Due Cassazioni su i) presunzione di comproprietà del lastrico solare e formazione del condominio; ii) prova del danno da infiltrazioni per mancato godimento dell’immobile

Cass. sez. II, ord. 29/11/2024 n. 30.713, rel. Oliva:

<<Occorre premettere che, secondo l’insegnamento di questa Corte, “In tema di condominio negli edifici, l’individuazione delle parti comuni, come le terrazze di copertura, risultante dall’art. 1117 c.c. –il quale non si limita a formulare una mera presunzione di comune appartenenza a tutti i condomini, vincibile con qualsiasi prova contraria– può essere superata soltanto dalle opposte risultanze di un determinato titolo e non opera con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 7449 del 07/07/1993, Rv. 483033; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24189 del 08/09/2021, Rv. 662169).

L’art. 1117 c.c., dunque, non introduce una presunzione di appartenenza comune di determinati beni a tutti i condomini, ma fissa un criterio di attribuzione della proprietà del bene, che è suscettibile di essere superato mediante la produzione di un titolo che dimostri la proprietà esclusiva di quel bene in capo ad un condomino, o a terzi, ovvero attraverso la dimostrazione che, per le sue caratteristiche strutturali, la res sia materialmente asservita a beneficio esclusivo di una o più unità immobiliari.

Nel caso del lastrico di copertura, si è ritenuto che esso, in difetto di titolo contrario, rientri ope legis nell’ambito delle parti comuni dell’edificio, stante la sua funzione naturale di copertura dello stesso (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1501 del 21/05/1974, Rv. 369620) e che analogo regime giuridico debba essere attribuito anche alla cd. terrazza a livello, ove essa abbia anche una funzione di copertura e protezione dagli agenti atmosferici dei vani sottostanti (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 863 del 25/03/1971, Rv. 350737 e Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 20287 del 23/08/2017, Rv. 645233). Pertanto, “… l’individuazione delle parti comuni, come i lastrici solari, emergente dall’art. 1117 c.c. ed operante con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, non siano destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari, può essere superata soltanto dalle contrarie risultanze dell’atto costitutivo del condominio –ossia dal primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto, con conseguente frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali–, ove questo contenga in modo chiaro e inequivoco elementi tali da escludere l’alienazione del diritto di condominio, non rilevando a tal fine quanto stabilito nel regolamento condominiale, ove non si tratti di regolamento allegato come parte integrante al primo atto d’acquisto trascritto, ovvero di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato col consenso individuale dei singoli condomini e volto perciò a costituire, modificare o trasferire i diritti attribuiti ai singoli condomini dagli atti di acquisto o dalle convenzioni” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21440 del 06/07/2022, Rv. 665175)>>.

E poi:

<<la Corte di Appello avrebbe dovuto applicare la norma di cui all’art. 1117 c.c. e dunque ribadire il principio secondo cui la cd. presunzione di condominialità “… stabilita per i beni elencati nell’art. 1117 c.c., la cui elencazione non è tassativa, deriva sia dall’attitudine oggettiva del bene al godimento comune sia dalla concreta destinazione di esso al servizio comune, con la conseguenza che, per vincere tale presunzione, il soggetto che ne rivendichi la proprietà esclusiva ha l’onere di fornire la prova di tale diritto; a tal fine, è necessario un titolo d’acquisto dal quale si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione del bene, mentre non sono determinanti le risultanze del regolamento di condominio, né l’inclusione del bene nelle tabelle millesimali come proprietà esclusiva di un singolo condomino” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5633 del 18/04/2002, Rv. 553833; cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8152 del 15/06/2001, Rv. 547520, che esclude la natura decisiva dei dati catastali, dotati di mera valenza indiziaria)>>.

Infine:

<< Sul punto, va ribadito che il momento costitutivo del condominio (o, nel caso di specie, del supercondominio, il cui regime giuridico è modellato sulla base di quello del condominio) coincide con il primo atto di frazionamento della proprietà immobiliare, ab origine concentrata nelle mani di un solo soggetto, con il quale la parte acquirente “… salvo che il titolo non disponga diversamente, entra a far parte del condominio ipso jure et facto relativamente alle parti comuni ex art. 1117 c.c. esistenti al momento dell’alienazione e per addizione, man mano che si realizzano, di quelle ulteriori parti necessarie o destinate, per caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune, nonché di quelle che i contraenti, nell’esercizio dell’autonomia privata, dispongano comunque espressamente di assoggettare al regime di condominialità” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 32857 del 27/11/2023, Rv. 669622; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21440 del 06/07/2022, Rv. 665175 e Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 1615 del 16/01/2024, Rv. 669934)>>.

Si veda poi Cass. sez. II, sent. 02/12/2024  n. 30.791, rel. Giannaccari:

<<2.3. Secondo l’insegnamento di questa Corte, in tema di condominio negli edifici, l’individuazione delle parti comuni, come le terrazze di copertura, risultante dall’art. 1117 c.c. può essere superata soltanto dalle opposte risultanze di un determinato titolo e non opera con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari (Cass., Sez. Un., 7 luglio 1993 n. 7449; Cass. 8 settembre 2021 n. 24189).

L’art. 1117 c.c. non introduce una presunzione di appartenenza comune di determinati beni a tutti i condomini, ma fissa un criterio di attribuzione della proprietà del bene (“Sono oggetto di proprietà comune….”), che è suscettibile di essere superato mediante la produzione di un titolo che dimostri la proprietà esclusiva di quel bene in capo ad un condomino, o a terzi, ovvero attraverso la dimostrazione che, per le sue caratteristiche strutturali, la res sia materialmente asservita a beneficio esclusivo di una o più unità immobiliari.

