, e quindi da perdita del rapporto parentale, ma il danno che subiscono i congiunti in conseguenza delle lesioni – in questo caso gravissime- subite dalla vittima principale, tali da recare dolore e pena ai parenti, e da incidere pesantemente sullo svolgimento della vita quotidiana della intera famiglia.

E’ affermazione consolidata nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità che ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito, lesioni personali, può spettare anche il risarcimento del danno non patrimoniale concretamente accertato da lesione del rapporto parentale, in relazione ad una particolare situazione affettiva della vittima, non essendo ostativo il disposto dell’art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso.

In tal caso, traducendosi il danno in un patema d’animo ed anche in uno sconvolgimento delle abitudini di vita del soggetto, esso non è accertabile con metodi scientifici e può essere accertato in base a indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità (già Cass. n. 8546 del 2008). In tema di danni conseguenti a sinistro stradale, si è detto che il danno “iure proprio” subito dai congiunti della vittima non è limitato al solo totale sconvolgimento delle loro abitudini di vita, potendo anche consistere in un patimento d’animo o in una perdita vera e propria di salute. Tali pregiudizi possono essere dimostrati per presunzioni, fra le quali assume rilievo il rapporto di stretta parentela esistente fra la vittima ed i suoi familiari che fa ritenere, secondo un criterio di normalità sociale, che essi soffrano per le gravissime lesioni riportate dal loro prossimo congiunto (Cass. n. 11212 del 2019; Cass. n. 7748 del 2020). Si è anche puntualizzato, da ultimo, che non sussiste in effetti alcun “limite” normativo per il danno da lesione del rapporto parentale, nel senso che possa sussistere soltanto se gli effetti stabiliti dal danno biologico sul congiunto siano particolarmente elevati (Cass. n. 1752 del 2023).

La questione è meramente di prova: il parente, secondo i principi generali – e dunque anche per via presuntiva – ha l’onere di dimostrare che è stato leso dalla condizione del congiunto, per cui ha subito un danno non patrimoniale parentale.

L’esistenza stessa del rapporto di parentela può dunque far presumere la sofferenza del familiare, ferma restando la possibilità, per la controparte, di dedurre e dimostrare l’assenza di un legame affettivo, perché la sussistenza del predetto pregiudizio, in quanto solo presunto, può essere esclusa dalla prova contraria, a differenza del cd. “danno in re ipsa”, che sorge per il solo verificarsi dei suoi presupposti senza che occorra alcuna allegazione o dimostrazione – danno che non trova cittadinanza nel nostro ordinamento, giusta l’insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte (Cass. s.u. 26492 del 2008; Cass. n. 25541 del 2022).

Vanno poi considerate distintamente le varie posizioni e valutare se sia stato individuato il criterio appropriato da seguire per quantificare il danno, se dovuto>>.

– sul danno non patrimoniale ai nonni, in particolare:

<< Alla stregua dei criteri sopra richiamati, ha errato la sentenza impugnata laddove ha negato, tout court, la risarcibilità del danno non patrimoniale in capo ai genitori del B., in quanto non conviventi, là dove da questa mera circostanza di fatto, comunissima nella vita delle persone adulte che formano propri nuclei familiari autonomi, e tuttavia non direttamente incidente sulla permanenza dei legami affettivi, ha tratto la conclusione che essi, in quanto non conviventi, non potessero ritenersi significativamente colpiti dai gravi danni alla persona e dalle sofferenze patiti dal figlio, in misura giuridicamente rilevante, invece di presumere, sulla base dello stretto legame parentale, l’esistenza di un danno non patrimoniale apprezzabile in termini di sofferenza per il dolore altrui, salvo prova contraria sulla inesistenza di un reale rapporto affettivo. La mancata convivenza, per i genitori, può al più incidere sulla componente dinamico relazionale, ma non certo, di per sé, eliminarne la sofferenza morale pura>>.

– sul danno non patrimoniale alla figlia convivente (in gravidanza all’epoca):

<<Ugualmente, e con ancor più censurabile superficialità e noncuranza, ha errato la corte d’appello laddove ha escluso che la figlia del B., diciannovenne all’epoca dei fatti e convivente con la famiglia di origine, possa aver patito alcun pregiudizio non patrimoniale solo “perché incinta all’epoca dei fatti”.

In primo luogo, la sentenza non fa corretta applicazione, anche in questo caso, dei principi sopra indicati, che indicano una presunzione di afflittività in favore dei prossimi congiunti, tanto più se, come in questo caso, conviventi.

Le considerazioni della corte d’appello secondo le quali poi la ragazza, in quanto proiettata verso la sua futura esperienza di madre, non avrebbe sofferto più di tanto per il fatto dannoso, destinato invece necessariamente a proiettare la sua ombra sia sull’evento della nascita che sulla successiva organizzazione della vita familiare, cambiando il modo di vita, la distribuzione dei compiti, le attività della sua famiglia d’origine, e da offuscare la gioia e la condivisione familiare per il bambino in arrivo, appaiono totalmente inconsapevoli delle ripercussioni della mancanza del supporto di un genitore attivo (e probabilmente, della mancanza del supporto di entrambi i genitori, atteso che la madre sarà stata in gran parte assorbita dalla necessità di prestare assistenza al marito), sul quale la ragazza sapeva di poter contare proprio in ragione della convivenza, nel difficile momento della nascita, così giovane, del primo figlio. Esse risultano quindi totalmente prive di logica. Inoltre, con ulteriore contraddizione, la sentenza recupera incomprensibilmente, per negare il risarcimento alla figlia, la rilevanza della figura dei nonni, genitori della vittima principale, benché non conviventi, affermando che la loro esistenza rilevasse al fine di lenire la sofferenza, e quindi il danno, degli altri congiunti>

– danno al nipote nascituro (negato): <<Diversa è la posizione del nipote nascituro, in relazione al quale il motivo di ricorso deve essere rigettato.