2.4. Con riguardo ai lastrici, in particolare, si è ritenuto che, qualora non intervenga una volontà derogatoria degli interessati sul regime di appartenenza, i beni e i servizi elencati dall’art. 1117 c.c., in virtù della relazione di accessorietà o di collegamento strumentale con le singole unità immobiliari, sono attribuiti ex lege in proprietà comune per effetto dell’acquisto della proprietà dei piani o porzioni di piano; pertanto, il lastrico solare è oggetto di proprietà comune se il contrario non risulta dal titolo, per tale intendendosi gli atti di acquisto delle altre unità immobiliari nonché il regolamento di Condominio accettato dai singoli condomini (Cass. 8 ottobre 2021 n. 27363; Cass. 16 luglio 2004 n. 13279).

È stato, inoltre, precisato in giurisprudenza che l’individuazione delle parti comuni, come i lastrici solari, emergente dall’art. 1117 c.c., ed operante con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, non siano destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari, può essere superata soltanto dalle contrarie risultanze dell’atto costitutivo del Condominio, ove questo contenga in modo chiaro e inequivoco elementi tali da escludere l’alienazione del diritto di Condominio (Cass. 6 luglio 2022 n. 21440; Cass. 7 aprile 1995 n. 4060).

2.5. La giurisprudenza di questa Corte richiede, per escludere la previsione di condominialità di cui all’art. 1117 c.c., una espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del Condominio (cfr. ad esempio, in tema di cortili, Cass. n. 7885 del 2021; Cass. n. 16070 del 2019; Cass. n. 18796 del 2020; Cass. n. 5831 del 2017; la regola vale ovviamente anche per gli altri beni indicati nell’art. 1117 c.c.).

Il lastrico, in definitiva, assolve alla primaria funzione di copertura dell’edificio e rientra dunque nel novero delle parti comuni, salva la prova contraria che, però, deve essere fornita in modo chiaro ed univoco, attraverso una espressa riserva di proprietà. (…)      2.7. La prova della proprietà del lastrico doveva avvenire, invece, attraverso un titolo idoneo a dimostrare il superamento della presunzione di condominialità del lastrico solare di cui all’art. 1117 c.c.

Per titolo non si intende, evidentemente, il titolo che individua il soggetto destinatario dei costi della manutenzione, ordinaria e straordinaria, della terrazza, ma deve intendersi l’atto costitutivo dello stesso Condominio, ossia il primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto, con conseguente frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali; tale atto deve contenere in modo chiaro e inequivoco elementi tali da includere l’alienazione del diritto di condominio, non rilevando a tal fine quanto stabilito nel regolamento condominiale, ove non si tratti di regolamento allegato come parte integrante al primo atto d’acquisto trascritto, ovvero di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato col consenso individuale dei singoli condomini e volto perciò a costituire, modificare o trasferire i diritti attribuiti ai singoli condomini dagli atti di acquisto o dalle convenzioni (così Cass. n. 21440 del 2022; analogamente, v. anche, Cass. n. 27363/2021 cit.; Cass. n. 13279/2004 cit.; Cass. n. 4060/1995 cit.) >>.

Interessante poi il passaggio di Cass. 30.791/2024 sulla presunzione di danno da mancato godimento del bene reso inutilizzabile:

<<3.4. Sul punto, deve essere richiamata la nota pronuncia delle Sezioni Unite del 15/11/2022, n.33645, che, in tema di prova del danno da perdita di godimento del bene, ha ammesso la prova presuntiva.

Le Sezioni Unite, con la citata sentenza, hanno optato per una mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della II Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla III Sezione Civile.

Le Sezioni Unite hanno confermato la linea evolutiva della giurisprudenza della II Sezione Civile, nel senso che la locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato.

La sentenza delle Sezioni Unite definisce, altresì, la nozione di danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà esso riguarda non la cosa ma il diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa sicché il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione.

Il nesso di causalità giuridica si stabilisce così fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire.

Nel caso in cui la prova sia fornita attraverso presunzioni, l’attore ha l’onere di allegare il pregiudizio subito, anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.

Il principio enunciato dalle Sezioni Unite, riferito alla perdita della disponibilità/godimento dell’immobile per la diversa ipotesi di occupazione senza titolo da parte di un terzo, trova applicazione anche nelle ipotesi in cui la perdita della disponibilità/godimento sia dovuta alla inagibilità dell’immobile in conseguenza dell’attività colposa di terzi.

La Corte di merito ha omesso di accertare se, a causa del protrarsi delle infiltrazioni, l’attrice avesse perso il godimento sia diretto, sia indiretto mediante locazione, del suo appartamento, in quanto non poteva né goderlo, né concederlo a terzi in caso di inabitabilità.

La Corte territoriale, pur asserendo di aderire all’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità, confermato dalla citata pronuncia delle Sezioni Unite, ha erroneamente rigettato la domanda dell’attrice per carenza di prova di concrete richieste di locazione o di vendita dell’immobile rimaste pregiudicate dalle sue condizioni degradate>>.

La determinazione del danno biologico in caso di premorienza (nel corso del giudizio di appello, ma non a seguito dell’illecito azionato) e il rapporto tra danno morale e danno biologico

Cass. sez. III, ord. 26/11/2024 n. 30.461, rel. Cricenti:

<<La questione posta con tale motivo riguarda la liquidazione del danno biologico per il caso di premorienza. Si è detto che il danneggiato è morto durante il procedimento di appello. Il che ha comportato che il danno biologico non poteva più essere liquidato sulla base della sua aspettativa di vita, ma piuttosto sulla base dell’effettivo vissuto (9 anni).

Per operare tale liquidazione il giudice di appello ha utilizzato le tabelle milanesi, che, per il caso di premorienza, prevedono un valore decrescente di risarcimento, sul presupposto che l’invalidità permanente incide in maniera maggiore all’inizio, e minore alla fine.

Secondo la ricorrente questo criterio è illogico ed è già stato giudicato come illegittimo da questa Corte, dovendosi invece propendere per una liquidazione proporzionale e non già decrescente.

Il motivo è fondato.

È principio di diritto che ‘Qualora la vittima di un danno alla salute sia deceduta, prima della conclusione del giudizio, per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, l’ammontare del risarcimento spettante agli eredi del defunto “iure successionis” va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non a quella statisticamente probabile, sicché tale danno va liquidato in base al criterio della proporzionalità, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti (Cass. 41933/ 2021; Cass. 15112/ 2024).

La liquidazione del danno biologico, tenuto conto della premorienza del danneggiato, va dunque effettuata proporzionalmente e non già assegnando un maggior valore alla invalidità iniziale ed uno minore a quelle finale, ossia prossima al decesso>>.

Sul rapporto danno morale/danno biologico::

<<Dunque, il danno morale non è stato liquidato. E doveva essere preso in considerazione. La tesi, infatti, secondo cui si tratta di una duplicazione del danno biologico è infondata.

È principio di diritto consolidato che il danno morale è una voce autonoma di danno, che ovviamente va accertato e liquidato solo se verificatosi effettivamente, ma che non costituisce una duplicazione illegittima del danno biologico, né può ritenersi rilevante solo ove sia provata una personalizzazione del danno, ossia solo ove il danno abbia avuto conseguenze singolari ed eccezionali sulla vittima. Il danno morale è una voce di danno come il biologico, che può prodursi senza che si produca quest’ultimo (una ingiuria o una reputazione che determinano sofferenza interiore ma nessuna conseguenza sulla salute).

Di conseguenza va ribadito il principio di diritto secondo cui “In tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in peius con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile – alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 235 del 2014) e del recente intervento del legislatore (artt. 138 e 139 C.d.A., come modificati dalla legge annuale per il Mercato e la Concorrenza del 4 agosto 2017 n. 124) – è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti”. (Cass., 901/ 2018)>>.

Danno da consenso non informato e danno da nascita indesiderata: distinzione tra le due violazioni

Cass. sez. III, ord. 19/06/2024  n. 16.967, rel. Spaziani:

<<8.1. Questa censura è fondata.

Con essa viene dedotta la violazione del diritto dei genitori ad essere informati, non in funzione dell’esercizio del diritto di autodeterminarsi in ordine alla scelta abortiva spettante alla madre, ma in vista della predisposizione ad affrontare consapevolmente l’evento doloroso della nascita malformata.

Viene, dunque, posta in evidenza la rilevanza autonoma dell’informazione, non in quanto strumentale ad orientare la scelta abortiva, ma in quanto idonea ex se a consentire di evitare o mitigare la sofferenza conseguente al detto evento, ad es., mediante il tempestivo ricorso ad una terapia psicologica o la tempestiva organizzazione della vita in modo compatibile con le future esigenze del figlio o anche, semplicemente, attraverso la preventiva acquisizione della consapevolezza della prossima nascita di un figlio malformato, in modo da prepararsi tempestivamente ad essa.

Questa Corte ha già più volte affermato (v. Cass. 26/06/2019, n. 16892; Cass. 26/05/2020, n. 9706; Cass. 31/01/2023, n. 2798) – e al principio deve darsi continuità – che dalla lesione, sotto tale profilo, del diritto all’informazione, possono derivare alla gestante (e possono essere accertate anche presuntivamente) conseguenze dannose non patrimoniali risarcibili, se non sotto il profilo esteriore dinamico-relazionale, quanto meno sotto il profilo della sofferenza interiore, dovendo presumersi che la possibilità, conseguente alla corretta informazione, di predisporsi ad affrontare consapevolmente le conseguenze di un evento particolarmente gravoso sul piano psicologico oltre che materiale, consenta con ogni evidenza di evitare o, almeno, di limitare la sofferenza ad esso conseguente, la quale è tanto più intensa quanto più inattesa a causa dell’omessa informazione.

Deve allora reputarsi illegittima, sia perché contra ius sia perché illogicamente motivata, la statuizione con cui la Corte d’appello – sul presupposto che la sofferenza psichica dei genitori sarebbe stata la medesima a prescindere dal tempestivo adempimento dell’obbligo informativo – ha rigettato la domanda di risarcimento del danno morale della gestante conseguente al trauma determinato dall’apprendere delle malformazioni del figlio al momento della nascita, dopo che, durante il periodo della gestazione, essa era stata rassicurata circa il normale stato di salute del feto>>.

Ribadisce poi la disciplina consueta della responsabilità per il c.d. danno da nascita indesiderata:

<< In primo luogo, deve escludersi il dedotto vizio di ultrapetizione, dal momento che la prova di cui la Corte d’appello ha reputato la mancanza attenesse ad un fatto costitutivo della domanda.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, infatti, stabilito che “in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza -ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale; quest’onere può essere assolto tramite “praesumptio hominis”, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualsivoglia ragione personale” (Cass., Sez. Un., 22 dicembre 2015, n. 25767).

Oltre alla prova che, se fosse stata debitamente informata, la gestante avrebbe abortito, nell’ipotesi in cui – come nella fattispecie – l’aborto avrebbe dovuto essere praticato dopo i 90 giorni dall’inizio della gravidanza, la parte attrice deve anche fornire l’ulteriore dimostrazione della sussistenza di un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, requisito imposto dall’art. 6, lett. b), della l. n. 194 del 1978 (cfr., ad es., Cass. 15 gennaio 2021, n. 653 e, in precedenza, Cass. 11/04/2017, n. 9251, la quale ha anche affermato che la mancanza della mano sinistra del nascituro non è una malformazione idonea a determinare tale grave pericolo).

Dunque, nel porre la questione relativa alla prova di tali due circostanze, la Corte d’Appello non è andata ultra-petita ma ha indagato sulla sussistenza dei fatti costituitivi della domanda, ponendosi il problema del riparto dell’onere della prova e risolvendolo correttamente nel senso che esso gravasse sugli attori>>.