In relazione al nipote non ancora nato al momento dell’incidente non sussiste, in difetto dell’attualità del rapporto, una presunzione di afflittività conseguente alla necessaria riconfigurazione del rapporto stesso col nonno, fin dal suo sorgere, conseguente alle menomate condizioni fisiche di questi. L’esistenza di un pregiudizio subito dal nipote per i danni alla persona riportati dal nonno è un danno futuro soltanto eventuale, come tale non risarcibile (per una vicenda in parte assimilabile a quella in esame, v. Cass. n. 12987 del 2022, che ha escluso la risarcibilità dei danni invocati dalla nipote di un uomo deceduto in un sinistro stradale che, all’epoca della perdita del nonno, aveva otto mesi): quando il bambino, venuto alla luce, conoscerà il nonno, il loro rapporto si configurerà fin dall’inizio sulle possibilità fisiche che avrà questi al momento del loro incontro, e non è automatico né presumibile che da una limitata mobilità fisica del nonno il rapporto affettivo tra i due possa essere limitato o deteriorato>>.

Per il concorso di colpa in sinistro stradale, il ruolo dell’infrazione al codice della strada è altro dalla colpa

Infatti infrangere il CdS non è necessariamente e sempre qualificabile come colpa nel giudizio di causalità ex art 2054 cc. Così Cass. n° 8311 del 23.03.2023, sez. III, rel. Porreca,

<<è del tutto evidente che altro è la valutazione delle infrazioni al codice
della strada, altro la ricostruzione eziologica della responsabilità civile soggetta
alle sue proprie regole;
questo proprio perché la presunzione in parola opera sul piano causale,
sicché la violazione amministrativa deve aver avuto un’incidenza causale per
aver rilievo in termini di responsabilità civile (Cass., 15/09/2020, n. 19115);
nell’accertata mancanza di obiettivi elementi per evincere il punto d’urto,
e di elementi per affermare che l’uno o l’altro dei veicoli avesse superato la
mezzeria, nei pressi della quale entrambi presumibilmente si trovavano
omettendo di tenere la destra, il Collegio di merito ha legittimamente fatto
ricorso all’art. 2054, secondo comma, cod. civ.>>;

Si tratta di affermazione ovvia; la prova contraria ex rt. 2054 c. 2 cc riguiarda i nesso di causalità.

Quando il conducente non è responsabile nel caso di scontro con il pedone

Cass. 28.03.2022 n. 9.856, rel. Dell’Utri, ripete alcuni insegnamenti circa l’oggetto : <<secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, in materia di responsabilità civile da sinistri derivanti dalla circolazione stradale, in caso di investimento di pedone la responsabilità del conducente è esclusa quando risulti provato che non vi era, da parte di quest’ultimo, alcuna possibilità di prevenire l’evento, situazione ricorrente allorché il pedone abbia tenuto una condotta imprevedibile ed anormale, sicché l’automobilista si sia trovato nell’oggetbva impossibilità di avvistarlo e comunque di osservarne tempestivamente i movimenti. Tanto si verifica quando il pedone appare all’improvviso sulla traiettoria del veicolo che procede regolarmente sulla strada, rispettando tutte le norme della circolazione stradale e quelle di comune prudenza e diligenza (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 4551 del 22/02/2017, Rv. 643134 – 01);

sul punto, varrà sottolineare come l’accertamento del comportamento colposo del pedone investito da veicolo non sia sufficiente per l’affermazione della sua esclusiva responsabilità, essendo pur sempre necessario che l’investitore vinca la presunzione di colpa posta a suo carico dall’art. 2054 c.c., comma 1, dimostrando di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno e tenendo conto che, a tal fine, neanche rileva l’anomalia della condotta del primo, ma occorre la prova che la stessa non fosse ragionevolmente prevedibile e che il conducente avesse adottato tutte le cautele esigibili in relazione alle circostanze del caso concreto (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 8663 del 04/04/2017, Rv. 643838 – 01);>>.

Quindi nel caso di specie <<il giudice a quo, sulla base degli elementi di prova complessivamente acquisiti al giudizio, ha accertato che il Mi., in occasione del sinistro in esame, ebbe ad uniformare la propria condotta stradale al rispetto di tutte le misure idonee ad evitare l’impatto con la vittima, essendo emerso come lo stesso procedesse ad una velocità adeguata, rispetto alle concrete condizioni di tempo e di luogo in cui il sinistro ebbe a verificarsi, tenendo accese le luci anabbaglianti (in coerenza con lo stato e le condizioni dei luoghi) e mantenendo la propria autovettura entro la mezzeria di pertinenza (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata);

correlativamente, la corte territoriale ha sottolineato come gli elementi di prova acquisiti avessero confermato che la condotta della vittima fosse stata piuttosto connotata da assoluta imprevedibilità e abnormità (con la conseguente inevitabilità dell’impatto con il mezzo condotto dal Mi.), essendo emerso che il M. procedesse a piedi contromano (rispetto al senso di marcia dell’autovettura antagonista), senza giubbotto catarifrangente (nonostante l’assenza di illuminazione pubblica in condizioni di buio), e nonostante la presenza di una curva destrorsa che parzialmente limitava la visuale degli automobilisti provenienti nel senso di marcia del Mi., con la conseguente mancata adozione di alcuna misura che potesse effettivamente segnalare la propria presenza in loco, sì da indurre a ritenere l’imprevedibilità di detta presenza della vittima sulla sede stradale e, dunque, l’inevitabilità dell’impatto, una volta attestata l’assoluta irreprensibilità della condotta stradale dell’automobilista>>.