Riparazione antieconomica e risarcimento del danno in caso di rottamazione del veicolo

Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 02/05/2024) 19/07/2024, n. 19958, rel. Gianniti:

<<2.2. Non fondati sono anche il terzo ed il quarto motivo, concernenti le spese accessorie alla demolizione del veicolo incidentato.

Come è noto, per riparazione antieconomica si intende la riparazione del mezzo quando il costo delle riparazioni supera il valore del relitto.

In base all’art. 1908 c.c., alla cosa danneggiata non si può attribuire un valore superiore a quello che aveva al momento del sinistro.

Di conseguenza, nel caso in cui l’importo per la riparazione superi il valore commerciale del mezzo, la compagnia assicuratrice legittimamente rimborsa solo quest’ultimo: si tratta del c.d. risarcimento per equivalente.

In caso di rottamazione del mezzo, in ogni caso, il responsabile civile è tenuto al pagamento delle seguenti voci di danno: spesa di demolizione del relitto; spesa di immatricolazione del nuovo veicolo o del passaggio di proprietà in caso di acquisto di un usato; eventuali spese per fermo tecnico e noleggio dell’auto sostitutiva; spese di soccorso, traino, recupero e custodia del mezzo incidentato.

Essendo anche questa una forma di danno emergente, ai fini della liquidazione di dette spese accessorie, è necessaria la prova dell’esborso>>.

Rilevanza delle tabelle milanesi nella determinazione del danno non patrimoniale e onere difensivo di richiederne l’applicazione

Cass. sez. III, Ord. 16/07/2024, n. 19.506, rel. Gianniti:

<<Invero: a) nella liquidazione del danno biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 c.c., deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, non essendo rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici giudiziali (Cass. n. 12408/2011); b) il riferimento al criterio di liquidazione, predisposto dal Tribunale di Milano ed ampiamente diffuso sul territorio nazionale, garantisce tale uniformità di trattamento, in quanto questa Corte, in applicazione dell’art. 3 Cost., riconosce ad esso la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono (Cass. n. 28290/2011); c) il valore delle tabelle milanesi va inteso non già nel senso che le dette tabelle ed i loro adeguamenti siano divenute esse stesse in via diretta una normativa di diritto, bensì nel senso che esse forniscono gli elementi per concretare il concetto elastico previsto nella norma dell’art. 1226 c.c. (norma questa che necessariamente viene in rilievo allorquando debba liquidarsi il danno non patrimoniale, che per definizione non si presta ad essere “provato nel suo preciso ammontare”).

In sostanza, come è stato rilevato (Cass. n. 4447/2014) “è come se questa Corte avesse riscontrato, come Le compete nella ricerca del significato di ogni elemento testuale di cui si compone una norma dell’ordinamento, che il concetto di valutazione equitativa previsto nell’art. 1226, una volta applicato al problema della liquidazione del danno non patrimoniale alla persona, esige, per gli svolgimenti che il problema ha avuto nelle applicazioni pratiche, che si debba fare riferimento alle Tabelle Milanesi come basate su criteri che, per il fatto stesso che hanno svolto efficacia persuasiva di gran lunga prevalente nelle applicazioni giurisprudenziali, sono idonee a meglio individuare il concetto di liquidazione equitativa di quel danno”.

In definitiva, poiché dette Tabelle rilevano come parametri per la valutazione equitativa del danno non patrimoniale alla persona e, dunque, per l’individuazione di un elemento di una norma giuridica, qual è quella dell’art. 1226 c.c., il motivo si può ritenere correttamente dedotto in iure ai sensi dell’art. 360 c.p.c. n. 3, là dove prospetta in buona sostanza che la Corte territoriale avrebbe male applicato le Tabelle, perché così facendo denuncia un errore di violazione dell’art. 1226 c.c.

Tanto premesso e ribadito, occorre aggiungere che: a) ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale mediante l’applicazione del criterio tabellare, il danneggiato ha l’onere di chiedere che la liquidazione avvenga in base alle tabelle, ma non anche quello di produrle in giudizio, in quanto esse, pur non costituendo fonte del diritto, integrano il diritto vivente nella determinazione del danno non patrimoniale conforme a diritto (Cass. n. 33005/2021); b) in assenza di diverse disposizioni di legge, il danno alla persona dev’essere liquidato sulla base delle regole vigenti al momento della liquidazione, e non già al momento del fatto illecito (Cass. n. 19229/2022).

Di tali principi di diritto non ha tenuto conto la corte territoriale che, nel liquidare il danno terminale (tanatologico) ha applicato le Tabelle di Milano del 2014, mentre avrebbe dovuto applicare quelle pubblicate nel 2018, anteriori di oltre due anni rispetto alla data di deliberazione della sentenza qui impugnata.

D’altronde il ricorrente ha correttamente specificato, come era suo onere fare, come, nel caso in esame, l’applicazione delle tabelle milanesi avrebbe generato un esito maggiormente adeguato e corretto, in relazione all’effettivo danno concretizzatosi, della quantificazione operata dal giudice d’appello. Invero, ha osservato che la corte territoriale, per il danno tanatologico, ha utilizzato un mixtum tra il danno biologico terminale, liquidato secondo i valori massimi delle Tabelle di Milano 2014, ed il danno catastrofale da lucida agonia, facendo riferimento ad un criterio equitativo puro, che è stato superato dalle Tabelle di Milano 2018, secondo le quali detto criterio può e deve essere esercitato mediante l’utilizzo della personalizzazione fino al 50%.

Occorre aggiungere che il giudice di merito può far ricorso alla prova presuntiva ex art. 2729 c.c. per fondare il proprio convincimento in punto di prova della sofferenza delle lesioni, ma sulle sensazioni interiori, sugli stati d’animo, sulla consapevolezza di dover morire non può adottarsi legittimamente alcun ragionamento presuntivo in difetto di riscontro di documentazione medica e/o di testi che sentirono esternazioni di tale tipo. In altri termini, come di recente precisato (Cass. n. 5753/2024), “una volta ammessa la distinzione tra la sofferenza avente base organica (il c.d. “dolore nocicettivo”) e la sofferenza non avente base organica (il c.d. “dolore psicosociale”), non vi è alcuna implicazione reciproca tra l’una e l’altra; dunque è corretta la decisione di merito che, dinanzi ad un caso di sopravvivenza quodam tempore, incrementi il risarcimento del danno biologico temporaneo per tenere conto dell’intensità e della gravità delle lesioni, ma non ravvisi un pregiudizio non patrimoniale da “lucida agonia”” >>.

Presunzione di danno nella violazione della distanza minima di canna fumaria dal balcone

Cass. sez. II, ord. 27/06/2024 n. 17.758, rel. Giannaccari, circa una canna fumaria posta a 38 cm. dal balcone altrui, in violazione degli artt 1120 (dunque in condominio) e 890 cc:

<<Il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall’art. 890 c.c. è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che è assoluta ove prevista da una norma del regolamento edilizio comunale, ed è invece relativa – e, come tale, superabile con la dimostrazione che, in relazione alla peculiarità della fattispecie ed agli accorgimenti usati, non esiste danno o pericolo per il fondo vicino – ove manchi una simile norma regolamentare (Cassazione civile sez. II, 20/06/2017, n.15246; Cassazione civile sez. II, 23/05/2016, n.10607;Cassazione civile sez. II, 22/10/2009, n.22389).

Nel caso di specie, la Corte di merito ha accertato la violazione delle distanze della canna fumaria dal balcone di proprietà dell’attrice e la sua intrinseca pericolosità, attesa la sua composizione in amianto e le pessime condizioni manutentive, pericolosità che era superabile con la dimostrazione da parte dei convenuti di aver adottato idonee cautele tecniche al fine di salvaguardare la dispersione nell’ambiente di sostanze nocive.

La sentenza impugnata, pur condividendo le conclusioni del CTU sulla natura obsoleta della canna fumaria, realizzata in difformità delle disposizioni di legge, ha escluso il risarcimento in assenza di un danno diretto alla salute, omettendo però di valutare, anche in via presuntiva, se il pericolo concreto ed attuale derivante dall’esposizione ad amianto, abbia limitato il godimento del bene, a prescindere dalla verifica delle immissioni nocive.

Quanto alla tutela risarcitoria, le Sezioni Unite, con sentenza del 15.11.2022, n. 33645, in tema di prova del danno da violazione del diritto di proprietà e di altri diritti reali, hanno optato per una mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della II Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla III Sezione Civile.

La questione se la violazione del contenuto del diritto, in quanto integrante essa stessa un danno risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche risarcitoria è risolta dalle Sezioni Unite in senso positivo.

È stato dato seguito al principio di diritto, più volte affermato da questa Corte, secondo cui, in caso di violazione della normativa sulle distanze tra costruzioni, al proprietario confinante compete sia la tutela in forma specifica finalizzata al ripristino della situazione antecedente, sia la tutela in forma risarcitoria (ex multis Cass. Sez. II, 18.7.2013, n.17635).

Le Sezioni Unite hanno confermato la linea evolutiva della giurisprudenza della II Sezione Civile, nel senso che la locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato.

Le Sezioni Unite hanno, altresì, definito il danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà: esso riguarda non la cosa ma il diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa sicché il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione. Il nesso di causalità giuridica si stabilisce così fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire.

Nel caso in cui la prova sia fornita attraverso presunzioni, l’attore ha l’onere di allegare il pregiudizio subito, anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.

Ha, quindi, errato la Corte d’Appello ad escludere la tutela risarcitoria per l’assenza di un danno effettivo alla salute, senza prima valutare se gli elementi presuntivi allegati fossero astrattamente idonei a compromettere il godimento del bene, come l’intrinseca pericolosità della canna fumaria per la composizione in amianto, la difformità della canna alle prescrizioni di legge ed il suo cattivo stato di conservazione.

Sulla base del fatto noto, costituito dalla pericolosità della canna fumaria posta a distanza inferiore a quella legale, la Corte d’Appello avrebbe dovuto accertare se, per le condizioni di tempo e di luogo, vi fosse stata una limitazione concreta nel godimento dell’immobile per il rischio di dispersione nell’aria di sostanze altamente nocive.

La sentenza impugnata non si pone in linea con l’orientamento di questa Corte in tema di presunzione di danno correlato alla normale utilità del bene, basato sull’assunto che il diritto di proprietà ha insite le facoltà di godimento e disponibilità del bene ne è oggetto, sicchè una volta soppresse o limitate tali facoltà, l’esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni (Cassazione Civile, Sez. II, 23.6.2023, n.18108)>>.

Bene vita e non risarcibilità della sua perdita in capo agli eredi (se non in presenza del cd lucido intervallo)

Cass. sez. III, ord. 12/06/2024 n. 16.348,rel. Gianniti , sul tema, pur se senza approfondimenti:

<<Invero, le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 15350/15, superando quanto affermato da Cass. n. 1361/14 – hanno affermato che il bene vita in quanto tale è “bene autonomo fruibile solo in natura dal titolare” e, a fronte di tale statuizione, che è stata seguita negli anni successivi dalla giurisprudenza di legittimità a sezioni semplici, il ricorso non offre nuovi elementi validi per un suo eventuale mutamento.

D’altronde, la corte territoriale, confermando quanto già affermato dal Tribunale, non ha respinto la domanda risarcitoria jure hereditatis solo perché il decesso è intervento a breve distanza di tempo dal sinistro, ma anche in considerazione del fatto che la vittima, nel momento stesso del sinistro, è finita in uno stato di coma profondo e poi il decesso è intervento senza soluzione di continuità, ragion per cui “non vi fu quindi una lucida agonia”.

Al riguardo il ricorrente deduce che lo stato di coma non esclude di per sé che la persona in coma possa avvertire “lo stato di compressione psicofisica che l’ha colpita ed il disagio per la morte imminente”. Senonché l’affermazione, in sé fondata, non è stata provata: non risulta cioè provato in atti che la vittima, pur in stato di coma profondo, abbia avvertito il disagio per la morte imminente>>.

Diffamazione e obbligo per il diffamante di far rimuovere il dato anche presso terzi

Cass. sez. I, ord. 05/04/2024, (ud. 01/02/2024, dep. 05/04/2024), n. 9.068, rel. Caiazzo, pone un importante regola comportamentale a carico del diffamante, che può essere impartita dal giudice:

<<In tema di responsabilità civile per diffamazione, il pregiudizio all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è in re ipsa, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima(Cass., n. 8861/21; n. 25420/17; n, 13153/17). [acquisito]

Nella specie, il risarcimento dei danni non patrimoniali è stato richiesto e liquidato, sulla scorta delle allegate presunzioni afferenti alla diffusione nazionale del servizio televisivo, alla rilevanza dell’offesa e alla posizione sociale dell’offeso (professore universitario). Il terzo motivo è parimenti infondato, anche se la motivazione su tale capo del provvedimento impugnato va corretta. Invero, la Corte d’appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha statuito la condanna della ricorrente anche alla rimozione del servizio e delle notizie che lo riproducevano dal canale youtube e dai motori di ricerca, mentre in primo grado tale ordine era stato contenuto nei limiti della disponibilità della ricorrente (con rigetto dell’istanza ex art. 614-bis, c.p.c., proprio perché la misura non dipendeva solo dalla volontà della società convenuta).

La Corte territoriale ha respinto il motivo d’appello con il quale era stato censurato il suddetto ordine poiché illegittimo – concretizzatosi nell’imposizione di un facere inattuabile senza la collaborazione dei terzi – in quanto l’art. 17, c.2, GDPR contempla un obbligo del titolare del trattamento che è non solo quello di cancellare i dati personali ma anche di adottare tutte le misure ragionevoli, anche tecniche – tenendo conto della tecnologia disponibile e dei costi di attuazione – per informare i titolari (che stanno trattando i dati personali) della richiesta dell’interessato di cancellare qualsiasi link, copia o riproduzione dei propri dati.

Anzitutto, va ribadito, come affermato nella sentenza impugnata, l’obbligo del titolare del trattamento dei dati personali di attivarsi per la loro cancellazione, attraverso ogni attività volta alla rimozione del servizio e delle notizie che lo riproducono dai motori di ricerca (e dal canale youtube).

Circa l’eccezione d’inapplicabilità del citato art. 17, c.2, GDPR, giova rilevare che i principi affermati dai giudici di merito trovano la loro fonte nell’ordinamento europeo, sebbene il predetto art. 17 del Regolamento 2016/679 sia entrato in vigore successivamente ai fatti di causa. Al riguardo, va innanzitutto menzionata la sentenza 13 maggio 2014 della Corte di giustizia dell’Unione Europea (in causa C-131/12 Google Spain). Si tratta di una vicenda che aveva ad oggetto il problema dell’accesso ai dati esistenti sulla rete internet alla luce dell’allora vigente direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, poi abrogata dal Regolamento 2016/679/UE; in particolare, la terza questione esaminata (punti 89 e ss.) riguardava il diritto dell’interessato a ottenere che il motore di ricerca sopprimesse determinati dati dall’elenco dei risultati reperibili sulla rete. Circa gli importanti principi enunciati, la Corte di giustizia ha premesso (punto 92) che il trattamento dei dati personali può risultare incompatibile con l’art. 12, lett. b), della direttiva non soltanto se i dati sono inesatti, ma anche se essi sono inadeguati, non pertinenti o eccessivi in rapporto alle finalità del trattamento, oppure non aggiornati o conservati per un arco di tempo superiore a quello necessario, “a meno che la loro conservazione non si imponga per motivi storici, statistici o scientifici”. La Corte ha altresì affermato che il diritto dell’interessato, derivante dagli artt. 7 e 8 della Carta, di chiedere “che l’informazione in questione non venga più messa a disposizione del grande pubblico”, mediante la sua inclusione in un elenco accessibile tramite internet, prevale – in linea di massima – sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca e anche su quello del pubblico a reperire tale informazione in rete; a meno che non risultino ragioni particolari, “come il ruolo ricoperto da tale persona nella vita pubblica”, tali da rendere preponderante e giustificato l’interesse generale ad avere accesso a tale informazione (punto 97).

Pertanto, può affermarsi che i principi sanciti dal suddetto art. 17 abbiano recepito quelli in precedenza già applicati dalla Corte CEDU, che trovavano la loro fonte nella Convenzione CEDU, nell’ambito di un’organica disciplina della materia.

Nel caso concreto, in particolare, circa la doglianza afferente all’inesigibilità di tale obbligo con riferimento alla rimozione del servizio televisivo per cui è causa dal canale youtube e dai motori di ricerca, il collegio ritiene che l’ambito del dovere concretamente esigibile ed applicabile nei confronti della R.T.I. Spa consista nell’attivarsi e dimostrare di averlo fatto con i responsabili dei portali che hanno fatto e fanno uso del filmato divulgato in sede televisiva. [importante]

Invero, limitarsi, da parte della società ricorrente, ad eccepire l’inapplicabilità e l’inesigibilità dell’obbligo statuito dalla Corte d’appello, perché rientrante nella disponibilità di terzi, esprime una difesa che prescinde dalla necessaria attività collaborativa intesa a impedire – per quanto possibile e nei suoi obblighi di diligenza riparativa – l’illegittimo uso, da parte di terzi, dei dati personali reputati come eccedenti.

Nella specie, la ricorrente non ha allegato di aver adottato quelle cautele e svolto quelle iniziative nei confronti dei terzi operatori, finalizzate – per quanto possibile – a limitare il danno lamentato per il carattere eccedente del “girato”; ne consegue, come detto, che la statuizione della sentenza impugnata va confermata, attraverso una parziale correzione della motivazione, nel senso che va affermato il principio secondo cui, in casi siffatti grava sulla responsabile del prodotto televisivo-informativo, eccedente i limiti della critica giornalistica, la dimostrazione di aver posto in pratica ogni iniziativa volta a rendere edotti (e persuadere) i terzi che se ne siano appropriati circa l’illegittima diffusione di filmati televisivi e “girati filmici”, già negativamente valutati sul piano della offesa alla dignità delle persone coinvolte nel prodotto veicolato.

Né può obiettarsi, al riguardo, che tale attività verso i terzi costituisca una forma di risarcimento in forma specifica eccessivamente onerosa, ex art. 2058, c. 2, c.c., in quanto essa ovviamente non implica la certezza dell’adempimento richiesto ai terzi, ma presuppone la doverosa attività volta a ottenere la cessazione dell’illegittimo trattamento dei dati personali da parte dei terzi, venendo cioè in rilievo solo un’obbligazione di mezzi, non certo di risultato. Parimenti infondata è la doglianza relativa al fatto che la Corte d’appello non avrebbe potuto statuire l’obbligo della R.T.I. Spa oltre i limiti della propria disponibilità – come invece pronunciato dal Tribunale – in mancanza dell’appello incidentale da parte del Ca.Sa., in quanto la sentenza impugnata non ha condannato la ricorrente ad una prestazione diversa da quella oggetto della sentenza di primo grado – incorrendo in un’asserita pronuncia ultra petita – ma ha solo specificato le modalità dell’obbligo gravante sul titolare del trattamento dei dati personali, in piena conformità del petitum dedotto nell’atto introduttivo del giudizio.

D’altra parte, la stessa ricorrente ha inteso attivarsi per richiedere la tutela delle opere televisive dall’uso improprio del diritto d’autore e di produttore, mentre avrebbe anche potuto e dovuto richiedere le prestazioni necessarie per tutelare i dati del controricorrente. In tal senso, la cooperazione del creditore potrebbe rendersi necessaria attraverso l’indicazione, alla R.T.I. Spa, dei motori di ricerca che avevano e hanno fatto uso del filmato in questione. Sul punto, viene in rilievo il principio di correttezza e buona fede il quale, già secondo la Relazione ministeriale al codice civile, “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore”, ma che deve essere inteso in senso oggettivo, in quanto enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 della Costituzione che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile (Cass., SU, n. 28056/08; Cass., n. 22819/10; n. 9200/21; n. 16743/21)>>.

Sul danno da perdita del rapporto parentale

Cass. sez. III, ord. 22/04/2024  n. 10.765, rel. Vincenti:

sulla responsabilità contrattuale medica:

<<6.1.2. – Quanto al primo e al secondo motivo, giova premettere che è principio consolidato quello secondo cui, in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria (come nel caso in esame), incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di una nuova malattia (e ciò, come detto, in base alla regola del “più probabile che non”) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza (tra le molte: Cass. n. 26700/2018; Cass. n. 27606/2019; Cass. n. 28991/2019; Cass. n. 26907/2020).

Va, altresì, ricordato che le linee guida, in ambito di attività medico-chirurgica, non hanno rilevanza normativa o “parascriminante”, non essendo né tassative, né vincolanti; conseguentemente, pur rappresentando un parametro utile nell’accertamento dei profili di colpa medica, esse non valgono ad eliminare la discrezionalità del giudice di valutare se le circostanze del caso concreto esigano una condotta diversa da quella prescritta nelle medesime linee guida (tra le altre: Cass. n. 34516/2023).

La Corte territoriale si è attenuta ai principi anzidetti, reputando (cfr. sintesi al par. 2 del “Ritenuto che”, cui si rinvia), sulla scorta del compendio probatorio acquisito agli atti (e, segnatamente, della CTU espletata in primo grado), sussistente, in applicazione della predetta regola probatoria, il nesso causale tra la condotta dei medici (operanti come ausiliari della struttura sanitaria) che hanno eseguito l’intervento chirurgico di sutura del tendine d’Achille su Fa.Mi. (intervento pur “di chirurgia ortopedica minore”, ma in concreto comportante un elevato rischio di complicanza tromboembolica per la lunga immobilizzazione dell’arto) e il decesso del paziente per arresto cardiocircolatorio in seguito a trombosi venosa profonda, individuando nella mancata somministrazione di eparina postoperatoria (suggerita dalla stessa letteratura medica specialistica precedente all’intervento chirurgico, avvenuto nell’ottobre 2000) e nella carenza di adeguate indagini preoperatorie sulle patologie cardiache a carico del Fa.Mi. (oltre alla trascuratezza dell’ulteriore fattore di rischio “incrementativo” costituito dal sovrappeso pur non elevato) l’inadempimento, come detto eziologicamente rilevante, della prestazione sanitaria>>.

Sulla determinazinedel danno da perdita del rapporto parentale:_

<<6.1.3.1. – Avuto, poi, riguardo alla liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale, occorre premettere che l’orientamento di questa Corte si è andato consolidando nel senso che, al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio in casi analoghi, il danno anzidetto deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul “sistema a punti”, che preveda, oltre all’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, indefettibilmente, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella (Cass. n. 10579/2021; Cass. n. 26300/2021; Cass. n. 37009/2022; Cass. n. 5948/2023; Cass. n. 8265/2023; Cass. n. 13540/2023; Cass. n. 36560/2023).

In siffatti termini, si è, quindi, ritenuto che a tanto potessero soddisfare le tabelle di liquidazione predisposte dal Tribunale di Roma e, quindi, anche quelle del Tribunale di Milano predisposte nel 2022 (così, segnatamente, le citate Cass. n. 37009/2022, Cass. n. 5948/2023 e Cass. n. 8265/2023).

Quanto, poi, alla rilevanza processuale del criterio tabellare ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, l’onere del danneggiato è quello di chiedere che la liquidazione avvenga in base alle tabelle, ma non anche quello di produrle in giudizio, in quanto esse, pur non costituendo fonte del diritto, integrano il diritto vivente nella determinazione del danno non patrimoniale conforme a diritto (Cass. n. 33005/2021; Cass. n. 20292/2022).

La Corte territoriale ha liquidato il danno da perdita del rapporto parentale subito dagli attori facendo riferimento alle tabelle romane e indicando le circostanze di fatto in concreto rilevanti per determinare l’importo risarcitorio, ossia quelle dell’età, del grado di parentela e della convivenza della vittima, così da fornire contezza dei parametri legati alla concreta vicenda processuale sui quali operare la determinazione del quantum debeatur.

In tale contesto, la mancata indicazione dei coefficienti monetari contemplati dalle tabelle anzidette non è circostanza tale da rendere la motivazione che sorregge l’impugnata sentenza “apparente” (e, dunque, al di sotto del c.d. “minimo costituzionale”), né tale da ledere il diritto di difesa dell’appellante, non avendo la stessa lamentato che di dette tabelle – di cui il giudice di appello fa espresso riferimento – non si sia discusso nei giudizi di merito e che, quindi, la relativa applicazione non sia stata fatta oggetto di previa allegazione e richiesta di applicazione e, quindi, conosciute dalla stessa ASL Roma 2>>.

Danno alla persona: dubbi se ricorra il biologico o il morale nel caso di depressione da intervento chirurgico al ginocchio mal riuscito

Cass. sez 3  ord. de 22.04.2024 n. 10.787, rel. Vincenti:

<<3. – Deve ora procedersi all’esame del quinto motivo: esso è fondato e ciò comporta l’assorbimento delle censure svolte con il quarto motivo.

13.1. – Questa Corte ha precisato che là dove la sofferenza soggettiva arrecata da un determinato evento della vita, non contenendosi sul piano di un’abituale, normale o comprensibile, alterazione dell’equilibrio affettivo-emotivo del danneggiato, degeneri al punto tale da assumere una configurazione medicalmente accertabile alla stregua di una vera e propria lesione della propria integrità psicologica, non più di un danno morale avrà a discorrersi, bensì di un vero e proprio danno biologico, medicalmente accertabile come conseguenza di una lesione psicologica idonea ad esplicare un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato (Cass. n. 6443/2023; Cass. n. 18056/2019).

13.2. – Nella specie, lo stesso giudice di appello ha riconosciuto (p. 7 della sentenza impugnata), condividendo quanto già accertato dal primo giudice, che le conseguenze derivate all’attrice dal decorso post-operatorio si sono tradotte in un “disturbo di adattamento con umore depresso di tipo cronico”, ossia in una situazione che ha trasceso il piano della sofferenza soggettiva, tale da mutare in una condizione psicologica di tipo patologico.

La Corte territoriale ha dunque errato nel ricondurre lo “stato psicopatologico depressivo” tra i presupposti della “personalizzazione del danno” non patrimoniale e “in una misura proporzionata al profilo psico esistenziale, di una persona che all’epoca svolgeva un’attività lavorativa di impiegata con una ordinaria sfera di vita personale, indubbiamente penalizzata”, giacché avrebbe dovuto, ai fini della liquidazione complessiva del danno biologico, altresì prendere in considerazione il danno psichico allegato e provato dalla Bo..

13.3. – A tal fine, essendosi in presenza di lesioni monocrone coesistenti – e cioè, di lesioni plurime riguardanti organi e funzioni diverse derivate da un medesimo evento dannoso – il giudice di secondo grado dovrà, quindi, tenere conto che il danno biologico è unitario, per cui la valutazione medico-legale delle singole menomazioni, che determinano un peggioramento globale della salute, deve essere complessiva (Cass. n. 8286/1996; Cass. n. 18328/2019).

In tal senso, non potrà, quindi, addivenirsi ad una mera sommatoria algebrica delle percentuali di invalidità previste per il singolo organo o apparato, ma ad un apprezzamento funzionale e, per l’appunto, complessivo delle singole invalidità, attraverso un corretto criterio medico-legale e in base ad un “barème” redatto con criteri di scientificità (Cass. n. 11724/2021; Cass. n. 19229/2022).

In siffatto contesto, poi, il giudice di merito dovrà considerare che il risarcimento spettante al danneggiato per il danno biologico -ordinariamente liquidato con il metodo c.d. tabellare in relazione, come detto, a un “barème” medico legale che esprime in misura percentuale la sintesi di tutte le conseguenze ordinarie che una determinata menomazione presumibilmente riverbera sullo svolgimento delle attività comuni ad ogni persona – può essere incrementato in via di “personalizzazione” solo in presenza di conseguenze anomale o del tutto peculiari (tempestivamente allegate e provate dal danneggiato), mentre le conseguenze ordinariamente derivanti da pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età non giustificano alcuna “personalizzazione” in aumento (tra le altre: Cass. n. 27482/2018; Cass. n. 28988/2019; Cass. n. 5865/2021).

14. – L’esito dello scrutinio del quinto motivo, come detto, assorbe l’esame del quarto motivo, giacché implica una riliquidazione complessiva del danno biologico, in tutte le sue componenti (temporanea e permanente), in ragione della coesistenza, a carico dell’attrice, della lesione del nervo femorale e della patologia depressiva>>.